2
Commissione Parlamentare d’inchiesta
sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

9 GENNAIO 2013
120
a Seduta
Presidenza del Presidente
Giuseppe PISANU

La seduta inizia alle ore 14,15

(Si approva il processo verbale della seduta precedente)

Sulla pubblicità dei lavori

Il PRESIDENTE avverte che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Non essendovi obiezioni, così rimane stabilito)

Comunicazioni del Presidente sui grandi delitti e le stragi di mafia degli anni 1992 - 1993.

Il PRESIDENTE fa preliminarmente rilevare che, essendo intervenuto lo scioglimento del Parlamento, le Commissioni di inchiesta possono riunirsi al solo fine di rendere esplicite le conclusioni dell'attività svolta prima dello scioglimento.
Precisa pertanto che la seduta odierna, in base a quanto unanimemente convenuto in Ufficio di Presidenza e comunicato altresì ai Presidenti delle Camere, consente solo un'attività istruttoria - senza pervenire ad alcun voto - propedeutica all'esame della relazione conclusiva.
Svolge quindi un ampio intervento sul tema all'ordine del giorno. Precisa che il testo delle comunicazioni da lui rese sarà pubblicato in allegato sia al resoconto sommario della seduta odierna, sia al resoconto stenografico.

Sui lavori della Commissione

Intervengono sui lavori della Commissione l'onorevole VELTRONI, il senatore LAURO, l'onorevole TASSONE, il senatore MARITATI, l'onorevole GARAVINI a più riprese, i senatori LUMIA e CARUSO e gli onorevoli SANTELLI e MARCHI per chiedere che il dibattito sulle comunicazioni appena rese si svolga in una separata seduta, in modo da consentire a tutti i commissari di approfondirne i contenuti e conseguentemente svolgere interventi in merito.

Alla luce degli interventi svolti, il PRESIDENTE rinvia il dibattito sulle comunicazioni alla successiva seduta che sarà convocata martedì 15 gennaio alle ore 15,30.

Convocazione dell'Ufficio di Presidenza integrata dai rappresentanti dei Gruppi

Il PRESIDENTE avverte che l'Ufficio di Presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi, è convocato al termine della seduta.

La seduta termina alle ore 17,15
68
BOZZA NON CORRETTA 10.01.13 h.12



SENATO DELLA REPUBBLICA - CAMERA DEI DEPUTATI


COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUL FENOMENO DELLA MAFIA E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI ANCHE STRANIERE







Comunicazioni del Presidente Pisanu
sui grandi delitti e le stragi di mafia del 1992-'93

(9 gennaio 2013)



INDICE


INTRODUZIONE .................................................................................................................
pag. 3
L’ASCESA DEI CORLEONESI E L'ATTACCO ALLO STATO .....................................
pag. 4
IL FALLITO ATTENTATO AL GIUDICE FALCONE ......................................................
pag. 7
LA STRATEGIA VENDICATIVA DI "COSA NOSTRA" .................................................
pag. 11
LA STRAGE DI CAPACI ....................................................................................................
pag. 13
LA STRAGE DI VIA D’AMELIO .......................................................................................
pag. 15
LA RISPOSTA DELLO STATO ..........................................................................................
pag. 19
LE COSIDDETTE TRATTATIVE: I PRIMI CONTATTI MORI-CIANCIMINO ............
pag. 22
L'INCONTRO MORI-DE DONNO-BORSELLINO ............................................................
pag. 25
L'INCONTRO MANCINO-BORSELLINO .........................................................................
pag. 26
L'ULTERIORE RICERCA DELLA "COPERTURA POLITICA" ......................................
pag. 27
LA TRATTATIVA DEL 41 BIS ...........................................................................................
pag. 29
GLI ASPETTI CONTROVERSI NELLA SUCCESSIONE DELLE CARICHE ................
pag. 31
LA STRATEGIA STRAGISTA DI "COSA NOSTRA" ......................................................
pag. 36
L'ATTENTATO DI VIA FAURO ........................................................................................
pag. 39
LA STRAGE DI VIA DEI GEORGOFILI ...........................................................................
pag. 40
LE STRAGI DEL LUGLIO DEL 1993 ................................................................................
pag. 44
LE DICHIARAZIONI DEL PROF. GIOVANNI CONSO ...................................................
pag. 48
I SERVIZI DI INFORMAZIONE E I FATTI DEL 1992-'93 ...............................................
pag. 51
LE INDAGINI DELLE PROCURE DI PALERMO, CALTANISSETTA E FIRENZE .....
pag. 52
CONCLUSIONI ....................................................................................................................
pag. 59
BOZZA NON CORRETTA

Introduzione
La nostra Commissione ha dedicato una parte consistente della propria attività ai grandi delitti e alle stragi di mafia degli anni 1992-1993.
Il tema è tornato all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale nella primavera del 2008, sotto la spinta di eventi giudiziari e di autorevoli commenti politici che, nel loro insieme, hanno arricchito il quadro delle nostre conoscenze e, allo stesso tempo, hanno risollevato inquietanti interrogativi intorno a quelle vicende complesse e sanguinose.
L’inchiesta della Commissione è iniziata formalmente con le mie comunicazioni del 30 giugno 2010 - che furono largamente condivise - e si è svolta nell’arco di circa tre anni fino all’ottobre 2012.
Complessivamente la Commissione ha tenuto 36 sedute ascoltando 35 persone, tra le quali i magistrati delle tre procure che a vario titolo si occupano della materia (Caltanissetta, Firenze e Palermo), un ex presidente del Consiglio; quattro ex ministri; sette ex funzionari del Ministero della Giustizia; quattro rappresentanti dei vertici delle forze dell’ordine dell’epoca. Una parte rilevante della missione effettuata a Palermo dal 19 al 21 luglio 2010 è stata dedicata all’esame delle indagini in corso sulle stragi e alla cosiddetta trattativa, con le audizioni dei responsabili delle procure di Palermo e Caltanissetta.
Vi è stata inoltre una proficua collaborazione con le predette procure e con i tribunali delle medesime sedi attraverso lo scambio di documenti.
L’attività d’inchiesta della Commissione in materia si è caratterizzata infatti, oltre che per gli esami in audizione, per la ricerca documentale sia negli archivi della Commissione sia attraverso l’acquisizione di altri documenti presso gli uffici pubblici. L’indagine ha comportato anche l’invio di consulenti presso il Ministero della Giustizia e presso la Procura di Firenze. Il Ministero della Giustizia, in particolare, ha fornito documenti sulla gestione del 41 bis dell’ordinamento penitenziario durante gli anni delle stragi.
Anche il Ministero dell’Interno ha fornito un contributo importante consentendo l’acquisizione dei verbali delle riunioni del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica e delle riunioni del Consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata.
I servizi di sicurezza e informazione ci hanno fornito la stessa documentazione rilasciata alla magistratura, dichiarandosi disponibili per ulteriori richieste.
Di grande importanza è stata l’attività di declassificazione dei documenti acquisiti, con il consenso degli enti che li avevano formati. Questi documenti potranno ora essere esaminati anche da studiosi ed esperti.

L'ascesa dei Corleonesi e l'attacco allo Stato
Le stragi del 1992-93 non sono una improvvisa esplosione di violenza mafiosa, ma l'esito di un lungo processo criminale, ricco di implicazioni, che inizia negli anni '70 e si sviluppa con l'ascesa dei corleonesi alla guida di "cosa nostra".
Quegli anni registrano un radicale cambiamento nell'attività imprenditoriale della mafia. Essa diventa non solo una macchina criminale, da guerra, ma anche un sistema di produzione ad elevato rendimento che spazia dalle costruzioni alla lavorazione ed esportazione dell'eroina, creando una dirompente forza economica.
Basti qui considerare che negli anni del famigerato "sacco di Palermo" il business edilizio muove 3.000 miliardi di vecchie lire, dei quali, secondo i calcoli degli organi bancari, solo 400 miliardi (pari al 13%) vengono erogati dal credito fondiario.
Il fatturato della raffinazione e del traffico di eroina è, invece, incalcolabile.
E' certo, comunque, che dopo l'inasprimento della legislazione americana sugli stupefacenti, la mafia assume la leadership mondiale della raffinazione e dello spaccio dell'eroina. E per questa via si internazionalizza: adotta il nome dei cugini di oltreoceano ("cosa nostra") e dispiega le sue attività su un terzo del pianeta: nei paesi orientali, per l'approvvigionamento della morfina base; in Sicilia, per la raffinazione; in Europa e Nord America per lo smercio del prodotto finito; per il riciclaggio degli immensi profitti.
Emergono boss come Gerlando Alberti, Pippo Calo', i fratelli Vernengo, Mariano Agate, e con loro cresce una mentalità nuova, una classe dirigente mafiosa attenta all'economia e alla finanza, ma non per questo meno incline alla violenza.
L'ascesa dei Corleonesi, dei Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano avviene in questo contesto. Essi si imporranno definitivamente con la seconda guerra di mafia (1981-1982), una specie di pulizia etnica che lascerà sul campo circa mille morti, quasi tutti dalla parte dei palermitani.
L'egemonia dei corleonesi si realizza, dunque, assommando la massima potenza di fuoco col massimo di profitti, di rendite e di molecolare controllo del territorio siciliano: una concentrazione di potere impressionante.
"Viddani" per la rozzezza dei modi, i corleonesi si dimostrano abili, spregiudicati e determinati nella gestione di questo potere.
Il rapporto con la politica registra intanto sensibili mutamenti. Perché se la speculazione edilizia e il controllo delle aree fabbricabili richiedono relazioni strette con gli amministratori locali e i partiti di governo, la produzione e la distribuzione della droga non esigono un diretto sostegno politico, ma solo una più generica copertura che verrà, comunque, compensata alle elezioni in termini di voti.
Con la droga, insomma, il potere mafioso è cresciuto enormemente ed è diventato più autonomo; ed i corleonesi, per istinto e per calcolo, sono decisi a difenderlo con ogni mezzo e ad ogni costo.
Riina impone con la forza delle armi la sua egemonia all'interno di "cosa nostra" e con la stessa forza la estende all'esterno, colpendo chiunque la ostacoli e la contrasti.
Col tempo, i nemici più insidiosi di "cosa nostra" emergono nei ranghi delle istituzioni, della società civile e della politica.
La mafia ne ha percezione netta e infatti, dagli anni '70 in poi alza la mira e scatena la sua violenza sullo Stato ed i suoi uomini.
Da allora fino alle stragi del 1992-93 la declinazione del rapporto mafia-politica si snoda attraverso una impressionante sequenza di omicidi che colpiscono al cuore la società, la rappresentanza politica siciliana, le Istituzioni e anonimi cittadini.
Ricordo qui di seguito le vittime più significative di quel ventennio:
Mauro De Mauro, giornalista (scomparso il 16.9.70); Pietro Scaglione, Procuratore della Repubblica (5.5.71); Giuseppe Russo, colonnello dei Carabinieri (20.8.77); Peppino Impastato, giornalista (9.5.78); Filadelfio Aparo, sottoufficiale di P.S. (11.1.79); Mario Francese, giornalista (25.1.79); Michele Reina, segretario provinciale della D.C. (9.3.79); Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo che aveva acquisito le prove del traffico di stupefacenti tra la Sicilia e gli SS.UU. d'America (21.7.79); Cesare Terranova, già componente della Commissione Parlamentare Antimafia e prossimo alla nomina a capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo (25.9.79); Pier Santi Mattarella, presidente della Regione Siciliana (6.1.80); Emanuele Basile, comandante della Compagnia dei CC. di Monreale (3.5.80); Gaetano Costa, procuratore della Repubblica di Palermo (6.8.80); Vito Jevolella, maresciallo dei CC. (10.9.81); Pio La Torre, segretario regionale del P.C.I. (30.4.82); Paolo Giaccone, medico legale che aveva rifiutato a "cosa nostra" una perizia di favore (12.8.82); Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo con mandato speciale per la lotta alla mafia (3.9.82); Calogero Zucchetto, agente di P.S. (14.11.82); Giangiacomo Ciaccio Montalto, pubblico ministero (25.1.83); Mario D'Aleo, capitano dei Carabinieri (13.6.83); Rocco Chinnici, capo dell' Ufficio Istruzione di Palermo (29.7.83); Giuseppe Fava, giornalista (5.1.84); Giuseppe Montana, commissario di P.S. (28.7.85); Antonino Cassara', vicequestore di P.S. (6.8.85); Giuseppe Insalaco, ex sindaco di Palermo (12.1.88); Alberto Giacomelli, magistrato (14.9.88); Antonino Saetta, presidente di Corte di Assise di Appello (25.9.88); Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione (9.8.91); Rosario Livatino, giudice del Tribunale di Agrigento (21.9.90 ); Giuliano Guazzelli, maresciallo dei carabinieri (4.4.92); Beppe Alfano, giornalista (8.1.93); padre Pino Puglisi, sacerdote (15.9.93).
Nella lunga lista devono anche essere ricordate tutte quelle persone che per dovere o fatalità si trovarono accanto alla vittima prescelta nel momento dell'attentato: l'insegnante Filippo Costa, amico del colonnello Russo; il maresciallo Lenin Mancuso, che da oltre vent'anni scortava il giudice Cesare Terranova; Rosario Di Salvo, collaboratore di Pio La Torre; Emanuela Setti Carraro, giovane moglie del generale Dalla Chiesa e l'agente di P.S. Domenico Russo che li scortava; l'appuntato Giuseppe Bommarito ed il carabiniere Pietro Morici che si trovavano in compagnia del capitano D'Aleo; gli agenti di scorta del consigliere istruttore Rocco Chinnici, il maresciallo Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta e Filippo Li Sacchi, portiere dello stabile in cui risiedeva il magistrato; Barbara Rizzo in Asta ed i figli Giuseppe e Salvatore, uccisi nel fallito attentato al giudice Carlo Palermo nella c.d. "strage di Pizzolungo" (2.4.85); l'agente di polizia Roberto Antiochia che accompagnava Ninni Cassara'; Stefano Saetta, figlio disabile di Antonino che si trovava nell'auto del padre al momento dell'attentato.
Ecco, onorevoli colleghi, io penso che le stragi del 1992-93 si colleghino, per diversi aspetti, a questa lunga scia di sangue.
Esse marcano il culmine dell'attacco allo Stato da parte di "cosa nostra", il sinistro trionfo della potenza militare dei corleonesi, ma anche l'inizio del loro declino.

Il fallito attentato al giudice Falcone.
Anche se formalmente estraneo alla vicenda dei grandi delitti e delle stragi del '92-'93, un richiamo particolare merita, nell’ordine cronologico degli avvenimenti, il fallito attentato dell’Addaura al giudice Giovanni Falcone: sia perché preannunzia il disegno di morte deliberato da "cosa nostra" nei confronti del grande magistrato, sia perché costituisce oggettivamente il prologo delle vicende che ci occupano.
Il 21 giugno del 1989 sulla scogliera antistante la villa abitata dal giudice Giovanni Falcone in località Addaura, sul lungomare di Palermo, gli agenti di scorta in servizio di vigilanza trovavano una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera da sub ed una borsa sportiva contenente una cassetta metallica con 58 candelotti di esplosivo innescato da due detonatori elettrici comandati da una apparecchiatura radio-ricevente.
La carica esplosiva era a fianco della scaletta che conduce, attraverso un percorso obbligato, dall’abitazione estiva del dr. Falcone allo specchio di mare antistante. Proprio in quei giorni il dr. Falcone aveva invitato i suoi colleghi svizzeri, il procuratore Carla Del Ponte ed il giudice Carlo Lehmann, che si trovavano a Palermo per una indagine collegata a reati di criminalità organizzata di cui si occupava anche lo stesso Falcone.
Il movente dell'attentato Sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta n. 22/98 del 27.10.2000. veniva individuato dagli inquirenti sia come una vendetta per le indagini compiute dal valoroso magistrato, sia come un’azione diretta a prevenire indagini future. Era lo stesso movente che il 29 luglio 1983 aveva portato all'omicidio del capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (strage c.d. di via Pipitone), dr. Rocco Chinnici, che per primo aveva istituito il “pool antimafia”.
Più in generale l’attentato si inseriva in una strategia articolata di "cosa nostra", propria dei corleonesi, volta alla sistematica eliminazione di quanti si battevano per debellarla e per recidere i suoi collegamenti.
Per i fatti dell’Addaura sono stati condannati per il reato di strage: Salvatore Riina (mandante), Salvatore Biondino (organizzatore ed esecutore), Antonino Madonia (organizzatore ed esecutore), Vincenzo Galatolo (organizzatore ed esecutore), Angelo Galatolo cl. 66 (esecutore), Francesco Onorato (organizzatore ed esecutore) e, per il solo reato di porto e detenzione di armi, Giovan Battista Ferrante. Hanno beneficiato della riduzione di pena per i collaboratori di giustizia Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante.

La vicenda, peraltro, trovava un suo aggancio nella sentenza di condanna del dr. Bruno Contrada, nella parte relativa alla fuga di Olivero Tognoli. Sentenza del Tribunale di Palermo c/o Contrada Bruno, 4 aprile 1996, pag. 719 e ss.

