Capitolo Primo

 

L’istituzione della Commissione di inchiesta

  1. Ragioni istitutive e normativa di riferimento

La Commissione parlamentare d’inchiesta sul dissesto della Federazione italiana dei consorzi agrari è stata istituita con la legge 2 marzo 1998, n. 33, dopo che nelle precedenti legislature alcune proposte di legge in tal senso non avevano concluso il loro iter parlamentare.

La legge approvata dal Parlamento trae origine da due distinte proposte di legge presentate nella XIII legislatura rispettivamente dai deputati Poli Bortone (AC 1183) e Comino (AC 1422), le quali prevedevano l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul dissesto della Federazione italiana dei consorzi agrari con lo scopo di esaminare le attività, la gestione e la situazione economico-finanziaria della Federconsorzi e contestualmente di accertare le cause, le responsabilità e le conseguenze del dissesto finanziario che ha colpito tale organizzazione. In base alla proposta di legge Poli Bortone, la Commissione avrebbe dovuto altresì valutare la conseguente azione di dismissione, mentre la proposta di legge Comino prevedeva che essa accertasse le procedure seguite dalla Società Gestione per il Realizzo (SGR) per il pagamento dei creditori e per le successive cessioni immobiliari.

Le due proposte sono state assegnate alla XIII Commissione permanente della Camera dei deputati per l’esame in sede referente, iniziato il 24 settembre 1996 e conclusosi il 3 ottobre 1996 conferendo mandato al relatore a riferire in senso favorevole in Assemblea sul testo unificato. L’esame in Assemblea, conclusosi in data 15 gennaio 1997, ha poi condotto all’approvazione, con il voto favorevole di tutti i Gruppi parlamentari, del testo licenziato dalla Commissione.

Nella relazione presentata dalla XIII Commissione permanente della Camera dei deputati all’Assemblea l’8 ottobre 1996, si evidenzia come le vicende, l’organizzazione, le attività della Federconsorzi siano state poste più volte all’attenzione dei parlamentari nelle passate legislature: tuttavia, la disponibilità di materiali, spesso incompleti, dispersi, eterogenei, irregolarmente distribuiti nel tempo, non ha consentito di delineare un quadro completo della realtà in cui ha operato la Federconsorzi. La stessa relazione della Commissione di indagine ministeriale, nominata dal Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali nell’ottobre 1994 per accertare le cause del dissesto finanziario che ha portato al fallimento della Federconsorzi, è da ritenersi piuttosto deludente, almeno in rapporto alle attese del mondo agricolo. Essa, comunque, denuncia, anche se in forma molto sintetica, le rilevanti responsabilità degli amministratori della Federconsorzi, del Collegio sindacale e soprattutto degli organi ministeriali ai quali spettavano compiti di vigilanza e di controllo.

Appaiono pertanto più che legittimi - ad avviso della Commissione agricoltura della Camera - alcuni interrogativi da tempo posti sulle cause del dissesto della Federconsorzi e sull’azione di dismissione a ciò conseguente e segnatamente:

  1. il ruolo esercitato, negli anni immediatamente precedenti al dissesto, nella gestione dell’impresa da parte delle organizzazioni professionali e di quelle sindacali, nonché i rapporti finanziari tra queste organizzazioni e la stessa Fedit;
  2. l’anomala politica creditizia condotta dalla Federconsorzi nei confronti di taluni consorzi agrari e di alcune società controllate;
  3. la generosa retribuzione di tante consulenze esterne ed il livello medio eccessivo delle retribuzioni per l’alta dirigenza;
  4. la non economica gestione degli immobili di proprietà dell’impresa;
  5. la cospicua erogazione di contributi finanziari ad organismi e/o enti;
  6. l’eccesso di personale dipendente, il cui elevato costo ha finito per incidere sensibilmente sulla gestione finanziaria;
  7. il raggiungimento di un indebitamento con il sistema bancario di 9 mila miliardi, fatto questo in palese violazione delle vigenti disposizioni sul credito;
  8. le eventuali coperture e/o omissioni all’interno della Federconsorzi e del Ministero dell’agricoltura rispetto alle ripetute denunce e alle interrogazioni parlamentari sull’affare dei vitelli, la nota truffa di centinaia di miliardi, di cui 250 miliardi in danno del consorzio agrario di Perugia e quindi della Federconsorzi;
  9. la valutazione del patrimonio immobiliare dell’impresa, stimato in non meno di 5000 miliardi di lire, dei quali solo 2500 realizzati tramite la SGR costituita tra le principali banche creditrici.

Il testo unificato delle proposte di legge n. 1183 e n. 1422 ha subito delle modiche durante l’esame presso il Senato ed è stato nuovamente sottoposto al vaglio della Camera dei deputati per l’approvazione definitiva.

Il testo approvato dalla Camera prevedeva, all’articolo 1, l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul dissesto della Federazione italiana dei consorzi agrari, il cui scopo doveva essere quello di esaminare le attività, la gestione e la situazione economico-finanziaria della Federconsorzi e contestualmente accertare le cause, le responsabilità e le conseguenze del dissesto finanziario che ha colpito tale organizzazione. Inoltre, al comma 1, lett. c), si prevedeva la Commissione dovesse valutare la conseguente azione di dismissione dell’ente e, più specificamente, che essa accertasse le procedure seguite dalla SGR per la liquidazione del patrimonio e per il pagamento dei creditori e le successive cessioni immobiliari.

Tale articolo 1 è stato modificato dal Senato innanzitutto al comma 1, lett. a), con l’introduzione della previsione normativa che ha circoscritto l’arco temporale dell’indagine agli ultimi dieci anni dell’attività della Federconsorzi (1982-1991). Tuttavia questa limitazione temporale non rappresenta - come sottolineato dal relatore Fusillo - una sostanziale modifica al provvedimento approvato dalla Camera in quanto, sempre all’articolo 1, sono aggiunti due commi che conferiscono alla Commissione il potere di esplorare anche la fase che va dal 1991 ad oggi.

Infatti, sulla scorta del dibattito svoltosi alla Camera sulla necessità che l'inchiesta affidata alla Commissione si dispiegasse anche nella direzione di valutare le conseguenze del dissesto sotto il profilo dell’azione di dismissione intrapresa, nonché delle procedure seguite dalla SGR, il Senato ha ritenuto che l’attualità e l’interesse della materia potessero essere forniti anche dalla considerazione delle vicende legate più da vicino al commissariamento della Federconsorzi e, in tale ottica, è stato approvato un emendamento che ha integrato l’articolo 1 del provvedimento facendo esplicito riferimento all’attività dei commissari governativi, alla scelta del concordato preventivo, all’autorizzazione alla vendita in massa dei beni ad un unico offerente, in modo da raccordarsi, temporalmente, alla fase di liquidazione del patrimonio presa in considerazione dal testo approvato dalla Camera dei deputati. In sostanza si è ritenuto che andasse valutato il carattere di novità impresso alla liquidazione con la vendita in blocco dei beni, pur in presenza del loro eccezionale valore e senza la garanzia per l’imprenditore interessato dell’espletamento di apposite gare. Il dibattito al riguardo svoltosi presso il Senato ha evidenziato come la scelta di ampliare l’oggetto dell’inchiesta della Commissione sia dettata dalla necessità di stabilire con certezza se l’esposizione debitoria della Fedit poteva giustificare l’adozione della procedura di concordato preventivo con cessione dei beni in luogo della liquidazione coatta amministrativa.

Sempre in sede di esame da parte del Senato, è stata aggiunta una lettera e), che attribuisce alla Commissione anche il compito di approfondire le circostanze che hanno portato alla liquidazione del patrimonio di buona parte dei consorzi agrari, verificandone la situazione economico-finanziaria nonché le ragioni, le modalità e i tempi del ricorso alle procedure di liquidazione o di commissariamento dei consorzi agrari in stato di liquidazione coatta amministrativa o di commissariamento.

2. Costituzione ed organizzazione interna

L’articolo 2 della legge istitutiva prevede che la Commissione sia composta da venti deputati e da venti senatori. Tale disposizione è il frutto di una modifica apportata dal Senato al testo licenziato dalla Camera - nel quale si prevedeva che la Commissione fosse formata da quindici deputati e da quindici senatori - al fine di assicurare la piena rappresentatività di tutti i Gruppi parlamentari.

Nella seduta del 16 dicembre 1998, la Commissione ha proceduto alla prima votazione per la costituzione dell'Ufficio di Presidenza, votazione che tuttavia non ha dato esito, essendosi constatata la mancanza del numero legale. Va precisato che l'articolo 2 della legge istitutiva prevede che "la Commissione, nella prima seduta, elegge al suo interno il presidente, due vicepresidenti e due segretari a maggioranza assoluta dei componenti". Considerato che la norma citata prescrive espressamente il requisito della maggioranza dei componenti per l'elezione "nella prima seduta", i Presidenti delle Camere, con lettera del 17 dicembre 1998, indirizzata al deputato Gaetano Veneto, presidente provvisorio, hanno ritenuto che la medesima debba interpretarsi nel senso che, nelle sedute successive alla prima, si adottano gli ordinari criteri previsti al riguardo dai Regolamenti delle Camere e, nel caso di specie, dal Regolamento della Camera dei deputati.

La Commissione è stata quindi nuovamente convocata il 13 gennaio 1999 per la costituzione dell'Ufficio di Presidenza; sono risultati eletti presidente, il senatore Melchiorre Cirami, vicepresidenti, i senatori Antonino Caruso e Stelio De Carolis, e segretari, i deputati Michele Abbate e Filippo Misuraca. L'insediamento effettivo della Commissione è quindi avvenuto quasi un anno dopo l'approvazione della legge istitutiva. Tale circostanza ha ridotto i tempi a disposizione per l'indagine e ha contribuito a motivare le richieste di proroga dei lavori, cui si accennerà successivamente.

Nella seduta del 28 gennaio 1999 la Commissione ha discusso ed approvato, ai sensi dell’articolo 3 della legge istitutiva, il Regolamento interno.

La Commissione ha ritenuto altresì di adottare, al pari di altre Commissioni di inchiesta, un proprio regolamento per la classificazione degli atti acquisiti o formati nel corso dell’inchiesta, tenuto conto dei poteri e delle finalità ad essa propri. Pertanto, nella seduta del 16 marzo 1999, è stato approvato uno schema di regolamento che prevede, in modo analitico, la complessa casistica che può presentarsi, al fine di evitare, con appropriate norme, il rischio di fuga di notizie o di conflitti con altre autorità, anche allo scopo di tutelare l’immagine della Commissione e di garantire l’efficacia dell’inchiesta.

Nella stessa seduta del 16 marzo 1999 sono stati istituiti tre gruppi di lavoro con compiti di ricerca, di acquisizione conoscitiva, di istruzione e di proposta rivolta al plenum.

In particolare, il primo gruppo di lavoro, coordinato dal senatore Magnalbò ed incaricato di esaminare le attività, la gestione e la situazione economico-finanziaria della Federconsorzi dal 1982 al 1991 e di accertare le cause, le responsabilità e le conseguenze del dissesto che ha colpito la Fedit, ha inteso incentrare la propria attività d’approfondimento e di acquisizione conoscitiva sui seguenti aspetti:

In data 30 novembre 2000, il coordinatore di tale gruppo di lavoro ha presentato una relazione sull’attività di acquisizione conoscitiva svolta, che è stata esaminata dalla Commissione nella seduta del 31 gennaio 2001.

Il secondo gruppo di lavoro, coordinato dal senatore D’Alì, al quale è stato affidato il compito di verificare le condizioni di ammissione della Federconsorzi alla procedura di concordato preventivo, i presupposti per la vendita in massa dei beni e la congruità del prezzo offerto dalla Società Gestione per il Realizzo (SGR spa) nonché di valutare l’azione di dismissione conseguente al dissesto e le procedure seguite dalla SGR per la liquidazione del patrimonio e per il pagamento dei creditori e le successive cessioni immobiliari, ha proposto una serie di audizioni, al fine di valutare se l'azione di dismissione conseguente al dissesto abbia provocato un effettivo danno economico ai creditori Fedit e alla rete di consorzi e ha altresì incaricato due ufficiali della Guardia di finanza, collaboratori a tempo pieno della Commissione, di analizzare l'azione di dismissione e le procedure seguite dalla SGR per la liquidazione del patrimonio immobiliare e finanziario della Federconsorzi attraverso l’esame della documentazione trasmessa dalla SGR, dei bilanci di questa, nonché dei dati ottenuti sia interrogando gli archivi dell'anagrafe tributaria, sia delegando accertamenti ai reparti operativi della Guardia di finanza.

I risultati di tale attività di acquisizione conoscitiva sono stati sottoposti alla Commissione nella seduta del 22 novembre 2000.

Infine, il terzo gruppo di lavoro, coordinato dal senatore Pasquini, al quale è spettato il compito di verificare la situazione economico-finanziaria, nonché le ragioni, le modalità e i tempi del ricorso alle procedure di liquidazione o commissariamento dei consorzi agrari in stato di liquidazione coatta amministrativa o di commissariamento, ha suggerito una serie di acquisizioni documentali presso i consorzi agrari al fine di verificare la situazione economico-finanziaria di questi ultimi: tali acquisizioni sono state attentamente vagliate da tre dottori commercialisti, collaboratori della Commissione.

La Commissione, ai sensi dell’articolo 5 della legge istitutiva, nella seduta del 16 marzo 1999, ha designato infatti un ristretto numero di consulenti chiamati ad assicurare la loro opera in modo continuativo ed esclusivo al servizio della Commissione, previo distacco dalle Amministrazioni di provenienza. Nella stessa seduta e in quelle del 25 maggio, del 23 settembre 1999 e del 30 marzo 2000, la Commissione ha altresì individuato taluni esperti qualificati ai quali richiedere consulenze in forma non continuativa su specifiche questioni.

Nonostante la tempestività con la quale la Commissione ha proceduto alla designazione dei consulenti "a tempo pieno", si sono registrati notevoli ritardi nei provvedimenti di distacco dalle Amministrazioni di provenienza. A tale circostanza, si è aggiunta la laboriosa fase di sistemazione, anche sotto il profilo logistico, degli uffici della Commissione, che ha indubbiamente determinato, all’avvio dell’attività, difficoltà operative.

L’arco temporale inizialmente accordato per la conclusione dell’inchiesta è apparso subito insufficiente soprattutto se comparato all’ampiezza e alla complessità del compiti assegnati, peraltro ulteriormente estesi, in sede di approvazione definitiva da parte del Senato, anche alle vicende legate più da vicino al commissariamento della Federconsorzi (attività dei commissari governativi, scelta del concordato preventivo, autorizzazione alla vendita in massa dei beni ad un unico offerente) e all'esame della situazione economico-finanziaria dei consorzi agrari.

La Commissione ha inoltre incontrato sin dall’inizio notevoli difficoltà nel lavoro di reperimento della documentazione necessaria all'inchiesta, sia per quanto riguarda i documenti della Federconsorzi - spesso incompleti, dispersi in più archivi, in alcuni casi in cattivo stato di conservazione, sottoposti in parte a due distinti sequestri, rispettivamente disposti dalla Procura di Roma e da quella di Perugia - che per quelli dei consorzi agrari, che sono stati trasmessi con ritardo e spesso in maniera incompleta.

Alle difficoltà operative prima indicate si sono aggiunte scadenze istituzionali e politiche, intervenute nel periodo di avvio dei lavori, che hanno contribuito a rendere meno serrato il procedere dell'inchiesta.

Nel prosieguo dei lavori, la Commissione ha avviato un fitto programma di lavori, concretatosi nello svolgimento di numerose audizioni e nell'acquisizione di importanti elementi conoscitivi.

Come si è detto, l'articolo 9, comma 1, della legge istitutiva prevedeva che la Commissione concludesse i propri lavori entro otto mesi dalla data della sua costituzione, avvenuta il 13 gennaio 1999.

Al fine di approfondire i filoni di inchiesta avviati, è stata avvertita la necessità di chiedere al Parlamento una prima proroga dei lavori della Commissione sino al 31 ottobre 2000, proroga che è stata disposta con la legge 17 agosto 1999, n. 291.

Tale ulteriore arco temporale si è rivelato tuttavia insufficiente per esaurire l'esame di tematiche particolarmente complesse e per giungere a conclusioni definitive. Si è infatti avvertita l'assoluta necessità di procedere a nuovi accertamenti e ad ulteriori audizioni, al fine di assicurare una panoramica quanto più possibile ampia e completa delle posizioni in gioco, prevenendo il rischio - particolarmente insidioso in una vicenda così complessa - di prospettazioni parziali e fuorvianti.

Il disegno di legge di proroga - sottoscritto dai rappresentanti di tutti i Gruppi presenti in Commissione - indicava nella fine della legislatura l'ulteriore termine per la conclusione dei lavori della Commissione. Nonostante la rapida approvazione, in sede deliberante, da parte della IX Commissione permanente del Senato, il provvedimento incontrava inspiegabili ostacoli presso l'altro ramo del Parlamento che, infine, provvedeva a licenziarlo fissando tuttavia il suddetto termine al 28 febbraio 2001 con ciò acuendo quella contraddizione tra ampiezza e complessità dei quesiti e tempi assegnati, già evidenziata. Dopo il necessario passaggio al Senato per l'approvazione definitiva, veniva finalmente promulgata la legge n. 352 del 20 novembre 2000.

Il nuovo termine fissato al 28 febbraio 2001 ha consentito alla Commissione di proseguire i suoi lavori senza tuttavia permetterle di approfondire ed esaurire tutti i filoni di indagine aperti, come sarà evidenziato nei singoli capitoli della presente relazione.

3. Attività: le audizioni e le acquisizioni documentali; gli incarichi di collaborazione affidati

Per lo svolgimento dei compiti ad essa affidati, la Commissione ha effettuato un rilevante numero di audizioni, alcune delle quali si sono protratte per più di una seduta, e ha raccolto una imponente documentazione.

Le audizioni svolte hanno consentito di avviare una ricognizione di carattere generale sull’oggetto dell’inchiesta e di acquisire elementi utili direttamente da coloro che, a vario titolo, hanno svolto un ruolo di rilievo nella vicenda Federconsorzi.

In via preliminare, la Commissione - pur consapevole che l'inchiesta parlamentare ha ambiti distinti da quella penale e deve svilupparsi nel più rigoroso rispetto dell'autonomia dell'autorità giudiziaria - ha ritenuto opportuno ascoltare i magistrati titolari di inchieste sulla Federconsorzi, al fine di acquisire informazioni utili sullo stato dei procedimenti e di avviare un fecondo rapporto di collaborazione. Pertanto, sull'inchiesta riguardante la fase successiva al commissariamento della Federconsorzi, sono stati ascoltati il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Perugia, dottor Miriano, e il sostituto procuratore, dottor Razzi; mentre sull'indagine penale riguardante la fase antecedente al commissariamento, sono stati ascoltati il procuratore della Repubblica di Roma, dottor Vecchione, e i sostituti procuratori dottori Nebbioso e Catalani.

Al fine di dare risposta al quesito posto alla Commissione dalla legge istitutiva circa le cause, le responsabilità e le conseguenze del dissesto della Federconsorzi, la Commissione ha proceduto ad ascoltare i titolari, nel periodo oggetto dell’inchiesta parlamentare, del Ministero dell’agricoltura, cui spettava la vigilanza sulla Federconsorzi e sui consorzi agrari, in base al decreto legislativo n. 1235 del 7 maggio 1948, e cioè il dottor Filippo Maria Pandolfi, ministro dell'agricoltura dal 1983 al 1988; l'avvocato Gianni Angelo Fontana, ministro dell'agricoltura dal 1992 al 1993, il dottor Alfredo Luigi Diana, ministro dell'agricoltura dal 1993 al 1994 e l’avvocato Calogero Antonio Mannino, ministro dell’agricoltura dal 1° dicembre 1982 al 30 agosto 1983 e dal 13 aprile 1988 al 27 luglio 1990. In quest’ottica si è ritenuto altresì opportuno ascoltare i dirigenti e i funzionari dello stesso Ministero che, dal 1982 ad oggi, sono stati preposti alla Direzione competente in materia di vigilanza. Tale ricognizione è stata completata con l’audizione, svoltasi nella seduta antimeridiana del 6 dicembre 2000, dell’assessore all’agricoltura e foreste della regione Sicilia, onorevole Salvatore Cuffaro, cui spetta, ai sensi dell’articolo 1 del decreto legislativo 7 maggio 1948, n. 789 e dell'articolo 3 della legge regionale 8 luglio 1948 n. 35, la vigilanza sui consorzi agrari siciliani. La Commissione ha inteso inoltre ascoltare il ministro delle politiche agricole e forestali attualmente in carica, onorevole Alfonso Pecoraro Scanio, sui presupposti e sullo stato di attuazione della recente legge n. 410 del 28 ottobre 1999, che reca un nuovo ordinamento dei consorzi agrari.

La Commissione ha quindi proceduto alle audizioni dell'onorevole Arcangelo Lobianco, già presidente della Coldiretti, e del dottor Stefano Wallner, già presidente della Confagricoltura, in modo da esplorare il ruolo svolto dalle due organizzazioni professionali nella gestione del sistema federconsortile. Si è ritenuto quindi di acquisire le valutazioni del ragionier Luigi Scotti, che ha rivestito la carica di direttore generale della Federconsorzi dal 1982 al 1989 e di presidente della stessa dal 1989 alla data del commissariamento.