Costui era un industriale che riciclava i proventi del narcotraffico per conto della mafia; ed era indagato sia in Svizzera dal pubblico ministero Carla Del Ponte, sia in Italia dall’allora giudice istruttore Giovanni Falcone che congiuntamente lo interrogarono più volte.
Il Tognoli, destinatario di un mandato di cattura a firma del dr. Falcone, sarebbe riuscito a sfuggire all'arresto, grazie al dr. Contrada che gli avrebbe rivelato l’imminente emissione del provvedimento restrittivo a suo carico.
Dunque, la contemporanea presenza nella villa dell’Addaura dei giudici elvetici, legittimava il sospetto che vi fosse un collegamento tra il fallito attentato e le indagini in corso con i colleghi svizzeri e, in particolare, con le dichiarazioni rese da Tognoli alla Del Ponte, circa il coinvolgimento del dr. Contrada nella sua fuga.
Ma le indagini, in corso presso la procura della Repubblica di Caltanissetta, hanno anche accertato che la presenza dei giudici svizzeri è da considerarsi del tutto casuale ed estranea al contesto dell’attentato.
Esso, infatti, sarebbe stato programmato e preparato parecchio tempo prima che si sapesse della venuta in Italia dei due magistrati svizzeri.
Secondo alcune dichiarazioni rese da collaboranti, erano presenti sul luogo del delitto, con ruoli a tutt’oggi non chiariti, l'agente della polizia di Stato Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, entrambi legati ai servizi segreti.
Ma gli esami del DNA sugli indumenti da sub rinvenuti sugli scogli dell’ Addaura hanno rivelato i profili genetici di Angelo Galatolo (già condannato in via definitiva) ed escluso, invece, quelli di Agostino e Piazza.
Gli elementi di dubbio e di confusione non si fermano qui.
La perizia balistica ha stabilito che l’onda d’urto dell'esplosione avrebbe avuto un raggio di azione di appena 2 metri ed una proiezione di schegge di 60 metri, tanto da indurre qualcuno a ritenere che si fosse trattato, più che altro, di una mera intimidazione Dott. Nicolò Marino (sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta) , XVI Leg., audizione del 26.3.2012, fg. 10: “... l’onda d’urto e la vampa termica potevano determinare un effetto sicuramente mortale nell’ambito di due metri per chi si fosse trovato sulla scaletta e sulla piattaforma vicino alla scaletta … per quanto riguarda, invece, la proiezione di schegge pesanti, l’effetto, ma non sicuramente mortale, poteva essere di 60 metri …”. .
Forse per questo insieme di ragioni, un investigatore esperto come il col. Mori fu portato ad ipotizzare, in una relazione del 29 aprile 1993, che l’intimidazione provenisse da ambienti diversi da "cosa nostra".
Tornando a noi, va detto che a complicare le cose contribuì, seppure involontariamente, l’artificiere dei CC. Francesco Tumino, il quale, chiamato a disinnescare l’esplosivo, commise due gravi errori: il primo fu quello di distruggere il meccanismo di innesco, compromettendo così ogni possibilità di ulteriori accertamenti tecnici; il secondo fu quello di avere poi consegnato ad un indefinito funzionario di polizia, qualificatosi come appartenente della Criminalpol di Roma, alcuni reperti del materiale distrutto.
Dopo molti anni lo stesso Tumino identificherà lo sconosciuto nel commissario di P.S. Ignazio D’Antone subendo, però, un’imputazione per calunnia.
A distanza, dunque, di oltre un ventennio non siamo ancora in grado di combinare razionalmente i fatti e le valutazioni che indussero il dottor Falcone a definire l’attentato o l’avvertimento dell’Addaura come opera di “menti raffinatissime”.
Sul punto, peraltro, la nostra Commissione ha raccolto soltanto generici riferimenti esplicativi resi nel corso delle loro audizioni dal prefetto De Gennaro Dott. Gianni De Gennaro, XVI Leg., audizione del 10.9.2012, fg. 17. “… di ipotesi quella notte se ne fecero tante. Il riferimento migliore … Giovanni Falcone lo fa nel suo libro ‘Cose di cosa Nostra’ quando individua le menti raffinatissime con quei centri occulti di potere. Non è un caso se ho fatto riferimento a quelle logge massoniche non ortodosse … per trovare in quel contesto una facilitazione di rapporti a livello di vita pubblica e anche istituzionale …”.
e dall’on. Martelli, On. Claudio Martelli, XVI Leg., audizione dell’11.9.2012, fg. 32: “… non mi fece nomi. Quello a cui lui pensava era una rete di rapporti tra mafiosi nel senso proprio del termine, criminali e killer, e qualcosa di deviato, tra i colletti bianchi, nel mondo professionale palermitano e in ambienti della questura e dei servizi …”.
all'epoca entrambi vicini al dr. Falcone.
Il primo ha identificato “le menti raffinatissime” in centri di potere occulti ed in logge massoniche non ortodosse, anche se ha dovuto riconoscere che soltanto l’interpretazione autentica dello stesso dr. Falcone avrebbe potuto chiarire il suo pensiero.
Il secondo ha invece alluso ad un’area di contiguità tra mafia e società palermitana, al mondo delle professioni, a parti deviate della stessa polizia palermitana ed ai Servizi segreti.

La strategia vendicativa di "cosa nostra".
Due anni dopo l'Addaura, "cosa nostra" elabora una vera e propria strategia vendicativa nei confronti dei suoi nemici.
In una riunione della commissione mafiosa convocata per gli auguri di fine anno del 1991 Salvatore Riina, prevedendo l’esito negativo del “maxiprocesso”, lancia un primo programma per l’assassinio dei nemici storici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di quei sodali, ritenuti ormai inaffidabili, che non erano riusciti a tutelare l’organizzazione criminale, quali il politico Salvo Lima e l’ imprenditore Ignazio Salvo.
Davanti a tutti i capi mandamento della provincia di Palermo Salvatore Riina dichiara: “… è arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le sue responsabilità …”. Sentenza della Corte di Assise di Catania n. 24/06 del 22 aprile 2006 - 12 settembre 2007.

Che gli obiettivi principali fossero, fin dagli inizi degli anni ’80, i due magistrati, lo hanno sostenuto Giovanni Brusca e Calogero Ganci.
Il piano di morte, dunque, già deliberato nelle sue linee essenziali, veniva poi allargato ad altri obiettivi nelle successive riunioni della Commissione.
Ed effettivamente secondo le premonizioni di Riina, il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione confermava le condanne e l’impostazione accusatoria del primo “maxiprocesso” a "cosa nostra", convalidando il cosiddetto “teorema Buscetta".
Si riconosceva cioè che, oltre alle responsabilità individuali, la struttura unitaria e piramidale dell’organizzazione mafiosa faceva si che la responsabilità dei delitti strategici di "cosa nostra" ricadesse comunque su tutti i componenti degli organi di autogoverno.
Sull’esito del processo avevano indubbiamente influito anche le pressanti richieste del Governo alla Corte di Cassazione, affinché fosse assicurata un’opportuna “rotazione” dei grandi processi di mafia tra le varie sezioni penali del Supremo Collegio.
Tuttavia, gran parte delle condanne inflitte in primo grado a 360 dei 474 imputati, non furono particolarmente severe, anche per le modeste pene edittali previste dalla norma dell’art. 416 bis C.P. allora vigente.
Così che molti dei soldati di "cosa nostra", per effetto della carcerazione preventiva già sofferta, venivano immediatamente scarcerati, e posti nella condizione di riprendere le armi.
È indubbio, però, che la data del 30.1.1992 segnava una storica sconfitta per "cosa nostra", tanto da indurla a reagire con la massima violenza: e ciò per rinserrare le fila, per riaffermare il suo potere criminale, per ricostruire le sue alleanze. Arrivò così la stagione delle vendette e della rivolta nei confronti dello Stato.
Toccò per primo all’eurodeputato democristiano Salvo Lima (12 marzo 1992), politico di lungo corso, il cui assassinio rompeva anche simbolicamente un sistema di relazioni politiche e gettava le premesse per crearne uno nuovo. On. Claudio Martelli, audizione del 25.10.2010, XVI Leg., fg. 7: “… eravamo in viaggio in Sicilia con Falcone quando fummo raggiunti da questa notizia (n.d.r. omicidio LIMA). Ricordo il suo commento, che del resto esplicitai già allora: ‘adesso può succedere di tutto’. Segno di una sua consapevolezza di certi equilibri e comunque di un limite che "cosa nostra" si era imposta fin a quel momento e che da quel momento in poi abbatté …”. Dr.ssa Liliana Ferraro, XVI Leg., audizione del 22.2.2011, fg. 15: “… mentre ero negli Stati Uniti … Giovanni mi chiamò durante la notte per dirmi ‘hanno ucciso Lima. Adesso può succedere di tutto. Torna appena possibile’ …”.-
La Corte di Assise di Appello di Palermo (sentenze del 15 luglio 1998, 20 marzo 2000 e 10 maggio 2002) infliggeva l’ergastolo ai capi mandamento di "cosa nostra" (in libertà al momento del crimine) nonché agli esecutori materiali Simone Scalici e Salvatore Biondo e anni 18 di reclusione al collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi.
Vennero poi le stragi di Capaci (23 maggio 1992) e di via D’Amelio (19 luglio 1992) nelle quali trovarono la morte i due maggiori artefici del maxiprocesso, Falcone e Borsellino.
Il 17 settembre 1992 la vendetta si abbatté su Ignazio Salvo, gestore delle esattorie per l’intera regione siciliana e punto di riferimento finanziario dell’organizzazione mafiosa. Come Salvo Lima, costui era tra i vecchi mediatori “che avevano voltato le spalle” o non avevano mantenuto i patti stabiliti
Sentenza della Corte di Assise di Palermo del 6.2.1998 nei confronti di Sangiorgi Gaetano e sentenza del Tribunale di Palermo n. 881/1999 del 23 ottobre 1999 nei confronti di Andreotti Giulio, fg. 3828.
.
La strage di Capaci.
Il 23 maggio 1992, alle ore 18,00 circa, la deflagrazione di una potentissima carica di esplosivo, collocata sotto la carreggiata dell’autostrada A/29, al km 4 del tratto Punta Raisi-Palermo, nei pressi di Capaci, investiva un corteo di autovetture blindate, provocando la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
In sede giurisdizionale le responsabilità della strage venivano attribuite ai vertici dell’associazione criminale "cosa nostra". V. riportavano condanne all’ergastolo gli esecutori e tutti i componenti e sostituti della Commissione di "cosa nostra" ed in particolare: Riina Salvatore, Provenzano Bernardo e Bagarella Leoluca (rispettivamente “capo”, “sostituto” e “uomo d’onore” del “mandamento mafioso” di Corleone); Aglieri Pietro e Greco Carlo (rispettivamente capo mandamento e sostituto della Guadagna); Brusca Bernardo e Brusca Giovanni (rispettivamente “capo mandamento” e “sostituto” di San Giuseppe Iato); Montalto Salvatore e Montalto Giuseppe (rispettivamente capo mandamento e sostituto di Villabate); Motisi Matteo (capo mandamento di Pagliarelli); Biondino Salvatore (sostituto Del mandamento di Brancaccio); Battaglia Giovanni (uomo d’onore della famiglia di Capaci); Buscemi Salvatore e La Barbera Michelangelo (rispettivamente capo mandamento e sostituto di Boccadifalco); Madonia Francesco (capo mandamento di Resuttana); Calò Giuseppe e Cancemi Salvatore (rispettivamente capo mandamento e sostituto di Porta Nuova); Ganci Raffaele e Ganci Domenico (rispettivamente capo mandamento e uomo d’onore della Noce); Geraci Antonino (capo mandamento di Partinico, Spera Benedetto (capo mandamento di Belmonte Mezzano); Farinella Giuseppe (capo mandamento di Ganci); Giuffrè Antonino (capo mandamento di Cacciamo); Agrigento Giuseppe (uomo d’onore della famiglia di San Cipirrello); Biondo Salvatore (uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo); Graviano Giuseppe e Graviano Filippo (sostituti “reggenti” del “mandamento” di Brancaccio); Rampulla Pietro (“uomo d’onore”, già rappresentante della famiglia di Mistretta); Troia Antonino (“uomo d’onore” della famiglia di Capaci); Agate Mariano (rappresentante della “provincia” di Trapani); Madonia Giuseppe (rappresentante della “famiglia” di Caltanissetta); Santapaola Benedetto (rappresentante della “famiglia” di Catania); Ferrante Giovan Battista (uomo d’onore della “famiglia” di San Lorenzo); Di Matteo Mario Santo e La Barbera Gioacchino (“uomini d’onore” della famiglia di Altofonte).

In particolare veniva affermata la responsabilità sia degli esecutori materiali sia dei componenti, della “Commissione provinciale” di Palermo e della “Commissione regionale” e ciò in applicazione del già richiamato "teorema Buscetta".
Il movente della strage veniva individuato nell’esigenza di fermare il dr. Falcone, principale protagonista del fronte antimafia e del maxiprocesso, nonché titolare di un alto ufficio dello Stato dal quale avrebbe potuto infliggere altri, durissimi colpi all’organizzazione criminale. V. sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta n. 3/95 del 24 giugno 1998, pag. 996 e ss. e Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 11/2000 del 7 aprile 2000, pag. 117 e ss.

Secondo acquisizioni più recenti si dovrebbero annoverare tra i responsabili della strage anche Matteo Messina Denaro Dott. Piero Grasso (procuratore nazionale antimafia), XVI Leg., audizione del 22.10.2012, fg. 5: “… si è ritenuto da parte di Caltanissetta d’indagare anche Messina Denaro Matteo per il coinvolgimento della strage di Capaci …”.
, capo della provincia di Trapani, e la famiglia mafiosa di Brancaccio (PA) che sarà poi il braccio armato di tutte le altre stragi del '92-'93 e del mancato attentato allo Stadio Olimpico di Roma nel gennaio del 1994.
Su Capaci resta da chiedersi perché mai l'assassinio di Giovanni Falcone che, secondo l'iniziale programma di "cosa nostra", si sarebbe dovuto compiere agevolmente a Roma, dove il magistrato si muoveva con maggiore libertà, sia stato invece realizzato in Sicilia con modalità molto più clamorose, ma anche molto più complesse e rischiose per l'organizzazione criminale.
Si trattava solo di riaffermare in Sicilia un perfetto controllo del territorio e una straordinaria potenza di fuoco? O si voleva anche segnalare l'innalzamento della minaccia mafiosa e magari il lancio di una sfida temeraria alla magistratura, alle forze dell'ordine, allo Stato?



La strage di via D’Amelio.
Alle ore 16,58 di domenica 19 luglio 1992 una violentissima esplosione si verificava a Palermo nella via Mariano D’Amelio, all’altezza del civico n.19/21, provocando la morte del dr. Paolo Borsellino, Procuratore aggiunto presso la Procura distrettuale della Repubblica di Palermo, e degli agenti di scorta Claudio Traina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Eddie Walter Cosina, nonché il ferimento di numerose persone ed una generale devastazione con gravi danni agli immobili circostanti ed alle autovetture parcheggiate.
Com'è noto il gravissimo attentato, in sede giurisdizionale, dava luogo all’ istruzione di tre diversi procedimenti denominati rispettivamente “Borsellino uno”, “Borsellino bis” e “Borsellino ter”.
Il primo nasceva dai rilievi tecnici sull’autobomba utilizzata per l’attentato e conduceva, nella quasi immediatezza dei fatti, ai presunti ladri dell’autovettura ed a chi ne aveva commissionato il furto (Vincenzo Scarantino); del garagista che aveva custodito l’auto imbottita di tritolo (Giuseppe Orofino); del tecnico dei telefoni che avrebbe controllato l’utenza telefonica della famiglia Borsellino (Pietro Scotto); e dell’“uomo d’onore”, Salvatore Profeta, che avrebbe gestito la fase preparatoria dell’attentato. V. sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta del 27 gennaio 1996 e della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 2/99 del 23 gennaio 1999.

Dopo l’arresto ed un periodo di carcerazione, lo Scarantino iniziava a collaborare con la giustizia e, tra accuse, ritrattazioni, conferme e successive smentite, consentiva di istruire anche i due successivi processi.
In definitiva, nel primo processo riguardante la fase propedeutica e preparatoria della strage, il solo Orofino veniva condannato alla pena di nove anni di reclusione.
Il secondo ed il terzo procedimento accertavano, invece, la responsabilità, con la condanna all’ergastolo, degli esecutori e dei mandanti individuati nell’ala militare e nei componenti della “commissione mafiosa”. Riportavano condanna per il delitto di strage, tra gli altri: Riina Salvatore e Provenzano Bernardo (rispettivamente capo mandamento sostituto del “mandamento” di Corleone); Aglieri Pietro, Greco Carlo e Profeta Salvatore (rispettivamente “capo mandamento”, sostituto e “uomo d’onore” del “mandamento” della Guadagna); Graviano Giuseppe e Graviano Filippo (sostituti “reggenti” del “mandamento” di Brancaccio); Tagliavia Francesco (capo della “famiglia” di Corso dei Mille); Biondino Salvatore e Ferrante Giovan Battista (rispettivamente sostituto “reggente” del “mandamento” di San Lorenzo ed “uomo d’onore” dell’omonima “famiglia”); Scotto Gaetano (“famiglia mafiosa” dell’Acquasanta); Vitale Salvatore (“uomo d’onore” della famiglia mafiosa di Roccella); Vernengo Cosimo, Gambino Natale, Gambino Antonino, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano, Urso Giuseppe (della “famiglia mafiosa” della Guadagna); Tinnirello Lorenzo (“famiglia mafiosa” di Corso dei Mille); Brusca Bernardo e Brusca Giovanni (rispettivamente capo “mandamento” e sostituto “reggente” del “mandamento” di S. Giuseppe Jato); Calò Giuseppe e Cancemi Salvatore (rispettivamente “capo mandamento” di Porta Nuova, e sostituto “reggente” del “mandamento” di Porta Nuova); Ganci Raffaele (capo “mandamento” della Noce); La Barbera Michelangelo (“reggente” del “mandamento” di Boccadifalco); Montalto Giuseppe (sostituto del “mandamento”' di Villabate); Biondo Salvatore ‘55 e Biondo Salvatore ‘56 (“uomini d’onore” della “famiglia” di San Lorenzo); Cannella Cristoforo (“uomo d’onore” della “famiglia” di Brancaccio); Ganci Stefano e Ganci Domenico (“famiglia mafiosa” della Noce).

Il movente della strage e la sua riconducibilità a "cosa nostra" venivano spiegati (con alcune riserve in merito ad una presunta "trattativa") su due direttrici fondamentali tra loro collegate: la vendetta nei confronti di uno dei magistrati più impegnati nella lotta al fenomeno mafioso; la prevenzione rispetto alle indagini che Paolo Borsellino aveva in corso o poteva intraprendere anche in ordine alla morte del suo più caro amico Giovanni Falcone. Sentenze della Corte di Assise di Caltanissetta del 13 febbraio 1999 e 9 dicembre 1997 e della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 2/02 del 18 marzo 2002 e n. 29/97 del 7 febbraio 2002.

Gli omicidi dei due magistrati facevano parte del programma generale deliberato dalla "commissione mafiosa" già in occasione degli auguri di Natale del 1991.
Sembra che una anomala accelerazione sia stata impressa agli eventi di via d'Amelio. La stessa esecuzione materiale della strage avrebbe risentito dell’urgenza; e infatti fu impiegata una quantità così esorbitante di esplosivo da mettere in pericolo la vita di uno degli attentatori, Giuseppe Graviano, il quale si era appostato dietro un muretto, a debita distanza, per azionare il radiocomando dell’autobomba.
Inoltre prima della strage, Riina era apparso ai suoi complici piuttosto frenetico: aveva parlato loro “… di impegni presi da fare subito … Sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta del 7 febbraio 2002, pag. 233.; aveva confidato a Brusca che vi era “… un muro da superare …”; Dott. Domenico Gozzo (procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Caltanissetta), audizione del 26.3.2012, XVI Leg., fg. 25: “… Riina dice a Brusca che la trattativa si è improvvisamente interrotta; gli dice testualmente: ‘c’è un muro da superare’. Non gli parla specificatamente di Borsellino, ma secondo al ricostruzione di Brusca questo fatto precede la strage di via D’Amelio di due giorni …” (verbale di interrogatorio di Brusca Giovanni reso avanti il Procuratore di Caltanissetta l’8.5.2009).
e nell'apprendere della difficoltà, stante l’urgenza, di calcolare l’esatta quantità di esplosivo da utilizzare, avrebbe esclamato “… andasse come andasse …” dimostrando cioè noncuranza per l’eventuale coinvolgimento di terze vittime.
Occorre peraltro osservare che a quel momento la mafia non aveva ancora valutato compiutamente le conseguenze dell'omicidio Falcone e che un' ulteriore, analoga strage avrebbe inevitabilmente inasprito la risposta dello Stato e della società civile.
Perché, dunque, la mafia, abbandonando la sua proverbiale prudenza, decise di assassinare Borsellino, proprio nel luglio del 1992, a meno di due mesi di distanza dalla terrificante esplosione di Capaci?
Una delle risposte plausibili è che Totò Riina volesse abbattere ad ogni costo quel "muro" ideale che Borsellino aveva eretto non solo contro l'ipotesi della "dissociazione" degli appartenenti a "cosa nostra", ma anche e a maggior ragione contro ogni ipotesi di scambio o cosiddetta trattativa tra uomini della mafia e uomini dello Stato.
Questa contrarietà - che era del tutto naturale per l'uomo e per il magistrato Borsellino - risulta anche da dichiarazioni e circostanze diverse.
E allora possiamo ipotizzare che qualcuno, finora sconosciuto, abbia fatto il nome del valoroso giudice, magari soltanto per imperdonabile leggerezza, facendolo apparire come un ostacolo insormontabile a qualsiasi genere di trattativa; un ostacolo che, pertanto, bisognava rimuovere.
Naturalmente resta in piedi l’ipotesi che l’accelerazione della strage sia stata decisa autonomamente da Riina per reazione al mancato accoglimento delle sue richieste e con l'idea che l’omicidio eccellente potesse costituire un altro “… colpettino …” per “… stuzzicare …” la controparte a proseguire nella cosiddetta trattativa.
Peraltro l'assassinio di Borsellino era stato deliberato e confermato insieme a quello di Falcone e non dovrebbe, dunque, apparire illogico che i due delitti siano stati eseguiti a così breve distanza.
Oltretutto, dopo la strage di Capaci, Borsellino era rimasto in campo come il nemico principale di "cosa nostra" e, per di più, ferito profondamente dalla perdita dell'amico e animato dal fermissimo proposito di rendergli giustizia.
Totò Riina ed i suoi accoliti non potevano non temere il lavoro di quel magistrato capace, coraggioso e incorruttibile. Fermarlo era per loro questione di primaria importanza.
Nell’immediatezza della strage scomparve, come è noto la borsa del dr. Borsellino che conteneva la famosa agenda “rossa” nella quale egli annotava i suoi appuntamenti quotidiani Dott. Sergio Lari, ibidem, fg. 57: “… La sentenza di proscioglimento non passa mai in giudicato … se ci fossero elementi di novità non potremmo riaprire il fascicolo … ad ogni modo stiamo proseguendo le indagini nell’ambito di altro fascicolo riguardante il soggetto che, teoricamente, potrebbe avere incaricato Arcangioli di sottrarre la borsa …”.
.
La borsa è stata in un primo momento prelevata dal Cap. dei CC. Giovanni Arcangioli, come documentano le riprese filmate, il quale poi, inspiegabilmente, si sarebbe allontanato di qualche decina di metri dal luogo dell'attentato prendendola con sé.
Il relativo procedimento si è concluso con l’assoluzione del Cap. Arcangioli dalle imputazioni di furto e favoreggiamento aggravato a "cosa nostra". Certamente le annotazioni dell’agenda rossa avrebbero potuto dare un contributo decisivo alla ricostruzione dell'intera vicenda.

La risposta dello Stato.
La risposta dello Stato alle due stragi è stata dura, tempestiva ed efficace.
Dopo l'assassinio di Falcone, nella seduta dell'8 giugno 1992, il Consiglio dei Ministri approva il decreto antimafia “Scotti-Martelli, detto anche “decreto Falcone” in quanto in esso vengono riversati tutti i testi normativi sui quali il magistrato stava lavorando prima di essere ucciso.
In particolare il decreto, tra le tante innovazioni normative, introduce nell’ordinamento penitenziario anche l’articolo 41 bis (secondo comma), il c.d. regime del “carcere duro” riservato ai detenuti di mafia o, comunque, agli indagati-imputati di criminalità organizzata D.L. 8 giugno 1992, n. 306, recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità organizzata, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 1992, n. 356 con la quale si è disposta l’introduzione del comma 2 all’art. 41 bis.
. Si tratta di una misura tagliente, il cui scopo essenziale è quello di interrompere i contatti tra detenuti mafiosi e il mondo esterno.
Il decreto suscita dubbi di costituzionalità, critiche giustificate e reazioni emotive: si va dalle proteste dei garantisti, alle rivolte dei detenuti e agli scioperi degli avvocati penalisti. Dott.ssa. Liliana Ferraro, audizione del 16.2.2011, XVI Leg., fg. 14: “... Martelli decise anche di convocare la commissione per la riforma del codice di procedura penale, presieduta dal professor Giandomenico Pisapia, e della quale era vice presidente il professor Giovanni Conso, per sottoporre loro la bozza del decreto. Fu una riunione a dir poco tempestosa: molti componenti della commissione abbandonarono i lavori. Nonostante ciò, il ministro Martelli e il ministro Scotti, entrambi presenti, decisero di portare il decreto-legge in Consiglio dei ministri e ne ottennero l’approvazione ... ”.

Questo regime carcerario rappresenta qualcosa di "eversivo” degli assetti di potere di "cosa nostra", perché impedisce al boss in stato di detenzione di continuare a comandare e ad impartire ordini alla sua “famiglia” ed al suo “mandamento”. Non solo, ma queste limitazioni mettono l’“uomo d’onore” a confronto con la sua fragilità interiore e possono spingerlo, come effettivamente è avvenuto, sulla via della collaborazione con la giustizia.
Ecco perché l’abolizione del regime del “carcere duro” costituisce subito per “cosa nostra,” adusa a ben altri regimi detentivi costellati da arresti domiciliari ed ospedalieri, uno dei punti fondamentali sui quali concentrare l’azione di rivalsa nei confronti dello Stato.
Anche dopo la strage di via d'Amelio la reazione dello Stato appare all'altezza della enorme offesa che ha subito.
Ed, infatti, il Parlamento supera rapidamente ogni resistenza, convertendo in legge il decreto “Scotti-Martelli” che, oltre alle norme sul regime carcerario, rende definitive le modifiche al codice di procedura penale per il potenziamento dell’attività di indagine.
Vengono, poi, riaperti i penitenziari di Pianosa e dell’Asinara che nella notte del 19 luglio 1992 accoglieranno i più pericolosi boss di "cosa nostra" in regime di “carcere duro”.
Ricordo inoltre, anche per la comprensione dei successivi accadimenti, che il 20 luglio del 1992, all’indomani della strage di via D’Amelio, il Guardasigilli, on. Claudio Martelli, emette 325 provvedimenti di applicazione del 41 bis O.P. con scadenza annuale. Decreti ministeriali del 20 luglio 1992 nei confronti di Anacondia Salvatore + 63, Alberti Gerlando + 36, Catapano Raffaele + 45, Drago Giovanni + 54, Onorato Giuseppe + 122; decreti ministeriali di proroga del 16 luglio 1993 nei confronti di Agnello Alfonso + 38, Acerra Vincenzo + 242 e decreto ministeriale del 30 gennaio 1994 di proroga nei confronti di Acerra Vincenzo + 231.

Il 15 settembre lo stesso Ministro Arch. Comm., XVI Leg., doc. 563.6 (lib.)
delega il Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Vice Direttore Generale all'applicazione del secondo comma dell'articolo 41bis; di conseguenza ulteriori decreti verranno poi emessi nei confronti di altri 567 detenuti, con scadenza fissata nel novembre 1993 e gennaio 1994. Camera dei deputati e Senato della Repubblica, Commissione Antimafia, XII Leg., doc. (lib.) n. 63, prot. n. 422 del 31.10.94.

Il decreto legge “Scotti-Martelli” introduce anche integrazioni alla legge sui collaboratori di giustizia. Il provvedimento consentirà di celebrare celermente tutti i processi di strage con le condanne di tutti i capimafia di "cosa nostra" e dei loro gregari.
Lo Stato si muove anche per rinforzare il controllo del territorio: col D.L. 25 luglio 1992, mediante l'operazione "vespri siciliani", il governo autorizza l'impiego massiccio dell'Esercito nell'isola con compiti di sicurezza e di ordine pubblico, liberando così forze considerevoli di polizia per dedicarle alle indagini.
Osservo, infine, che i provvedimenti del 1992 imprimeranno un forte impulso alle indagini sui processi di Capaci e via D’Amelio.
Il 26 settembre 1997, infatti, a distanza di cinque anni dai fatti e dopo oltre cento udienze, la Corte di Assise di Caltanissetta condannerà per la strage di Capaci i capi ed i sicari di "cosa nostra" infliggendo anche ventiquattro ergastoli, poi confermati nei successivi gradi di giudizio V. riportavano condanne all’ergastolo gli esecutori e tutti i componenti e sostituti della Commissione di "cosa nostra" ed in particolare: Riina Salvatore, Provenzano Bernardo e Bagarella Leoluca (rispettivamente “capo”, “sostituto” e “uomo d’onore” del “mandamento mafioso” di Corleone); Aglieri Pietro e Greco Carlo (rispettivamente capo mandamento e sostituto della Guadagna); Brusca Bernardo e Brusca Giovanni (rispettivamente “capo mandamento” e “sostituto” di San Giuseppe Iato); Montalto Salvatore e Montalto Giuseppe (rispettivamente capo mandamento e sostituto di Villabate); Motisi Matteo (capo mandamento di Pagliarelli); Biondino Salvatore (sostituto del mandamento di Brancaccio); Battaglia Giovanni (uomo d’onore della famiglia di Capaci); Buscemi Salvatore e La Barbera Michelangelo (rispettivamente capo mandamento e sostituto di Boccadifalco); Madonia Francesco (capo mandamento di Resuttana); Calò Giuseppe e Cancemi Salvatore (rispettivamente capo mandamento e sostituto di Porta Nuova); Ganci Raffaele e Ganci Domenico (rispettivamente capo mandamento e uomo d’onore della Noce); Geraci Antonino (capo mandamento di Partinico, Spera Benedetto (capo mandamento di Belmonte Mezzano); Farinella Giuseppe (capo mandamento di Ganci); Giuffrè Antonino (capo mandamento di Cacciamo); Agrigento Giuseppe (uomo d’onore della famiglia di San Cipirrello); Biondo Salvatore (uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo); Graviano Giuseppe e Graviano Filippo (sostituti “reggenti” del “mandamento” di Brancaccio); Rampulla Pietro (“uomo d’onore”, già rappresentante della famiglia di Mistretta); Troia Antonino (“uomo d’onore” della famiglia di Capaci); Agate Mariano (rappresentante della “provincia” di Trapani); Madonia Giuseppe (rappresentante della “famiglia” di Caltanissetta); Santapaola Benedetto (rappresentante della “famiglia” di Catania); Ferrante Giovan Battista (uomo d’onore della “famiglia” di San Lorenzo); Di Matteo Mario Santo e La Barbera Gioacchino (“uomini d’onore” della famiglia di Altofonte).
.
Anche il primo dei processi per la strage di via D’Amelio si concluderà in tempi rapidissimi (il 27.1.96) e, a seguire, verranno celebrati i procedimenti c.d. “Borsellino bis” e “Borsellino ter”, con le condanne di esecutori materiali e dei componenti della Commissione provinciale e regionale di "cosa nostra". V. sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta del 27 gennaio 1996 e della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 2/99 del 23 gennaio 1999.
Riportavano condanna per il delitto di strage, tra gli altri: Riina Salvatore e Provenzano Bernardo (rispettivamente capo mandamento sostituto del “mandamento” di Corleone); Aglieri Pietro, Greco Carlo e Profeta Salvatore (rispettivamente “capo mandamento”, sostituto e “uomo d’onore” del “mandamento” della Guadagna); Graviano Giuseppe e Graviano Filippo (sostituti “reggenti” del “mandamento” di Brancaccio); Tagliavia Francesco (capo della “famiglia” di Corso dei Mille); Biondino Salvatore e Ferrante Giovan Battista (rispettivamente sostituto “reggente” del “mandamento” di San Lorenzo ed “uomo d’onore” dell’omonima “famiglia”); Scotto Gaetano (“famiglia mafiosa” dell’Acquasanta); Vitale Salvatore (“uomo d’onore” della famiglia mafiosa di Roccella); Vernengo Cosimo, Gambino Natale, Gambino Antonino, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano, Urso Giuseppe (della “famiglia mafiosa” della Guadagna); Tinnirello Lorenzo (“famiglia mafiosa” di Corso dei Mille); Brusca Bernardo e Brusca Giovanni (rispettivamente capo “mandamento” e sostituto “reggente” del “mandamento” di S. Giuseppe Jato); Calò Giuseppe e Cancemi Salvatore (rispettivamente “capo mandamento” di Porta Nuova, e sostituto “reggente” del “mandamento” di Porta Nuova); Ganci Raffaele (capo “mandamento” della Noce); La Barbera Michelangelo (“reggente” del “mandamento” di Boccadifalco); Montalto Giuseppe (sostituto del “mandamento”' di Villabate); Biondo Salvatore ‘55 e Biondo Salvatore ‘56 (“uomini d’onore” della “famiglia” di San Lorenzo); Cannella Cristoforo (“uomo d’onore” della “famiglia” di Brancaccio); Ganci Stefano e Ganci Domenico (“famiglia mafiosa” della Noce).

Forse solo negli anni '80 la risposta dello Stato all'aggressione mafiosa era stata altrettanto efficace: si pensi all'approvazione della legge Rognoni-La Torre, dopo l'uccisione del generale Dalla Chiesa (3.9.82) e al rilancio del "pool antimafia" del Tribunale di Palermo dopo la strage di Via Pipitone (29.7.83) in cui persero la vita Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta.

Le cosiddette trattative: primi contatti Mori-Ciancimino
I primi “contatti” tra uomini dello Stato e rappresentanti della mafia iniziavano a partire dai primi di giugno del 1992, a cavallo tra la strage di Capaci (23 maggio 1992) e quella di via D’Amelio (19 luglio 1992).
In particolare, i carabinieri dei R.O.S. nelle persone dell’allora capitano Giuseppe De Donno, e dell’allora colonnello Mario Mori, comandati dal generale Antonio Subranni, entravano in contatto, per il tramite del figlio Massimo, con Vito Ciancimino, uomo politico appartenente alla “famiglia mafiosa” dei corleonesi, già sindaco di Palermo ed assessore ai lavori pubblici durante la sindacatura di Salvo Lima Gen. Antonio Subranni, XVI Leg., audizione dell’8.3.2011, fg. 31: “... ripeto, se il colonnello Mori ha preso contatti con Ciancimino, non mi ha detto nulla … perché rientrava nei suoi compiti cercare qualunque cosa che potesse fare. Dopo mi ha detto che aveva preso contatti con Ciancimino. Quindi, quando ha preso contatti con Ciancimino,, ripeto, non mi ha detto nulla perché non gli competeva. Era il responsabile delle investigazioni e dell’operazione …”.
.
Il contatto voluto e cercato dagli ufficiali mirava, secondo le loro intenzioni, alla cattura di latitanti ed all'acquisizione di informazioni sugli assetti e le dinamiche interne di "cosa nostra" in un momento di gravi difficoltà per lo Stato, e di scoramento profondo degli organi dell’antimafia, duramente provati dalla strage di Capaci.
Questa attività investigativa avrebbe innescato una sorta di trattativa, così come è stata definita dallo stesso Mori, che ovviamente comportava un rapporto di "do ut des".
È lecito, pertanto, ritenere che i due ufficiali dell’Arma dovettero accettare un vero e proprio negoziato i cui termini avrebbero dovuto essere i seguenti: dalla parte mafiosa, la cessazione degli omicidi e delle stragi e, dalla parte istituzionale, la garanzia di interventi favorevoli a "cosa nostra" o comunque di una attenuazione dell’attività repressiva dello Stato On. Luciano Violante, XVI Leg., audizione del 29 marzo 2011, fg. 26: “... l’agente di polizia o l’ufficiale di polizia che prende contatto con il confidente non ottiene soltanto: qualcosa deve dare. Bisogna vedere cosa prende e cosa dà e in che contesto si colloca …”..
È peraltro impensabile che un uomo avveduto e spregiudicato come Vito Ciancimino si spendesse come mediatore senza avere la certezza di potere offrire contropartite rilevanti agli uni ed agli altri. Ed è altamente probabile che egli abbia reso più allettanti queste contropartite, anche per trarre il massimo vantaggio personale possibile dall’una e dall’altra parte.
Vito Ciancimino, - il più mafioso dei politici ed il più politico dei mafiosi - era il più interessato di tutti ad enfatizzare i contatti tra le due parti e a trasformarli in una trattativa vera e propria.
Per ammissione degli stessi Mori e De Donno, gli incontri con Ciancimino, si sarebbero protratti fino al 18 ottobre 1992, giorno in cui, dovendo “stringere la trattativa” divenne chiaro, che i due interlocutori avevano ben poco o nulla da offrire alla controparte.
E' probabile che l’avvio del “dialogo”, abbia indotto "cosa nostra" a ritenere che vi fosse, comunque, una disponibilità di settori delle istituzioni a scendere a patti: tant’è che Riina confidava a Brusca che “… quelli … si … erano fatti sotto …”.
Sentenze della Corte di Assise di Firenze del 6 giugno 1998 e Tribunale di Palermo sentenza n. 514/06 del 20.2.06 nei confronti di Mori Mario +1, (relativa alla tardiva perquisizione dell’ abitazione di Salvatore Riina, c.d. “covo”).

"Cosa nostra" aveva, quindi, presentato loro un lungo elenco di richieste (c. d. “papello”) tramite Antonino Cinà, “uomo d’onore” della cosca dei corleonesi, e Giuseppe Lipari, noto come il ministro dei lavori pubblici di "cosa nostra", già curatore dei beni di Tano Badalamenti ed all’epoca amministratore di quelli di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.
In realtà i “papelli” divennero due: il primo conteneva una lunga lista di richieste volte sostanzialmente all’eliminazione dei principali strumenti di lotta alla mafia; il secondo “papello”, detto impropriamente “contropapello”, era una versione edulcorata del primo, opera di Vito Ciancimino, con il quale si chiedeva, in particolare, l’abolizione della legge sui collaboratori di giustizia, la chiusura dei penitenziari dell’Asinara e di Pianosa, l’abolizione dell’ergastolo e quella del regime penitenziario del “carcere duro”. Dott. Francesco Messineo, XVI Leg., audizione del 19.3.2012, fg. 10: “… il primo papello viene consegnato il 28 giugno a Palermo dal dr. Cinà … la data di consegna del secondo papello non siamo riusciti a stabilirla. Era successiva al 28 giugno ed era probabilmente precedente alla strage di via D’Amelio ...”.