E’ stato quindi ripetutamente ascoltato, per la valutazione delle condizioni della Federconsorzi alla data del commissariamento, il dottor Silvio Pellizzoni, succeduto al ragionier Scotti nella carica di direttore generale della Fedit.

Con l’intento di approfondire le vicende strettamente collegate alla decisione di commissariare la Federconsorzi, sono stati ascoltati il presidente del Consiglio pro tempore, senatore Giulio Andreotti; il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dell'epoca, dottor Adolfo Cristofori; l’allora sottosegretario all'agricoltura, signor Maurizio Noci, e il capo di Gabinetto del ministro dell'agricoltura Goria, dottor Riccardo Virgilio.

Sui temi del commissariamento e della gestione commissariale sono stati altresì ascoltati Giovanni Robusti, ex presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sull'AIMA, l'avvocato dello Stato Francesco Lettera, ex commissario governativo della Federconsorzi, il dottor Paolo Bambara, direttore generale della Federconsorzi dopo il commissariamento, e il dottor Giorgio Cigliana, primo commissario governativo della Federconsorzi insieme al professor Gambino e al dottor Locatelli.

Al fine di corrispondere al quesito posto alla Commissione dalla legge istitutiva circa le condizioni di ammissione della Federconsorzi alla procedura di concordato preventivo, i presupposti per la vendita in massa dei beni e la congruità del prezzo offerto dalla SGR spa (Società Gestione per il Realizzo), sono stati ascoltati il professor Pellegrino Capaldo, presidente della SGR dalla costituzione all’aprile del 1994, il ragionier Cesare Geronzi, presidente della Banca di Roma, il dottor Gianmario Roveraro, l'avvocato Mario Casella, il professor Francesco Carbonetti, attuale presidente della SGR, e il dottor Antonio Rossetti, direttore generale della stessa. Tale aspetto della vicenda è stato altresì approfondito analizzando il ruolo svolto dalla sezione fallimentare del tribunale di Roma: sono stati pertanto ascoltati il dottor Ivo Greco, presidente della stessa e giudice delegato pro tempore del concordato preventivo della Federconsorzi, nonché i magistrati Fiammetta De Vitis, Paolo Celotti, Fausto Severini, Umberto Apice e Giovanna De Virgiliis, che si sono avvicendati, negli anni 1991-93, quali componenti del Collegio giudicante nella procedura di concordato preventivo.

La Commissione ha quindi avvertito l’esigenza di verificare lo stato e gli effetti della liquidazione Federconsorzi per poter formulare un giudizio globale sul concordato preventivo e sulla cessione dei beni alla società SGR mediante il negozio giuridico denominato "atto-quadro", ascoltando l’attuale commissario giudiziale, dottor Pasquale Musco, e il presidente anziano della sezione fallimentare del tribunale di Roma, dottor Giovanni Briasco, il presidente del Collegio giudicante, dottor Anacleto Grimaldi, e l’attuale giudice delegato della procedura, dottor Emilio Norelli.

Al fine di verificare la situazione economica e finanziaria in cui si trovava la Federconsorzi negli anni immediatamente precedenti il commissariamento, la Commissione ha ritenuto di acquisire ulteriori elementi conoscitivi procedendo alle audizioni dei professori Agostino Cattaneo e Giuseppe Pavan - incaricati dalla Federconsorzi di eseguire un’indagine conoscitiva sul bilancio della Fedit del 1988 che si trasfuse in una relazione datata agosto 1989 - nonché all’audizione della professoressa Maria Martellini, la quale fece parte di una commissione di esperti incaricata dai primi commissari governativi di analizzare i bilanci della Fedit relativi agli esercizi 1986-1990.

La Commissione ha quindi approfondito il ruolo della Banca d'Italia e delle banche, italiane ed estere, creditrici della Federconsorzi, ascoltando il dottor Claudio Clemente, direttore principale della Vigilanza sugli enti creditizi della Banca d'Italia, il dottor Guido Rosa, Presidente dell'Associazione italiana banche estere (AIBE), nonché l’avvocato Enrico Granata, direttore centrale dell'Associazione bancaria italiana (ABI).

Come già evidenziato, parallelamente allo svolgimento delle audizioni, la Commissione ha proceduto all'acquisizione di una imponente documentazione, necessaria ai fini dell'attività istruttoria demandata ai gruppi di lavoro. In particolare, sono stati acquisiti la relazione, con i relativi allegati, della Commissione ministeriale di indagine ed i fascicoli dei procedimenti penali pendenti a Roma e Perugia; sono state inoltre raccolte informazioni presso le Procure della Repubblica in ordine ad eventuali ulteriori procedimenti penali riguardanti la Federconsorzi e i consorzi agrari; si è provveduto ad acquisire dalla SGR dati riguardanti i beni immobili e le partecipazioni cedute, nonché i crediti vantati nei confronti dei consorzi agrari; sono state ottenute informazioni dalle banche creditrici della Fedit sulla natura, l'entità e l'evoluzione del rapporto creditizio; sono state infine raccolte le valutazioni, corredate da documentazione di supporto, dei legali rappresentanti dei consorzi agrari in ordine alla situazione economico-finanziaria di questi ultimi e ai rapporti con la Federconsorzi e il sistema bancario.

Documentazione è stata altresì trasmessa dal Ministero delle politiche agricole e forestali, dall'Associazione bancaria italiana, dalla Banca d'Italia, dal tribunale fallimentare di Roma, dal commissario governativo e dal liquidatore giudiziale della Federconsorzi, dai soci della SGR, nonché dai soggetti che, a vario titolo, sono stati ascoltati dalla Commissione.

Per l'esame e la valutazione del cospicuo materiale documentario si è reso necessario affidare ad esperti incarichi di studio e di ricerca. E' evidente, infatti, che l’indagine affidata alla Commissione richiede particolari e specifiche cognizioni giuridiche e tecnico-contabili che, per loro natura, necessitano di approfondimenti di non breve durata per assicurare risultati soddisfacenti.

In particolare, al fine di accertare le cause e le responsabilità del dissesto, è stato conferito a tre esperti, il professor Claudio De’ Giovanni, il dottor Gaspare Marcucci e il ragionier Francesco Picone, l’incarico di procedere ad un'analisi comparata ed evolutiva dei bilanci della Federconsorzi dal 1982 alla data del commissariamento, basata sugli indici di valutazione universalmente conosciuti.

Al fine di dare risposta alle questioni relative alla fase successiva al commissariamento, si è provveduto ad incaricare due magistrati, il dottor Domenico Parisi e il dottor Edoardo Monti, e due docenti universitari, il professor Alberto Stagno d’Alcontres e il professor Fabrizio Criscuolo, della stesura di uno studio avente ad oggetto i profili di legittimità della procedura concorsuale e delle opzioni liquidatorie, nonché la natura giuridica del negozio definito "atto-quadro", la legittimità o anomalia dello stesso e le sue finalità nel contesto della procedura concorsuale.

Allo scopo di esaminare la documentazione trasmessa alla Commissione dai consorzi agrari, tre commercialisti, i dottori Fabrizio Murri, Paolo Sgattoni e Francesco Verdicchio, sono stati incaricati di compiere una analisi sulla evoluzione delle condizioni economiche e finanziarie di ciascuno di essi, comparandole tra loro e delineandone i profili comuni essenziali, nonché di verificare le scelte gestionali più significative assunte dagli amministratori e di esprimersi sulla adeguatezza dei controlli esercitati dai Collegi sindacali dei consorzi e dal Ministero dell'agricoltura.

La Commissione ha inoltre ritenuto opportuno approfondire la tematica degli ammassi, affidando ad un consigliere della Corte dei conti, il dottor Francesco Paolo Romanelli, l'incarico di analizzare le ragioni, la tipologia e l'ammontare complessivo dei crediti dei consorzi agrari e della Federconsorzi nei confronti dello Stato rimasti insoddisfatti; le ragioni, la tipologia e l'ammontare complessivo dei crediti vantati dalla Banca d'Italia rimasti insoddisfatti; la natura e i risultati dei controlli esercitati sui predetti crediti dalla Corte di conti.

Infine, è stata avvertita l’esigenza di affidare ad un tecnico, il dottor Giovanni Volpe, l’analisi della documentazione trasmessa dalle banche creditrici della Fedit con l’intento di ricostruire l'evoluzione cronologica, qualitativa e quantitativa del rapporto creditizio, nonché la progressione del rischio creditizio; di comparare i tassi di interessi passivi praticati alla Federconsorzi per ciascun anno e i tassi di interessi passivi prime rate ABI; di analizzare l'adeguatezza delle istruttorie tecniche; di determinare, per ciascun anno, l'entità di utilizzazione degli affidamenti da parte della Fedit; di stabilire, con riferimento alla data del 17 maggio 1991, la tipologia e l'entità delle linee di credito di cui la Federconsorzi godeva e poteva godere con l'utilizzo pieno degli affidamenti.

Per un elenco completo delle audizioni svolte e dei documenti acquisiti e trasmessi si rinvia all’allegato 3 di questa relazione. Nell'allegato 1 è invece inserita una cronologia essenziale degli eventi dal 1984 ad oggi, mentre nell'allegato 2 sono riportati i nominativi dei Presidenti del Consiglio e dei Ministri dell'agricoltura succedutisi dal 1982 al 1993, nonché degli organi di vertice della Federconsorzi, dal 1982 al commissariamento, e degli attuali responsabili dei consorzi agrari.

4. L'impostazione metodologica seguita

Le fasi dell’inchiesta risultano di massima delimitabili, cronologicamente e logicamente, come segue.

  1. Esame dei fatti:

  1. costituzione di gruppi di lavoro
  2. audizioni
  3. approfondimento sul materiale esistente e nuovi accertamenti affidati ad esperti
  4. esame dei dati acquisiti

  1. Elaborazione dei dati raccolti
  2. Esame dell’esito delle acquisizioni conoscitive demandate ai gruppi di lavoro
  3. Redazione della proposta di relazione conclusiva
  4. Regime di pubblicazione degli atti

Come già evidenziato, la materia che costituisce oggetto dell’indagine affidata dal Parlamento a questa Commissione ha dato luogo a due importanti procedimenti penali tuttora pendenti presso gli Uffici giudiziari di Roma e Perugia ed è stata in parte già esaminata da una Commissione di indagine istituita presso l'allora Ministero dell’agricoltura.

La Commissione ha dovuto procedere, pertanto, per assolvere il mandato investigativo affidatole, ad acquisire la documentazione relativa ai processi penali ed all’audizione di magistrati e indagati, nel più assoluto rispetto dell’autonomia degli accertamenti giudiziari.

Ha, altresì, tenuto presenti i risultati dell’indagine voluta dal Ministro delle politiche agricole, Poli Bortone, e si è avvalsa, per lo sviluppo di molte specifiche tematiche, a gruppi di qualificati tecnici.

Tenuto conto di tali connotazioni si è, pertanto, ritenuto di procedere ad esporre sia la ricostruzione, spesso necessariamente tecnica, dei fatti accertati, sia le conclusioni politiche raggiunte sui singoli punti, in modo da consentire al Parlamento un giudizio il più possibile completo sui risultati conseguiti.

Nei singoli capitoli saranno altresì evidenziati ulteriori singoli spunti di indagine che, unitamente ai quesiti risolti, potranno essere oggetto di valutazione sia da parte del Parlamento che dell'autorità giudiziaria.

 

 

 

Capitolo Secondo

 

Consorzi agrari e Federconsorzi. Brevi Cenni storici e disciplina giuridica

  1. Cenni sull’origine dei consorzi agrari e della Federconsorzi

L’origine storica dei consorzi agrari si può far risalire ai Monti frumentari che, sorti nell’alto Medioevo, fino al diciannovesimo secolo assolsero la funzione di anticipare le sementi necessarie per le colture ai contadini, che le restituivano pagando un interesse a raccolto avvenuto.

Nel 1863 ne esistevano in Italia 2051.

Il formarsi del moderno Stato unitario nazionale pose il tema del miglioramento dell’agricoltura, che costituiva il settore di gran lunga più importante dell’economia, al centro dell’attenzione dei Governi.

A fini di sostegno delle politiche agricole governative, furono ideati e realizzati i comizi agrari istituiti in ogni capoluogo di circondario con regio decreto del 23 dicembre 1866 n. 3542.

Essi segnarono il primo intervento "dirigistico" dello Stato in agricoltura.

I comizi, infatti, erano associazioni obbligatorie che avevano le finalità pubblicistiche di promuovere iniziative nel settore agricolo ed in particolare nel campo del miglioramento delle tecniche di coltivazione.

Un successivo regio decreto del 22 giugno 1879, completata l’unificazione politica del paese, affidò ai comizi anche una specifica missione di "promuovere le disposizioni necessarie perché siano migliorate ed unificate le consuetudini vigenti tra coloni e conduttori di fondi".

Sul finire del secolo, ad essi si affiancarono, nella diffusione della conoscenza e nell’incitamento alla pratica delle migliori metodologie culturali, le accademie agrarie e le cattedre ambulanti di agricoltura.

Contestualmente, nella seconda metà del secolo XIX, per esigenze economiche ed operative di cui si rendeva interprete un vasto e composito movimento cooperativo, si erano formate libere associazioni di di agricoltori per l’acquisto in comune dei mezzi necessari per l’attività agricola.

Concretizzando talel’ esigenza, fortementemolto avvertita in alcune zone della pianura padana a più forte sviluppo agricolo, con lo scopo statutario di favorire la commercializzazione dei prodotti agricoli ed un allargamento della cooperazione, nacque a Piacenza, con atto siglato il 10 ottobre 1892, la Federazione italiana dei consorzi agrari, ente di diritto privato.

Un anno prima, il 25 ottobre 1891, un congresso delle associazioni agrarie tenutosi nella stessa città, ne aveva posto le fondamenta.

L'atto costitutivo fu sottoscritto da nove comizi agrari, cinque consorzi, due banche popolari e da trentadue agricoltori privati.

Il capitale fu fissato in 3.925 lire.

Alla neonata Federazione arrise grande successo; il numero degli associati andò progressivamente aumentando fino a superare alcune centinaia di migliaia negli anni Venti; il giro di affari aumentò notevolmente.

Nell’anno 1921 fu fondata, con il rilevante concorso della Federconsorzi, la Banca nazionale dell’agricoltura.

Con la legge sul credito agrario - regio decreto legislativo del 29 luglio 1927 n. 1509, convertito dalla legge 5 luglio 1928 n. 1760 - alla Federconsorzi furono conferite funzioni creditizie.

Negli anni Trenta si verificò, tuttavia, per cause che qui non è necessario approfondire, essenzialmente di natura finanziaria, la prima grave crisi del sistema consortile che fu affrontata e risolta dal governo fascista con la creazione di un ente finanziario dei consorzi agrari e, quindi, con un forte intervento statale.

Nel 1938, in pieno regime autarchico, fu istituito l'ammasso obbligatorio e cioè la consegna obbligatoria del grano affidato per la vendita alla Federconsorzi.

Parallelamente fu operato un intervento strutturale sulla natura e le funzioni delle associazioni agricole di primo e di secondo grado.

Con il regio decreto legislativo 5 settembre 1938 e con la legge 2 febbraio 1939 n. 159, i consorzi agrari e gli enti cooperativi agricoli furono trasformati coattivamente in enti morali e fusi nei consorzi agrari provinciali.

Essi divennero, da associazioni commerciali di diritto privato, enti di diritto pubblico e furono sottoposti alla vigilanza del Ministero dell'agricoltura e delle corporazioni.

Con legge 18 maggio 1942 n.  566, i consorzi agrari furono trasformati nuovamente in persone giuridiche private, ma controllate e guidate dalla Federazione, posta, a sua volta, sotto le dirette dipendenze del Mministero dell’agricoltura.

Dopo il conflitto mondiale fu dato, con il decreto legislativo 7 maggio 1948 n.  1235 (ratificato con legge 17 aprile 1956 n. 561), un nuovo assetto ai consorzi agrari ed alla Federazione durato fino all’approvazione della recente legge 28 ottobre 1999 n. 410 che ha soppresso la Federconsorzi ed innovato parzialmente la disciplina dei consorzi agrari.

  1. La normativa

Il decreto legislativo 7 maggio 1948 n.  1235, "Ordinamento dei consorzi agrari e della Federazione italiana dei consorzi agrari" (ratificato con legge 17 aprile 1956 nr. 561), ha rappresentato la legge fondamentale di riferimento sia per la Federconsorzi sia per i consorzi agrari.

Esso stabiliva che i consorzi e la Federazione italiana dei consorzi agrari (a cui di seguito si farà riferimento con le denominazioni Federconsorzi o Fedit) erano società cooperative a responsabilità limitata, regolate dalle norme dello stesso decreto e dal codice civile.

Le cooperative a responsabilità limitata, giova ricordarlo, secondo la definizione del codice civile (agartticoli. 2511 e 2513), sono imprese con scopo mutualistico delle cui obbligazioni è chiamata a rispondere la sola società con il suo patrimonio.

Ai consorzi agrari era affidato il compito di contribuire all’incremento ed al miglioramento della produzione agricola e ad iniziative socio-culturali nell’interesse degli agricoltori; alla Fedit era attribuito lo stesso compito sul piano nazionale ed in più quello di svolgere servizi di carattere generale nell’interesse dei consorzi, di coordinare l’attività di questi, di compiere operazioni di credito agrario di esercizio e, quindi, di effettuare prestiti ed anticipazioni su pegno nell’interesse dei consorzi.

Potevano partecipare ai consorzi solo le persone fisiche o giuridiche che esercitavano una impresa agraria nella qualità di proprietari, enfiteuti, usufruttuari mezzadri o coloni. Le quote di partecipazione erano costituite da azioni che avevano un valore nominale di lire 100.

Potevano partecipare come soci alla Fedit solo i consorzi agrari con quote costituite da azioni del valore nominale di lire 50.000.

Nessun socio dei consorzi e nessun consorzio sottoscrisse, tuttavia, azioni per un valore maggiore di una singola quota. Ciò avvenne per la ragione decisiva che il possesso di un numero di azioni superiore ad una non dava al possessore diritti maggiori di quelli spettanti ai sottoscrittori della quota minima: nelle assemblee dei consorzi e della Fedit ciascun socio aveva diritto ad un solo voto quale che fosse l’ammontare della sua partecipazione al capitale sociale.

In relazione al numero complessivo dei consorzi agrari, ciascuno dei quali deteneva una quota, il capitale sociale della Fedit era, pertanto, pari a sole lire 4.650.000 (50.000 x 93).

I consorzi erano amministrati da un Cconsiglio di amministrazione di tredici membri. Dodici di essi erano eletti dall’Assemblea dei soci; due terzi dei posti spettavano alla maggioranza ed un terzo alla minoranza. Il tredicesimo componente era eletto dal personale consortile di cui era rappresentante.

La Fedit era amministrata da un Cconsiglio di amministrazione di ventuno membri.

Di essi diciotto erano eletti dall’Aassemblea dei consorzi, rappresentati dai loro Presidenti o da persona delegata. Due terzi dei posti spettavano alla maggioranza ed un terzo alla minoranza. Un membro rappresentava i dirigenti della Fedit, che lo eleggevano. Un altro rappresentava il personale non dirigente, che parimenti lo eleggeva. Il ventunesimo rappresentava la categoria dei direttori dei consorzi, che lo sceglievano nel loro ambito.

Il cConsiglio di amministrazione era affiancato da un Ccomitato esecutivo costituito, tanto per i consorzi, quanto per la Fedit, da sei membri.

Quattro membri spettavano alla maggioranza e due alla minoranza.

Organo dei consorzi e della Fedit era la Presidenza, con poteri di rappresentanza esterna, composta da un presidente e da un vicepresidente nominati dal Consiglio di amministrazione.

Il Ccollegio sindacale dei consorzi era composto da sei membri, dei quali tre elettivi. Due di questi ultimi spettavano alla maggioranza ed uno alla minoranza.

Il Ccollegio sindacale della Fedit era composto da otto membri, cinque dei quali elettivi. Tre di essi erano attribuiti alla maggioranza e due alla minoranza. L’elezione competeva alle rispettive assemblee.

I tre membri non elettivi venivano nominati da tre Ministeri: agricoltura; tesoro e lavoro.

La presidenza del Collegio sindacale spettava, per disposizione del codice civile, ad uno dei sindaci di nomina governativa.

I consorzi, infine, venivano diretti da direttori che potevano essere scelti solo tra gli iscritti ad un ruolo speciale.

L’ambito di operatività dei consorzi coincideva con il territorio di ciascuna provincia della Repubblica. Erano, tuttavia, possibili accorpamenti.

La Fedit operava su base nazionale ed internazionale.

Gli utili sia dei consorzi sia della Fedit erano distribuibili ai soci in misura non superiore all’interesse legale maggiorato dell'1o uno1% per cento, ragguagliato al valore nominale delle azioni e della riserva e dopo averne destinato il trenta per cento alle riservae, ordinaria e straordinaria, non divisibile.

I controlli dell’autorità governativa, previsti per tutte le cooperative, erano affidati, relativamente ai consorzi agrari ed alla Fedit, al Ministero dell’agricoltura che quindi poteva:

  1. in caso di irregolare funzionamento revocare amministratori e sindaci e nominare un commissario governativo;
  2. sciogliere consorzi e Federazione, nel caso in cui non fossero stati nella condizione di raggiungere gli scopi istituzionali, non avessero depositato i bilanci per due anni consecutivi e nel caso di inoperatività; nominare i liquidatori e sostituirli, in caso di irregolarità o ritardi;
  3. disporre ispezioni sul funzionamento dei consorzi e della Fedit;
  4. sospendere l’esecuzione di deliberazioni od atti illegittimi o contrari alle finalità istituzionali o al pubblico interesse;
  5. annullare gli atti contrari alle leggi, ai regolamenti, ed agli statuti.

I consorzi e la Fedit avevano l’obbligo di dare comunicazioni al Ministero dei del bilancio, delle delibere dei Consigli di amministrazione, dei Ccomitati esecutivi e delle Aassemblee e delle proposte di modifiche statutarie.

La normativa del 1948 era, infatti, completata dalla predisposizione di statuti tipo che furono obbligatoriamente adottati dall’una e dagli altri e che riproducevano l’illustrato dettato normativo.

  1. La natura giuridica

I consorzi agrari, erano società cooperative a responsabilità limitata (di primo grado), e, la Fedit, era una società cooperativa a responsabilità limitata (di secondo grado).

Così espressamente stabiliva il decreto legislativo n.  1235 del 1948.

La definizione legislativa non lascerebbe adito a dubbi, ponendosi in continuità con quella che si leggeva nella precedente legge del 1942 che aveva espressamente distinto tra i consorzi agrari, persone giuridiche private, e gli altri enti pubblici con analoghe funzioni in agricoltura.

E pur tuttavia, con riferimento alla normativa anteriore al decreto del 1948, le Sezioni unite della Corte di Cassazione -  sentenza n.  130 del 29 gennaio 1949  - superando la lettera della legge, erano giunte a stabilire che i consorzi agrari e la Fedit dovevano considerarsi, per la loro disciplina e per i compiti loro affidati, enti pubblici.

Poiché l'assetto del 1948 non si discostava, per alcuni profili sostanziali, da quello del 1942, la questione della natura giuridica della Fedit e dei consorzi non poteva che riproporsi.

La forte limitazione alla libertà contrattuale che l'obbligatorietà degli statuti tipo prevedeva, il regime nominale della vigilanza, e soprattutto l’identico scopo o, per usare una terminologia più attuale, la "missione" affidata alla Fedit ed ai consorzi, "contribuire all’incremento ed al miglioramento della produzione agricola" (tutta la produzione agricola, non solo quella dei soci) "ed alle iniziative di carattere sociale e culturale nell’interesse degli agricoltori" (tutti gli agricoltori e non i soli soci), costituivano connotazioni tipicamente pubblicistiche.

Permaneva la commistione tra contenuti privatistici e funzioni pubblicistiche.

La giurisprudenza di merito e di legittimità dei tribunali, della Corte di Cassazione civile, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è pervenuta, però, costantemente a conclusioni opposte rispetto al passato.

E' stata, infatti, costantemente affermata la natura di soggetti privati dei consorzi e della Fedit.

Le decisioni giurisprudenziali in merito si sono, inoltre, progressivamente diradate a partire dagli anni Settanta in poi, in coincidenza temporale con l'affievolirsi delle gestioni pubblicistiche per conto dello Stato ed il definitivo consolidarsi dell'accezione imprenditoriale privatistica dei consorzi e della loro Federazione.

Lo svolgimento di funzioni pubblicistiche si collocava nella classificazione dell'esercizio privato di funzioni e servizi pubblici e, quindi, nella separazione tra natura degli enti e connotazioni di parte del loro agire e dello loro finalità, con conseguenti riflessi sul piano delle responsabilità e delle garanzie patrimoniali non estensibili allo Stato.

Occorre, tuttavia, precisare che, ai fini penali, si riteneva che si connotasse di rilievo pubblicistico, con opposti riflessi sulle connesse responsabilità personali, la parte dell’attività della Federazione e dei consorzi che concerneva la gestione degli ammassi, volontari od obbligatori che fossero.

La natura giuridica di private imprese cooperative dei consorzi e della Fedit deve, comunquein ogni modo, ritenersi acquisita al patrimonio delle conoscenze giuridiche degli operatori, almeno dagli anni Cinquanta in poi.

Ad attestazione dell'assunto si pongono i contenuti delle schede elaborate dagli uffici, cui era affidata l'istruttoria delle pratiche di affidamento della Federconsorzi, degli istituti di credito che ne erano creditori alla data del commissariamento, acquisite dalla Commissione.

In tutte è chiaramente enunciata la natura di cooperativa privata della Fedit.

Se la natura giuridica era nota, dalla commistione di natura privata e funzioni pubbliche, derivava la legittima considerazione della Federconsorzi come una sorta di ente economico con funzioni pubblicistiche che concorreva alla politica agricola nazionale.

L'assunto trova il massimo riconoscimento in due pronunce successive della Corte costituzionale del 1995 (sentenze nn. 384 e n. 517).

La Corte -  richiesta di pronunciarsi dalle Regioni che, a seguito del progressivo trasferimento ad esse delle competenze nel campo dell'agricoltura, rivendicavano nel corsi degli anni la competenza esclusiva sui consorzi agrari - si era in precedenza pronunciata con sentenza n.  63 del 1969 affermando che i consorzi agrari svolgevano compiti di spettanza statale e che per la loro essenza avevano rilevanza nazionale, con specifico riferimento alle operazioni di ammasso e di distribuzione delle merci, agli interventi di mercato previsti dalla Comunità europea, dal cosiddetto "piano verde", allae funzioni svolte per conto dell'AIMAIMA.

Con le sentenze sopra citate nn.  384 e n. 517, - che tenevano conto delle sopravvenute leggi leggi n. 364 del 1970, n. 111 del 1965 e n. 616 del 1977, che ampliavano tutte le competenze regionali, la Corte, fatta propria l'affermazione della difesa dello Stato, secondo cui i consorzi svolgevano una serie di compiti non strettamente rientranti in campo agricolo, affermava: "alla luce degli elementi legislativi e giurisprudenziali può concludersi che i consorzi agrari costituiscono a tutt'oggi strumenti dell'intervento pubblico sul mercato agricolo e risultano pertanto ancora ispirati al conseguimento di finalità nazionali; finalità che in questa materia non risultano essere soddisfatte in via esclusiva da altri organismi."

In dipendenza delle loro funzioni pubblicistiche, fu riconosciuto ai consorzi di svolgere funzioni di agenzie assicurative per conto dell'assicurazione degli agricoltori partecipata dalla Federconsorzi, la FATA.

Al sistema federconsortile furono affidati, in sintesi, compiti tipici di una agenzia governativa.

Esso ebbe grande rilievo nell'assetto strutturale dell'agricoltura nazionale, almeno fino a quando la politica agricola non divenne comunitaria ed il centro decisionale si spostò da Roma a Bruxelles.

Ciò consente di comprendere la posizione delle banche estere che avevano finanziato la Fedit e che, a crisi conclamata, in forza di argomenti non giuridici (nei contratti da esse stipulati la Fedit era chiaramente indicata come un soggetto privato) si attendevano che degli impegni di essa si facesse carico il Governo italiano.

4. La gestione tra normativa e prassi: il ruolo delle organizzazioni professionali

La Federconsorzi non era, quindi, che una società cooperativa di secondo grado perché i suoi unici soci erano società cooperative.

Si trattava, tuttavia, di cooperative che non potevano darsi libere regole.

La loro vita era interamente governata da regole imposte con legge e contenute negli statuti tipo.

Esse erano obbligate ad associarsi alla Federconsorzi ed a rispettarne lo statuto.

I consorzi erano governati secondo un principio maggioritario che assegnava alla maggioranza un potere assoluto sugli organi di amministrazione attiva ed una importante partecipazione a quello di autocontrollo.

Il Ccollegio sindacale annoverava due su sei componenti appartenenti alla maggioranza.

La scelta di quello che, con linguaggio corrente, si usa definire come management, non era possibile perché il direttore di un consorzio non poteva provenire che dalle fila di quelli abilitati dalla Fedit, in numero chiuso ed in intuitiva sintonia con essa.

Anche la Federconsorzi era governata dalla stessa regola maggioritaria che assegnava al gruppo che avesse riportato il maggior numero di voti in Assemblea la presidenza ed il controllo del Consiglio di amministrazione, del Comitato esecutivo ed una significativa presenza nel Collegio sindacale, ancorché, quanto a quest’ultimo, lo statuto raccomandasse di scegliere preferenzialmente i sindaci tra i direttori dei consorzi.

A ciò va aggiunto che la funzione di garanzia che i sindaci di nomina ministeriale, ed in particolare i presidenti dei Collegi sindacali, quasi sempre coincidenti con quelli designati dal Ministero dell’agricoltura, avrebbero dovuto svolgere, come meglio si dirà in seguito, non fu di fatto mai assicurata e non costituì mai un ostacolo per il dispiegarsi degli interessi della maggioranza.

Si tratta di aspetti che legittimano l’opinione di chi ritiene che, con l’adozione del decreto legislativo n. 1235 del 1948, emanato meno di un mese prima delle elezioni che segnarono il primato, destinato a durare per circa mezzo secolo, del partito della Democrazia cristiana, si volle mantenere sostanzialmente invariata la struttura corporativa prebellica procedendo ad un cambiamento nominale e non sostanziale.

Sembra evidente il disegno, nelle norme integrate dagli statuti obbligatori, di un modulo organizzativo che non mirava ad assicurare la libera espressione di voci politicamente diverse, tra loro contrastanti o dissonanti, ma l’egemonia di una sola parte così realizzando un controllo integrale sul sistema consorzi-Federazione e, quindi, di riflesso, un controllo forte su gran parte del mondo agricolo.

Esso si rivelò un formidabile strumento di controllo politico. Infatti la Coldiretti, con metodi fortemente controversi ma anche con strumenti più efficaci e con maggior sintonia con il modo di essere e di sentire dell’impresa contadina di allora, riuscì immediatamente ad impadronirsi del sistema, conquistandone il dominio pressoché assoluto, durato fino al commissariamento della Fedit e, come si vedrà, anche oltre.

Essa non ebbe avversari od oppositori.

Una seconda organizzazione, di non contrastante ispirazione, la Confagricoltura - l’organizzazione sindacale degli imprenditori agricoli - condivise il controllo dei consorzi e della Fedit, ma in posizione minoritaria e sostanzialmente subordinata.

Va ricordato che le due organizzazioni professionali esprimevano una forte rappresentanza politica e parlamentare.

In particolare, per alcune legislature, una parte significativa, per peso numerico e politico, dei gruppi parlamentari della Democrazia Ccristiana era costituita da deputati e senatori espressi dalla Coldiretti.

Alla Fedit fu affidata la gestione di una parte degli aiuti previsti dall’E.R.P. (European Recovery Program) -  e cioè dal programma meglio noto come "Piano Marshall"  - mediante l'acquisto di grano all'estero e la sua successiva commercializzazione.

Sull’attuazione di quest’ultimo e di d’i altri piani di d’i aiuti internazionali (U.N.R.R.A. - U.S.F.A.R. - A.U.S.A.) che si concretizzavano nell’approvvigionamento e nell’ammasso delle derrate alimentari ed in particolare nell’ammasso del grano, durato fino alla campagna 1963-1964, la Fedit costruì la sua potenza economica e finanziaria che raggiunse il culmine negli anni Sessanta.

Basta considerare che in quell’epoca il patrimonio immobiliare della Federconsorzi era passato da un valore di 3,5 milioni dell’immediato dopoguerra a ben 8.336 milioni con un aumento vertiginoso.

Attuata la conquista del governo dei Cconsigli di amministrazione e dei Ccomitati esecutivi, le cui decisioni non trovavano alcun controllo nei Collegi sindacali che erano espressione dei medesimi interessi, le organizzazioni sindacali che si dividevano la rappresentanza dei consorzi e della Fedit, passarono progressivamente, con la scomparsa di personalità come quelle di Bonomi e Mizzi, che avevano impresso alla Fedit una direzione forte ancorché controversa, ad una vera e propria direzione esterna.

Sentendosi legittimati dal rappresentare la quasi totalità dei soci dei consorzi e la totalità dei soci della Fedit, la Coldiretti e la Confagricoltura finirono per confondere i loro interessi sindacali con quelli dell’intero sistema federconsortile.

La Commissione ha maturato il convincimento che esse, sia pure in misura diversa, dirigevano di fatto la Fedit, gestendo risorse di sostanziale derivazione pubblica, perché in gran parte accumulate grazie alla politica dei pubblici ammassi, nulla rischiando del loro patrimonio, ed anzi attribuendosi parte dei ricavi, sotto forma di contribuzioni miliardarie di dubbia legittimità.

Anche le scelte di politica economica e finanziaria che portarono al tracollo del sistema, furono assunte dai due sindacati ed in particolare dalla Coldiretti.

Sistematicamente, infatti, negli ultimi anni, le riunioni dei Consigli di amministrazione e dei Comitati esecutivi della Fedit erano preceduti da preconsigli e cioè da riunioni separate dei consiglieri della Coldiretti e di quelli della Confagricoltura, presiedute dai rispettivi dirigenti, ed in particolare, per la Coldiretti, dal presidente Lobianco, che discutevano gli argomenti all'ordine del giorno degli organismi amministrativi e prendevano le relative decisioni, che, quindi, venivano semplicemente ratificate nel corso delle riunioni ufficiali.

Con parole di grande chiarezza l’ex sottogretario all’agricoltura, onorevole Noci, ha illustrato a questa Commissione, nella seduta del 22 febbraio 2000, il reale ruolo dell’ultimo presidente della Fedit, ragionier Luigi Scotti, e della direzione esterna esercitata dalla Coldiretti: "Nella Federconsorzi il presidente Scotti era tra coloro che meno erano al corrente dei fatti (…; veniva chiamato bonariamente "Piero) Firma", cioè il grullo che firma quello che preparano gli altri.

Io ho conosciuto poco il presidente Scotti ma era chiaro che non era lui a compiere le scelte; contava il Presidente della Coldiretti che premeva in un senso, contava il Presidente dei consorzio agrario di Ferrara che premeva in un altro e, perché così magari in quel collegio era più facile prendere voti, poteva presentarsi chiunque altro con un'altra carica e sarebbe stato accontentato anche lui. Scotti firmava la sintesi di queste volontà".

La Commissione ha raccolto un coro di voci e di indicazioni in ordine alla effettiva direzione della Fedit che si identificava, quanto alle principali scelte strategiche e di politica d'impresa, nella presidenza della Coldiretti ed in parte minore in quella della Confagricoltura.

Per tutte è significativa la testimonianza di un componente dell'ultimo Consiglio di amministrazione, il deceduto dottor Pietro Gentili, imprenditore agricolo e presidente del consorzio agrario di Siena, di estrazione Confagricoltura.

Si riportano, di seguito, estratti della sua deposizione, del 1° marzo 1995, alla Commissione ministeriale di indagine.: Da essa emerge, altresì, il motivo del rigetto del piano di salvataggio e di ristrutturazione della Federconsorzi, elaborato dal direttore generale, dottor Pellizzoni, per insanabile contrasto con la struttura stessa della organizzazione consortile.

"(…) Il consiglio di Amministrazione funzionava poco, non aveva importanza, le decisioni passavano sempre sulla nostra testa.

(…) Le grosse decisioni spesso non passavano, che so, la nomina del Direttore Generale non è mai passata né per il Comitato (Eesecutivo n.d.r.) né per il Consiglio.

(…) Sono il solo, mi trovo in un comitato di cinque persone, quattro e cinque con il Presidente, dove tutto quello che dicevo ero soltanto io a verbalizzare, io soltanto a protestare, gli altri quattro accettavano passivamente.

(…). gGuardi le dirò tutto. Lì dentro è sempre mancato il proprietario insomma perché c'era un Lobianco che non appariva mai ma era quello che tirava le fila (….. però lì dentro non c'era nessuno. Wallner che litigava con Lobianco e la struttura si era praticamente impossessata, la struttura, di questa organizzazione. Noi quattro consiglieri divisi così perché io ero il solo, gli altri erano legati alla struttura, io dicevo ma figlioli, quando vado a casa mia, a me mi costa la Federconsorzi, io non vedo l'ora di scendere gli altri invece per loro era non lo so il sistema per stare a Roma od altro e quindi praticamente …)….. questo proprietario non c'è stato mai quindi noi abbiamo vissuto da un direttore generale come Mizzi capacissimo, in gamba, molto bravo che ha creato il patrimonio poi è passato a un Bassi che è stato un ragioniere, un ottimo ragioniere, poi tutti quanti si sono illusi, la struttura, di fare il secondo Mizzi (…)o il secondo caso e abbiamo avuto un direttore generale che è stato una tragedia. Debbo dirlo che il direttore generale che è venuto fuori (…). che ad un certo punto non si sapeva mai quello che faceva (…). …., le indecisioni, le cose od altro.

D.: chi è questo direttore di cui sta parlando?

…..R.:I il direttore (…) come si chiama, Scotti che poi hanno nominato presidente della Federconsorzi ( questo Scotti, da direttore generale è stato nominato presidente della Federconsorzi…. Per quali motivi… dice ma voi eravate nel consiglio e potevate dire ma come ma chi, io ero un voto lì dentro, ero un voto.

D.: senta, la vostra nomina come consiglieri a termine di statuto come avveniva, da chi erano proposti i vostri nominativi?

R.: erano dalle due organizzazioni che…

D.: quindi le due organizzazioni avevano la potestà di nominare i consiglieri di amministrazione?

R: certo e poi dovevano distribuirli?

D: e giuridicamente chi vi nominava?

Altro: erano designazioni provenienti dall'alto?

D: era l'assemblea dei soci?

R: l'assemblea certo eleggete questo eleggete quest'altro…

D: quindi voi formalmente l'investitura l'avevate dall'assemblea dei soci della Federconsorzi?

Altro: lei veniva nominato?

R.: la Confagricoltura mi ha nominato (…)"…).".

Un altro consigliere della Federconsorzi, il dottor Alessandro Sandra, dichiarava alla Commissione ministeriale di indagine Poli Bortone il 1° marzo 1995: " (…) La Federconsorzi era amministrata da Confagricoltura e Coldiretti, cioè dai Consiglieri, ma che erano espressione degli azionisti. (…) Noi consiglieri, prima delle riunioni, facevamo dei preconsigli, nel senso che la Confederazione di appartenenza (nel mio caso la Coldiretti) ci invitava per un predibattito sugli argomenti all’ordine del giorno della riunione successiva".

 

"(…) Passai alla Federconsorzi e ci sono stato dall'85 fino al '91 quindi fino al crollo. Perché ci sono stato? Perché mi sono illuso di poterla salvare la Federconsorzi; sarei potuto scappare, tutti i topi scappano, io invece sono stato fino all'ultimo perché mi illudevo di salvare la Federconsorzi. Perché queste illusioni, glielo spiego perché io entrai di dentro, situazione strana, anomala dove c'è un Presidente e quattro, noi eravamo in 4 consiglieri, 2 di un'organizzazione e due dell'altra. Francamente la Confagricoltura, essendo un'organizzazione basata sui numeri e sui voti e quindi la Confagricoltura aveva perso un sacco di consorzi, erano rimasti pochi i Consorzi nella Confagricoltura e aveva pochissima capacità di poter influenzare l'andamento della Federconsorzi perché la Coltivatori Diretti era quella che faceva quello che voleva insomma eravamo appena tollerati insomma e a me mi chiamò Wallner.

(…) Il consiglio di Amministrazione funzionava poco, non aveva importanza, le decisioni passavano sempre sulla nostra testa.

(…) Le grosse decisioni spesso non passavano, che so la nomina del Direttore Generale non è mai passata né per il Comitato o per il Consiglio.

D.: E come facevano? E come avveniva allora, mi scusi?

R.: Prima di tutto c'era questo. Per chiamare il Direttore Generale le due Organizzazioni che lo hanno nominato.

D.: E lo nominavano loro? Ma mica avevano i poteri formali per farlo. Da un punto di vista formale ci voleva un atto vostro.

R.: Lo nominavano loro. E d'altronde io dico francamente. Io non sarei stato nemmeno in grado di nominare un Consigliere di una Federconsorzi perché ecco io faccio l'agricoltore, sono, sto a Siena, io ho chiesto a Stefano Wallner nomina qui un Direttore Generale forte, una persona importante, questo mi sono raccomandato.

D.: e nominò Pellizzoni. Ora le dico, questo, questa nomina però l'avrà fatto il Consiglio.

R.: ah, ma certo. Ma dopo quando ce l'hanno presentata abbiamo nominato questo.

(…) Sono il solo, mi trovo in un comitato di cinque persone, quattro e cinque con il Presidente dove tutto quello che dicevo ero soltanto io a verbalizzare, io soltanto a protestare, gli altri quattro accettavano passivamente.

D.: le decisioni prese altrove..

R.: tant'è vero quando Pellizzoni presenta il piano allo Sheraton davanti alla Confagricoltura tutta questa schierata, la Coltivatori Diretti e tutta la Federconsorzi, io vorrei leggervi anche le lettere.

D.: poi ci dirà qualcosa anche sul piano.

R.: cosa faccio; chiedo la parola e dico guardate che per me che ho un consorzio, questo piano non è calabile nella realtà dei consorzi agrari italiani.

D.: l'ha verbalizzato questo?