Va precisato che il primo papello è la fotocopia di un testo anonimo scritto con calligrafia femminile, mentre il secondo è chiaramente attribuito a Vito Ciancimino.
Frattanto, nella settimana tra il 21 e 28 giugno 1992 il capitano De Donno, incontrava presso il Ministero della Giustizia la dr.ssa Liliana Ferraro, vice direttore degli Affari penali, già stretta collaboratrice del dr. Giovanni Falcone, alla quale avrebbe chiesto un “sostegno politico” nella prospettiva di un rapporto di collaborazione con Vito Ciancimino Dott.ssa Liliana Ferraro, XVI Leg., audizione del 22 febbraio 2011, XVI Leg., fg. 5: “... non ricordo perfettamente le parole usate, anche se il ministro Martelli dice che io gli riferii, appunto, l’espressione ‘sostegno politico’. Più che queste parole sottolineo che il De Donno, sosteneva che Vito Ciancimino aveva una statura politica così forte che, forse, per appoggiare il loro tentativo di contattarlo attraverso Massimo Ciancimino, era opportuno che io avvertissi anche il Ministro …”.
.
Il comportamento di De Donno, che avrebbe dovuto riferire dell’eventuale collaborazione all'autorità giudiziaria e non ad un funzionario del Ministero, induce a pensare che un certo tipo di discorso fosse già stato avviato, e che proprio per questo motivo i due ufficiali dei CC. cercavano una copertura o un autorevole “sostegno politico”. Dott. Francesco Messineo,, ibidem, fg. 7: “… anche perché per far collaborare un soggetto come Vito Ciancimino, bisognava dargli, offrirgli o prospettargli delle contropartite abbastanza consistenti …”.


L’incontro Mori-De Donno-Borsellino.
Il 25 giugno del 1992, il colonnello Mori ed il cap. De Donno incontravano riservatamente il dr. Borsellino presso la caserma dei Carabinieri “Carini” di Palermo per discutere, secondo la versione resa dagli ufficiali, delle indagini relative al rapporto investigativo “mafia-appalti”.
Fu proprio questo l'argomento?
Quel rapporto era circolato in due distinte versioni, una delle quali piuttosto minimalista, e aveva dato luogo a valutazioni controverse. Al momento, peraltro, non sembrava rivestire una tale importanza ed urgenza da giustificare un abboccamento riservato, al di fuori degli Uffici Giudiziari e per di più con un magistrato, il dr. Borsellino che, peraltro, era “funzionalmente incompetente” Dott. Nino Di Matteo, XVI Leg., audizione del 19.3.2012, fg. 44: “… inoltre, nessuno dei testimoni sentiti ha detto che Paolo Borsellino, nei 57 giorni tra la strage di Capaci e la sua morte, si sia mai occupato o abbia fatto qualcosa per occuparsi dell’indagine mafia-appalti …”.
.
Dell'incontro i due ufficiali hanno parlato solo cinque anni dopo, mentre avrebbero avuto l’obbligo di riferirne molto prima all’Autorità Giudiziaria di Caltanissetta, che indagava sulla strage di via D’Amelio.
Ma se non furono loro a parlare al dr. Borsellino dei contatti con Ciancimino, viene da chiedersi chi altri lo avesse informato, perché egli sembrò esserne al corrente ancor prima che gliene parlasse la dr.ssa Ferraro. Dott.ssa Liliana Ferraro, ibidem, fg. 15: “… domenica 28 giugno 1992 quando lo incontrai all’aeroporto di Roma … riferii a Paolo anche il contenuto della visita del capitano De Donno. Paolo non diede molta importanza a questo fatto e mi disse ci penso io’ ome ne occupo io’…”. La circostanza è stata anche confermata da Agnese Piraino Leto, moglie di Borsellino che nelle dichiarazioni rese avanti la procura di Caltanissetta in data 27.1.2010 ha dichiarato “… mio marito, dopo l’incontro alla sala vip, non mi disse nulla che riguardava Ciancimino,. Ricordo, invece, che mio marito mi disse testualmente che ‘c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato’ …”.

Questo è un punto ancora tutto da chiarire.

L’incontro Mancino-Borsellino
Nel corso della nostra inchiesta ha assunto un certo rilievo, forse sproporzionato rispetto al contesto complessivo, l’incontro tra il Ministro Mancino ed il dr. Borsellino.
Il primo luglio del 1992 il dr. Borsellino, che si trovava a Roma con il dr. Vittorio Aliquò per interrogare il collaborante Gaspare Mutolo, veniva invitato al Viminale dal Capo della Polizia per incontrare il neo ministro dell’ interno on. Nicola Mancino.
L’incontro durò pochi minuti e vi parteciparono, il Capo della Polizia, il dr. Aliquò e forse anche il dr. Contrada.
Il dr. Borsellino ne uscì certamente deluso, non avendo potuto verificare quali erano gli orientamenti del nuovo governo in ordine alla lotta alla criminalità organizzata. Dott. Vittorio Aliquò, dichiarazioni del 9.3.2001 rese avanti l’A.G. di Caltanissetta: “… io e Paolo Borsellino entrammo contemporaneamente nello studio del Ministro e che, come ho già detto, l’incontro durò pochi minuti, durante i quali furono scambiati alcuni convenevoli, tanto che uscimmo delusi perché era nostra intenzione affrontare il tema del contrasto alla mafia in Sicilia, onde verificare quale fosse l’orientamento del nuovo Ministro. Senonché, il Ministro Mancino fu molto sbrigativo e ci strinse la mano senza che noi avessimo avuto alcuna possibilità di affrontare l’argomento che ci stava a cuore …”.

Il ministro Mancino ha lungamente esitato prima di ricordarsi dell’episodio On. Nicola Mancino, audizione dell’8.11.2010, XVI Leg., fg. 6 e 7: “… ho sempre sostenuto di non avere mai incontrato il predetto magistrato, né quel giorno e neppure successivamente. Intanto, escludo perentoriamente di poter avere avuto con lui un colloquio … se presente nel lungo e largo corridoio antistante il mio ufficio … avrò anche potuto stringergli la mano, come avvenne con altri a me ignoti … Era mai possibile che un magistrato dello spessore di Borsellino … potesse essere venuto, proprio il giorno del mio insediamento, per comunicarmi che egli era dell’ avviso di evitare trattative tra Stato e mafia?... resta pacifico che quel giorno il giudice Borsellino si incontrò al quarto piano con Parisi e con il dr. Contrada …”.
, ma è del tutto chiaro che in quella circostanza egli non ebbe alcuna notizia della cosiddetta “trattativa”.

L’ulteriore ricerca della “copertura politica”
Dopo la strage di via D’Amelio gli ufficiali del ROS si mossero ancora alla ricerca di coperture politiche alla loro iniziativa.
Il 22 luglio 1992 Mori incontrava l’avv. Fernanda Contri, all’epoca segretario Generale a Palazzo Chigi perché riferisse al Presidente del Consiglio dei contatti intrapresi con Ciancimino Agenda del colonnello Mori, arch. Comm., XVI Leg., doc. n. 547.2 (lib.), fg. 60.
. Ma il Presidente Giuliano Amato Prof. Giuliano Amato, audizione del 10.9.2012, XVI Leg., fg. 8: “… l’attuale generale Mori … venne ricevuto non da me, ma dal segretario generale Fernanda Contri nel luglio, dopo l’assassinio di Borsellino. In realtà, Fernanda Contri a lui chiese notizie sulle indagini in corso su questo assassinio, non parlò di trattative di cui non sapeva nulla, né a quanto mi ha riferito la stessa Fernanda Contri ebbe da lui indicazioni in quel senso …”.
, pur confermando il fatto, ha sempre recisamente negato di avere sentito parlare di trattative.
Nello stesso giorno Mori vedeva anche, come emerge dall’annotazione della sua agenda, l’on. Pietro Folena esponente del maggior partito di opposizione, per “analisi situazione Agenda del colonnello Mori, arch. Comm., XVI Leg., doc. n. 547.2 (lib.), fg. 60.
.
Infine, nell’ottobre del 1992, anche l’on. Luciano Violante, dopo la nomina a Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, veniva contattato dal col. Mori che caldeggiava un incontro riservato con Ciancimino, per discutere di problemi politici On. Luciano Violante, ibidem, ff. 7 e 9: “… l’allora colonnello Mori … venne a trovarmi in ufficio … e mi informò che Ciancimino intendeva incontrarmi riservatamente … Gli chiesi se di questi suoi contatti con il Ciancimino fosse stata informata l’Autorità Giudiziaria. Mi rispose che non lo aveva fatto perché si trattava di una ‘cosa politica’ o di una ‘questione politica’… Colloco questi incontri (n.d.r.: tre) in un periodo che va dai primissimi giorni dell’ottobre 1992 al 26 ottobre dello stesso anno …”.
.
L’on. Violante era disponibile ad audire il Ciancimino in Commissione ma nelle forme della seduta ordinaria e senza l’ausilio di riprese televisive, come gli era stato richiesto. L'audizione non ebbe luogo perché nel dicembre del 1992 Ciancimino veniva arrestato nell’ambito di una strana vicenda, relativa al rilascio del passaporto.
Avendo egli, l'intenzione di recarsi all’estero, Mori e De Donno, gli prospettarono la possibilità di ottenere il passaporto e lo convinsero, nonostante le resistenze del suo difensore, ad avanzare la relativa istanza, offrendogli il loro sostegno presso il Ministero di Grazia e Giustizia, il quale, come è noto, non aveva alcuna competenza in materia Dott.ssa Liliana Ferraro, ibidem, fg. 20: “… in un incontro con il colonnello Mori (non so se accompagnato dal capitano De Donno) mi si parlò del desiderio di Vito Ciancimino di ottenere il rilascio del passaporto. Feci presente - come peraltro noto - che la questione non era assolutamente di mia competenza …”.
.
Ciancimino non ottenne il documento e, anzi, fu arrestato. Accadde, infatti, che avendo il ministro di grazia e giustizia comunicato la richiesta alla Procura Generale di Palermo, questa emetteva ordinanza di custodia cautelare in carcere, sul presupposto del pericolo di fuga del richiedente che era stato già condannato in primo grado ad una pena molto pesante On. Claudio Martelli, audizione del 25.10.2010, XVI Leg., fg. 12: “… Quando la dottoressa Ferraro mi riferì di questo colloquio mi arrabbiai molto … chiamai il procuratore generale di Palermo (all’epoca era Siclari, che poi diventò procuratore nazionale antimafia), che era competente su questa materia, gli feci presente questa strana richiesta ed in conseguenza dell’allarme che gli trasmisi Ciancimino venne riarrestato …”.
.
La vicenda è tutta da interpretare. Può darsi che i due ufficiali volessero effettivamente fare un favore a Ciancimino per la collaborazione ricevuta. Può darsi che, invece, volessero tendergli un tranello per liberarsene, non ritenendolo più utile; ovvero volessero indebolirlo con la detenzione per renderlo più malleabile. E' comunque probabile che questo sia stato l'ultimo atto della cosiddetta "trattativa" Mori-Ciancimino.
Arriviamo così al dicembre 1992: i vertici di "cosa nostra" hanno forse già programmato le stragi continentali dell’anno successivo, sempre con la prospettiva di spianare la strada all’abolizione o al ridimensionamento delle principali misure antimafia.
La spinta decisiva all’attuazione del programma la darà il successivo arresto di Salvatore Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993, con la regia occulta, secondo una ipotesi corrente, di Bernardo Provenzano. Ciò sarebbe avvenuto nell'ambito di un'altra trattativa, la cui contropartita sarebbe stata la mancata perquisizione del covo di Riina nonché la protezione della latitanza dello stesso Provenzano.

La trattativa sul 41bis
Sul fronte istituzionale già nel 1992 erano già emersi segnali di un dibattito all'interno del D.A.P. circa l'istituzione di un regime differenziato o intermedio tra il 41 bis e quello ordinario in favore dei detenuti di mafia che avessero deciso di “dissociarsi”. Dott. Edoardo Fazzioli, verbale di assunzione di informazioni del 14.12.2010 della Procura della Repubblica di Palermo, fg. 2, XVI Leg., doc. (lib.) 593/1. “… all’interno del Dipartimento si sviluppò … un dibattito sull’opportunità di prevedere per una categoria di detenuti di mafia le c.d. ‘aree omogenee di detenzione’ che erano state previste ed adottate in passato nei confronti dei detenuti politici …”.
È possibile che "cosa nostra" ignorasse un tale dibattito che, per l’appunto, verteva su una delle richieste del “papello”?

Non è facile ricostruire in maniera plausibile la cosiddetta trattativa sul 41 bis, anche perché nel suo complesso svolgimento compaiono, a vario titolo e in momenti diversi, esponenti dello Stato, del Governo e dell'Amministrazione Penitenziaria. E' perciò opportuno, in via preliminare, descrivere gli assetti di vertice e i cambiamenti intervenuti negli anni delle stragi.
La carica di Presidente della Repubblica per tutto il periodo di interesse (ad esclusione delle vicende legate all'Addaura) è stata rivestita dal sen. Oscar Luigi Scalfaro.
Alla presidenza del Consiglio dei Ministri si sono, invece, succeduti l’on. Giuliano Amato, in carica dal 28 giugno 1992 al 22 aprile 1993, ed il sen. Carlo Azeglio Ciampi, dal 28 aprile 1993 al 10 maggio 1994.
La carica di Ministro della Giustizia è stata rivestita dall’on. Claudio Martelli dal primo febbraio del 1991 al 10 febbraio 1993 e dal prof. Giovanni Conso dal 12 febbraio 1993 al 9 maggio 1994.
La carica di Ministro dell’Interno è stata rivestita, dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, dall’on. Vincenzo Scotti, poi sostituito dal sen. Nicola Mancino fino al 19 aprile 1994.
Al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.) troviamo sin dal 1983 e fino al 5 giugno 1993 il dr. Nicolò Amato, poi sostituito dal dr. Adalberto Capriotti, rimasto in carica fino al 1995.
Quanto ai vice direttori della medesima struttura, all’epoca della direzione del dr. Amato vi era il dr. Edoardo Fazzioli, mentre sotto la direzione del dr. Capriotti veniva nominato quasi contestualmente il dr. Francesco Di Maggio.
Capo della Polizia per tutto il periodo d’interesse, dal 23 gennaio 1987 al 27 agosto 1994, è stato il dr. Vincenzo Parisi, già direttore dal 1984 al 1987 del SISDE.
Il gen. Giuseppe Tavormina è stato direttore della DIA (Direzione Investigativa Antimafia), dal novembre 1991 al 23 marzo 1993; dopodichè è stato posto in congedo e nominato Segretario Generale del CESIS.
Vanno poi rammentati il generale Antonio Subranni al vertice del ROS dell’Arma dei Carabinieri negli anni ’92 e ‘93 ed il colonnello Mario Mori, vice comandante del ROS dall’agosto del 1992 e poi comandante del medesimo Reparto dal 1998. Successivamente dal 2001 e fino al 15 dicembre 2006, il gen. Mario Mori sarà direttore del SISDE.