R.: certo!… nell'89… non è realizzabile, non è calabile…

D.: ecco perché non è…

R.: perché ad un certo punto il Pellizzoni che si circonda nella sua attività di consulenti, una valanga di consulenti che non sapevano niente, saranno stati specialisti bravissimi nel campo dell'industria ma nel campo di consorzi agrari non sapevano niente. Io me ne accorgo quando ad un certo punto mi porta il progetto di Grosseto o altro dove per dire per loro il Direttore doveva andare a vendere i concimi, dovevano uscire fuori ma, ma voi siete tutti pazzi siete qui dentro, e faccio una grossa battaglia perché secondo me non si risanava così la Federconsorzi assolutamente, quindi, allo Sheraton davanti a tutti io chiedo la parola e dico scusate un momentino. Io vi dico che questo piano non è calabile nella realtà attuale dei consorzi agrari. Forse se dovesse essere fatto ex novo per una nazione nuova, può anche essere fatto ma data le realtà che ci sono senza mancanza di dirigenti non è calabile nella realtà e voglio che sia verbalizzato però dal momento che tutti quanti lo avete approvato io mi metto al servizio del piano anzi cercherò di non ostacolarlo e c'ho la lettera di Pellizzoni che gli scrivo tutto quanto dove lui dice, ma allora lei con questa sua opera, lei mi vuol fare saltare il piano? No, dico, praticamente gli sbagli che ci sono che state facendo, state facendo un sacco di sbagli e lo urlo, lo verbalizzo, lo dico, lo scrivo che altro potevo fare, ero solo a fare questo, non c'era altro, nessuno lì dentro ha mai parlato.

(…) Ecco senta, noi del commissariamento non sapevano niente, noi speravamo di poter salvare la baracca.

D.: ma salvarla voi o mediante il commissariamento?

R.: pensavamo di salvarla perché praticamente nel 90 il Pellizzoni ed il Bambara ci fanno una dichiarazione, ci dichiarano in Comitato addirittura che la situazione era imbrigliata che nel '94 la situazione sarebbe ormai tornata in parità. L'indebitamento massimo Fedit scenderà a 800 miliardi, il deficit delle società passerà da 140 a 70 miliardi, stiamo superando il 35% di contanti, i recuperi maggio, giugno, luglio stanno aumentando, abbiamo imbrigliato il sistema. Questo ce lo dichiarano il 3 agosto del '90.

D.: quindi, insomma, erano ottimisti. Invece poi cosa è successo?

R.: è successo invece che la situazione è sfuggita completamente a loro è sfuggita, no? Tutte queste enormi spese che hanno fatto il Pellizzoni od altro non hanno dato i risultati attesi perché erano misure sbagliate quindi c'è il commissariamento. Io ho criticato il commissariamento in questo senso perché secondo me l'azienda poteva e doveva essere anche commissariata ma non posta subito in stato fallimentare, ho sempre detto secondo me avrei commissariato e poi dopo un anno o due anni vediamo che cosa si può fare.

D.: ma commissariata come, mi spieghi che tipo di commissariamento lei avrebbe fatto.

R.: cioè, dobbiamo essere ancora più precisi, bisogna dirle tutte le cose, guardi le dirò tutto. Lì dentro è sempre mancato il proprietario insomma perché c'era un Lobianco che non appariva mai ma era quello che tirava le fila però lì dentro non c'era nessuno. Wallner che litigava con Lobianco e la struttura si era praticamente impossessata, la struttura, di questa organizzazione. Noi quattro consiglieri divisi così perché io ero il solo, gli altri erano legati alla struttura, io dicevo ma figlioli, quando vado a casa mia, a me mi costa la Federconsorzi, io non vedo l'ora di scendere gli altri invece per loro era non lo so il sistema per stare a Roma od altro e quindi praticamente questo proprietario non c'è stato mai quindi noi abbiamo vissuto da un direttore generale come Mizzi capacissimo, in gamba, molto bravo che ha creato il patrimonio poi è passato a un Bassi che è stato un ragioniere, un ottimo ragioniere, poi tutti quanti si sono illusi, la struttura, di fare il secondo Mizzi o il secondo caso e abbiamo avuto un direttore generale che è stato una tragedia. Debbo dirlo che il direttore generale che è venuto fuori che ad un certo punto non si sapeva mai quello che faceva, le indecisioni, le cose od altro.

D.: chi è questo direttore di cui sta parlando?

R.: il direttore come si chiama, Scotti che poi hanno nominato presidente della Federconsorzi questo Scotti, da direttore generale è stato nominato presidente della Federconsorzi…. Per quali motivi… dice ma voi eravate nel consiglio e potevate dire ma come ma chi, io ero un voto lì dentro, ero un voto.

D.: senta, la vostra nomina come consiglieri a termine di statuto come avveniva, da chi erano proposti i vostri nominativi?

R.: erano dalle due organizzazioni che…

D.: quindi le due organizzazioni avevano la potestà di nominare i consiglieri di amministrazione?

R: certo e poi dovevano distribuirli?

D: e giuridicamente chi vi nominava?

Altro: erano designazioni provenienti dall'alto?

D: era l'assemblea dei soci?

R: l'assemblea certo eleggete questo eleggete quest'altro…

D: quindi voi formalmente l'investitura l'avevate dall'assemblea dei soci della Federconsorzi?

Altro: lei veniva nominato?

R.: la Confagricoltura mi ha nominato.

Altro: erano i due presidenti che decidevano e poi facevano formalizzare dagli organismi all'uopo…?

(…) R.: Dunque rispondo alle due domande. La prima che lei mi ha fatto dunque era gestione dei crediti. Io qui faccio una battaglia, come in tutte le cose, perché faccio una battaglia, perché io c'avevo grazie a Dio ero riuscito a portare un consorzio in attivo dalla tragedia quindi io non voglio, assolutamente la solidarietà, perché così andiamo a premiare i consorzi sfasciati e chiudendo i bilanci così, ma lì dentro erano tutti sfasciati erano, tutti quanti, invece erano il contrario, nessuno mi veniva dietro perché io non posso ad un certo punto, se la Federconsorzi, noi siamo azionisti della Federconsorzi, se la Federconsorzi guadagna cento lire, dobbiamo beneficiarne tutti noi azionisti, no che ad un certo punto i guadagni devo andare soltanto ai consorzi sfasciati per riportare su i consorzi sfasciati che poi non riportavano su niente, cioè era una mungitura generale, quindi io mi oppongo proprio a questo fatto, io non sono solidale con i consorzi sfasciati.

(…) Come consigliere e come membro del Comitato della Federconsorzi ho espresso apertamente il mio pensiero sul piano presentato dal dr. Pellizzoni nell'incontro che avvenne all'hotel Sheraton il 29 marzo 1990. Alla presenza sua, in qualità di presidente Fedit, dei presidenti e Direttori generali della Confagricoltura e Coldiretti e di tutti i colleghi presidenti dei C.A.P. italiani, conscio dell'assoluta improcrastinabile necessità di una trasformazione e di un rilancio della nostra organizzazione parlai volontariamente per ultimo per non creare turbative negli altri colleghi, anticipando e prevedendo le difficoltà che il piano avrebbe incontrato. Dissi testualmente che questo piano, ottimo se si dovesse applicare per la costruzione ex novo di un'altra Fedit, avrebbe tuttavia incontrato grosse difficoltà per applicarlo nella nostra organizzazione e più particolarmente per calarlo nella realtà dei consorzi che versano in condizioni economiche precarie per mancanza di uomini capaci, di strutture moderne, di agenzie efficienti, di sistemi di controllo validi. E lo dissi allo Sheraton, davanti a tutti".

Un altro consigliere della Federconsorzi, il dottor Alessandro Sandra, dichiarava alla Commissione ministeriale Poli Bortone il 1° marzo 1995:

" (…) La Federconsorzi era amministrata da Confagricoltura e Coldiretti, cioè dai Consiglieri, ma che erano espressione degli azionisti. (…) Noi consiglieri, prima delle riunioni, facevamo dei preconsigli, nel senso che la Confederazione di appartenenza (nel mio caso la Coldiretti) ci invitava per un predibattito sugli argomenti all’ordine del giorno della riunione successiva".

Ai preconsigli, oltre agli amministratori della Federconsorzi partecipavano "il Presidente della Coldiretti, qualche volta il Segretario Centrale e di solito il Presidente della Federconsorzi che veniva ad esporre l’ordine del giorno. Questa procedura, cioè l’azionista di maggioranza e di minoranza che riunisce i Consiglieri e li informa dell’ordine del giorno, ci sembrava allora assolutamente normale".

Dal punto di vista giuridico Coldiretti e Confagricoltura non si potevano definire azionisti, ma "lo erano di fatto"; le decisioni di un certo peso le prendevano loro".

Ha dichiarato il ragionier Luigi Scotti, il 20 marzo 1995, alla Commissione ministeriale di indagine:

"(…) Sembra essere il decreto legislativo che dà questa potestà di rapporto alle due organizzazioni perché il Consiglio della Fedit è fatto dai Presidenti dei C.A. i quali sono nominati dai soci che sono iscritti nelle due organizzazioni a carattere generale (Confagricoltura e Coliretti). Attraverso questa delega surrettizia le organizzazioni ritenevano nell’ambito della politica generale dell'agricoltura italiana di dare pareri sulle decisioni importanti della Federazione.

Come Presidente partecipavo ai preconsigli della Coldiretti, come Presidente espresso dalla Coldiretti. Non ho mai partecipato ai preconsigli della Confagricoltura".

A distanza di cinque anni, dinanzi a questa Commissione, nella seduta del 15 luglio 2000, il rag.ionier Scotti nel confermare che "(…) …i preconsigli si svolgevano generalmente il giorno prima del consiglio di amministrazione. Io partecipai ai preconsigli dal momento in cui divenni presidente; i direttori generali non partecipavano ai preconsigli. (…). Vi partecipavano i membri del consiglio di amministrazione della Federconsorzi (…)... Vi partecipavano i rappresentanti che, nel consiglio di amministrazione, rappresentavano le singole confederazioni, cioè la Coltivatori diretti da una parte e la Confagricoltura dall'altra. In questi preconsigli si discutevano i principali problemi (…)..…… da tempo immemorabile (…). ha tentato di presentarli come discussioni dalle quali non scaturivano decisioni vincolanti: ……"(…) I preconsigli si svolgevano evidentemente in funzione dell'ordine del giorno del consiglio di amministrazione; si discutevano gli argomenti, però non ho mai sentito, nei preconsigli a cui ho assistito come presidente, porre vincoli alle determinazioni del consiglio del giorno successivo. Nel preconsiglio vi era un dibattito sugli argomenti. Il giorno successivo, nel consiglio di amministrazione, ciascuno evidentemente si comportava in funzione della propria coscienza e del proprio intendimento. Quindi, ripeto, per quei due anni nei quali io in qualità di presidente, ho assistito ai preconsigli, non c'è stata nessuna imposizione del vincolo".

Tali affermazioni non sono parse alla Commissione né persuasive né credibili. E’ noto che le riunioni di gruppi omogenei di consiglieri nelle società non hanno altro scopo che quello di pre-concordare la linea comune da tenersi nei consigli di amministrazione.

Se non fossero sufficienti le affermazioni di d’opposto contenuto sopra riportate, basterebbe scorrere Basta scorrere i verbali dei cConsigli di d’amministrazione della Fedit per rendersi conto dell’assoluta assenza di posizioni individuali.

In data 9 luglio 1985 dichiarava, infatti, non senza compiacimento nel corso del Consiglio di amministrazione il Ppresidente Truzzi: (…) iIl nuovo impegno dell'Organizzazione Federconsortile fu delineato in un programma deciso concordemente dalle due confederazioni generali che esprimono questo consiglio di amministrazione (…) non vi è stata mai situazione di maggioranze e minoranze; si è deciso sempre insieme e non a colpi di votazione(…)".

In una nota riservata indirizzata ai quadri dirigenti datata 26 aprile 1988, trasmessa ai quadri dirigenti dal pPresidente della Confagricoltura il dottor dott. Wallner, presidente della Confagricoltura dal 1983 al 1989, scriveva a proposito dell’atteggiamento dei consiglieri della Confagricoltura:, pur rivendicando una posizione della sua organizzazione differenziata da quella della Coldiretti sul futuro dei consorzi Aagrari e della Federconsorzi non riconosceva che :"(…) noi facciamo parte del consiglio d’amministrazione in una condizione che è sostanzialmente di minoranza (…).. però abbiamo continuato a comportarci finora come se facessimo parte della maggioranza in quanto tutte le decisioni sono state prese finora all’unanimità (…). E’ quando è capitato che nel comitato esecutivo (…). che i nostri rappresentanti abbiano rifiutato di votare una certa delibera la votazione è stata sospesa fino a quando non si è trovato un punto di incontro".

Poco tempo dopo, il 21 luglio 1988, il presidente Truzzi rassegnava tuttavia a verbale che "(…) ci siamo incontrati e confrontati con le due Confederazioni nelle persone dei due presidenti on. Lobianco, drr. Wallner (…) vi è concordia nelle valutazioni delle difficoltà attuali del settore agricolo e sulle possibilità di dare adeguate risposte.

In particolare vi è accordo (…) su un adeguato sforzo per il recupero dell'efficienza dei consorzi agrari e delle società".

In nota: il quadro della situazione dei consorzi era ancora presentato in forma edulcorata.

Il dott.or Wallner, pPurresidente della Confagricoltura dal 1983 al 1989, lamentando la difficoltà di praticarla e la posizione minoritaria della organizzazione da lui presieduta rispetto alla Col diretti, ha ribadito, nel corso dell'audizione del 1° febbraio 2000, il concorso della Confagricolturasua organizzazione alla guida della Fedit:

"…(…).. L'organizzazione di cui ero presidente era, come è ben noto, la parte minoritaria, il socio di minoranza dell'organizzazione cooperativa della Federconsorzi e, per quanto sia difficile dirlo, "concorreva"(…)... con fatiche inaudite e successi scarsissimi alla gestione di una Federconsorzi (…)…

……..

Noi eravamo, nell'ultima fase della mia gestione, minoritari, otto consiglieri a dieci (…).. Comunque, era tale l'ammontare delle deleghe (…)… per la gestione ordinaria, ma anche per la rilevantissima gestione finanziaria, che svuotavano di fatto la conoscenza dei consiglieri certamente di minoranza, ma, a mio avviso, anche dei consiglieri normali della maggioranza, in quanto molti di loro – io stesso – venivano a sapere di decisioni finanziarie rilevanti a consuntivo dei bilanci.

(…)… Riunivo in genere i due membri del comitato esecutivo in quanto ero a digiuno di ciò che avveniva dal momento che due o tre giorni prima mi arrivava semplicemente un foglietto dove era indicato per punti il capitolo in discussione di cui non si sapeva assolutamente mai nulla quindi utilizzavo queste pre riunioni tutte informali per documentarmi.

Le decisioni (….dei Consigli di amministrazione n.d.r. )… per quanto mi risulta, erano già determinate e non certo nel senso indicato dalla Confederazione o dal Presidente Wallner"..

In nota

Su come lLee associazioni venissero poste in grado di eseguire una delibazione preventiva vano informate direttamente anche delle decisioni concernenti la gestione esecutiva della Federconsorzi si può ritenere esemplare una nota. del 29 novembre 1988 del direttore generale ragionier Scotti indirizzata

Scriveva il ragionier Scotti proprio al presidente della Confagricoltura Wallner: il 29 novembre 1988:

"Le trasmetto il fascicolo relativo al comitato esecutivo della Federconsorzi convocato per il giorno 3 c.m. alle ore 10.30. A sua disposizione per qualsiasi chiarimento; le porgo i più cordiali saluti".

Ed aA riprova dell'assunto che le decisioni riunioni del consiglio di amministrazione della Fedit venivano precedute da decisive rriunioni delle associazioni di categoria che avevano assunto un carattere formale, si annovera può, emblematicamente citare, tra i tanti documenti, uun telegramma del 4 marzo 1991, e cioè di due mesi prima del commissariamento, indirizzato al presidente Scotti :

"Riunione preconsiglio Fedit est convocata presso sede confederale Roma via 24 maggio 43 mercoledì 13 marzo prossimo ore 18 stop Pregasi non mancare Arcangelo Lobianco presidente Coldiretti."

Persino il rappresentante della Fedit presso la CEE veniva designato nella persona di un dirigente della Coldiretti.

D’altra parte lo stesso pPresidente Lobianco, in una intervista rilasciata nel 1992 al giornalista Antonio Saltini, si assumeva espressamente le responsabilità di scelta delle strategie e degli uomini per la Fedit.

Infatti, alla domanda diel signor Saltini: "(...) se Lobianco avoca a sé la responsabilità di scegliere strategie ed uomini non può ricusare poi la responsabilità sull’esito finale delle sue decisioni", l'onorevole Lobianco rispondeva: "In questi termini assumo quella responsabilità". (Da Terra e Vita, n.1/92).

E sicuramente, a giudizio di questa Commissione, tra le maggiori responsabilità dell’eclisse della Federconsorzi, vi sono le scelte strategiche compiute dal 1982 in poi dalla Coldiretti ed, in misura minore, per il minor peso che essa aveva, dalla Confagricoltura.

Il presidente dott. Wallner ha rivendicato per la sua breve gestione, coincisa con gli anni cruciali delle scelte mancate per la sorte della Federconsorzi, una lucida ed inascoltata intelligenza dei problemi.…….Sono un imprenditore qualsiasi con qualche conoscenza privilegiata perché il sindacato me ne ha dato l'opportunità, ma se lei prende i bilanci della Federconsorzi dal 1980 in poi credo che da una prima lettura dei crediti verso i consorzi agrari, che ammontavano a 2.200-2.300-2.500 miliardi, risulta che molti di questi consorzi agrari erano in decozione e molti altri in amministrazione coatta amministrativa. Chi li restituiva questi soldi?.

Non pare, però, alla Commissione che il dottor Wallner, nonostante talela consapevolezza e l'assunzione di alcune meritorie iniziative, abbia mai rinunciato ai cospicui vantaggi del sistema.

 

 

 

 

 

 

Capitolo Terzo

 

I controlli sulla Federconsorzi e sui consorzi agrari

  1. Natura e disciplina

Il catalogo dei controlli sui consorzi agrari e sulla Fedit affidati al Ministero dell’agricoltura e, per i consorzi siciliani, alla Regione Sicilia è riprodotto nella pagina a f iancoIn forza dell'articolo 35 del decreto legislativo 7 maggio 1948 n. 1235, ai consorzi agrari ed alla Fedit erano applicabili le disposizioni degli articoli dal 2542 eal 2545 del codice civile. (????)

; i poteri in essi previsti erano esercitati dal Ministero dell'agricoltura, al quale era, inoltre, conferita la facoltà di:

  1. disporre ispezioni sul funzionamento dei consorzi agrari;
  2. sospendere l'esecuzione di deliberazioni od atti illegittimi o contrari alle finalità dei consorzi o al pubblico interesse;
  3. annullare in ogni tempo gli atti contrari alle leggi, ai regolamenti e, di concerto con il Ministero del lavoro, quelli contrari agli statuti.

I consorzi e la Fedit avevano l'obbligo di comunicare al Ministero dell'Aagricoltura:

  1. i bilanci;
  2. le deliberazioni dei cConsigli, e dei cComitati esecutivi e delle Aassemblee.

I consorzi erano obbligati a scegliere il direttore tra gli iscritti al ruolo dei dirigenti dei consorzi tenuto dalla Fedit.

Il Ccollegio sindacale dei consorziCap era composto di tre membri effettivi e di due supplenti.

Esso era integrato per le materia di pubblico interesse:

  1. da un rappresentante del Ministero dell’agricoltura;
  2. da un rappresentante del Ministero del lavoro;
  3. da un rappresentante del Ministero del Tesoro.

L'art.icolo 2542 del codice civilec.c. stabilisce che le società cooperative sono sottoposte alle autorizzazioni, alla vigilanza ed ai controlli sulla gestione stabiliti dalle leggi speciali, mentre l'art.icolo 2545 dispone in tema di inerzia od irregolarità del liquidatore.

I controlli dell’autorità governativa previsti per tutte le cooperative erano quindi affidati, relativamente ai consorzi agrari ed alla Fedit, al Ministero dell’agricoltura che quindi poteva:

  1. in caso di irregolare funzionamento, revocare amministratori e sindaci e nominare un commissario governativo;
  2. sciogliere consorzi e Federazione nel caso in cui non fossero state nella condizione di raggiungere gli scopi istituzionali, non avessero depositato i bilanci per due anni consecutivi ed infine nel caso di inoperatività;
  3. nominare i liquidatori e sostituirli in caso di irregolarità o ritardi;
  4. disporre ispezioni sul funzionamento dei consorzi e della Fedit;
  5. sospendere l’esecuzione di deliberazioni od atti illegittimi o contrari alle finalità istituzionali o al pubblico interesse;
  6. annullare gli atti contrari alle leggi, ai regolamenti, ed agli statuti.

I consorzi agrari e la Fedit avevano l’obbligo di dare comunicazione al Ministero dell'Aagricoltura dei bilanci, delle delibere dei Cconsigli di amministrazione, dei Ccomitati esecutivi e delle aAssemblee e delle proposte di modifiche statutarie.

Da questa elencazione appare evidente la natura ordinaria dei controlli, che avevano connotazioni sia di legittimità sia di merito.

Il potere di sospensione di deliberazioni o di atti illegittimi e di annullamento di atti contrari alle leggi, ai regolamenti, ed agli statuti rientrava con evidenza tra i controlli di legittimità. Esso mirava non solo ad assicurare la legalità formale ma anche il rispetto dell’assetto organizzativo, impedendo devianze autonomistiche.