Gli aspetti controversi nella successione delle cariche.
Di recente e in diverse sedi, l'on. Scotti, ha lasciato trapelare dei sospetti sulla linearità dell’operazione politica che portò alla sua sostituzione al ministero dell’Interno Prof. Vincenzo Scotti, audizione del 28.10.2010, XVI Leg., fg. 14: “… So con molta sicurezza che il mio partito commise un grave errore nel decidere … soprattutto dal momento che non era affatto mia intenzione dimettermi … per andare a ricoprire quell’altro incarico e mettere in gioco anche quel poco che potevo aver fatto … per quanto mi riguarda posso avere dei sospetti ma non sono in grado di formulare un giudizio che abbia fondatezza su dei fatti concreti … se avessi dei fatti, dato il mio temperamento, non avrei esitato a dirli …”.
. Il sen. Mancino, che gli subentrò nella carica con la nascita del governo Amato, ha dichiarato di aver raccolto, prima della sua nomina, il lusinghiero apprezzamento ed una specie di informale investitura da parte del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro On. Nicola Mancino, audizione dell’ 8.11.2010, XVI Leg., fg. 23 e 26 : … mi sono recato dal Presidente della Repubblica, insieme al capogruppo DC alla Camera dei Deputati e al segretario della DC, perché il Capo dello Stato faceva consultazioni su chi dovesse essere investito della responsabilità di governo … ero sul punto di andare via, quando il Capo dello Stato mi disse: io ti conosco bene per quanto hai fatto in Commissione affari costituzionali, e ritengo che tu debba … essere il Ministro dell’interno … me ne andai con il convincimento di dover rifiutare perché Forlani, nell’ultimo periodo della sua segreteria, fu piuttosto intrasigente sulle incompatibilità, peraltro non previste dalla Carta Costituzionale …”.
.
Sul piano squisitamente politico l’avvicendamento fu determinato da due note circostanze: innanzitutto la decisione della DC, partito nel quale entrambi militavano, di applicare nella formazione del nuovo governo il criterio della incompatibilità tra seggio parlamentare e incarico ministeriale; e poi, la scelta del sen. Antonio Gava, leader di una forte corrente interna, di assumere la presidenza del gruppo parlamentare, carica allora occupata dal sen. Mancino.
Va detto che l’on. Scotti fu chiamato al più prestigioso ministero degli Esteri e che egli accettò la carica per un mese; poi si dimise preferendo il mantenimento del seggio parlamentare.
Anche l’on. Martelli on. Claudio Martelli, audizione dell’11.9.2012, XVI Leg., fg. 37: … il presidente incaricato Giuliano amato mi telefona e mi dice (…) Craxi non vuole che tu resti alla giustizia (…) mi ricordo di avergli detto: ‘guarda che io ho cominciato una battaglia in questo ruolo, una battaglia che intendo continuare, soprattutto adesso che hanno assassinato Falcone. Per cui, o io resto qui o torno al partito e do battaglia’ ….
ha accennato ad un tentativo di sostituirlo al dicastero della Giustizia, ma la sua ferma resistenza davanti ai vertici del suo partito, il P.S.I., avrebbe fatto naufragare la manovra.
Su entrambi i punti tuttavia il presidente incaricato Amato prof. Giuliano Amato, audizione del 10.9.2012, XVI Leg., fg.4 e 8: … per me non c'era nulla di strano nel passaggio, né, nonostante l'amicizia che c’era sempre stata e che è rimasta tra di noi, mi segnalò - Enzo - alla vigilia o durante la formazione del Governo il suo desiderio di rimanere al Ministero dell’interno e la sua preoccupazione che il suo passaggio a un altro Ministero potesse avere significati non chiari. Questo non me lo segnalò … Mi è stato chiesto quello che Claudio Martelli ha già raccontato … e cioè che gli avrei a un certo momento riferito che era desiderio di Craxi rimuoverlo dal Dicastero della giustizia … di questa conversazione io non ho alcun ricordo, come non ho alcun ricordo di pressioni fattemi da Craxi per togliere Martelli dal Ministero della giustizia.
ha smentito decisamente sia Scotti che Martelli. E d’altra parte a credere alla tesi dei due - per la verità rimasti per tanto tempo in silenzio sull’intera vicenda della c.d. trattativa - dovrebbe riconoscersi che la pretesa normalizzazione, peraltro riuscita a metà, fu condotta in sintonia tra i massimi vertici dello Stato, del Governo e dei principali partiti della maggioranza.
Va detto, comunque, che entrambi i ministri sostennero nettamente il 41 bis e l'adozione delle misure più severe contro le mafie.
Più complicata appare la sostituzione dei vertici dell'Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.), guidata per oltre un decennio dal dr. Nicolò Amato.
Questi in più occasioni aveva mostrato la propria contrarietà al regime detentivo speciale del 41bis, quantomeno per come, a quel tempo, era strutturato. Questa contrarietà era emersa sin dalle ore immediatamente successive alla strage di via D’Amelio, quando il dr. Amato si era opposto al trasferimento immediato di numerosissimi capimafia, adducendo che gli istituti penitenziari di Pianosa e dell’Asinara non erano pronti dr.ssa Liliana Ferraro, ibidem, fg. 7:“… il direttore Amato … disse che non riteneva opportuno questo provvedimento. Riferii al ministro Martelli, il quale lo chiamò per ricevere la stessa risposta. Dopodichè il Ministro mi chiese se fossi in grado di preparare un provvedimento di trasferimento … aggiunsi che se fossi rimasta lì, lo avrei preparato in prefettura ... ed io rimasi, appunto, in prefettura cercando poi, come ho già detto, il direttore (credo trovammo il vice direttore) per la firma ... ”..
L'opposizione del dr. Amato avrebbe poi trovato espressioni più compiuta nel documento del 16.3.1993, nel quale, sulla linea di un convinto garantismo, egli chiedeva la revoca immediata di tutti i provvedimenti di 41 bis e postulava un regime alternativo.
All’inizio di giugno 1993, egli veniva rimosso per essere destinato all’incarico di rappresentante dell’Italia nel Comitato Europeo per la prevenzione della tortura. La promozione apparve strumentale tanto che, poco tempo dopo, il dr. Amato decise di lasciare la Pubblica Amministrazione per dedicarsi all’attività forense.
Dopo dieci anni di permanenza nell'incarico, una sostituzione ai vertici del D.A.P. sarebbe da considerarsi normale, ma in questo caso avrebbero influito in parte dei dissidi imprecisati con l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro
dr. Edoardo Fazzioli, verbale di assunzione di informazioni del 14.12.2010 della Procura della Repubblica di Palermo, fg. 5, arch. Comm., XVI Leg., doc. (lib.) 593/1: “… mi risulta che il dr. Amato e l’on. Scalfaro si conoscessero certamente da prima dell’elezione dell’on. Scalfaro a Presidente della Repubblica … Amato era amico di famiglia del Capo della Polizia Parisi ... per ciò che si diceva negli ambienti del D.A.P., i motivi del dissidio tra l’on. Scalfaro ed il dr. Amato non erano legati alla gestione delle carceri né ad altri fattori politici ma erano di natura strettamente personale …”.
, ed, in parte le posizioni espresse nel documento del 6.3.1993.
Il Presidente Scalfaro ha negato radicalmente l'esistenza di questo dissidio.
Al posto del dr. Nicolò Amato venne, quindi, nominato il dr. Adalberto Capriotti, che all’epoca rivestiva la carica di Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Trento e che accolse la nomina come qualcosa di inatteso dr. Adalberto Capriotti, audizione del 12.4.2011, XVI Leg., fg. 14: … mi fu detto che sarebbe stato proposto anche il mio nome tra quelli che avrebbero dovuto prendere possesso del vertice del D.A.P. Il perché e il per come non lo so. Risposi che dopo dieci anni di assenza da Roma avrei accettato, fermo restando che a Trento e nel Trentino Alto Adige mi trovavo bene …”.
.
Nel corso di una audizione abbiamo appreso che il Presidente della Repubblica Scalfaro avrebbe personalmente coinvolto nella scelta del nuovo Direttore del D.A.P. mons. Cesare Curioni e don Fabio Fabbri, rispettivamente ispettore generale dei cappellani e suo segretario particolare, profondi conoscitori, per lunga esperienza, del mondo carcerario Monsignor Fabio Fabbri, audizione del 18.9.2012, XVI, Leg., fg. 6 e ss. : … chiedemmo questo incontro con Scalfaro, una volta eletto Presidente, perché ci trovammo nelle difficoltà dell’alloggio … (Scalfaro ) ci fece capire che approfittava dell’occasione di avere davanti monsignor Curioni e me per tirare fuori il suo pensiero … ci disse subito che bisognava sostituire, che era finita l’era di Nicolò Amato … disse ‘vede monsignore lei adesso si metta a disposizione del Ministro della Giustizia e trovi il nome giusto per la sostituzione di Nicolò Amato’ …”.
.
Sarebbero stati loro a proporre al Ministro Conso il nome di Capriotti, persona che entrambi consideravano idonea, devota e disponibile. Infatti egli accettò subito il vice direttore, che gli fu suggerito, nella persona del dr. Francesco Di Maggio dr. Andrea Calabria, audizione del 28.6.2011, XVI Leg., fg. 17: dal punto di vista penitenziario non aveva esperienze particolari. Tutti noi operatori, pertanto, ci chiedemmo cosa fosse venuta a fare una persona così in un ruolo tanto rilevante e che soprattutto richiedeva un’esperienza molto vasta per gestire una situazione del genere. Per questo si era creato da subito un preconcetto ...”.
, rinunziando alla prerogativa che gli era riconosciuta dalla legge sull'Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria, secondo la quale il vice direttore è nominato dal ministro su proposta del direttore generale.
Il dr. Capriotti, dr. Adalberto Capriotti, ibidem fg.14: …”trovai insediato lì il dottor Di Maggio, che era anche lui di nuova nomina…i miei rapporti con lui non erano molto affettuosi o correlativi, perché, fermo restando che era un lavoratore, aveva un carattere particolarmente difficile…”. invece, non fu interpellato e, a quanto pare, fin dall’insediamento fu scavalcato dal suo vice che assumeva decisioni autonome e interloquiva direttamente con il Ministro di grazia e giustizia.
Va anche rammentato che il dr. Di Maggio, all’epoca rappresentante del Governo presso la sede ONU di Vienna, non aveva neppure il grado per rivestire l'incarico di vice direttore del DAP essendo “magistrato di tribunale” e non “magistrato di cassazione”, come richiesto per legge. L'ostacolo fu superato col decreto del 23.6.1993 del Presidente della Repubblica che lo nominava dirigente presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, mettendolo in grado di essere successivamente nominato vicedirettore del D.A.P.
arch. Comm., doc. 626.1, (lib.), p. 70.
. Ma simili procedure non sono comunque rare nella pubblica amministrazione.
Secondo una memoria consegnata alla Commissione dal fratello Tito, l'idea di portare il dr. Di Maggio al D.A.P. fu ventilata, per primo dal dr. Giovanni Falcone.
Risulta, comunque, agli atti che il dr. Di Maggio era un magistrato di grande valore che si era distinto, presso la Procura di Milano, sul terreno del contrasto alla mafia e alla criminalità organizzata.
Non a caso nel 1989 fu chiamato all'ufficio dell'Alto Commissario per il Coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa e qui ebbe modo di stabilire e coltivare rapporti con esponenti dei servizi di informazione, delle forze dell'ordine, dei ministeri dell'Interno e della Giustizia.
Il suo autista e capo scorta al D.A.P., agente Nicola Cristella, ha reso testimonianza di abituali incontri del dr. Di Maggio con il magg. Umberto Bonaventura del SISDE, con il col. Mario Mori del R.O.S. e con il col. Enrico Ragosa della Polizia Penitenziaria verbale di sommarie informazioni testimoniali rese da Nicola Cristella all’A.G. di Firenze il 13.5.2003, archivio comm., XVI Leg., doc. (lib.) 547.1, nonché con il dr. Giuseppe La Greca e con le dr.sse Di Paola e Ferraro del Ministero di Grazia e Giustizia. Ben noto, infine, era il suo legame con l’allora Capo della Polizia dr. Vincenzo Parisi.
Le relazioni istituzionali e professionali che ho fin qui evocato torneranno nelle prossime pagine alla nostra attenzione.

La strategia stragista di "cosa nostra".
Il 15 gennaio 1993 Salvatore Riina veniva catturato nell’ambito di una operazione condotta dai CC. del R.O.S. Lo sostituivano nella reggenza di "cosa nostra" il cognato Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, rappresentante del mandamento di “San Giuseppe Jato” ed i fratelli Graviano della “famiglia mafiosa” di Brancaccio (Pa), tutti fautori della linea della continuità stragista.
Bernardo Provenzano, uomo di maggiore spicco dopo Riina, sarebbe stato invece contrario agli atti terroristici e, seppur in minoranza, sarebbe riuscito ad ottenere che le stragi proseguissero solo sul territorio continentale.
Questa strategia aveva avuto un verosimile preannunzio con il collocamento di un proiettile di artiglieria nel giardino di Boboli a Firenze nell’ottobre 1992.
L’idea dell’azione criminosa era nata nel contesto dei colloqui tra Antonino Gioè, mafioso della famiglia di Altofonte e Paolo Bellini, trafficante di opere d’arte, ed era stata eseguita da Santi Mazzei, delinquente storico della malavita catanese che, nella seconda metà del 1992, si era avvicinato a Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Salvatore Riina.
L’ordigno sarebbe dovuto servire a lanciare un messaggio che in realtà non fu percepito per il semplice fatto che la notizia non ebbe alcuna risonanza.
A metà febbraio del 1993 il Ministro di Grazia e Giustizia, on. Claudio Martelli, che, come abbiamo visto, dopo la strage di via D’Amelio aveva riaperto i penitenziari di Pianosa e l’Asinara ed applicato massicciamente il 41 bis, si dimetteva dall'incarico perché coinvolto nell’indagine “mani pulite” pendente presso l’Autorità Giudiziaria di Milano ed, in particolare, nello scandalo del “conto protezione”.
Veniva sostituito dal prof. Conso che si insediava il 12 febbraio 1993.
Dal momento delle dimissioni dell’on. Martelli, si verifica un lento, continuo ridimensionamento del regime di cui all’art. 41 bis, la cui norma applicativa aveva suscitato, come ho già detto, forti discussioni perché ritenuta ai limiti della costituzionalità, giustizialista e causa di turbamento della vita carceraria.
A dir il vero le prime applicazioni del 41 bis, anche sotto la spinta emotiva degli attentati del maggio/luglio 1992, erano state piuttosto “spavalde” al punto che i provvedimenti, emessi sulla base di elenchi e con motivazioni sommarie avevano coinvolto anche soggetti del tutto estranei alla criminalità mafiosa.
Infatti, la giurisprudenza successiva aveva giustamente preteso provvedimenti ad personam e congruamente motivati.
Tuttavia la mancata proroga di numerosi provvedimenti applicativi del 41 bis, benchè in molti casi giustificata, sembrava indebolire, a pochi mesi di distanza dalla stragi di Capaci, uno strumento di sicura efficacia nel contrasto alla mafia.
Il 6 marzo 1993, come ho già ricordato, il dr. Niccolò Amato, direttore del D.A.P., indirizzava al Ministro Conso una lunga nota nella quale, nell’ambito di una più generale proposta sulla distribuzione del personale, affrontava, con una posizione di dissenso contenuto, il tema dei decreti emanati ex art. 41 bis O.P. nota D.A.P. del 6.3.93, arch. Comm., XVI Leg., doc. (lib.) 481.1, XVI Leg., fg. 59. “… appare dunque giusto ed opportuno rinunciare ora all’uso di questi decreti …”.
; e precisava che durante la riunione del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica (CNOSP) del 12 febbraio 1993, il capo della Polizia e il Ministero dell’Interno avevano espresso riserve sulla durezza del regime del 41 bis ed avevano insistito per la revoca dei decreti applicati in maniera troppo approssimativa agli istituti di Poggioreale e Secondigliano ibidem, fg. 60.
.
La dialettica sul “carcere duro” e sulle eventuali alternative a questo sistema era ovviamente interna alle Istituzioni, ma i vertici di "cosa nostra" ne avevano probabilmente notizia,e la interpretavano come un segno di cedimento dello Stato. dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi rese all’A.G. di Caltanissetta in data 23 aprile 1998.

Il 17 marzo del 1993 alcuni sedicenti familiari di detenuti di "cosa nostra" ristretti nelle carceri di Pianosa e dell’Asinara, indirizzavano una nota minacciosa sul 41 bis al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e, per conoscenza, al Papa, al Vescovo di Firenze, al Cardinale di Palermo, al Presidente del Consiglio Prof. Giuliano Amato, audizione del 10.9.2012, XVI Leg., fg. 6: “ Non so se mai sia arrivata sul mio tavolo di Presidente del Consiglio la lettera dei familiari o di presunti tali. A Palazzo Chigi sono arrivate sempre decine di lettere aventi gli indirizzari più stravaganti. Quanto più è stravagante la somma dei destinatari, quanto più è improbabile che quella lettera venga portata direttamente all’attenzione del Presidente del Consiglio e si ferma negli uffici. Una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, per conoscenza al Papa e a un paio di Ministri, ai quali segue il Presidente del Consiglio, e - a seguire - Maurizio Costanzo e Vittorio Sgarbi, forse si è fermata in qualche ufficio e probabilmente ha valutato bene il suo addetto che se l’è tenuta. Non lo so. Si potrebbe chiedere al segretario generale del tempo, Fernanda Contri, se l’ha vista. Io l’ho vista successivamente. Mi ha colpito in quanto la seconda pagina conteneva la scritta ‘il dittatore Amato’ con la lettera maiuscola, ma si riferiva a Nicolò Amato,, e non a me, per il trattamento riservato nelle carceri dall’articolo 41-bis. …”. ai Ministri dell’Interno e della Giustizia, al Consiglio Superiore della Magistratura, al Giornale di Sicilia, al presentatore televisivo Maurizio Costanzo ed all’on. Sgarbi
dr. Sebastiano Ardita (vice direttore del D.A.P. dal 2002 al marzo 2012), audizione del 15.5. 2012, XVI Leg., fg. 18: “… quello che chiedo è come sia possibile che quel documento non sia stato oggetto di valutazione in quel momento ... quel documento aveva qualcosa di anomalo che andava verificato e su cui andava fatto un ragionamento, anche perchè conteneva una minaccia grave al Capo dello Stato ... ”. .
L'incerta identità dei sottoscrittori e lo stravagante assortimento dei destinatari non conferivano particolare attendibilità alla lettera. Tuttavia, come in un romanzo giallo, vi è chi ha visto proprio nell'elenco dei destinatari una esplicita allusione ad alcuni dei futuri obiettivi delle stragi continentali: il giornalista Maurizio Costanzo, San Giovanni in Laterano e il Velabro a Roma, gli Uffizi a Firenze.
In ogni caso, il passaggio di "cosa nostra" ad una nuova linea stragista di tipo terroristico era ormai in atto: essa prendeva di mira il patrimonio artistico dello Stato e verosimilmente metteva in conto il coinvolgimento di vittime innocenti.
Dell'attenzione criminale al patrimonio artistico vi è traccia anche nel contesto di un'altra generica trattativa sull'asse Bellini-Gioè-Brusca-Riina, nel corso della quale Bellini avrebbe, tra l'altro, detto testualmente. "... ucciso un giudice questi viene sostituito, ucciso un poliziotto avviene la stessa cosa, ma distrutta la Torre di Pisa viene distrutta una cosa insostituibile con incalcolabili danni per lo Stato".
L'evoluzione della strategia di "cosa nostra" viene delineata in un passo delle dichiarazioni rese al P.M. di Palermo il 9.11.93 dal collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi, braccio destro di Salvatore Riina : “… Quando, nel gennaio del 1992, la Cassazione... confermò le condanne, il Riina impazzì. L’omicidio dell’on. Lima fu la prima conseguenza. Successivamente il Riina, mirando ad una revisione del processo, cominciò a tentare di screditare i pentiti ... in quanto era convinto che screditando i pentiti sarebbe stato possibile una revisione del processo ... Successivamente all’arresto del Riina anche Provenzano Bernardo si dimostrò assolutamente consenziente a questa strategia ... gli stessi dicevano, come ho detto, di voler ‘fare di tutto’ per raggiungere i suddetti risultati ... non ho mai sentito affrontare in termini specifici il problema, ed in particolare in che modo si dovessero ottenere quei risultati. Intendo dire che si sarebbe potuta adottare una strategia ‘morbida’ per ottenere l’abrogazione della legge sui pentiti e dell’art. 41 bis, a tal fine contattando referenti di "cosa nostra" in varie sedi; si poteva invece adottare una strategia più dura ....
Con le stragi continentali si sceglie dunque la "strategia più dura" per costringere lo Stato a scendere a patti.

L'attentato di via Fauro.
La nuova stagione stragista, una vicenda senza precedenti con ben sette attentati in undici mesi, iniziava alle 21,40 del 14 maggio 1993, quando un ordigno esplosivo deflagrava all’incrocio tra via Ruggero Fauro e via Boccioni, in Roma, qualche istante dopo il passaggio dell’autovettura del noto presentatore televisivo Maurizio Costanzo che, per fortuna, rimaneva illeso. L’esplosione causava il ferimento di 24 persone nonché il danneggiamento di numerosi veicoli e delle strutture murarie degli edifici adiacenti.
Maurizio Costanzo era un nemico da eliminare per le sue trasmissioni antimafia, ma l’attentato, verosimilmente, costituiva anche un banco di prova per le stragi successive.
Il giorno dopo, 15 maggio, venivano revocati i provvedimenti di applicazione del 41 bis, primo comma, in alcuni istituti di pena, così come aveva suggerito il dr. Amato nel documento del marzo 1993. dr. Edoardo Fazzioli, audizione del 28.6.2011, XVI Leg., fg. 6 e 11: “… ho preso atto, perché ancora non me ne ricordo, di avere ricevuto una delega dal ministro Martelli … nel mio periodo al D.A.P. vi furono soltanto 121 revoche che non riguardavano mafiosi ma detenuti comuni che non potevano stare per legge nel 41 bis …”. Tra i due fatti non vi è alcuna relazione perché questi provvedimenti erano stati istruiti e deliberati prima dell'attentato a Costanzo.
In ogni caso, da allora in poi, nel giro di un anno, il 41 bis negli istituti penitenziari italiani si sarebbe ridotto di circa il 50%.

La strage di via dei Georgofili.
Alle ore 1,00 circa del 27 maggio 1993 un ordigno esplodeva in via dei Georgofili, angolo via Lambertesca, in Firenze, provocando la morte del vigile urbano Fabrizio Nencioni, della moglie Angela, delle figlie Nadia di nove anni e Caterina di sei mesi, dello studente universitario Dario Capolicchio e il ferimento di 37 persone. L'esplosione, inoltre, provocava il crollo di un’ala della Torre del Pulci (sede dell’Accademia dei Georgofili) e altri danni a palazzi storici vicini; alla Galleria degli Uffizi tre dipinti erano perduti per sempre, 173 restavano danneggiati insieme a 42 busti e 16 statue.
Si osservi che il 20 luglio del 1993, quindi due mesi dopo, sarebbero scaduti i provvedimenti di 41 bis emessi un anno prima dal ministro Martelli.
Dunque la strage potrebbe essere letta, secondo una nota espressione di Riina riferita da Brusca, come … un colpettino … per stuzzicare la controparte … cioè, come un messaggio diretto a caldeggiare una richiesta, ovvero a ravvivare una qualche trattativa in corso.
A un mese dalla strage e ad appena ventidue giorni dal suo insediamento, il nuovo direttore del DAP dr. Capriotti, in data 26.6.1993 indirizza al Ministro della giustizia una memoria con la quale, nel proporre, tra l’altro, un “allentamento” del regime del 41bis, afferma che tali misure “costituiscono sicuramente un segnale positivo di distensione nota D.A.P. del 26.3.93, arch. Comm., XVI Leg., doc. (lib.) n. 526.1.
.
Non una revoca, tout court, ma una revoca “indolore” dei 373 provvedimenti in scadenza a novembre, partendo dal presupposto che questi, emessi a suo tempo “… su delega dell’on. ministro …,” attingevano soggetti di … media pericolosità … che … non hanno rivestito posizioni di particolare rilievo. In realtà riguardavano anche tre membri della Commissione provinciale di "cosa nostra" ed alcuni esponenti della mafia catanese e della camorra.
Il documento prevedeva, altresì, un taglio del 10% dei decreti di sottoposizione firmati dal ministro Martelli e la proroga, invece, di quelli che scadevano a luglio.
La nota del dr. Capriotti non lasciava neppure intravedere i possibili destinatari del segnale di distensione. Si riferiva alla popolazione carceraria in genere o agli ispiratori e agli artefici dell'offensiva mafiosa in atto?
Il 22 luglio 1993 Salvatore Cancemi, componente della Commissione provinciale di "cosa nostra" di Palermo e braccio destro di Salvatore Riina, si costituiva ai CC. dei R.O.S. manifestando subito la volontà di collaborare con la giustizia. Stranamente, invece di essere affidato al Servizio Centrale di Protezione, Cancemi, rimaneva in detenzione extracarceraria presso la sede romana del R.O.S. di Subranni gen. Antonio Subranni, ibidem, fg. 24: “… Cancemi è stato un confidente (…) collaborante e ha fornito quello che ha fornito. È rimasto a disposizione del ROS parecchio tempo …” (n.d.r.: per un errore di trascrizione la parola “confidente” non compare nel resoconto stenografico ma è ben audibile nel file audio). Secondo, inoltre, le dichiarazioni rese all’A.G. di Caltanissetta il 18.8. 2009 da Agnese Piraino Leto il di lei marito, Paolo Borsellino, gli avrebbe confidato che il Subranni era un uomo “vicino” alle cosche mafiose.
. Egli era ovviamente una miniera di possibili informazioni sulle strategie di "cosa nostra" e sui reali obiettivi dello stragismo. E' logico domandarsi perché abbia iniziato la sua esperienza di confidente con i carabinieri del R.O.S., prima ancora che ne venisse a conoscenza l’Autorità Giudiziaria.
Vale la pena sottolineare che in quel momento il col. Mori, già interlocutore di Ciancimino, diventava anche terminale delle dichiarazioni di Cancemi, altra voce autorevole di "cosa nostra".
Il 27 luglio 1993, alle ore 10,00 il col. Mori incontrava il dr. Di Maggio, per affrontare, stando alla sua stessa agenda, il problema dei detenuti mafiosi Agenda del 1993 del col. Mori, arch. Comm., doc. n. 547.3 (lib.), fg. 61. La triangolazione dei rapporti Mori-Ciancimino-Di Maggio emerge anche dalla circostanza che nell'agenda sequestrata al gen. Mori relativa all'anno 1993 ed acquisita agli atti della Commissione risultano i seguenti fatti di interesse: a) partecipazione dell'allora col. Mori agli interrogatori di Vito Ciancimino: 23.2.1993 - 26.2.1993 - 4.3.1993 - 17.3.1993 - 23.3.1993 - 31.3.1993 - 17.4.1993 - 22.7. 1993; b) - Incontri del col. Mori con l’avv. Ghiron (legale di Vito Ciancimino): 30.3.1993 - 18.5.1993 -15.6.1993 - 13.7.1993 e 29.10.1993.: "prob. det. maf." è l'esatta annotazione.
Si può ipotizzare che i R.O.S. stessero cercando contatti con gli addetti ai lavori sul destino dei decreti di 41bis in scadenza.
Ma, intanto, i provvedimenti emessi un anno prima erano già stati prorogati e notificati ai detenuti tra il 20 ed il 27 luglio 1993. Erano proroghe pesanti e colpivano un lungo elenco di detenuti che avevano fatto la storia di "cosa nostra". Tra questi: Gerlando Alberti, (“uomo d’onore” della famiglia di Porta Nuova Palermo); Salvatore Greco, (“uomo d’onore” della famiglia di Ciaculli); Luciano Leggio, (“uomo d’onore” della famiglia mafiosa di Corleone); Francesco Madonia, (patriarca e capo mandamento di Resuttana); Antonino Vernengo, Giuseppe Vernengo, Pietro Vernengo e Nicola Di Salvo, (“uomini d’onore” della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù); Bernardo Brusca, (patriarca del “mandamento” di San Giuseppe Iato); Antonino Marchese, (“uomo d’onore” e killer della “famiglia mafiosa” di Corso dei Mille); Giuseppe Lucchese, (“uomo d’onore” della “famiglia mafiosa” di Brancaccio); Francesco Spadaro, (“uomo d’onore” della “famiglia mafiosa” della Kalsa-Palermo); Ignazio Pullarà, (reggente della “famiglia mafiosa” di Santa Maria del Gesù); Pietro Ribisi, (“uomo d’onore” della “famiglia mafiosa” di Palma di Montechiaro); Giuseppe Fidanzati, (“uomo d’onore” della “famiglia mafiosa” dell’Arenella); Antonino Madonia e Giuseppe Madonia, (“uomini d’onore” della “famiglia mafiosa” di Resuttana); Giuseppe Calò, (“uomo d’onore” della “famiglia mafiosa” di Porta Nuova); Tommaso Spadaro, (capo mafia del quartiere Kalsa-Palermo); Vincenzo Spadaro, (“uomo d’onore del quatiere Kalsa-Palermo); Mariano Agate, (capo mafia di Mazara del Vallo); Giacomo Giuseppe Gambino, (uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo-Palermo); Giuseppe Savoca, (“uomo d’onore” del quatiere Kalsa-Palermo); Salvatore Montalto, (boss della famiglia di Villabate); Cosimo Vernengo, (“uomo d’onore della “famiglia mafiosa” di Santa Maria del Gesù); Vincenzo Sinagra, (“uomo d’onore” e killer della “famiglia mafiosa” di Corso dei Mille); Nunzio Spezia, (capo della “famiglia mafiosa” Campobello di Mazara); Fedele Battaglia (“uomo d’onore” della famiglia di “Brancaccio); Pietro Salerno, (“uomo d’onore” della famiglia di Brancaccio); Antonino Spadaro, (boss del quartiere Kalsa di Palermo); Antonino Melodia, (“uomo d’onore” della famiglia di Alcamo); Giuseppe Ocello, (capo mandamento di Misilmeri); Saverio Furnari e Vincenzo Furnari (“uomini d’onore” della “famiglia mafiosa” di Castelvetrano); Salvatore Madonia, (“uomo d’onore” della “famiglia mafiosa” di Resuttana); Michele Greco, (capo della Cupola nel 1979, uomo di paglia di Salvatore Riina appartenente alla “famiglia mafiosa” di Ciaculli). L’elenco dei nomi è ancora molto lungo.




A due mesi di distanza della strage dei Georgofili, quelle proroghe del carcere duro sembravano una controffensiva dello Stato.
La replica di "cosa nostra" fu violenta e parve anche immediata.

Le stragi del luglio del 1993
La sera del 27 luglio 1993, infatti, alle ore 23,14, una grande esplosione in via Palestro, a Milano, uccideva i vigili del fuoco Alessandro Ferrari, Carlo La Catena e Sergio Pasotto, il vigile urbano Stefano Picerno, l’extracomunitario Moussafir Driss e feriva dodici altre persone, provocando anche ingenti danni al padiglione di arte contemporanea, ad automezzi ed edifici circostanti;.
Dopo 43 minuti, alle ore 23,58 un altro ordigno esplodeva nella piazza San Giovanni in Laterano, a Roma, causando danni alle strutture murarie della Basilica e del Palazzo Lateranense, nonché ai veicoli in sosta o in transito nelle vicinanze.
Ed, infine, quattro minuti più tardi, esplodeva un altro ordigno all’esterno della chiesa di San Giorgio al Velabro in Roma, recando danni alle strutture murarie, agli edifici limitrofi ed ai veicoli in sosta o in transito.
Le tre stragi, avvenute in due località molto distanti tra loro, nell’arco di 48 minuti, non lasciavano dubbi sull’identica matrice. Il giorno dopo, caso unico nella storia degli attentati mafiosi, gli autori le rivendicavano con due lettere anonime alle redazioni dei quotidiani “Il Messaggero” ed “Il Corriere della Sera”; ed alzavano anche il tiro minacciando un atto ancora più sanguinario, rivolto alla soppressione di centinaia di persone
Il contenuto dell’anonimo era il seguente: “Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe, informiamo la Nazione che le prossime a venire andranno collocate soltanto di giorno ed in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. P.S. Garantiamo che saranno centinaia”. Sentenza della Corte di Assise di Firenze del 6 giugno 1998, fg. 171 e ss.
.
Sembra impossibile che "cosa nostra", avendo saputo dei provvedimenti notificati tra il 20 e il 27 luglio, sia riuscita a vendicarsi quasi in contemporanea con un piano criminoso così articolato e puntuale. E' dunque probabile che queste stragi siano state programmate o organizzate ben prima del 26-27 luglio.
Tuttavia apparvero a taluni come una terribile ritorsione o per una promessa non mantenuta o, più probabilmente, per un’aspettativa delusa.
Mi riferisco innanzitutto alla relazione in data 6 agosto 1993 (allegata al verbale del CNOSP del 10 agosto 1993) nella quale il “Gruppo di lavoro interforze” costituito presso il Segretariato Generale del CESIS riferiva che “… contrariamente alla previsione largamente diffusa nell’ambiente penitenziario … il 16 luglio 1993 il Ministro di Grazia e Giustizia, su proposta del D.A.P., ha proceduto alla proroga per ulteriori sei mesi …” dei provvedimenti di sottoposizione al regime differenziato archivio Comm., doc. (lib.) 486/2, fg. 449.
.
Questi provvedimenti, “inaspettatamente” notificati tra il 20 ed il 27 luglio, avevano dunque deluso il popolo carcerario e gli ambienti più direttamente interessati, presso i quali, invece, aleggiava la convinzione che “non sarebbero stati rinnovati alla scadenza … Ibidem, fg. 449.
.
Aggiungo che alla predetta relazione è allegato uno scritto anonimo pervenuto alla D.I.A. a fine luglio 1993, in cui si faceva espresso riferimento all’“… attesa di contatti su iniziativa dei servizi segreti per poi trattare …”. ibidem, fg. 455.

Gli argomenti dell’anonimo echeggiano taluni atteggiamenti del Capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi, contrario, secondo alcuni, al regime del 41 bis verbale di dichiarazioni rese il 14.12.2010 dal dr. Adalberto Capriotti alla Procura della Repubblica di Palermo “… mi risulta che Parisi evidenziò anche nel periodo di Amato la sua contrarietà al regime del 41 bis, ma non ho mai letto, né saputo niente di preciso …”.
per i suoi riflessi negativi sulla vita carceraria archivio Comm., doc. (lib.) 486/2, fg. 426: “… gli insuccessi nel campo dell’ordine pubblico - e tale è il carcerario - possono vanificare quanto si consegue ai fini della tutela e della sicurezza pubblica …”.
. In realtà quelle del dr. Parisi erano osservazioni e perplessità motivate, come attestano altre dichiarazioni e altri documenti. Per esempio, secondo il verbale del CNOSP del 10 agosto 1993, egli riconobbe che "... ciò che ha maggiormente infastidito la criminalità organizzata sarebbe stato proprio la collaborazione dei detenuti e il regime carcerario del 41 bis".
Vi è un’altra nota della D.I.A., sempre del 10 agosto 1993, trasmessa dal Ministro dell’interno, on. Nicola Mancino, al Presidente della Commissione Antimafia, on. Luciano Violante, che richiama espressamente la responsabilità di "cosa nostra" e chiarisce come le restrizioni imposte alla vita carceraria avessero indotto i capi a compiere gli attentati con lo scopo di indurre lo Stato ad una tacita trattativa archivio Commissione, XI Leg., doc. (lib.) n. 1631, fg. 12: “… era derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa …”.
.
Analogo riferimento a "cosa nostra" vi è nell’appunto dell’8.9.93, inviato dallo SCO alla Commissione Parlamentare Antimafia, nel quale si afferma in base a “notizie fiduciarie” che “... l’obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere ad una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l’ organizzazione: il carcerario ed il pentitismo .... archivio Comm., XI Leg., doc. (lib.) n. 1632, fg. 2 e 3. Nel loro insieme questi documenti, talvolta incerti e di provenienza anonima, trasmettono la convinzione che nell’agosto del 1993 fossero noti, sia il movente e gli esecutori delle stragi, sia le aspettative di "cosa nostra" in ordine alle cosiddette “trattative”.
Anche la minaccia di una nuova strage con “centinaia di morti” contenuta nella nota rivendicazione del 28 luglio poteva aver di mira il novembre successivo, quando sarebbe scaduto il blocco dei 373 provvedimenti di applicazione del 41bis che il dr. Capriotti aveva raccomandato “ … di non rinnovare alla scadenza ...”.
Un mese prima, esattamente il 22 ottobre 1993, il col. Mori incontrava ancora una volta il dr. Di Maggio, come risulta da una annotazione nella sua agenda
ibidem, arch. Comm., XVI Leg., doc. n. 547.3 (lib.), fg. 86.
.
Non sappiamo nulla di preciso sui contenuti del colloquio, ma è ipotizzabile che abbia riguardato il 41bis ed è altamente probabile che Di Maggio abbia ribadito la sua posizione a favore del c.d “carcere duro” per i mafiosi v. arch. Comm. XVI Leg., doc. n. 840.2 (lib.) (verbale di riunione del CNOPS del 10.8.1993) dove il Di Maggio chiede al Governo di mantenere inalterato il regime di cui all'art. 41 bis.
.
Tuttavia, ma non sappiamo come e da chi, egli subì delle pressioni per ritardare o revocare l’applicazione del 41bis.
Se ne sarebbe, infatti, lamentato col suo capo scorta Nicola Cristella, dicendo che non potevano costringere un figlio di un carabiniere a scendere a patti con i mafiosi”. dr. Nino Di Matteo, ibidem, fg. 20: “… uno dei responsabili della sicurezza del dr. Di Maggio ha riferito di avere personalmente constatato in più occasioni, in un certo periodo, il turbamento del dr. Di Maggio a fronte delle richieste o pressioni per non applicare o ritardare l’ applicazione del 41 bis bis nei confronti di detenuti di mafia …”.
Secondo lo stesso Cristella, testimone piuttosto incerto e contraddittorio, tra coloro che premevano vie era anche l'on. Mannino.
Le revoche, comunque, arrivarono.
Infatti i provvedimenti che scadevano nel novembre del 1993 non furono rinnovati. E ciò nonostante il parere contrario della Procura di Palermo, che fu chiamata a pronunciarsi via fax, di sabato, ad appena 48 ore dalla scadenza. arch. Comm., XVI Leg., doc. (lib.) 526/2.

Occorre precisare che alcuni dei provvedimenti in questione riguardavano anche i boss mafiosi Francesco Madonia, capo mandamento del rione Resuttana di Palermo, Francesco Spadaro, boss della Kalsa di Palermo, Giuseppe Farinella, capo mandamento delle Madonie, Giuseppe Giuliano della “famiglia” del rione Brancaccio di Palermo, Antonino Geraci, capo mandamento di Partinico, Raffaele Spina e Raffaele Ganci , succedutisi uno all’ altro come capi mandamento del rione Noce di Palermo, Giuseppe Fidanzati, fratello di Gaetano Fidanzati, capo “famiglia” del rione Arenella di Palermo ed Andrea Di Carlo.
Mancavano nomi eclatanti, ma se si voleva dare un segnale di distensione alla popolazione carceraria e a "cosa nostra", è certo che sarebbe arrivato.

Le dichiarazioni del prof. Giovanni Conso
Nel complesso della vicenda hanno assunto particolare rilievo le dichiarazioni rese alla nostra Commissione dal Ministro prof. Giovanni Conso, il quale, per la verità, tenne subito a precisare che la sua memoria era quella “di un uomo di novanta anni a venti anni dai fatti evocati”.
È stato lo stesso ministro Conso a dichiarare che la mancata proroga dei provvedimenti di 41 bis in scadenza a novembre mirava a frenare la minaccia di altre stragi prof. Giovanni Conso, audizione dell’11.11.2010, fg. 6: “… in base alla normativa vigente, debbo sottolineare come la proroga non fosse necessaria: non era prevista come un obbligo, era nei poteri del Ministro, tant’è vero che non c’era richiesta da parte del pubblico ministero … nel caso nostro era un’altra la ragione che ha indotto ad non usare il potere di reiterazione … nel momento in cui si poteva replicare o no l’esercizio di questo potere di reiterazione è stato da me deciso di non farlo, e me ne assumo tutte le responsabilità, in un’ ottica, diciamo così, non di pacificazione (con certa gente, con certe forze, non si può neanche iniziare un discorso in questi termini), ma di vedere di frenare la minaccia di altre stragi …”.
, anche perché "cosa nostra" era passata, dalla gestione terroristica, a quella dialogante di Bernardo Provenzano prof. Giovanni Conso, ibidem, fg. 9: “… allora si è potuto constatare, anche in base ai fatti avvenuti in contemporanea o a monte, e sono stati molto importanti, che l’arresto del Riina, che era il capo indiscusso, ebbe un ruolo determinante nel cambiare la strategia della stessa mafia. Essendo il capo entrato in carcere, fortunatamente, subentra questo vice che aveva un’altra visione: era sempre mafioso però puntava sull’aspetto economico …”.
.
Ma, in realtà nel 1993 non si aveva alcuna notizia certa su questo dualismo strategico. I servizi segreti però potevano esserne informati e quindi anche il Governo.
Il prof. Conso ha anche dichiarato di aver preso la sua decisione in “totale solitudine”. Questa affermazione è in contrasto con la nota della direzione del D.A.P. del 2.5.1994 arc. Comm., XII Leg., doc. (lib.) n. 57.5.
e con le successive dichiarazioni del dr. Capriotti in data 28 ottobre 1994, dr. Adalberto Capriotti, ibidem, XII Leg., fg. 6: “… su queste segnalazioni compiamo sempre e necessariamente un’istruttoria, nel senso che, se la segnalazione proviene da una certa parte, chiediamo a tutti gli altri organi interessati … con questo metodo le segnalazioni vengono sottoposte a controlli incrociati e, in base a questi, tiriamo le somme e decidiamo se rinnovare o applicare ex novo …”.
secondo le quali tale decisione doveva necessariamente basarsi sulle apposite istruttorie degli uffici competenti.
Per la verità, nonostante le richieste e le ricerche effettuate presso il DAP dai collaboratori di questa Commissione, all’uopo delegati, non si è trovata alcuna traccia dell’istruttoria.
Si tenga conto a questo proposito che nel novembre 1993 non si sarebbero più potuti adottare, come nel passato, provvedimenti standardizzati in quanto la nuova giurisprudenza imponeva l'adozione di provvedimenti motivati ad personam.
Si consideri, infine, che le previste informazioni delle forze di polizia furono richieste con tale ritardo da rendere assai problematica la loro tempestiva compilazione e trasmissione.
Tutto ciò autorizza, da un lato, ad ipotizzare che la documentazione relativa ai provvedimenti del novembre 1993 non fu mai sottoposta al Ministro, e dall’altro a ritenere che il prof. Conso o sbagliava o ricordava male allorquando sosteneva di avere assunto in prima persona la decisione.
A ciò deve aggiungersi che non era mai stata revocata la delega rilasciata il 15 settembre 1992 dal ministro Martelli alla direzione del DAP per la gestione autonoma del 41bis.
Ed allora, essendo ben nota la rettitudine del Prof. Conso, se vi sono anomalie nei fatti che portarono al mancato rinnovo dei provvedimenti nel novembre 1993, gli stessi andrebbero ricercati, non tanto nell’azione del Ministro, quanto piuttosto nella condotta degli intermediari istituzionali tutti ascoltati in merito da questa Commissione.
Lo stesso Ministro Conso, sentito dalla Corte di Assise di Firenze nel procedimento Tagliavia, è sembrato avallare questa deduzione. verbale dibattimentale della Corte di assise di Firenze del 15 marzo 2011, p. 165 e 168: “… concordo sul fatto che ci sono state delle intese (?) ... a me non risulta assolutamente nulla … però non posso escludere che tra due funzionari ci può essere stato una sera a cena un’intesa, per dire ‘facciamo un ponte’. Io questo non lo posso escludere, assolutamente …”.