Il Ministero dell’agricoltura poteva sciogliere consorzi e Federazione nel caso in cui non avessero depositatoo i bilanci per due anni consecutivi e nel caso di inoperatività; poteva inoltre nominare i liquidatori e sostituirli in caso di irregolarità o ritardi.

Si tratta di tipici controlli di legittimità.

Il Ministero dell’agricoltura poteva revocare amministratori e sindaci e nominare un commissario governativo, in caso di irregolare funzionamento di consorzi e Federazione, e sciogliere consorzi e Federazione, nel caso in cui non fossero stati nella condizione di raggiungere gli scopi istituzionali.

Il Ministero aveva, inoltre, il potere di sospendere le deliberazioni contrarie alle finalità istituzionali o al pubblico interesse e di annullare di atti della stessa tipologia.

Si tratta di un controllo cui appare difficile non riconoscere le connotazioni di merito.

Del controllo di merito l'espressione più importante e significativa fu il decreto di commissariamento della Fedit del 17 maggio 1991 che contiene valutazioni di natura economico-finanziaria.

Di esso, esemplarmente, si discusse la necessità e l'opportunità, ma non si discusse mai la legittimità.

Giova, tuttavia, chiarire che nessuno dei controlli previsti dal codice civile e dalla legge speciale comportava un costante sindacato del Ministero sulle scelte di politica economica e finanziaria dei consorzi e della Fedit e, quindi, a Ministri e funzionari non era affidata una sorta di supervisione operativa, tale da accreditare le determinazioni degli amministratori delle cooperative vigilate, come condivise dal Governo.

I controlli sui bilanci non comportavano una funzione certificativa di conformità a verità, come quella conferita ad una società di revisione.

Essi erano finalizzati, occorre ribadirlo, ad accertare, con inevitabile ampia discrezionalità, il regolare funzionamento delle persone giuridiche controllate e la persistenza delle condizioni che permettessero di raggiungere gli scopi sociali, attivando, se necessario, il doveroso esercizio di poteri sostitutivi.

In funzione della tipologia dei controlli sopra indicati erano previsti coerenti poteri ispettivi.

I poteri sostitutivi, infine, si spingevano fino al commissariamento ed alla messa in liquidazione e potevano incidere in modo decisivo sulla vita stessa della Fedit e dei consorzi.

  1. L’attuazione dei controlli e le relative responsabilità.

La Commissione ha inteso ad accertare come i controlli appena descritti venisserovano esercitati nei confronti della Fedit e dei consorzi, acquisendo idonea documentazione e procedendo all’audizione dei Ministri dell’agricoltura succedutisi dal 1982 al 1991, e di alcuni funzionari qualificati del Ministero dell'agricoltura e della Regione siciliana. E' stato altresì ascoltato, nella seduta antimeridiana del 6 dicembre 2000, l'assessore all'agricoltura e foreste della regione Sicilia, onorevole Salvatore Cuffaro, cui compete, ai sensi del combinato disposto del decreto legislativo 7 maggio 1948 n. 789 e della legge regionale 8 luglio 1948, n. 35, nelle cui competenze rientra la vigilanza sui consorzi agrari siciliani.

Una prima conclusione è stata facilmente raggiunta relativamente alla Federconsorzi.

Il Ministero dell'agricoltura per quanto risulta documentalmente, con certezza dal 1982 al 1991 e probabilmente - il beneficio del dubbio è doveroso per il lungo tempo trascorso - dal dopoguerra in poi, non dispose alcuna ispezione nei confronti della Fedit.

Ha dichiarato il ragionier Luigi Scotti, presidente della Fedit, il 20 marzo 1995 alla cCommissione di indagine Poli Bortone:

"(…) dDirò che la Federazione, i C.A. hanno sempre ottemperato alla disposizione di mandare al Ministero i verbali delle assemblee, i verbali dei Consiglio di Amministrazione, i verbali dei Comitati esecutivi sia della Federazione che dei C.A..

Debbo dire anche che, per parlare del ruolo del Ministero, che io non ricevetti mai, dico mai, una riga di rilievo da parte del Ministero dell’Agricoltura, né come direttore Generale, né come Presidente.

(…) Debbo dire che nei confronti della Federazione, durante la mia direzione generale e durante la presidenza non vi fu mai un’ispezione, né alla Federazione, non credo neanche ai C.A., però questo dovrebbe sentirlo (…), non credo neanche ai C.A., né mai fu sospesa l’esecuzione di una delibera per quanto si riferisce alla Federazione; ai C.A. non lo so, però lei lo potrà vedere dagli atti".

La tesi secondo la quale, fino al 1980, le ispezioni sia sulla Federconsorzi ch(e sui consorzi agrari) erano reiterate e continue -   espressa dal dottor Vincenzo Pilo, responsabile dal 1986 al 1991 e dal 1991 al 1994 della Direzione generale della Pproduzione agricola preposta alla vigilanza, nel corso della sua audizione davanti alla Commissione, svoltasi nelle sedute del 5 ottobre e 23 novembre 1999   - è rimasta sfornita di ogni prova.

Si potrebbe sostenere che ciò fu dovuto al fatto che non ve ne furono mai le ragioni.

La Commissione è, al contrario, dell'avvisoopinione che una vigilanza di ordinaria diligenza avrebbe consentito in cinquanta anni molteplici approfondimenti, se non altro su quelle gestioni speciali degli ammassi, oggetto di vivacissimo dibattito politico e di gravi e perduranti sospetti.

Poiché, inoltre, i bilanci della Federconsorzi si segnalarono sempre per sinteticità e mancanza di chiarezza, aprendosi ad una parziale intelligibilità solo negli ultimi due anni, sgomenta che nessuno avvertì mai l'esigenza di chiarimenti e di correlativi accertamenti ispettivi.

Nonostante la sinteticità, tuttavia, i risultati degli esercizi della Fedit, a far capo dal 1985, rendevano evidenti due aspetti fondamentali: il risultato operativo era sempre minore, fino ad assumere connotazione negativa; l'indebitamento era sempre maggiore, fino ad assumere proporzioni insostenibili.

Ebbene tutti i bilanci della Fedit, ad eccezione dell'ultimo, relativo all'anno 1990, che si chiudeva con un artificioso pareggio, furono recepiti dal Ministero vigilante che ne prese atto rimanendo del tutto inattivo.

Non fu assunta nessuna iniziativa né fu chiesto alcun chiarimento: .

Come si è già osservato, non ci si avvalse del potere ispettivo.; Nnon si ritenne di dover valutare, mediante una specifica ed adeguata attività istruttoria, la sussistenza delle condizioni per un eventuale commissariamento.;

nNon vi fu alcuna iniziativa politica per affrontare e risolvere concretamente il problema.

Il Consiglio dei Ministri non fu mai interessato.

Mai fu informato il Parlamento.

Il solo Ministro dell’agricoltura che si attivò per un' approfondimento della situazione fu il professor Saccomandi, che affidò ad un tecnico, il dottor Artusi, un incarico non formale ricevendone una relazione allarmante alla quale, tuttavia, non fece seguito alcuna concreta iniziativa.

Nessun Ppresidente del Ccollegio sindacale della Fedit di nomina governativa assolse le sue funzioni di controllo interno, assumendo la doverosa iniziativa di inoltrare al Ministro relazioni che illustrassero le reali condizioni dell'Ente.

Nessuno di loro segnalò alcunché.

Si deve, pertanto, concludere che i Ministri che ressero il dicastero dell'agricoltura, tutti appartenenti alla Democrazia Ccristiana, ed i funzionari che si adeguarono al loro indirizzo politico, esplicito od implicito, abdicarono del tutto ai loro doveri di vigilanza.

Ciò, in un primo tempo, favorì l'assoluta libertà di azione della Fedit; in un secondo ed ultimo tempo concorse a determinarne il tracollo non garantendo il contenimento, nei confini delle regole economiche e finanziarie, delle richieste del mondo consortile che, se fondate, avrebbero dovuto trovare risposta politica.

A ciò va aggiunto che le potenzialità ispettive presso il Ministero dell'agricoltura erano pressochèpressoché inesistenti dal punto di vista strutturale.

Persino il commissariamento della Fedit non fu preceduto da una ispezione condotta da funzionari ministeriali, ma da una rapidissima ricognizione, affidata dal Mministro Goria a due esperti privati.

Il Ministro non poteva, evidentemente, far alcun affidamento sulle strutture delle quali avrebbe dovuto istituzionalmente avvalersi.

Per quanto riguarda i consorzi agrari, Llargo uso fu fatto, invece, dell'istituto del commissariamento nei confronti dei consorzi agrari.

Ma iI provvedimenti del Ministero non furono però, quasi mai, il frutto di iniziative ispettive.

Come si è già detto, infatti, in tempi prossimi alla crisi e, quindi, in tutto il decennio che va dal 1982 al 1991, oggetto dell’inchiesta di questa Commissione, nessuna ispezione fu compiuta nei confronti dei consorzi. Tanto si deve ritenere su base documentale, la sola alla quale la Commissione ritiene di doversi affidare, mancando del tutto validi contributi testimoniali di segno opposto.

Nonostante le affermazioni in senso contrario dei dirigenti ministeriali ascoltati, infatti, a specifica e reiterata richiesta, il Ministero delle politiche agricole non è stato in grado di trasmettere una sola relazione ispettiva.

I controlli si possono ritenere, pertanto, del tutto omessi.

L'omissione è imputabile, come già evidenziato, in primo luogo ai Ministri pro tempore ed, almeno per quanto riguarda gli anni precedenti al 1987, in forma attenuata, ai responsabili delle Direzioni proposte alla vigilanza di cui si tratterà più oltre.

In un così grave contesto omissivo, si sono tuttavia, acquisite il 23 novembre 1999, a seguito dell'audizione del dottor Vincenzo Pilo, responsabile pro tempore della Direzione generale della Pproduzione agricola, segnalazioni indirizzate, peraltro solo a partire dall'anno 1987, al Ministro dell'agricoltura sullo stato di dissesto del sistema dei consorzi agrari.

Le condizioni in cui versavano i consorzi agrari nella seconda metà degli anni Ottanta erano, infatti, tanto note e gravi da consigliare alla direzione generale vigilante, la redazione di argomentate e documentate relazioni.

Queste, pur senza approfondire il tema dei rapporti finanziari tra i consorzi e la Fedit, disegnavano, tuttavia, ufficialmente, un quadro così tanto grave ed allarmante da far ritenere alla imporrendurre la Commissione inadeguate le determinazioni politiche e di governo, assunte a condividere l'implicita stigmatizzazione un giudizio fortemente negativo desull'operato daei vari ministri succedutisi alla guida del DddDicastero dell'agricoltura prima dell'insediamento diel ministro Goria.

In nota Amplius infra

, espressa dal senatore Andreotti nel corso della sua audizione del 15 febbraio 2000. I ministri interessati sono Filippo Maria Pandolfi, Calogero Mannino ed il deceduto Vito Saccomandi.

Nelle relazioni sopra indicate, tutte a firma del dottor Pilo, riguardanti gli anni dal 1985 al 1990, si segnalava infatti, che la soluzione dei problemi dei consorzi non poteva essere ulteriormente procrastinata e che era urgente ed indifferibile l'esigenza di un intervento radicale ed efficace.

Ad esso non si diede, né si ritenne di dare, mai corso.

Il contenuto delle note non dava adito a dubbi; vi si affermava che le condizioni economiche e finanziarie dei consorzi presentavano nella maggior parte dei casi sintomi di squilibrio; che particolarmente difficile era la situazione di consorzi siciliani, soggetti alla vigilanza della Regione Sicilia, tutti in stato di assoluta precarietà economica, finanziaria e patrimoniale; che molti consorzi avevano chiuso il bilancio con una rilevante perdita di esercizio, altri in pareggio ricorrendo ad un artificio contabile costituito dalla rivalutazione degli immobili; che la Fedit aveva accordato a 23 consorzi un beneficio straordinario, costituito dal congelamento per tre anni degli interessi sui debiti nei confronti della stessa e la rateizzazione della restituzione del capitale in dodici anni ad un tasso di interesse molto basso.

Le cause della crisi venivano individuate nella progressiva contrazione delle attività per conto dello Stato; nelle difficoltà incontrate dai consorzi nel collocamento delle merci; nei maggiori costi rispetto alla concorrenza derivanti dalla struttura consortile; negli oneri fiscali; nei bassi margini di utili sui prodotti commercializzati; nelle esposizioni debitorie rilevantissime con gravissimi riflessi derivanti dall'aumento continuo degli interessi sui conti economici, per essere gli oneri superiori ai ricavi di esercizio.

Si tratta con evidenza di cause tutte strutturali connesse con l'impianto stesso del sistema che, venute meno le possibilità di profitti derivanti dalle gestioni per conto dello Stato, aveva chiare connotazioni di diseconomicità.

Nonostante il fosco quadro che vi si disegnava, e che imponeva urgentissimi ed adeguati rimedi, i due Ministri che ne furono destinatari prima diel ministro Goria, e cioè gli onorevoli Filippo Maria Pandolfi e Calogero Mannino, non ritennero di assumereassunsero i provvedimenti urgenti e indifferibili che la gravità della situazione, a giudizio della Commissione, esigeva.

Tanto più che le pur così negative annotazioni della struttura ministeriale non descrivevano ap pieno la realtà, se il ministro Goria ritenne di vergare di suo pugno sull'ultima relazione, datata 14 marzo 1991, riguardante l'esercizio 1989 in cui si diceva:

"Dinanzi al diffuso stato di precarietà economico-finanziaria dei consorzi la Fedit ha predisposto un piano di accorpamento dei consorzi limitrofi al fine di allargare il bacino di utenza di ogni singolo ente e di contenere i costi di gestione", la seguente annotazione: "La situazione è molto più grave e merita una riunione per decidere il da farsi". La rappresentazione dell'imponenza del dissesto era, pertanto, palese.

La sua decisione assunta dal ministro Goria fu il di commissariaremento della Fedit.

2.1 La posizione del ministro Pandolfi

La rappresentazione dell'imponenza del dissesto era, pertanto, chiara.

Richiesto da questa Commissione di chiarire le determinazioni da lui assunte, l'ex ministro Pandolfi ha affermato di essersi preoccupato prioritariamente di definire e liquidare i rendiconti delle gestioni speciali e cioè degli ammassi, risalenti a molti anni prima e non ancora chiusi predisponendo, con il concorso di una apposita commissione ministeriale, un articolato disegno di legge (AC n. 2315) presentato nel novembre 1984.

Il disegno di legge, assegnato alla Commissione agricoltura della Camera, non fu mai discusso.

Secondo il ministro Pandolfi l'approvazione del provvedimento, che avrebbe avuto natura preliminare nei confronti dell'operazione di risistemazione del sistema dei consorzi agrari e della Federconsorzi, non avvenne per la situazione politica del tempo.

Il ministro PandolfiDalle dichiarazioni di Pandolfi, rese, nel corso dell’audizione svoltasi il 17 febbraio 2000, risulta ha sottolineato come: "Agli inizi degli anni '80 sopravvivevano ancora in maniera fortissima i riflessi delle polemiche di cui le piazze d'Italia erano state testimoni dal 1948 al 1958 e fino alla campagna elettorale del 1963; polemiche che si riferivano appunto alla famosa questione della Federconsorzi (…)".

Egli ha, inoltre rammentato l’opposizione tradizionalmente critica della sinistra in generale e quella "particolarmente critica del partito socialista durante uno dei Governi dell'onorevole Craxi".

Secondo il Ministro: "l'opposizione era ancora prevenuta sui tentativi di sistemazione del mondo federconsortile; erano le confederazioni di parte democristiana, soprattutto la Coldiretti, che a loro volta temevano che, se il Parlamento fosse entrato su tali questioni, si sarebbero riaccese polemiche non necessarie.

(…) "Tutti erano in attesa che si verificasse una situazione diversa; (…) la svolta di Chianciano della Coldiretti; però, tutto questo è successo quando la mia permanenza come Ministro dell’agricoltura era finita".

Ricordo che, in uno dei Governi dell'onorevole Craxi, la posizione del partito socialista era particolarmente critica. (…) C'era poi l'opposizione della sinistra, un'opposizione tradizionalmente critica.

(…) Le due confederazioni maggiori, quella dei Coltivatori diretti e la Confagricoltura, appartenevano all'amministrazione dei consorzi agrari, la terza, invece, (la Confcooperative, che faceva capo al PSI n.d.r.) era storicamente esclusa da questa partecipazione (…) l'opposizione era ancora prevenuta sui tentativi di sistemazione del mondo federconsortile; erano le confederazioni di parte democristiana, soprattutto la Coldiretti, che a loro volta temevano che, se il Parlamento fosse entrato su tali questioni, si sarebbero riaccese polemiche non necessarie.

Tutti erano in attesa che si verificasse una situazione diversa; (…) la svolta di Chianciano della Coldiretti; però, tutto questo è successo quando la mia permanenza come Ministro dell’agricoltura era finita."

In ordine alla sua azione riguardante i consorzi agrari e la Federconsorzi, il ministro Pandolfi ha affermato di aver affrontato il problema mediante l'elaborazione, nel contesto del Piano agricolo nazionale approvato dal CIPE il 1° agosto 1985, di un piano organico riguardante la cooperazione.

In particolare ha rivendicato che "(…) con quel Piano allora si operava una scelta: anche dopo lo scacco del disegno di legge n. 2315, si constatava che rimanevano ancora in campo tutte le questioni che riguardavano i consorzi agrari provinciali e la Federconsorzi e che quindi rischiava di accentuarsi la dicotomia tra associazionismo e cooperazione.

"Per quanto riguarda l'associazionismo, (…) principio generale dell'azione che dovrà essere svolta dai poteri pubblici saranno una finalizzazione e una concentrazione più rigorose dell'intervento pubblico sui fattori che influenzano direttamente il miglioramento dell'efficienza d'impresa. (…) Il paragrafo 180 afferma che la legge pluriennale di spesa, che seguirà il piano agricolo nazionale, sembra essere la sede preferibile per la definizione dei nuovi criteri di intervento pubblico piuttosto che un provvedimento specifico che finirebbe per coinvolgere questioni più generali e per contrastare con l'evidente esigenza di rapidità.

(…) Con quel Piano allora si operava una scelta: anche dopo lo scacco del disegno di legge n. 2315, si constatava che rimanevano ancora in campo tutte le questioni che riguardavano i consorzi agrari provinciali e la Federconsorzi e che quindi rischiava di accentuarsi la dicotomia tra associazionismo e cooperazione.

(…) Raccolsi allora il parere degli esponenti del mondo agricolo che rappresentavano tutte le confederazioni, non soltanto una o due.

(…) Si decise pertanto di non arenarsi con un provvedimento di legge specifico e di lavorare piuttosto sulla legge pluriennale di spesa. Era quello il suggerimento che mi venne dato anche al fine di consentire alle associazioni e alle loro unioni di esercitare attività di impresa, (…) grande questione che sanciva il primato inarrestabile della Germania, della Francia e della Gran Bretagna, dove le associazioni avevano anche poteri di impresa, mentre nella realtà italiana avevano solamente compiti di rappresentanza.

Si arrivò così alla legge pluriennale di spesa dell'8 novembre 1986, n. 752. L'articolo 4, comma 3, lettera c), e l'articolo 7 introducevano un fondo di rotazione per la ricapitalizzazione delle cooperative sulla base di progetti quinquennali. (…) Il provvedimento entrò così regolarmente in vigore nel 1987".

Sulla questione dell’esercizio del potere-dovere di controllo e vigilanza, il ministro Pandolfi è parso rivendicare di avere sempre privilegiato un' impostazione propositiva di carattere generale e, quindi, di aver ritenuto di dover provvedere in forma organica e generalizzata, piuttosto che mediante provvedimenti particolari, alle segnalazioni che gli pervenivano: "Mi arrivavano quotidianamente rapporti sulla situazione dei consorzi agrari nei quali si diceva, ad esempio, che tredici consorzi versavano in gravi difficoltà, tanto da rendere addirittura necessaria la liquidazione coatta amministrativa.

Sui controlli Pandolfi ha affermato: "Mi arrivavano quotidianamente rapporti sulla situazione dei consorzi agrari nei quali si diceva, ad esempio, che tredici consorzi versavano in gravi difficoltà, tanto da rendere addirittura necessaria la liquidazione coatta amministrativa.

Ho sempre usato molto il metodo dell'annotazione diretta sui documenti e, da alcune annotazioni dell'epoca, emerge chiaramente il mio tentativo di far capire che non ci si poteva fermare soltanto alla denuncia degli inconvenienti. Occorreva muoversi".

Ricordo che il mio Gabinetto mi fece presente che per i consorzi agrari provinciali c'erano difficoltà d'inserimento nello schema della legge pluriennale in quanto, in base all'articolo 34 del decreto legislativo n. 1235 del 1948, era prevista una ripartizione degli utili, il che contrastava con il principio della mutualità alla base del sistema cooperativo. Quindi, mi fecero notare che era necessario un piccolo intervento correttivo per eliminare tale difficoltà. Risposi che forse bastava introdurre un articolo che abrogasse il decreto legislativo n. 1235 del 1948, dal momento che non c'era più alcuna ragione che facesse sussistere questo sistema di funzioni pubblicistiche.

L'onorevole Pandolfi ha inoltre sostenuto, a differenza di quanto sopra evidenziato, che al Dicastero dell'agricoltura non spettassero poteri di controllo di merito, affermando che Il ministro non ha mancato di far notare che "(…) Dd’altra parte, le autorità ministeriali avevano un potere di controllo di legittimità: vorrei verificare se il controllo di legittimità salva, per esempio, una grande società multinazionale da qualche catastrofe finanziaria dovuta ad operazioni sbagliate.

E' la decisione di merito che conta per sapere se una gestione funziona.

(…) Vorrei aggiungere: come si può pensare che negli anni '80 strutture ministeriali potessero esercitare un controllo di merito su operazioni per migliaia di miliardi ogni anno? Avremmo dovuto mettere in piedi un ministero ad hoc. Lo stesso Ministero delle partecipazioni statali, finché è esistito, non aveva alcun potere di controllo di merito sulle operazioni".

(…) non ricordo in tutto quel periodo di aver avuto pressioni per occuparmi dei conti della Federconsorzi. Tra l'altro, aggiungo di aver sempre avuto scarse conoscenze dei problemi concreti interni di tale ente. Sono sempre stato alla larga rispetto ai rapporti della Federconsorzi con il sistema bancario. Chi fa il Governatore della Banca d'Italia o il Ministro del tesoro - come lo sono stato io - sa perfettamente che non deve avere rapporti diretti o impropri con il sistema bancario (…).

(...) Pertanto, quando sono stato Ministro l'ultimo mio pensiero era conoscere in forma diretta o indiretta cosa stesse accadendo in enti già sottoposti al controllo del Ministero dell'agricoltura, perché avrei finito di vivere. Era completamente fuori dal mio orizzonte, anche per un certo senso di puritanesimo politico, al quale ho sempre cercato di improntare la mia attività politica. Mettere le mani in queste vicende era secondo me non soltanto inopportuno ma alla fine anche illegale, perché i Ministri dovevano fare altre cose e non questo (…). Confesso i limiti della mia azione di Governo in quel momento

Sulla Federconsorzi il Ministro ha aggiunto: "Venendo alla questione Federconsorzi, non mi è mai stato rappresentato alcun problema che riguardasse la sua concreta gestione.

Da quel che si è letto, ma anche da quel che si sapeva, il bilancio della Federconsorzi aveva tutta una parte relativa ad investimenti immobiliari (alcuni buoni, altri meno buoni, altri ancora cattivi), ma di tali questioni non ho mai sentito parlare. (…) si manteneva in vita un sistema che aveva perso da 25 anni ogni tipo di giustificazione poiché non esistevano più (…) funzioni pubblicistiche e non capivo il motivo per cui la Federconsorzi dovesse avere tutte queste bardature a differenza di altre importantissime cooperative.

La seconda tappa consisteva nel far rientrare in corsa - eventualmente anche la Federconsorzi - nelle provvidenze del famoso progetto di ricapitalizzazione con un progetto quinquennale che, tra l'altro, doveva essere accertato con certificazione di bilancio, con schemi molto rigorosi. Questa, in sintesi, l'ipotesi di lavoro pensata durante il mio ministero.

E’ stata elaborata la legge pluriennale di spesa che consente di varare piani di ricapitalizzazione quinquennale con l'apporto dello Stato e con tutte le regole già fissate al suo interno, mentre non è andata in porto l'operazione del ripiano del disavanzo".

Per quanto riguarda la Federconsorzi, l’onorevole Pandolfi ha affermato di "(…) aver sempre avuto scarse conoscenze dei problemi concreti interni di tale ente. Sono sempre stato alla larga rispetto ai rapporti della Federconsorzi con il sistema bancario. Chi fa il Governatore della Banca d'Italia o il Ministro del tesoro - come lo sono stato io - sa perfettamente che non deve avere rapporti diretti o impropri con il sistema bancario (…) Pertanto, quando sono stato Ministro l'ultimo mio pensiero era conoscere in forma diretta o indiretta cosa stesse accadendo in enti già sottoposti al controllo del Ministero dell'agricoltura, perché avrei finito di vivere. Era completamente fuori dal mio orizzonte, anche per un certo senso di puritanesimo politico, al quale ho sempre cercato di improntare la mia attività politica. Mettere le mani in queste vicende era secondo me non soltanto inopportuno ma alla fine anche illegale, perché i Ministri dovevano fare altre cose e non questo (…). Confesso i limiti della mia azione di Governo in quel momento.

Venendo alla questione Federconsorzi, non mi è mai stato rappresentato alcun problema che riguardasse la sua concreta gestione".

Tenuto conto che l'onorevole Pandolfi fu Ministro dell'agricoltura dal 4 agosto 1983 al 12 aprile 1988 (I e II Governo Craxi, VI Governo Fanfani, Governo Goria) e quindi per cinque anni consecutivi, durante i quali i problemi del sistema, di cui era ben consapevole, crebbero senza freno; considerato che essi imponevano una soluzione giudicata non più differibile fin dal 1985, le sue iniziative politiche, per di più fallite, non possono essere giudicate che come il risultato di una inadeguata azione di governo.

Di fronte all'urgenza - non percepita o non voluta percepire -, Lla situazione fu, di fatto, lasciata incancrenire.

Di fronte all'urgenza trascorsero anni senza alcun risultato.

Il progetto di legge di approvazione dei rendiconti degli ammassi, presentato nel novembre 1984, non fu mai esaminato dalla Commissione agricoltura della Camera dei deputati e il Governo non assunse alcuna iniziativa per sollecitarne ed ottenerne l'approvazione.

La rendicontazione delle gestioni speciali, inoltre, non era affatto un tabù di un passato lontano, ma una questione aperta, che richiedeva, dopo trenta anni, una soluzione che non poteva essere senza contrasti ma, non per questo, si poteva e doveva rinviare all'infinito, se da essa dipendeva, come riteneva il ministro Pandolfi, l'avvio del risanamento del sistema.

Si trattava, comunque, di null'altro che di far pervenire ai consorzi agrari danaro pubblico, e non, quindi, di un tentativo di affrontare e risolvere un problema che il Ministero e lo stesso Ministro consideravano strutturale e che richiedeva, pertanto, scelte politiche chiare e determinate, sulla sua conservazione, conversione o cancellazione.

Trascorsero almeno due anni fino alla presentazione del disegno di legge pluriennale, senza che niente altroalcunché si tentasse.

Anche nel contesto della legge pluriennale, null'altro è dato scorgere se non la possibilità di una ricapitalizzazione dei consorzi e della Fedit. Nulla si dice della eventuale soppressione di quest’ultima, della sua eventuale trasformazione, del suo adeguamento, di una eventuale apertura all'apportoprivatizzazione operata con l'apporto di tutte le componenti del mondo agricolo e di capitali privati.

I tentativi dell’onorevole Pandolfi concretizzarono la sua volontà politica di non affrontare, come sarebbe stato necessario e doveroso, direttamente il problema della crisi del sistema.

Sembra alla Commissione che il ministro PandolfiPandolfi preferì non scontrarsi con gli interessi forti di cui le associazioni di categoria erano portatrici.

, nell'ambito di unaLa sua impostazione concorse, in tal modo, politica generale che non obbediva all'esigenza di governare affrontando e risolvendo i problemi, ma di amministrare e di ricercare il massimo consenso possibile, anche a rischio, come poi si verificò, dia creare con l'inerzia sostanziale, lele premesse per il tracollo di un grande apparato con enormi danni per la collettività.

A ciò va aggiunto che è sicuramente vero quanto da lui affermato: da Pandolfi: "Vorrei verificare se il controllo di legittimità salva, per esempio, una grande società multinazionale da qualche catastrofe finanziaria dovuta ad operazioni sbagliate. E' la decisione di merito che conta per sapere se una gestione funziona".

Ma, prescindendo dall'inaccettabile riduzione del contenuto dei controlli alla semplice presa d'atto, non v'è dubbio che il tracollo della Fedit non fu affatto dovuto ad una sola operazione sbagliata ma agli effetti della scelta, che all'epoca dell'abbandono diel ministro Pandolfi durava da almeno tre anni, e che di anno in anno si rinnovava, di sostenere economicamente e finanziariamente i consorzi agrari indipendentemente dalla loro redditività.

Si trattava di una politica aziendale che prosciugava inesorabilmente le risorse e rendeva dubbia la persistenza della capacità della Fedit di soddisfare i suoi scopi istituzionali e quindi non solo legittimava, ma imponeva l'intervento dell'autorità tutoria.

2.2 La posizione del ministro Mannino

L’impostazione del ministro Antonio Calogero Mannino, si è rivelata diversa da quella del suo predecessore.

Il ministro, nel corso della sua audizione avvenuta il 6 giugno 2000, ha, innanzitutto, minimizzato i poteri di vigilanza del ministero nei confronti dei consorzi agrari, sostenendo che essi erano "irrilevanti".

Essi, secondo il suo assunto, "non permettevano al Ministero l'assunzione di una funzione ispettiva in termini poliziesco-giudiziari" ma piuttosto degli interventi di indirizzo.

AllLa Commissione non appaiono condivisibilide le affermazioni dell’ex ministro, perché che appaiono in contrasto con la penetrante dotazione di poteri di controllo sopra illustrata.

Basta considerare che lo stesso onorevole Mannino non ha mancato di rivendicare di aver incaricato "moltissimi funzionari" di eseguire indagini presso i consorzi agrari provinciali, prevenendo la contestazione di non aver assunto conseguenti determinazioni, con l'affermazioneaffermando che accadeva che le relazioni "pervenivano quando pervenivano, magari quando il Ministro era cambiato".

Per quanto concerne la vigilanza sulla Federconsorzi, egli ha affermato che, nel periodo in cui fu Ministro dell’aAgricoltura, tra il 1988 e il luglio del 1990, a livello ministeriale, non era emerso dallaa una "situazione finanziaria della Fedit , un dato catastrofico tale da richiedere un intervento radicale" sostenendo che il problema dell'indebitamento nel 1988-1989 "era soltanto una minaccia incombente, non era un fatto esplosivo".

Egli ha voluto, significativamente, precisare di non aver mai avvertito che il bilancio della Federconsorzi potesse nascondere delle perdite, che potesse occultare qualcosa perché in tal caso "sarei intervenuto e lo avrei riconosciuto".

Il Ministro ha affermato di non aver approvato i bilanci della Federconsorzi, nel periodo di sua competenza, ma di essersi limitato a prenderne atto perché il direttore generale cui si era rivolto gli disse che il ministero non era in grado "di disporredi disporre un'analisi attraverso le società di revisione" e, quindi, avendo avuto "(...) dei dubbi, non nei confronti del bilancio in quanto tale, ma del momento gestionale della Federconsorzi", li aveva espressi "nella forma di approvazione del bilancio" e cioè limitandosi, come del resto aveva fatto il suo predecessore Pandolfi, ad una presa d’atto formale.

In merito,Rileva sul punto la la Commissione rileva che,che l’essersi il Ministro posto il problema di sottoporre il bilancio della Federconsorzi all’analisi di una società specializzata, rivela di quale spessore fossero come i dubbi sui contenuti di verità del documento contabile.

La "presa d’atto", del bilancio, nella ricostruzione del ministro, sembra assumere il significato più di una "presa di distanza" che "d’atto", in un’ottica politica non interventista che non sembra corrispondere alle esigenze di governo.

Secondo la condivisibile analisi del Ministro, il sistema federconsortile era gravato da problemi di natura strutturale: "(…) I consorzi a livello periferico, e poi anche la Federazione a livello centrale, si sono venuti via via trovando in presenza di una condizione di difficoltà - che da me fu avvistata fin dal 1983 - dovuta al fatto di avere sostanzialmente un quadro dirigente di tipo funzionario, burocratico, quando ormai occorreva introdurre un quadro di tipo manageriale. Ricordo di avere rivolto, nel 1983, ai dirigenti della Federconsorzi e delle organizzazioni agricole che facevano più direttamente riferimento ad essa (cioè la Confagricoltura e la Coldiretti), l'invito a porsi il problema di una trasformazione di tipo imprenditoriale della stessa Federconsorzi.

Ho ritrovato tale questione nel 1988, in condizioni ancora più preoccupanti sotto il profilo finanziario (…)".

Ma il progetto di: "rendere la Federconsorzi una struttura di servizio, una holding partecipata politicamente, sindacalmente e socialmente da tutte le organizzazioni produttive" aveva incontrato forti difficoltà".

Ciò perché, ritiene la Commissione, usando le stesse parole del ministro, "la Coldiretti e la Confagricoltura guardavano alla Federconsorzi come ad uno strumento della propria politica, quindi gelosamente".

In questa prospettiva, l'onorevole Mannino ha rivendicato la sua vicinanza alle posizioni della Coldiretti: "La sinistra DC, - ha, infatti, affermato - della quale, come è noto, ho sempre fatto parte, fino a tutti gli anni '70 non ha avuto un rapporto di integrazione politico-ideologica con la Coldiretti.

Negli anni '80 tra la Coldiretti e la segreteria De Mita c'è stato un dialogo, una collaborazione molto intensa, sino a realizzarsi quella integrazione che non c'era stata prima. Anche questa è un'opinione, fondata però sulla ricostruzione di cronache politiche".

E’ parso, però, chiaramente rivendicare di aver assunto una differenziata posizione in favore dell’ingresso del Partito comunista e del Partito socialista nell’area della organizzazione, attraverso l’apertura delle iscrizioni degli agricoltori e delle cooperative ai consorzi provinciali, schiudendo così la strada all’ingresso nella Federconsorzi ed alla trasformazione di questa in una holding.

Non

 

L’onorevole Mannino si era posto il problema del futuro della Federconsorzi, sulla base di una condivisibile osservazione che la Commissione condivide: "in mancanza di un intervento di sistemazione delle passività pregresse e di una ristrutturazione del quadro politico di riferimento della Federconsorzi il nodo, prima o poi, sarebbe arrivato al pettine, indipendentemente dai possibili interessi di accaparrarsi ciò che rimaneva ; nel caso della Federconsorzi l’eredità c’era, soprattutto se si fosse realizzato un intervento di duplice ordine, quello della sistemazione del debito che lo Stato aveva e quello della trasformazione della Fedit. Il quadro ordinamentale della Fedit, in base al decreto legislativo n. 1235, era assurdo. Eravamo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Era giusto prevedere una trasformazione della Fedit in holding, aperta a tutti (…)"".

Il suo monito fu: "guardate, o superiamo la pregiudiziale politica e mettete questo strumento al di fuori dello scontro politico, oppure tra qualche anno non ve lo ritroverete più (…).

Anzi sono venuto anche a dirvi: superiamo il regime giuridico delle società cooperative, introducendo una parziale capitalizzazione a carico del socio, in maniera tale che ci sia una responsabilizzazione".

Il problema della sopravvivenza, della ristrutturazione e della trasformazione, del sistema, si evidenzia , di conseguenza, a giudizio della Commissione, in tutta la sua valenza non solo economicao e finanziaria ma anche politica.

Lea questionie dell’apertura del concorso all’apporto di capitali privati e della rinuncia al monopolio da parte delle associazioni che lo detenevano, del monopolio urgevano ed imponevano scelte politiche di fondo, che travalicavano la persona ed il ruolo del ministro dell’agricoltura.

Pur tuttavia, ancor prima di assumere determinazioni di tipo strutturale, occorreva assicurare se non il risanamento, quanto meno che le condizioni economiche e finanziarie della Federconsorzi non si aggravassero.

In merito il Ministro ha sostenuto di essere stato rassicurato sulle possibilità e capacità di ripresa della Federconsorzi, dall’onorevole Lobianco.

Ha, infatti, dichiarato che il Presidente della Coldiretti: "(...) Mi ha sempre manifestato un'opinione molta fiduciosa nella possibilità di recupero e di risanamento delle Federconsorzi, anzi ha sempre indicato nella nomina di Pellizzoni (a nuovo direttore generale della Fedit n.d.r.) l'atto preliminare, diciamo propedeutico per giungere a questi risultati.

(…) Nel 1989 Lobianco giurava a tutti che, con Pellizzoni, avrebbe risolto tutti i problemi della Federconsorzi. Ricordo molti colloqui, non soltanto a due, ma anche a tre, con De Mita, prima Presidente del consiglio e poi ancora segretario del partito. Lobianco giurava che la situazione della Fedit era superabile".

E’ agevole dedurrezione della Commissione, che il problema era diventato tanto grave da porsi all’attenzione non più del solo Mministro competente ma dello stesso Presidente del Consiglio e del sSegretario del maggior partito italiano.

Acquista, inoltre, maggiore credibilità l’assunto del dottor Pellizzoni,. direttore generale della Fedit , che il professor. Capaldo gli avrebbe confidato di aver ricevuto l’incarico di occuparsi della Federconsorzi, non solo dai due presidenti confederali Wallner e Lobianco ma anche dall’allora presidente del consiglio De Mita.

Osserva , tuttavia, la Commissione che il ministro, assai lucido nel percepire i reali problemi dei Cconsorzi agrari e della Federconsorzi, favorevole a soluzioni più aperte , moderne e democratiche , non fu tuttavia conseguente, poiché, le sua giusta analisi dovevaavrebbe dovuto, malgrado le rassicurazioni dell’onorevole Lobianco, fargli, ben fondatamente, dubitare della possibilità di successo della via intrapresa e, quindi, consigliarglisi un’azione più incisiva ed concretamente efficace, anche attraverso il concreto esercizio dei suoi poteri di controllo e vigilanza.

2.3 2.3 La breve stagione del mMinistro Saccomandi

Il professor Vito Saccomandi, fu ministro dell’agricoltura dal 27 luglio 1990 al 12 aprile 1991 nel VI governo Andreotti.

L’aggravarsievoluzione ingravescente della crisi della Federconsorzi portò il ministro, nonostante la breve durata del suo incarico, ad occuparsene.

IE’ rimasto a lungo sconosciuto che il prof.essor Saccomandi , affidò ad un tecnico della società Arthur Andersen, il dottor Carlo Artusi, che in quel tempo lavorava presso il Ministero dell'agricoltura come consulente per l'analisi dei problemi della cooperazione, il compito di monitorare la Federconsorzi e di riferirgli. ILe valutazioni del dottor Artusi ha così ricostruito per la Commissione con una relazione datata 22 febbraio 2000, le valutazioni da lui, riferite al Ministro, sono le seguenti, come da lui ricostruite per la commisioneCommissione in base ai suoi ricordi :

"(…)In tale veste, ebbi due riunioni informali con il vertice di Federconsorzi (Ddottor Pellizzoni e Ddottor Bambara) nelle quali, unitamente al Dottor Carlo Cocco, vice capo di Gabinetto del M.A.F. –(e presidente del Ccollegio sindacale della Fedit! n.d.r.) - esaminammo le grandi linee della situazione finanziaria Federconsorzi (…) a quanto ricordo, emergeva, in sintesi, una situazione finanziaria molto grave, caratterizzata da alto indebitamento verso banche fronteggiato da crediti verso consorzi agrari di difficile esigibilità immediata ed un patrimonio immobilizzato di lenta e complessa dismissione.

In particolare, per quanto ricordo:

Quindi una richiesta di rientro da parte di una o più banche avrebbe immediatamente generato uno stato di crisi, peraltro non sanabile nel breve periodo, e probabilmente un effetto "domino" su tutte le altre banche esposte.

Di questo, nell’appunto e a voce, ritengo in due o tre riunioni, discussi con il Ministro, ipotizzando scenari di risanamento che potessero salvaguardare la struttura avviando contemporaneamente processi di reperimento di risorse finanziarie, attraverso dismissioni o altro, che potessero ridurre l’indebitamento.

Nonostante i chiari elementi informativi raccolti , che avrebbero consigliato provvedimenti urgenti, il Ministro non assunse nessuna iniziativa.

Non è dato sapere se i risultati di tale lavoro furono conosciuti dal successore del professor Saccomandi, il ministro Goria, ma si può pensare che ciò accadde.

La perfetta informazione dell’on.orevole Goria, sulla reale situazione del sistema, come di seguito si vedrà meglio, potrebbe trovare una convincente spiegazione.

2.4 L’apparato ministeriale

Per quanto riguarda il ruolo dell’apparato ministeriale, la vigilanza sui consorzi agrari e la Fedit competeva, fino al 1978, alla Ddirezione generale dell'alimentazione presso il Ministero dell'agricoltura; dal 1978 al 1994, quando il Ministero dell'agricoltura fu trasformato in Ministero delle risorse agricole, alla Direzione generale della produzione agricola; dal 1994 in poi alla Direzione generale dei Servizi generali e del personale.

Di tali uffici sono stati responsabili, fino al 1986, il dottor De Fabritiis; dal 1986 fino alla fine del 1990 il dottor Pilo; dal gennaio 1991 al dicembre 1992, il dottor Incoronato; dal gennaio 1993 al maggio 1994, nuovamente il dottor Pilo; dal 1994 ad oggi, la dottoressa Delle Monache.

I funzionari ministeriali, ascoltati dalla Commissione nella sedute del 5 ottobre e 23 novembre 1999, ed in particolare il direttore generale dottor Pilo, che pur si segnala per essere stato il firmatario delle importanti note sopra citate al paragrafo 2, hanno invocato, per giustificare l'omessa esecuzione di accertamenti ispettivi sulla Fedit e sui consorzi, una grave carenza di personale.

La difesa sembra debole perché, quand'anche fondata, potrebbe spiegare una eventuale esiguità del numero delle verifiche ma mai la loro totale omissione.

Occorre ribadire che per ben dieci anni, dal 1982 al 1991, non fu disposto ed eseguito alcun accertamento ispettivo.