In definitiva, la cosiddetta trattativa o i taciti accordi avrebbero prodotto i loro effetti tra il 29 luglio, giorno successivo all’ultima strage, ed il novembre 1993, giorno della mancata proroga dei provvedimenti di 41 bis. In quel lasso di tempo non vi furono ulteriori esplosioni di violenza. Ma "cosa nostra", che probabilmente seguiva la politica del “doppio binario”, alternando trattative e attentati, aveva già programmato la più grande delle stragi, quella che fortunatamente fallì allo stadio Olimpico di Roma.
Occorre precisare che, 52 dei 334 decreti “delegati” non rinnovati alle rispettive scadenze, sono stati successivamente ripristinati.
E occorre aggiungere che il mancato rinnovo di numerosi decreti fu determinato, essenzialmente, dalla accertata inesistenza delle condizioni individuali previste dalla legge per il mantenimento del "carcere duro". Dopo le prime, sommarie applicazioni, era infatti intervenuta una giurisprudenza più severa e restrittiva.
Per queste ed altre ragioni la gestione del 41bis tra il 1993 ed il 1994 ebbe un andamento piuttosto complicato; andamento che i collaboratori e gli uffici della nostra commissione hanno ricostruito nei dettagli.
In linea generale possiamo concludere che tra rinnovi, mancati rinnovi e ripristini, la drastica riduzione di tutti i provvedimenti di 41bis nel sistema penitenziario italiano ha avuto un impatto meno allarmante di quello che, a prima vista, potrebbe apparire.


Mi limito ad osservare che dei 334 provvedimenti revocati dal Ministro Conso, tra i mesi del novembre 1993 ed il gennaio 1994, solo 23 erano riferibili a detenuti siciliani di accertato spessore criminale.

I Servizi di Informazione e i fatti del 1992-93
La presenza dei Servizi di informazione è stata avvertita ripetutamente in luoghi e momenti diversi delle vicende di cui ci occupiamo.
Perciò nella fase conclusiva dei nostri lavori ho chiesto agli Organismi informativi di fornirci la documentazione di cui dispongono in ordine ai grandi delitti e alle stragi di mafia del 1992-1993.
Nell'urgenza di corrispondere alla nostra richiesta in tempi molto stretti, a causa dell'approssimarsi della fine della legislatura, il DIS ci ha trasmesso copia del carteggio già consegnato all'Autorità Giudiziaria, dichiarandosi però disponibile a soddisfare, nei limiti delle sue possibilità, nostre ulteriori richieste.
In linea generale, questo carteggio appare piuttosto disomogeneo, sia per quanto concerne la tipologia dei documenti (lettere, note interne, appunti, informative, analisi, segnalazioni) sia per l'oggetto dei medesimi (le stragi di Capaci e Via D'Amelio, la ricerca di grandi latitanti di mafia, gli assetti delle grandi famiglie mafiose dopo la cattura di Riina, le minacce di possibili attentati, strutture societarie e singole persone di "interesse informativo", informazioni dettagliate sulla struttura dei due Servizi al tempo dei fatti, la Gladio in Sicilia, notizie su taluni movimenti di personale e sulle vicende di singoli appartenenti a SISMI e SISDE).
Complessivamente si tratta di 318 unità documentali, alcune delle quali corredate da allegati. In dettaglio, dal DIS (ex Cesis) sono stati messi a disposizione 42 documenti, 232 provengono dall'AISE (ex Sismi) e 44 dall'AISI (ex Sisde).



Le indagini delle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze
L'attività di inchiesta della Commissione si è svolta parallelamente alle indagini, tuttora in corso presso le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, che pur riguardando fatti diversi hanno operato in regime di collegamento investigativo e con il coordinamento della Procura Nazionale Antimafia.
I responsabili delle tre procure sono stati ascoltati in audizione dalla Commissione Antimafia, da ultimo nel mese di marzo 2012. Lunedì 12 Marzo 2012, Audizione del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, dottor Giuseppe Quattrocchi. Lunedì 19 marzo 2012, Audizione del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, dottor Francesco Messineo. Lunedì 26 Marzo 2012, Audizione del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta, dottor Sergio Lari.

La procura della Repubblica di Firenze indaga nei confronti di eventuali “mandanti esterni” alle stragi consumatesi in Roma, Milano e Firenze nel 1993 dr. Giuseppe Quattrocchi (procuratore della Repubblica di Firenze), XVI Leg., audizione del 12.3.2012, fg. 6: “… un’attività investigativa che si è sviluppata successivamente alla prima sentenza di Firenze si è conclusa con un atto di archiviazione …”.
, anche se è doveroso precisare che il termine giuridico più appropriato è quello di "concorrenti esterni nel reato" (di strage).
Su questo punto non è emerso nulla di preciso. Per scrupolo dobbiamo ricordare le archiviazioni disposte dal Gip di Firenze nel 1998 Cfr. Decreto di archiviazione n. 3197/96 R.G.N.R. N. 100848/97 R.G.I.P. del Tribunale di Firenze - Ufficio del giudice per le indagini preliminari. 14 novembre 1998. Doc. 195.3 XIV Leg..
e dal Gip di Caltanissetta nel 2002 Cfr. Decreto di archiviazione n. 1370/98 R.G.N.R. N. 908/99 R.G.I.P. del Tribunale di Caltanissetta - Ufficio del giudice per le indagini preliminari. 3 maggio 2022. Doc. 154.2 XIV Leg..
- su richiesta di quelle procure - dei procedimenti penali rispettivamente denominati "Autore 1 e Autore 2" e "alfa e beta".
In particolare il Gip di Firenze accoglieva la richiesta di archiviazione rilevando che le indagini svolte avevano consentito l'acquisizione di risultati significativi solo in ordine all'avere "cosa nostra" agito a seguito di input esterni, ma gli inquirenti non avevano trovato - nel termine massimo di durata delle indagini preliminari - la conferma delle chiamate de relato.
Mentre si chiudeva l'indagine della procura della Repubblica di Firenze, incominciava quella avviata dalla Procura di Caltanissetta, scaturita dagli interrogatori del collaboratore Salvatore Cancemi e che vedeva coinvolti i vertici del circuito societario Fininvest. In questo caso il Gip disponeva l'archiviazione avendo rilevato la friabilità del quadro indiziario.
Non si può quindi ipotizzare l'esistenza di "mandanti esterni", mentre è verosimile, come sostiene la Procura, quella di "input esterni" E dunque non si possono neppure escludere temporanee "convergenze d'interessi" tra settori deviati delle Istituzioni, mafia ed altri soggetti per commettere delitti, per l'appunto, di comune interesse.
Sotto il profilo delle acquisizioni processuali, l’Autorità Giudiziaria di Firenze, inoltre, ha concluso nel 2011, il procedimento di primo grado nei confronti di un altro “concorrente materialenelle stragi del 1993, Francesco Tagliavia, esponente della “famiglia mafiosa” di corso dei Mille, condannandolo alla pena dell’ergastolo.
Secondo la Corte d'Assise di Firenze può dirsi acclarato che vi furono contatti tra rappresentanti dello Stato e la mafia nel corso del '92. La profferta di un accordo sarebbe venuta da apparati delle istituzioni alla ricerca di un approccio con i vertici mafiosi. Certamente si aprì un canale di comunicazione tra le istituzioni e "cosa nostra"; e il fatto fu interpretato da quest'ultima come una opportunità e anche come un segnale di apprensione per la potenza militare dell'organizzazione. Il ricatto allo Stato e la trattativa, nella ricostruzione della Corte, si intersecano e si sostengono sul piano logico in un quadro di reciproca compatibilità. Vedi pagg. 466-467 della sentenza della Seconda Corte d'assise del Tribunale di Firenze del 5 ottobre 2011, Doc. (lib.) 546.6
La trattativa, iniziata dopo la strage di Capaci, si interruppe con l'attentato di via d'Amelio; e per stimolare la riapertura dei contatti e dare prova della sua determinazione, l'ala più oltranzista di cosa nostra riprese a far esplodere le bombe dal maggio 1993 Vedi pagine 511-513 della sentenza dianzi citata.
Sempre secondo la Corte d'Assise di Firenze, la lettura dei nomi e dei luoghi di nascita dei detenuti che beneficiarono delle revoche del 41bis rivela la loro appartenenza a varie organizzazioni criminali, non solo siciliane. Inoltre, negli elenchi non si rinviene alcun nominativo di prima grandezza o di quelli emersi in relazione ai processi per le stragi. La Corte, pur richiamando le altre chiavi interpretative delle determinazioni ministeriali (applicazione di principi umanitari e di regole costituzionali), considera sconcertante la tempistica e il parallelismo dei percorsi tra lo sviluppo della trattativa e quei provvedimenti ablatori del carcere duro che oggettivamente potevano apparire come sintomo di un cedimento alla mafia. Vedi pagg. 486-488 della sentenza citata
La Corte si chiede perchè la sequenza di attentati con finalità terroristica si interruppe, e si da alcune risposte: l'arresto di Giuseppe Graviano a fine gennaio 1994; il fallimento dell'attentato allo stadio Olimpico che avrebbe frenato il delirio di onnipotenza di "cosa nostra"; la preoccupazione per le crepe prodotte dai primi collaboratori di giustizia sul fronte del silenzio; ed infine, la prospettiva che un mutamento del quadro politico a seguito delle elezioni del '94, potesse consentire di riannodare intese e legami, ottenendo quello che con le stragi non si era riusciti a conseguire Vedi pagg. 514-515 della sentenza.
Sulla base delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza la procura di Firenze ha richiesto ed ottenuto l’arresto del pescatore Cosimo D’Amato, cugino del boss palermitano Cosimo Lo Nigro già condannato per le stragi mafiose del ‘92, che avrebbe fornito l’esplosivo, ricavato dal recupero in mare di residuati bellici, sia per la strage di Capaci, Roma, Firenze e Milano, sia per la mancata strage allo stadio Olimpico nel gennaio 1994.
La procura della Repubblica di Palermo indaga, invece, per il reato aggravato di violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario (artt. 338 e 339 C.P), prendendo in considerazione un'ipotesi di "trattativa" che si sarebbe protratta anche dopo la stagione delle stragi del 1992 e 1993.
Con questa imputazione è stato chiesto il rinvio a giudizio di Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Calogero Mannino e, post stragi, a Marcello Dell’Utri avviso conclusioni indagini, arch. Comm., XVI Leg., doc. (lib.) n. 790.1.
.
Massimo Ciancimino è stato imputato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Nessuna imputazione ovviamente è stata ascritta alle persone che sono decedute; e nessuno dei componenti del Governo, all’epoca dei fatti, è stato chiamato a rispondere del reato di cui agli artt. 338 e 339 C.P. anche perché in questa fattispecie essi assumono la qualità di destinatari delle minacce.
Gli ex Ministri Conso e Mancino, pur nella loro qualità di persone offese nel reato in questione, sono stati imputati di fattispecie minori quali la falsa testimonianza (372 C.P.) e le false informazioni al pubblico ministero (371 bis C.P.). Quest'ultimo reato, resta sospeso sino alla conclusione del procedimento principale.
Ovviamente non è possibile in questa sede prevedere l’esito finale di un eventuale dibattimento in quanto le fonti di prova orale saranno nuovamente riassunte nel contraddittorio delle parti e, quindi, anche con la partecipazione della difesa che è rimasta assente nella fase delle indagini preliminari Ciò potrebbe portare a una riprecisazione dei fatti oggetto della presente vicenda, con modifica delle imputazioni e assunzione della qualità di imputati da parte di altre persone allo stato ignote..
Un'altra indagine portata avanti alla procura di Palermo, riguarda l'individuazione dell'inizio della cosiddetta "trattativa" che potrebbe essere retrodatato al periodo immediatamente successivo all'omicidio dell'eurodeputato Salvo Lima, prima della strage di Capaci.
La stessa procura di Palermo ha preso in considerazione l'ipotesi che la trattativa sia andata ben oltre gli anni delle stragi 1992-93, per cui il "tempus commissi delicti" potrebbe anche essere dilatato sino al 1997, anno di chiusura delle carceri di Pianosa e dell'Asinara (Governo Prodi); e sino al 1999, anno della cancellazione dell'ergastolo con la richiesta da parte dell'imputato del rito abbreviato (Governo D'Alema); e sino al 2001, anno di modifica della legge sui collaboratori di giustizia, (Governo Amato): decisioni, tutte queste, riconducibili ai contenuti del "papello". Infine, sempre secondo la medesima ipotesi investigativa, il tempo di consumazione del reato potrebbe estendersi all'11 aprile 2006, giorno della cattura di Bernardo Provenzano (Governo Berlusconi).
Osservo che parlamenti e governi diversi, dunque, sarebbero stati attori più o meno consapevoli della trattativa nell'arco di quattordici anni.
La procura della Repubblica di Caltanissetta, a seguito delle recenti dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, ha riaperto le indagini sulla strage di via d’Amelio.
Sono stati così individuati altri responsabili del braccio armato mafioso e la strage è stata collegata alla c.d. “trattativa” tra settori dello Stato e mafia. E ciò sulla base della collaborazione avviata dr. Domenico Gozzo, ibidem, fg. 25: “… è per questo motivo che noi abbiamo affermato che Borsellino viene ucciso proprio nel luglio 1992 - qui si inserisce la tempistica della strage - perché percepito come ostacolo e, dunque, per riprendere una trattativa che, secondo Riina, aveva trovato non la sua fine, ma comunque delle difficoltà …. nel giugno del 2008, da Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia di Giuseppe Graviano, condannato per numerosissimi delitti, nonchè per le stragi del 1993.
Questi, nell'ammettere le proprie responsabilità, ha descritto un importante segmento della fase esecutiva della strage di via D'Amelio.
La nuova ricostruzione dei fatti, completamente diversa da quella già accertata nei procedimenti “Borsellino uno” e parte del “Borsellino bis”, ha trovato un immediato riscontro nelle ritrattazioni di Vincenzo Scarantino, di Salvatore Candura e Francesco Andriotta.
I nuovi elementi di indagine rendono estranee ai fatti ben undici persone Profeta Salvatore, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe, Vernengo Cosimo, Murana Gaetano, Scotto Gaetano, Scarantino Vincenzo, Orofino Giuseppe, Tomaselli Salvatore e Candura Salvatore.
che sarebbero state “ingiustamente” condannate e nei confronti delle quali la Corte di Assise di Catania ha sospeso la pena ancora da espiare, in attesa della celebrazione del processo di revisione. ordinanza di custodia cautelare del G.I.P. presso il Tribunale di Caltanissetta in data 2 marzo 2012 nei confronti di Madonia Mario Santo + 5.

Nella richiesta della Procura al Gip di Caltanissetta si afferma che le indagini sulla trattativa, pur se oggetto di notevole approfondimento da parte di tutte le procure interessate, non possono dirsi concluse rimanendo ancora diversi punti oscuri da chiarire Vedi pagg. 133-134 della richiesta della Procura di Caltanissetta al Gip, Doc. (lib.) 754.1
.
Comunque la c.d. "trattativa, secondo acquisizioni investigative e processuali, si sarebbe sviluppata, a partire dai primi di giugno del 1992, tra appartenenti alle Istituzioni (ed in particolare, ma non soltanto, da ufficiali appartenenti al R.O.S. dei Carabinieri) e l'organizzazione criminale "cosa nostra"; e si sarebbe svolta a più riprese. Dopo la strage si aprì una nuova fase in cui a poco a poco Riina da soggetto divenne forse oggetto della trattativa. Secondo la Procura di Caltanissetta non vi sono elementi per dire che lo scopo di chi la conduceva era quello di favorire "cosa nostra". Anzi, dalle stesse parole di Massimo Ciancimino , testa peraltro inattendibile, e di altri testimoni (si vedano le dichiarazioni della dott.ssa Ferraro) emerge con chiarezza che lo scopo era quello di fermare lo sragismo. Si è raggiunta inoltre la convinzione che il dott. Borsellino sapesse delle trattative in corso e che "cosa nostra", avendolo percepito come un ostacolo, abbia deciso di accelerare la sua uccisione. Vedi pagg. 421-423 della richiesta della Procura di Caltanissetta al Gip, dianzi citata

La Procura aggiunge che dalle prove ulteriormente raccolte, risulta che tra la fine del 1992 ed il 1993 si era aperto all'interno delle istituzioni un dibattito sul tema dell'articolo 41 bis OP e che lo stesso argomento era all'attenzione di "cosa nostra". In conclusione,sia nel luglio del 1992, sia nell'anno 1993, la strategia di "cosa nostra" è stata quella di trattare con lo Stato attraverso l'esecuzione delle stragi, esercitando così un terribile ricatto.
Di fronte alla nuova lettura della strage di Via d'Amelio occorre ora domandarsi se i primi investigatori commisero un clamoroso errore investigativo o se vi fu un gigantesco depistaggio.
Quest'ultima ipotesi, allo stato, non appare suffragata da elementi concreti, anche se è certo che gli investigatori dell'epoca (il cosiddetto gruppo "Falcone-Borsellino", comandato dal dott. Arnaldo La Barbera) abbiano ostinatamente privilegiato la pista delle dichiarazioni di Scarantino: un personaggio costui che, già riformato al servizio militare per "reattività nevrosiforme persistente in neurolabile", veniva definito negli atti processuali di mediocre spessore criminale "... dai modi rozzi e temperamento violento ... con limiti intellettuali, mnemonici ed espressivi...".
Se da un lato, pertanto, non può escludersi che i metodi utilizzati dagli investigatori abbiano verosimilmente influenzato e condizionato il fragile Scarantino con "domande suggestive" e "pressioni" diverse, dall'altro lato non si può affermare con certezza che l'ostinato perseguimento della pista Candura-Scarantino da parte degli investigatori sia stato il frutto, non già di colpevole fretta pur di chiudere l'indagine, quanto piuttosto di una scelta preordinata o di un complotto istituzionale. Dr. Sergio Lari ibidem, fg. 52 "...certamente non possiamo lasciare il cerino in mano a questi tre giovani poliziotti. Dobbiamo ritenere che se ci fu errore investigativo, ci fu anche un enorme errore giudiziario, perchè tutti questi elementi di prova ... furono atti sottoposti alla valutazione della magistratura. Evidentemente allora ci fu una sorte di ragion di Stato che dominava ... probabilmente l'atmosfera era diversa, probabilmente quella magistratura era restia a pensare che taluno potesse autoaccusarsi di una strage senza averla commessa".