Il dottor Pilo, in assonanza con la posizione assunta dall'ex ministro dell'agricoltura Pandolfi, ha altresì sostenuto che il Ministero riteneva, per un verso, che i controlli avessero natura esclusivamente di legittimità -   da ciò la prassi di rilasciare sugli atti esaminati un "nulla osta" o un "si prende atto"  - e, per altro, che essi erano stati previsti in funzione delle attività ammassatorie affidate ai consorzi ed alla Fedit; venutea meno queste, ne sarebbe venuta meno la rilevanza funzionale.

La Commissione non condivide l'assunto per le ragioni sopra esposte.

I controlli vale ribadirlo, avevano natura concorrente e coesistente di legittimità e di merito.

In contrasto con la linea enunciata, appare la condotta dell'alto funzionario ministeriale che, oltre a rendersi autore delle note scritte già ricordate sulla situazione dei consorzi, assunse una iniziativa verso la Fedit, che non sembra in alcun modo iscrivibile nella categoria del controllo di legittimità.

Egli Così ha infatti riferito alla Commissione nella seduta del 5 ottobre 1999: "Ricordo anche che, proprio a seguito della relazione consegnata nel 1988 al Ministro pro tempore, incontrai due volte l'allora direttore (della Fedit ndr) Pellizzoni, con il quale facemmo una puntuale disamina di tutte le questioni relative alla vita del sistema - quindi, Federconsorzi e consorzi agrari - ricevendo poi, al termine del secondo incontro, l'impegno, peraltro già proposto dall'Amministrazione con una lettera circolare inviata proprio quell'anno, di sottoporre a certificazione i bilanci sia della Federconsorzi che dei consorzi agrari (…). Nel 1989 fu predisposta una lettera dettagliata, diretta alla Federazione, con la quale (…) ferma restando la correttezza analitica del bilancio, l'ufficio segnalò alcuni aspetti che inducevano ad avere dei timori sull'andamento economico delle gestioni, in particolare dei consorzi agrari, fatti questi poi confermati dalle numerose procedure di commissariamento. Ricordo pure che detta lettera conteneva alcune contestazioni e ritengo che fu anche per effetto di quella lettera che l'allora direttore generale chiese di vedermi (ho accennato al fatto che ci siamo incontrati due volte) dandomi modo di analizzare con lui approfonditamente la situazione di fatto (anche con riferimento a ciò che non emergeva dagli atti) giungendo poi all'impegno di portare a certificazione i bilanci".

una lettera dettagliata, diretta alla Federazione, con la quale, pur nell'incertezza di scendere nei dettagli e di giungere a quantificazioni (evidentemente una qualsiasi analisi su quest'aspetto doveva presupporre la realizzazione di uno studio di estimo assai profondo) e ferma restando la correttezza analitica del bilancio, l'ufficio segnalò alcuni aspetti che inducevano ad avere dei timori sull'andamento economico delle gestioni, in particolare dei consorzi agrari, fatti questi poi confermati dalle numerose procedure di commissariamento. Ricordo pure che detta lettera conteneva alcune contestazioni e ritengo che fu anche per effetto di quella lettera che l'allora direttore generale chiese di vedermi (ho accennato al fatto che ci siamo incontrati due volte) dandomi modo di analizzare con lui approfonditamente la situazione di fatto (anche con riferimento a ciò che non emergeva dagli atti) giungendo poi all'impegno di portare a certificazione i bilanci."

In definitiva si può affermare che, in linea ed in coerenza con gli orientamenti e l'impostazione dei Ministri pro tempore e con la qualità di dominio riservato delle associazioni di categoria ed in particolare della Coldiretti, non fu esercitata nei confronti della Fedit, nel decennio 1980-1990, nessuna azione di reale controllo amministrativo.

Basta considerare che non si è evidenziata una sola nota di commento dei bilanci della Fedit, che pure erano e sono sospetti di falsità per plurimi aspetti e che, comunque, non potevano tuttavia nascondere il continuo peggioramento dei risultati.

L'omesso controllo fu dagli operatori ed, in particolare, dal sistema bancario, interpretato come un controllo positivo che fu, successivamente, a crisi aperta, invocato, insieme con l’accreditamento che derivava alla Fedit dall’essere per dimensioni la quinta impresa del settore agro-alimentare in Europa, a sostegno di una pretesa garanzia pubblica della regolarità della gestione e del merito creditizio della Fedit.

La necessità di affidare per il futuro eventuali analoghi controlli ad organismi qualificati, e, soprattutto, indipendenti,e e, di predefinirne contenuti e responsabilità sembra alla Commissione il conseguente suggerimento proponibile al Parlamento.

L'omesso controllo fu dagli operatori ed in particolare dal sistema bancario - di per sé assai più attento all’espansione dei crediti che alla qualità effettiva degli affidati - interpretato come controllo positivo e concorse, insieme con l’accreditamento che derivava alla Fedit dall’essere per dimensioni la quinta impresa del settore agro-alimentare in Europa, a confidare nella garanzia pubblica della regolarità della gestione e, quindi, nel merito creditizio della Fedit.

La necessità di affidare per il futuro eventuali analoghi controlli a personale qualificato ed indipendente e di predefinirne contenuti e responsabilità sembra alla Commissione il conseguente suggerimento proponibile al Parlamento.

ADDE MANNINO E ANDREOTTI

 

 

 

Capitolo Quarto

 

La Federconsorzi: dalla prosperità al dissesto

Parte prima

  1. La posizione della Federconsorzi nel sistema agroalimentare italiano: analisi, denunce e valutazioni critiche

La storia economica della Federconsorzi esula dai compiti di questa Commissione che, tuttavia, ritiene che giovi all'intelligenza della vicenda ricordare alcuni dati, risalenti ad epoca immediatamente precedente il decennio 1980-1990, nonché, quelli più significativi del periodo esaminato, coincidente con l'acme della parabola ascendente e con l'inizio di quella discendente.

In passato già una Commissione parlamentare di inchiesta, quella sui limiti posti alla concorrenza nel campo economico, si era di fatto occupata della Federconsorzi, sia pur da un diverso angolo visuale.

In particolare, la relazione di minoranza Miceli-Ognibene era entrata nel merito della gestione ponendone bene in evidenza luci ed ombre ed era giunta a profetizzare quasi la gravità della crisi che si sarebbe verificata quando le contraddizioni tra struttura cooperativistica e reali funzioni sarebbero scoppiate. Ed invero vi si legge:

"L’organizzazione consorzi agrari-Federconsorzi costituisce oggi, (…) un’efficiente, moderna macchina commerciale, dotata d'impianti d'alto livello tecnico, di una rete di vendita penetrante, guidata da uno staff manageriale di livello adeguato alla pluralità delle operazioni di un'holding la cui attività si esplica sui mercati nazionali e su quelli esteri (costituisce un punto d'orgoglio dell’organizzazione il fatto, ad esempio, che entro il suo organico operino 2.320 tecnici, tra agronomi, ingegneri, periti).

La tenuta dell’immenso mercato, sul quale conserva per una gamma vastissima di prodotti la preminenza indiscutibile, deriva alla Federconsorzi (…)..i – chi ha potuto penetrare i meccanismi dell’organizzazione lo ha percepito senza difficoltà – dalla sostanziale organicità del disegno che collega apparato industriale, rete di approvvigionamento, organizzazione di vendita, un disegno che si realizza in una compenetrazione di elementi di centralismo e di dinamismo periferico corrispondente ai più efficaci modelli strategici delle grandi holdings moderne.

L’anomalia di un complesso di entità economiche (Federconsorzi, Cconsorzi Aagrari, società collegate) dal giro di affari di migliaoria di miliardi, che ha alla base uno statuto cooperativistico, ma che vive ormai della vita di una società finanziaria privata, non è certamente di quelle risolubili senza contraddizioni e senza traumi: intervenire su un organismo tanto complesso per imporgli trasformazioni radicali comporta infatti il rischio dell’appesantimento e della paralisi (…), comporta il pericolo, dopo qualche anno, di rendere necessario per Consorzi Agrari e per Federconsorzi, lo stanziamento di un "fondo di dotazione" (…). Se tutti i ministri dell’agricoltura, sotto i cui occhi compiaciuti la "privatizzazione"

In nota : è interessante notare come all’epoca il concetto di "privatizzazione" della Federconsorzi fosse utilizzato, sul presupposto che essa rappresentasse una organizzazione ispirata ad efficiente modello "privatistico", per esprimere un suo ritenuto allontanamento dal perseguimento di finalità pubblicistiche a servizio dell’intera agricoltura italiana; anni dopo , nella fase del declino la possibile salvezza della Federconsorzi sarà individuata in una sua "privatizzazione " intesa come liberazione dai vincoli della sua stessa struttura.

della Federconsorzi ha proceduto incontrastata, si fossero meno disinteressati della corrispondenza tra lo statuto dell’ente e la sua prassi operativa, forse l’immenso patrimonio di strumenti e di capacità manageriali sarebbero stati usati, fino dal dopoguerra, in modo da contribuire più direttamente allo sviluppo dell’agricoltura italiana; oggi non sussisterebbe il rischio di distruggere, nella rissa politica in cui non è improbabile si procederà alla ristrutturazione, il maggiore strumento operativo disponibile per l’intervento economico nella nostra agricoltura.

(…) Ma il ruolo svolto dal complesso Federconsorzi nella politica agraria nazionale risulta ancora maggiore delle sue dimensioni, pure imponenti: per non poche delle voci del dibattito di politica agraria il problema Federconsorzi si identifica infatti con la stessa sostanza del problema agricolo nazionale.

Non sarebbe difficile, anzi, ripercorrendo a ritroso il dibattito politico e giornalistico di tutto il dopoguerra, identificare nella polemica attorno alla Federconsorzi una delle costanti della vita politica nazionale".

Negli anni successivi, la Federconsorzi visse un lungo periodo di prosperità, godendo di grandi disponibilità patrimoniali, allargando e consolidando le sue partecipazioni.

In nota

Ciononostante- o forse proprio per questo- essa s’ispirò al massimo riserbo sui risultati gestionali.

Anche di seguito, negli anni ‘70-’80, i risultati degli esercizi vennero resi pubblici mediante bilanci che si connotavano di notevole cripticità e che non consentivano in alcun modo si comprenderne le dinamiche gestionali ed i risultati operativi.

(…) E’ solo dalla gestione 1976 che, costretta dai rigori della nuova legislazione fiscale, la Federconsorzi ha dovuto piegarsi alla compilazione di bilanci che, pure alquanto sintetici, offrono tuttavia alcune indicazioni numeriche degli azionisti, un resoconto tanto ricco di dichiarazioni celebrative e di magniloquenti fotografie quanto povero di cifre. Il prospetto contabile cui era demandato di tradurre in cifre la vita economica dell'organismo era tale che qualsiasi ragioniere avrebbe dovuto reputarlo insufficiente a definire i termini dell’esercizio economico di un bottegaio dal giro di affari di mezzo milione. Fino al 1975 quel prospetto è consistito praticamente in un solo conto patrimoniale, in cui tutti gli immobili, edifici, magazzini, scali, aziende agricole, erano sinteticamente valutati per 11.965.579.252 (meno del valore del palazzo romano ove hanno sede gli uffici centrali)".

Nel decennio tra il 1980 ed il 1990, mentre il capitale sociale rimaneva e non poteva che rimanere, perché lo limitava la legge del 1948, sempre di sole lire 4.650.000 (quattromilioniseicentocinquantamila) pari a 93 quote da lire 500.000 cadauna detenute dai consorzi, i dipendenti salivano a circa 2.000, i depositi di benzina agricola a 1.500, gli empori a 3.500.

La Fedit era, di fatto, una holding che controllava in forma diretta od indiretta società industriali, commerciali ed immobiliari.

Le principali società controllate erano le seguenti:

Bancarie, parabancarie ed assicurative:

Agroalimentari:

Credito agrario Ferrara

Fedital

FATA

Zuccherificio Castiglionese

Federleasing

Colombani-Massa Lombarda

ICA

 

Agrifactoring

 

Varie complementari:

Immobiliari:

SIAPA

AGRICOLE UPV

ARSOL

ALCEA

CARPI

IMMOBILIARE MONTEVERDI

SITOCO

SIICMA

REDA

INDIPENDENZA

SISFORAGERA

VILLA YORK

SASA

 

 

La Fedit aveva inoltre partecipazioni nelle seguenti società:

 

I valori delle società controllate e collegate, riferiti agli esercizi 1988-1989 e 1990, sono riprodotti nei quadri sinottici che seguono per rendere concretamente intellegibileintelligibile l'entità del complesso costituto del sistema federconsortile:

SOCIETÀ COLLEGATE

SOCIETA'

(valori in milioni di lire)

ESERCIZIO 1988

ESERCIZIO 1989

ESERCIZIO 1990

 

Entità

Partecipaz

Valore

di carico

Scosta-menti

(%)

Entità

Partecipaz

Valore

di carico

Scosta-menti

(%)

Entità

Partecipaz

Valore

di carico

Scosta-menti

(%)

 

Diretta

Ind

                   

Agrifactoring

20.00

-

2,000

0.00

20.00

-

2.00

0.00

20.00

-

2.000

0.00

Agriservice

33.00

-

66

0.00

33.00

-

66

0.00

33.00

-

66

0.00

Banca naz. Agricoltura

                       

- ordinarie

13.10

-

13,392

0.00

13.23

-

37.111

177.12

13.29

-

165.612

346.26

- privilegiate

13.10

-

4,472

0.00

13.30

-

8,714

94.86

13.30

-

36.059

313.81

Cerealfiocco Modena

-

-

-

-

-

-

-

-

50.00

-

4.027

100.00

Eurograin intern. Holding

30.40

-

15

0.00

30.40

-

15

0.00

30.40

-

15

0.00

Federconsorzi Leasing

15.34

-

767

0.00

45.00

-

2.616

241.16

50.00

-

637

-75.65

Ginestra

-

-

-

-

-

-

-

-

-

-

-

-

Interaudit Formazione

-

-

-

-

-

-

-

-

15.25

-

57

100.00

Istituto per l'edilizia Economica e popolare –Bari

11.25

-

2

0.00

12.85

-

2

0.00

12.85

-

2

0.00

Istituto per l'edilizia Economica e popolare – Cagliari (in liquidazione)

12.50

-

1

0.00

12.50

-

1

0.00

0.00

-

0

-100.00

O.I.M.A.I.- Officina interconsorziale macchine agricole industriali

25.00

-

700

0.00

25.00

-

653

-6.71

25.00

-

576

-11.79

Pasfedit

-

-

-

-

33.33

-

729

100.00

33.33

-

667

-8.50

S.A.I. –Società adriatica interconsorziale

32.47

-

342

0.00

32.47

-

342

0.00

32.47

-

342

0.00

SICPA- Soc. interconsorziale Conser. Prodotti agricoli

33.00

-

330

0.00

33.00

-

330

0.00

33.00

-

277

-16.06

TOTALE

   

22.087

     

52.579

     

210,337

 

 

SOCIETÀ CONTROLLATE

 

SOCIETA'

(valori in milioni di lire)

ESERCIZIO 1988

ESERCIZIO 1989

 

Entità

Partecipaz

Valore

di carico

Scosta-menti

(%)

Valore part.netto

Proquota

Entità

Partecipaz

Valore

di carico

Scosta-menti

(%)

Valore part.netto

proquota

 

Diretta

Indir

     

Diretta

Indir

     

Agripalco – Società di valorizzazione agricola

100.00

-

1,584

00.00

1,691

100.00

-

1,584

0.00

1,691

Agritrade

-

-

-

-

-

50.00

-

150

100.00

n.d.

A.I.D. agricola immobiliare Dauna

100.00

-

3,729

37190.0

191

100.00

-

220

-94.10

219

A.L.C.E.A. – Az. Lav. Costr. Edili Agr.

99.99

-

63

0.00

113

99.99

-

63

0.00

150

ARSOL- Industria it. Prodotti SOL

100.00

-

3,853

0.00

4,662

100.00

-

3,853

0.00

4,662

Banca di Credito di Ferrara

77.92

20.00

53,579

0.00

30,493

77.92

11.23

53,579

0.00

30,493

CAPPA Società consortile

64.00

36.00

128

0.00

128

64.00

-

128

0.00

128

CE.R.ZOO. Centro Ric. Zootecniche

51.00

49.00

31

100.00

n.d.

51.00

1.50

102

229.03

n.d.

C.I.S.E. – Cons. it. Scambi Estero in liqui.

21.65

64.95

0

0.00

n.s.

21.65

64.94

0

0.00

n.s.

COLOMBANI LUSUCO (1)

100.00

-

36,356

26.02

28,915

100.00

-

28,915

-20.47

n.d.

E.ME.RI.- Enopoli meridionali riuniti

100.00

-

67

0.00

156

100.00

-

67

0.00

156

Enologia Valtellinese (2)

-

-

-

-

-

-

-

-

-

-

Fabbrica interconsorziale concimi e prodotti chimici della Campania

100.00

-

200

-50.00

-80

100.00

-

200

0.00

220

Fabbrica Perfosfati

-

-

-

-100.00

288

-

-

-

-

-

F.A.T.A.

55.92

-

5,448

-14.76

36,817

56.13

-

6,014

10.39

56.203

Federfin

98.00

2.00

1,078

0.00

1,042

98.00

2.00

1,666

54.55

983

Federgraf

98.00

2.00

4,410

0.00

3,367

98.00

2.00

3,842

-12.88

3,842

Fedexport Bruxelles

4.96

95.04

2

0.00

n.c.

4.96

94.78

0

-99.99

n.c.

Fedexport – Federconsorzi Expor-import

98.00

2.00

588

0.00

578

98.00

2.00

1,071

82.14

581

Fedexport France

2.00

98.00

3

0.00

n.c.

2.00

98.00

3

0.00

n.c.

Fedexport Monaco

100.00

-

0

0.00

n.c.

100.00

-

0

0.00

n.c.

Fedexport U.S.A.

20.00

80.00

139

59.77

n.c.

20.00

80.00

27

-80.58

n.c.

Fedexport Zurigo

100.00

-

8

0.00

n.c.

100.00

-

8

0.00

n.c.

Fedital

89.23

6.51

54,920

-12.50

54,918

96.68

2.00

193,433

252.21

59,503

Fedidata

-

-

-

-

-

-

-

-

-

-

Feditinvest

51.00

49.00

255

0.00

256

55.12

19.00

1,102

332.16

103

Fertilgest

98.00

2.00

196

0.00

892

98.00

2.00

196

0.00

707

FILI-società- interconsoziale Lavorazione e Commercio Legnami

78.77

4.36

18

0.00

127

78.77

4.30

18

0.00

184

Granducato Enopolio di Pogg.

-

-

-

-

127-

-

-

-

-

-

ICA – Istituto per l'esercizio di Credito Agrario

80.00

0.02

5,390

80.75

-3,634

80.00

0.02

3,634

-32.58

3,634

1mmobiliare Basilicanova

-

-

-

-10.00

-

-

-

-

-

-

La Fedit, inoltre, era il veicolo esclusivo di commercializzazione dei trattori Fiat e partner di importanti gruppi economici, quali l'Enichem e la Ferruzzi; deteneva pacchetti azionari di maggioranza, di controllo o di riferimento in banche e società assicurative e di factoring: Banca nazionale dell’agricoltura, Credito aagrario Fferrarese, FATA sspa - società di assicurazione -, Agrifactoring sspa.

La Fedit esercitava, inoltre, di fatto una funzione bancaria, tanto da essere considerata il più importante istituto bancario di credito agrario: il giro annuo di affari era di circa 1.000 miliardi. Perdurando l'istituto degli ammassi volontari, essa era ente ammassatore per conto e nell'interesse dello Stato. Infine svolgeva funzioni di assuntoria nell'ambito e per conto dell'AIMAima.

Disponendo del più vasto patrimonio di silos granari, in larga parte costruiti con finanziamenti dello Stato, nonché di silos per ogni altro genere di derrate, era il più importante assuntore italiano.

Le cifre sono imponenti e le attività svolte vitali per l'agricoltura italiana.

Il sistema federconsortile sembrava, dunque, funzionare.

Ma già negli anni Sessanta non erano mancate le denunce su numerosi aspetti negativi di questo sistema, che pur in quegli anni prosperava grazie ai ricavi delle gestioni speciali: la preminenza della Federconsorzi sui consorzi agrari provinciali, l'estromissione dei veri agricoltori dall’amministrazione dei consorzi, gli alti prezzi di vendita dei prodotti acquistati dalla Fedit e rivenduti ai consorzi, le spese eccessive, l'inefficienza del controllo sindacale, l'asservimento politico.

Si tratta di critiche fondate e condivisibili, anche in riferimento alla gestione degli anni successivi, che già indicavano alcune delle ragioni della successiva crisi del sistema, che si manifesterà molti anni dopo, quando la redditività assicurata dalla fonte pubblica sarà del tutto venuta meno.

Già negli anni Sessanta i consorzi agrari in generale versavano in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed erano a rischio di fallimento.