Non c'è dubbio, comunque, che taluni atti investigativi opachi e devianti sono stati avallati, certo in buona fede, da magistrati requirenti e giudicanti.


Conclusioni

Onorevoli colleghi,
la nostra inchiesta ci ha consentito di compiere passi in avanti alla ricerca di una plausibile verità politica, non storica nè giudiziaria, ma soltanto politica, sulle stragi e i grandi delitti di mafia del 1992-'93.
Certamente il troppo tempo trascorso e i lunghi silenzi di chi sapeva e avrebbe dovuto agevolare le indagini non hanno favorito l'accertamento della verità e il nostro stesso lavoro.
Nel corso della mia esposizione ho riservato largo spazio alle cosiddette trattative perchè l'argomento ha assunto particolare rilievo davanti alla pubblica opinione. Ma al centro della nostra attenzione rimangono i grandi delitti e le stragi di mafia del 1992-1993: su questo e nell'ambito di questo spazio temporale, desidero ora svolgere alcune riflessioni che vi prego di accogliere soltanto come un personale contributo al nostro dibattito conclusivo.
A mio parere la stagione stragista ha notevoli elementi di continuità con l'attacco aperto e sanguinoso che "cosa nostra" mosse allo Stato a partire dalla seconda metà degli anni 70, interrompendo storicamente il clima di convivenza e, a tratti, perfino di collaborazione, che aveva lungamente caratterizzato il rapporto mafia - politica - istituzioni.
I grandi delitti e le stragi hanno la loro precisa scaturigine nella sentenza del 30 gennaio 1992, con la quale la Cassazione rigetta tutti i ricorsi delle difese contro la sentenza del "maxi-processo" e consacra il criterio della responsabilità implicita degli organi di governo di "cosa nostra".
La sentenza, benché prevista, è senza precedenti. Ha un impatto devastante sull'organizzazione criminale e suscita subito, al suo interno, la volontà di reagire con la massima determinazione: per un desiderio di rivalsa e, sopratutto, per riaffermare il proprio potere.
Lima e Ignazio Salvo, referenti autorevoli col potere politico ed economico, vengono ammazzati per non aver saputo garantire, come in passato, le necessarie tutele. Insieme a loro viene deliberata l'uccisione di altri politici, tra cui Andò, Mannino, Martelli, Purpura e Vizzini, nonché del procuratore Grasso e del questore La Barbera. Naturalmente gli obiettivi principali restano i magistrati Falcone e Borsellino, i maggiori artefici del maxi-processo e, dunque, i principali nemici da abbattere. Ma i magistrati sono l'espressione più minacciosa dello Stato; e lo Stato è il soggetto generale che attraverso i suoi uomini si è dimostrato ostile come non mai, potente come non mai e, proprio per questo, pur essendo forse invincibile, va comunque punito e costretto a venire a patti.
Sul filo di questa logica si passa dagli omicidi alle stragi siciliane e poi a quelle continentali.
Il cammino, però, non è lineare, perché "cosa nostra" compie due salti di qualità assai rilevanti: il primo, quando rinunzia a uccidere Giovanni Falcone a Roma, dove era un bersaglio singolo abbastanza raggiungibile, e preferisce invece ucciderlo in Sicilia, insieme alla moglie ed alla sua scorta, con una azione di spettacolare ferocia; il secondo quando attacca il patrimonio artistico a Firenze, Milano e Roma, sapendo di infierire sui valori alti dello Stato, senza curarsi delle vittime innocenti e anzi puntando sulla produzione di terrore indiscriminato.
Questo duplice salto di qualità richiedeva elevate competenze tecniche e capacità organizzative che ""cosa nostra"" non aveva mai mostrato di avere in così cospicua misura.
Nel corso della nostra inchiesta abbiamo appreso, per esempio, che a Capaci fu necessaria una speciale competenza tecnica per realizzare un innesco che evitasse l'uscita laterale dell'onda d'urto dell'esplosione e la concentrasse invece sotto la macchina blindata di Falcone.
Mi chiedo: "cosa nostra" ebbe consulenze tecnologiche dall'esterno?
Sulle scene degli attentati e delle stragi, abbiamo visto comparire, qua e là, figure rimaste sconosciute, presenze esterne: da dove venivano?
Gruppi politico-terroristici come "Falange Armata" rivendicarono tempestivamente degli attentati di "cosa nostra": come si spiega?
Solo negli ultimi anni è stato scoperto il gigantesco depistaggio delle indagini su Via d'Amelio, depistaggio che ha lungamente resistito al tempo e a ben due processi: chi lo organizzò e perchè furono lasciati cadere i sospetti che pure emersero fin dagli inizi?
Potrei continuare con domande analoghe. Ma queste mi bastano per dire che, a conclusione della nostra inchiesta, non si sono ancora dissipate molte delle ombre che avevo già intravisto nelle mie comunicazioni alla Commissione del 30 giugno 2010.
Noi conosciamo le ragioni e le rivendicazioni che spinsero "cosa nostra" a progettare e ad eseguire le stragi, ma è logico dubitare che agì e pensò da sola.
Di certo non prese ordini da nessuno, perchè ha sempre badato al primato dei suoi interessi e all'autonomia delle sue decisioni. Tuttavia, quando le è convenuto, quando vi è stata convergenza di interessi, non ha esitato a collaborare con altre entità criminali, economiche, politiche e sociali.
Basti ricordare qui la sua partecipazione, insieme ad esponenti della massoneria, al golpe di Junio Valerio Borghese; alla simulazione del rapimento del finanziere Michele Sindona, ospite invece della borghesia mafiosa palermitana; alla strage del "Rapido 904", per la quale furono condannati all'ergastolo, oltre al cassiere della mafia Pippo Calò, esponenti della camorra, del terrorismo di destra e della banda della Magliana.
Non a caso, dunque, dopo le stragi del '92 e '93 gli analisti e i vertici degli apparati di sicurezza colsero subito il mutamento della strategia mafiosa di aggressione allo Stato e lo attribuirono ad una convergenza di "interessi macroscopici illeciti, sistemazione di profitti, gestione d'intese con altre componenti delinquenziali ed affaristiche, nazionali ed internazionali" (Pref. Parisi).
Sulla stessa linea, un rapporto della DIA del 1993, descrisse "un'aggregazione di tipo orizzontale" composta, oltre che dalla mafia, da talune logge massoniche di Palermo e Trapani, da gruppi eversivi di destra, funzionari infedeli dello Stato e amministratori corrotti.
Oggi, con maggior distacco e più ampia conoscenza dei fatti, noi possiamo ricollocare le stragi del '92-'93 nel contesto tormentato della transizione politica dalla prima alla "seconda repubblica".
In quegli anni, mentre la sinistra storica cercava di rialzarsi dalle macerie del muro di Berlino, i partiti del centro moderato venivano devastati dall'esplosione della questione morale ("Tangentopoli"); e praticamente l'intero sistema politico entrava in una crisi gravissima che, a sua volta, si rovesciava sulla società e sulle istituzioni.
In questa condizione di generale debolezza le stragi di mafia intervennero, insieme ad altri fattori eversivi, come ci ha segnalato nell'ultima audizione il Procuratore Nazionale Antimafia, con effetti destabilizzanti dello stesso ordine democratico.
Se nel '92-'93, similmente ad altre fasi di transizione, si mise in opera una strategia della tensione, "cosa nostra" ne fece parte. O meglio, fu parte, per istinto e per consapevole scelta, del torbido intreccio di forze illegali e illiberali che cercarono di orientare i fatti a loro specifico vantaggio.
Indebolire lo Stato significava renderlo più duttile e più disponibile a scendere a patti.
Forse, al di là delle stesse richieste del "papello", c'era l'obiettivo più generale di ristabilire quel rapporto di "convivenza" con lo Stato che, prima della rottura degli anni 80, aveva segnato per oltre un secolo la storia della mafia.
Ma una cosa sono gli obiettivi, altra cosa sono i risultati.
Certamente con le stragi del 1992-93 "cosa nostra" inflisse allo Stato perdite irreparabili di vite umane e preziose opere d'arte, dimostrò la massima potenza di fuoco, ma segnò anche l'inizio del suo declino.
Infatti, subito dopo, si è inabissata nella società, nell'economia, nella politica e da allora non è più riemersa con la forza delle armi; la sua leadership è stata decapitata e fino ad oggi non è neppure riuscita a ricostruire gli organi di governo; i suoi affari hanno subito il salasso continuo dei sequestri e delle confische dei beni; e in definitiva ha perso peso e prestigio anche rispetto ad altre organizzazioni criminali nazionali, come la 'ndrangheta, tanto all'interno quanto all'estero.
Per di più, in Sicilia e nel resto d'Italia è cresciuta una vasta opposizione sociale alla mafia, che ha trovato i suoi eroi in Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e che, col suo vivace associazionismo, le toglie l'ossigeno del consenso popolare.
Tutto questo non vuol dire che "cosa nostra" è finita, tutt'altro.
E' vero: le sue armi tacciono. Ma essa è penetrata nelle fibre della realtà siciliana e lì continua ad agire in profondità distorcendo le regole dell'economia, le relazioni sociali e le decisioni politiche.
"Cosa nostra", come tutti sappiamo, è ancora forte e temibile. Ma dobbiamo pur riconoscere che dagli anni '80 ad oggi, ha perso nettamente la sua sfida temeraria allo Stato.


Le cosiddette trattative si intrecciano, da Capaci in poi, con la sequenza delle stragi. Tra quelle evocate dalla nostra inchiesta, una appare meglio delineata perché ne abbiamo individuato i protagonisti, l'oggetto e lo spazio di tempo in cui si svolse: la trattativa Mori-Ciancimino.
Se ne intravede anche una seconda, dai tratti più confusi, che avrebbe ristretto le richieste del famigerato "papello" ad una sola: l'ammorbidimento se non la soppressione del carcere duro previsto dall'art. 41bis dell'Ordinamento Penitenziario.
Nel corso della mia esposizione ho sempre parlato di "c.d." trattative, volendo significare l'uso talvolta inappropriato o parziale, o arbitrario del termine. Intendiamoci: la trattativa tra uomini dello Stato ed altre entità ostili non è, di per sé, un reato e può costituire una scelta discrezionale del Governo, purché non debordi nell'illecito penale. Sappiano tutti che, in tempi e luoghi diversi, uomini dello Stato, dotati di un segreto mandato politico, hanno variamente negoziato la liberazione di ostaggi innocenti dalle mani di terroristi e gruppi armati. Il valore della vita umana, come si dice, non ha prezzo. Ma oltre a quelli giuridici vi sono anche limiti morali e politici alla trattativa che non si possono configurare astrattamente e che, comunque, devono rientrare nel perimetro del bene comune.
Cerchiamo dunque di cogliere la reale portata dei fatti.
La trattativa Mori-Ciancimino partì molto probabilmente come un'ardita operazione investigativa che, cammin facendo, uscì dal suo alveo naturale. Ne uscì, forse, per imprudenza dei Carabinieri e ancor di più per ambizione di Vito Ciancimino. Costui, infatti, aveva tutto l'interesse ad elevare i primi contatti al rango di vero e proprio negoziato fra Stato e mafia, col proposito di porsi come intermediario e trarre vantaggi personali dall'una e dall'altra parte. Per questo richiese con insistenza interlocuzioni politico-istituzionali che però non ottenne.
"Cosa nostra" acconsentì alla trattativa e pose col "papello" le sue condizioni. Tuttavia si mantenne su una posizione di forza, innalzando la minaccia delle stragi. I Carabinieri, anche sollecitati da Ciancimino, cercarono coperture politiche e, per quanto ne sappiamo, non le ottennero.
I vertici istituzionali e politici del tempo, dal Presidente della Repubblica Scalfaro ai Presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, hanno sempre affermato in tutte le sedi di non aver mai, in quegli anni, neppure sentito parlare di trattativa. Penso che non possiamo mettere in dubbio la loro parola e la loro fedeltà alla Costituzione e allo Stato di diritto.
Rimane tuttavia il sospetto che, dopo l'uccisione dell'On. Lima, uomini politici siciliani, minacciati di morte, si siano attivati per indurre "cosa nostra" a desistere dai suoi propositi in cambio di concessioni da parte dello Stato.
In particolare l'On. Mannino, Ministro per il Mezzogiorno nella prima fase della trattativa (lasciò l'incarico nel giugno del 1992), avrebbe preso contatti al tal fine col Comandante del ROS Gen. Subranni.
Sull'On. Mannino, come sappiamo, pende ora una richiesta di rinvio a giudizio per il reato aggravato di minaccia ad un corpo politico, amministrativo e giudiziario. Analoga richiesta, ma per un periodo diverso, pende sul Sen. Marcello Dell'Utri.
Occorre anche ricordare che l'On. Nicola Mancino, Ministro dell'Interno dal giugno 1992 all'aprile 1994 è stato indicato, per sentito dire, dal pentito Brusca e da Massimo Ciancimino come il terminale politico della trattativa. Il primo lo indica stranamente associandolo al suo predecessore On. Rognoni che, peraltro, aveva lasciato il Ministero dell'Interno nel 1983, nove anni prima dei fatti al nostro esame; il secondo è un mentitore abituale.
Audito dalla nostra Commissione, l'On. Mancino è apparso a tratti esitante e perfino contraddittorio. La Procura di Palermo ne ha proposto il rinvio a giudizio per falsa testimonianza.
Le posizioni degli ex Ministri Mannino e Mancino sono ancora tutte da definire in sede giudiziaria: una semplice richiesta di rinvio a giudizio non può dare corpo alle ombre. E' doveroso aggiungere che l'On. Mannino è uscito con l'assoluzione piena da un precedente processo per concorso esterno in associazione mafiosa.
Formalmente la trattativa si concluse nel dicembre 1992 con l'arresto di Vito Ciancimino.
Un mese dopo, il 15 gennaio 1993, fu arrestato il capo dei capi Totò Riina.
Se i due arresti fossero riconducibili in qualche modo alla trattativa, quale sarebbe stata la contropartita di "cosa nostra"? La mancata perquisizione del covo di Riina e la garanzia di una tranquilla latitanza di Provenzano che, proprio per questo e per prenderne il posto, avrebbe venduto il suo capo? E alla fin fine, quale sarebbe stato il guadagno dell'astuto mediatore Vito Ciancimino?
Allo stato attuale della nostra inchiesta, non abbiamo elementi per dare risposte plausibili.
Quel che, in conclusione, possiamo dire è che i Carabinieri e Vito Ciancimino hanno cercato di imbastire una specie di trattativa; "cosa nostra" li ha incoraggiati, ma senza abbandonare la linea stragista; lo Stato, in quanto tale, ossia nei suoi organi decisionali, non ha interloquito ed ha risposto energicamente all'offensiva terroristico-criminale.
Va detto che nessuno dei vertici istituzionali del tempo ha mai pensato di apporre il segreto di Stato su quelle vicende.
La seconda trattativa si sarebbe svolta tra il febbraio e il novembre 1993, all'ombra dell'Amministrazione Penitenziaria e delle sue articolate relazioni.
Essa sarebbe andata a segno nei mesi di novembre 1993 e gennaio 1994 quando il Ministro Conso decise di non rinnovare il 41bis a 334 detenuti.
Ho già evidenziato l'anomalia dell'oggetto di questa trattativa: la cessazione delle stragi in cambio della revoca del 41bis a 23 mafiosi siciliani di media caratura criminale. C'è una tale sproporzione da mettere in dubbio la stessa ragion d'essere della trattativa.
Restano tuttavia alcune coincidenze tra la tempistica delle stragi e le revoche del 41 bis che lasciano intravedere un procedere parallelo, una qualche tacita intesa di uomini dello Stato con "cosa nostra".
Qualche chiarimento può venirci in proposito dalla storia controversa di questa norma di legge.
Già in sede parlamentare il 41bis dovette superare una pregiudiziale di costituzionalità e forti e opposizioni. Poi, subito dopo la prima applicazione, suscitò altre perplessità, valutazioni contrastanti e discussioni che coinvolsero il mondo carcerario, gli apparati di sicurezza e vari ambienti istituzionali.
"Cosa nostra" venne a conoscenza di questo dibattito e cercò di influenzarlo a suo favore, ma non sappiamo come e con chi.
La nostra inchiesta comunque ha registrato fatti che vanno in direzione del ridimensionamento del 41bis. Mi riferisco, per esempio, alla minacciosa lettera dei sedicenti familiari dei detenuti di Pianosa e dell'Asinara; alle revoche indolori dei provvedimenti di Secondigliano e Poggioreale; alla nota del nuovo direttore del DAP Capriotti che caldeggiava "un segnale positivo di distensione"; ed infine alla decisione del Ministro Conso assunta certamente come un gesto unilaterale, con la speranza di "frenare la minaccia di altre stragi".
Non sappiamo quanto su quella decisione abbiano influito gli interventi del ROS presso il vice direttore del DAP o le analisi e le informative dei servizi segreti. E neppure sappiamo se, oltre al ricatto delle stragi, "cosa nostra" abbia esercitato pressioni di altro genere.
In ogni caso sembra logico parlare, più che di una trattativa sul 41bis, di una tacita e parziale intesa tra parti in conflitto.
Riassumendo, possiamo dire che ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di "cosa nostra" divisi tra loro e quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano.
Ci furono tra le due parti convergenze tattiche, ma strategie divergenti: i carabinieri del ROS volevano far cessare le stragi, i mafiosi volevano invece svilupparle fino a piegare lo Stato.
Piegarlo fino a qual punto? All'accettazione del papello o di qualche sua parte? A rigor di logica e a giudicare dai fatti, non si direbbe.
Se "cosa nostra" accettò una specie di trattativa a scalare, scendendo dal papello al più tenue contropapello e da questo al solo ridimensionamento del 41bis, mantenendo però alta la minaccia terrificante delle stragi, c'è da chiedersi se il suo reale obiettivo non fosse ben altro: e cioè il ripristino di quel regime di convivenza tra mafia e Stato che si era interrotto negli anni ottanta, dando luogo ad una controffensiva della magistratura, delle forze dell'ordine e della società civile che non aveva precedenti nella storia.
Certo, l'obiettivo era ambizioso, ma il momento, come ho già detto, era propizio per la mafia e per tutti i nemici dello stato democratico.
Per quanto risulta dalla nostra inchiesta, le trattative cessarono sul finire del 1993 e le stragi nel gennaio del 1994 col fallimento dell'attentato allo Stadio Olimpico e con l'arresto, quattro giorni dopo, dei fratelli Graviano, capi militari dell'ala stragista.
A quel punto "cosa nostra" aveva perso la partita su entrambi i fronti.