Fin da allora un efficaceDenunciava pubblicista denunciava :

IN NOTA Emilio (????) Morandini Anatomia dei consorzi agrari Ed. Arnia 1961………..:

"La vita dei consorzi agrari viene falsata perché la loro attività è ispirata a criteri e preoccupazioni politiche, anzi di una fazione di un partito". (…) Spesso i capi agenzia e i capi filiale provengono dalle file sindacali dei coltivatori diretti o ricoprono il duplice ruolo economico e sindacale, mentre in periodo elettorale si trasformano in attivisti per procacciare voti soltanto ai parlamentari dei coltivatori diretti. Sicché i consorzi sono diventati delle grandi agenzie elettorali, il cui finanziamento viene fatto da tutti gli agricoltori e dallo Stato (gestioni fuori bilancio) ma il cui lavoro va a beneficio della minoranza (…). La Federconsorzi stipula accordi particolari rimasti segreti con i produttori industriali, Anic, Edison, Fiat, Montecatini ecc…. ma non lo fa come suo dovere statutario nell’interesse e per conto dei consorzi, sibbene per quello proprio (…). Alcuni consorzi pagano gli stipendi ai funzionari della coltivatori diretti oltre le spese generali e della propaganda, del giornale e le altre spese dell’apparato politico periferico del noto onorevole Bonomi quando viene mobilitato per i vari ordini di elezioni amministrative e politiche. (…) Il pessimo andamento di molti consorzi, le molteplici e continuate irregolarità (…) stanno a provare che su tutto l’apparato degli ammassi non esiste un minimo controllo ministeriale e che la vigilanza (…) sui consorzi agrari e sulla loro federazione, attribuita espressamente dalle legge al Ministero dell’agricoltura e delle foreste non viene affatto esercitata".

Gran parte delle accuse del pubblicista, che all'epoca potevano sembrare esasperate e sospette, hanno trovato pieno riscontro negli accadimenti successivi.

L'abuso dei fondi della Fedit è oggetto di un processo penale pendente dinanzi al tribunale di Roma e, indipendentemente dal giudizio che la magistratura ne darà, sembra alla Commissione trovare ampio supporto documentale. Non sembra senza significato che gli imputati abbiano ritenuto di risarcire il danno, sia pur nella misura proporzionalmente modesta di dieci miliardi.

Della carenza, se non inesistenza, dei 'assenza dei controlli si è già detto.

Quanto ai rapporto tra la Fedit ed i consorzi ed ai rispettivi ruoli, va osservato Alle considerazioni già esposte va aggiunto che non si trattò di omissioni imputabili a negligente inerzia, ma di omissioni dovute alla consapevolezza dell'utilità che ne sarebbe conseguita per gli organismi beneficiari e, quindi, di oggettiva connivenza.

E pensare che, prima di assumere il controllo della Fedit, l'onorevole Bonomi dichiarava: "Io penso che non i consorzi debbono dipendere dalla federazione ma la federazione dai consorzi.

Vorrei che il Ministero dell’agricoltura non predisponesse gli statuti dei consorzi e della federazione, ma si limitasse a fissare determinati punti di massima, lasciando liberi i consorzi di darsi lo statuto che preferiscono, di scegliersi i funzionari nei quali hanno maggior fiducia di federarsi o non federarsi. E come potranno essere liberi di non federarsi una volta che avrete stabilito a priori che la federazione ha diritto di controllarne la funzionalità o di limitare la scelta dei direttori e dei vice direttori? La Federazione c’è già con servizi attrezzati e funzionari, nella grande maggioranza, capaci ed esperti; tanto meglio. Ma le sue mansioni e la sua sfera di competenza, la sua politica economica deve essere liberamente determinata dai soci, non imposta dallo Stato. Deve venire tutto dal basso, non scendere dall’alto".

E’ ben noto come andarono in seguito le cose.Quando l'onorevole Bonomi assunse il controllo della Federconsorzi le cose - è ben noto - andarono invece in tutt'altro modo.

 

  1. La situazione economico-finanziaria

2.1. Alcuni dati di bilancio

Al fine di illustrare l'evoluzione della situazione economica e finanziaria della Federconsorzi dal 1982 al 1990, appare utile riepilogare alcuni dati più significativi dei bilanci, con l’avvertenza che si farà riferimento ai dati ufficiali, la cui attendibilità, come si vedrà in seguito, appare limitata dalle larghe he pur sembrano essere stati largamente manipolazioni di cui furono oggetto.ti.

L’esercizio 1980 della Federazione italiana dei consorzi agrari si chiuse con un utile netto di un miliardo e 91 milioni di lire, con un aumento del 20,3 per cento rispetto al 1979.

Dal bilancio approvato dall’Assemblea dei soci risultò infatti che i "ricavi" ammontarono a 1.924 miliardi e 380 milioni e i "costi" a 1.923 miliardi e 289 milioni.

In un tal andamento "sembra riflettersi – si legge nella relazione del Consiglio di amministrazione – il sommario disegno di una situazione agricola generale che risente delle difficoltà del settore zootecnico, degli onerosi costi del petrolio e derivati, mentre si avvale in apprezzabile misura di mezzi tecnici, eccettuate le sementi selezionate impiegate in quantità insufficienti".

L’esercizio 1982 si chiuse con un utile netto di 1 miliardo 735 milioni di lire: il 43,5%% per cento in più rispetto all’anno precedente. I "ricavi" complessivi infatti ammontarono a 2.321 miliardi e 717 milioni, mentre i "costi" a 2.319 miliardi e 982 milioni.

Il movimento merceologico fece registrare introiti per 1.997 miliardi, che, raffrontati a quelli del 1981, rappresentavano un aumento del 7,7% per cento%.

Nella relazione all’Assemblea, il presidente Truzzi ricordava la difficile situazione congiunturale per tutta l’economia e l’agricoltura in particolare.

Il successivo esercizio 1983 si chiuse, parimenti, con un utile netto dichiarato di 2.252 milioni. Il presidente Truzzi, nell'annunciarlo, ne attribuiva il merito ad un "avveduta conduzione amministrativa", ma non poteva nascondere le difficoltà costitute dal problema del finanziamento che, "per il suo alto costo, rappresenta un autentico nodo scorsoio al collo del settore agricolo". Si dava quindi notizia del ricorso ad un finanziamento per 55 milioni di ECU, che tuttavia si rivelava del tutto insufficiente.

Nel corso dell'esercizio 1984 si fece, infatti, ricorso ad un nuovo e più importante finanziamento sul mercato londinese che veniva concesso da un pool di banche straniere ed italiane per 140 milioni di ECU.

L'esercizio 1984 si chiuse con un utile netto di 2.598 milioni. I risultati globali vennero definiti confortanti.

Il bilancio 1985 segnò un utile di 2.897 milioni. Si segnalarono aumenti di fatturato non significativi di un nuovo e diverso trend.

Il bilancio 1986 si chiuse con un utile netto di 2.980 milioni, attestandosi sui livelli dell’anno precedente. Il fatturato complessivo dei consorzi agrari ammontava a 4.981 miliardi e 670 milioni, a fronte di 5.231 miliardi e 263 milioni del 1985, con una diminuzione del 4,77 per cento.

Quanto alle società controllate dalla Federconsorzi, il fatturato complessivo si aggirò attorno ai 1.150 miliardi.

Il risultato dell'esercizio 1987 segnò un utile di 3.014 milioni.

Il bilancio 1988 si chiuse con un utile di 3.415 milioni. Il deficit complessivo dei consorzi agrari nel corso dell'anno si attestò "ufficialmente" sui 2.000 miliardi di lire.

I bilanci 1989 e 1990 si chiusero in pareggio.

anno

risultato di esercizio

importo (lire milioni)

1982

Utile netto

lire 1.735

1983

Utile netto

lire 2.252

1984

Utile netto

lire 2.598

1985

Utile netto

lire 2.897

1986

Utile netto

lire 2.980

1987

Utile netto

lire 3.076

1988

Utile netto

lire 3.014

1989

Pareggio contabile

lire 0

1990

Pareggio contabile

lire 0

1991

Perdita

- lire 1.681.825

 

2.2. Osservazioni tecniche

2.2 Osservazioni tecniche: analisi comparata ed evolutiva dei bilanci della Federconsorzi, dal 1982 alla data del commissariamento

La Commissione ha proceduto a sottoporre ad analisi comparativa ed evolutiva i bilanci della Fedit dal 1982 in poi.

A tal fine, si sono, innanzi tutto, riclassificati i dati in conformità delle più corrette metodologie di redazione del bilancio.

La riclassificazione del patrimonio - attivo e passivo - e dei conti economici è sintetizzata nei quadri sinottici riportati nell'allegato 4 della presente relazione.

2.3.le poste dell'attivo

A) Le liquidità immediate

Tale posta patrimoniale presentava, nell'anno 1982, una liquidità di circa lire 196.000 milioni, di cui lire 195.000 milioni circa rappresentavano le disponibilità attive della società sui conti correnti bancari.

Tali disponibilità diventarono sempre più consistenti fino a raggiungere nel 1988 un livello altissimo, pari a lire 581.694 milioni.

Anche nel successivo biennio (1989 - 1990) i depositi bancari restarono a livelli elevati per scendere solo nel 1991 a lire 69.327 milioni.

Il raffronto tra l'ammontare dei depositi bancari, nell’arco temporale considerato, e l’indebitamento medio verso banche nello stesso periodo, evidenzia un forte squilibrio tra gli interessi attivi percepiti e gli oneri derivanti dagli interessi passivi corrisposti alle banche, attesa la diversità tra i minori tassi attivi ed i maggiori tassi passivi.

La costante permanenza di elevati depositi bancari scarsamente remunerati, a fronte della grande entità dell'indebitamento, palesa una cattiva gestione dei mezzi finanziari disponibili che avrebbero dovuto essere ben più proficuamente gestiti.

B) Le liquidità differite

Alla chiusura del bilancio al 31 dicembre 1982, le liquidità differite erano pari a circa lire 1.322.167 milioni per raggiungere un importo di circa lire 3.239.223 milioni al 31 dicembre 1990, registrando, nel periodo in esame, un incremento pari a circa lire 1.917.056 milioni.

La consistente diminuzione fu l'effetto dell’adeguamento dei rischi su crediti per circa lire 1.310.174 milioni, e dei rischi per interessi di mora pari a lire 524.855 milioni.

La "liquidità differita" si incrementò, quanto ai "crediti verso i consorzi agrari", sia per gli interessi attivi, sia per gli interessi di mora.

Tali crediti presentavano, però, un elevatissimo grado di inesigibilità a fronte del quale non furono eseguiti, se non da ultimo, adeguati accantonamenti di fondi ed in particolare del "fondo rischi su crediti", del "fondo rischi su effetti allo sconto" e del "fondo rischi interessi di mora".

Al 31 dicembre 1991 le liquidità differite scesero a lire 1.719.437 milioni.

Il mancato adeguamento, negli esercizi di competenza, dei fondi rischi in rapporto al grado d'inesigibilità dei crediti, determinò perdite pari, nel 1991, a circa lire 1.682 miliardi e, nel 1992, a circa lire 651 miliardi.

L'inattendibilità delle risultanze dei bilanci risulta evidente.

C) Le disponibilità

La voce "disponibilità" indica principalmente la consistenza delle merci in magazzino.

Dall’iniziale valore di lire 77.896 milioni nell'anno 1982 si assistette ad un costante incremento fino a raggiungere nel 1990 l'entità di lire 376.836 milioni.

Nel 1991 il dato si ridusse a lire 139.416 milioni.

L'inattendibilità della posta emerge dall'analisi condotta dai tecnici professori Cattaneo e Pavan, incaricati dal dottor Pellizzoni di eseguire una verifica sull'impianto delle scritture contabili della Fedit i cui risultati sono contenuti in una "bozza di relazione" intitolata "Indagine conoscitiva sul bilancio Fedit 1988".

A pagina 7 del documento si legge infatti: "Non esiste contabilità di magazzino, non è mai stato fatto un inventario fisico (nemmeno dei trattori e delle macchine agricole). Le giacenze ed i valori unitari sono comunicati all’Amministrazione delle Aree Operative Commerciali su supporti "cartacei" inaccettabili nella forma e nel contenuto. Non esiste la minima certezza né sulle quantità né sui valori.

E’ una situazione che può riservare imprevedibili sorprese sia sotto il profilo dei valori (a fine 1988 sono state aggiunte merci viaggianti per 32 miliardi) sia sotto il profilo della correttezza e onestà nei comportamenti operativi".

E più innanzi, nella seconda parte, a pagina 18: "Non esiste una contabilità di magazzino e quindi non erano disponibili al 31 dicembre 1988 giacenze contabili di merci.

Negli ultimi anni non è mai stato fatto un inventario fisico delle giacenze di magazzino.

Le quantità che hanno concorso a formare il valore del magazzino al 31 dicembre 1988 sono state fornite in parte dalle Direzioni Commerciali, sulla base di situazioni extra contabili, e in parte ricavate "da dichiarazioni di esistenza fisica" inviate dai consorzi e dai depositi.

I prezzi che hanno concorso a formare il valore del magazzino al 31 dicembre 1988 sono stati forniti dalle Direzioni Commerciali e si presume siano prezzi – costi medi dell’anno (non si è potuto appurare se includono i costi accessori all’acquisto). Tali valori sono stati accettati acriticamente dall’Ufficio Contabilità Generale e Bilancio.

Il valore del magazzino al 31 dicembre 1988 include 6 miliardi di macchine agricole inserite due volte per errore, ed una rettifica incrementativa di lire 42 miliardi per "merci viaggianti" di cui lire 32 miliardi frutto di uno storno di saldi "dare" di fornitori".

Tanto appare di per sé sufficiente per poter affermare l’inattendibilità del risultato d'esercizio per il 1988 e di tutti i precedenti esercizi.

Le giacenze iniziali e le giacenze finali di merci costituiscono rispettivamente componenti negative e positive di reddito e concorrono, secondo il loro incremento o decremento rispetto all’iniziale valore, al risultato economico positivo o negativo dell’esercizio.

Orbene, se tali valori risultano non controllati o non controllabili sia nella loro reale consistenza, sia nel loro valore, i risultati dell’esercizio che ne scaturiscono sono da ritenere inattendibili.

Una conferma dell'inattendibilità delle giacenze iniziali e finali di magazzino è fornita dalla documentazione rinvenuta negli archivi Federconsorzi in Castelnuovo di Porto ed in particolare delle schede di lavoro elaborate nel corso della consulenza prestata dai tecnici della società di revisione Coopers & Lybrand, su richiesta della gestione Pellizzoni, relativa alla riconciliazione dei saldi clienti e fornitori.

In tali documenti si segnalano anomalie contabili costituite dalle mancate registrazioni di fatture di acquisto di merci, per valori rilevanti, riferite ad anni precedenti al 1990, imputate, dopo il controllo, a sopravvenienze passive e cioè a costi relativi agli anni precedenti.

Le rilevate irregolarità hanno alterato sensibilmente le giacenze di magazzino nel periodo in cui sono verificate e, conseguentemente, anche tutti i risultati degli esercizi.

  1. Le immobilizzazioni materiali

Le immobilizzazioni materiali sono costituite dal patrimonio immobiliare e strumentale della società e sono contabilizzate al costo di acquisto.

La posta di bilancio è stata riclassificata al netto dei relativi fondi e, alla data del 31 dicembre 1982, risulta iscritta per circa lire 32.000 milioni.

Negli anni 1989 e 1990 la posta aumentò per effetto di nuove acquisizioni immobiliari.

Va osservato che, prima del 1989, la società non aveva adeguate conoscenze circa la consistenza e il valore di mercato del proprio patrimonio immobiliare.

Nella già citata bozza di relazione dei professori Pavan e Cattaneo, in merito ai beni materiali e ai fondi di ammortamento si legge che: "Da molto tempo non è stato fatto un inventario fisico dei cespiti e quindi non vi è la sicurezza che ai valori netti contabili corrispondano beni tuttora esistenti e/o utilizzati".

Gli immobili, ancorché di cospicuo valore, dettero, in tutti gli esercizi esaminati, risultati reddituali modesti.

La rendita annuale lorda, derivante dalle "locazioni attive" non superava nel 1982 i 3.000 milioni di lire per raggiungere la punta più alta nel 1991 di lire 7.315 milioni.

Ciò dipese in gran parte dagli insignificanti canoni di locazione che venivano corrisposti, rispetto a quelli di mercato, dalle associazioni di categoria a cui erano stati locati immobili di ingente valore.

Al fine di sanare posizioni debitorie di alcuni consorzi agrari in dissesto, la Federconsorzi aveva, inoltre, acquistato dai debitori immobili di elevato valore che aveva lasciato in uso agli stessi consorzi in comodato gratuito a tempo indeterminato.

In tal modo la Federconsorzi immobilizzò importanti risorse finanziarie aggravando ancor più il proprio squilibrio economico e finanziario.

La gestione del patrimonio immobiliare della Federconsorzi fu, dunque, del tutto negativa.

E) Le immobilizzazioni finanziarie

Nella posta in esame risultano comprese, a partire dal 1982 fino al 1988, le partecipazioni in società controllate e collegate e le partecipazioni in altre società.

Nel corso degli anni la Federconsorzi praticò una politica espansiva di gruppo con la costituzione di nuovi organismi societari, l’acquisizione di partecipazioni e la sottoscrizione di aumenti di capitale in preesistenti società controllate e collegate, come si può evincere dal seguente prospetto:

 

1982

1983

1984

1985

1986

1987

1988

1989

1990

1991

Controllate

43.278

48.334

60.750

146.813

202.458

203.542

207.530

403.167

483.283

393.371

Collegate

26.859

38.290

39.647

20.366

22.268

22.087

22.087

52.580

210.336

24.375

Altre soc.

4.974

5.026

5.154

5.164

5.591

49.082

71.512

76.706

43.381

33.852

 

75.111

91.650

105.551

172.343

230.317

274.711

301.129

532.453

737.000

451.598

F.do adeguem.

Partecip.

               

(5.012)

(16.571)

 

75.511

91.650

105.551

172.343

230.317

274.711

301.129

532.453

731.988

435.027

Dal quadro sinottico risulta evidente l’ingente progressione d’impiego di capitali di rischio nelle partecipazioni societarie che, da lire 75.111 milioni del 1982, salirono vertiginosamente fino a raggiungere, nel 1989, il ragguardevole importo di lire 532.453 milioni.

Va, in proposito, subito considerato che la Federconsorzi non disponeva che di un modesto capitale proprio, riportato come segue in milioni nei bilanci 1982 e 1991:

 

1982

1991

Capitale sociale

4.700

4.650

Riserva ordinaria

1.825

5.577

Riserva straordinaria indivisibile

907

2.802

F.do Solidarietà Consortile

836

2.117

Riserva tassata

 

738

Riserva Legge 19.12.73 n. 823

2.329

2.329

Legge 576/1975 allineamento capitale fisso

4.174

4.174

Legge 576/1975 allineamento partecipazioni

3.915

3.915

Legge 72/1983 Ris. da rivalut.ne monetaria

20.970

20.969

A disposizione del Cons. amm.ne

 

5.179

Contributi in c/capitale

7.430

30.883

TOTALE

42.872

78.688

I maggiori valori esposti negli anni 1988, 1989, 1990 e 1991 sono costituiti da "contributi in conto capitale".

Il capitale proprio era, in realtà, da tempo diventato inesistente per effetto delle perdite subite.

La Federconsorzi andava ricapitalizzata o messa in liquidazione da molto tempo prima del commissariamento.

Per procurarsi gli ingenti capitali necessari all’acquisizione delle partecipazioni, alle ricapitalizzazioni, al ripianamento delle perdite ed al finanziamento delle società partecipate, la Federconsorzi ricorse sistematicamente e per grandi entità al credito ordinario incrementando ulteriormente la sua esposizione debitoria nei confronti del sistema bancario, in tal modo peggiorando il suo squilibrio economico-finanziario.

Va osservato, infine, che i valori riportati nei bilanci non fanno alcun riferimento al patrimonio netto delle società partecipate.

Anzi, per talune partecipazioni furono a lungo esposte sopravvalutazioni.

Per altre partecipazioni, poste in liquidazione ancor prima del 1985, i valori di costo furono mantenuti in tutti i bilanci fino al 1989.

Fino al 1990 non venne effettuato alcun accantonamento per tali capitali di rischio sul "fondo adeguamento partecipazioni" e quando ciò avvenne gli accantonamenti, rispettivamente di lire 5.012 milioni e di lire 16.571 milioni, furono del tutto inadeguati, rispetto alle più consistenti perdite verificatesi.

Inoltre, nel 1988 il decremento della partecipazione in Fedital spa di lire 114.738 milioni fu imputata, senza essere rilevata nel conto perdite e profitti, direttamente in diminuzione del "Fondo interventi Organizzazione".

Analoghe operazioni furono eseguite nel 1989 con l'utilizzo di fondi, aventi natura di riserva.

La procedura seguita per tali contabilizzazioni, che dovevano invece correttamente gravare sul conto economico, occultò il reale risultato dell’esercizio, violando in tal modo il principio della "trasparenza del bilancio".

2.4 Le poste del passivo

A) Le passività correnti

Le passività correnti per la quasi totalità rappresentano le "fonti di finanziamento" utilizzate dalla Federconsorzi per gli impieghi effettuati.

L’incremento fu, nel periodo esaminato, crescente, fino a raggiungere, al termine dell’esercizio 1990, un valore di lire 4.633.028 milioni, scendendo di poco alla fine del 1991 a lire 4.344.305 milioni.

B) Le passività consolidate

Nelle passività consolidate sono appostati tutti i fondi esposti nel bilancio della Federconsorzi nei diversi esercizi.

La posta registrò, nel primo esercizio in esame, un valore complessivo di lire 198.590 milioni e raggiunse nel 1986 un valore di lire 305.628 milioni.

Essa scese in maniera sensibilissima nei successivi esercizi, fino ad assestarsi a lire 97.257 milioni nel 1991.

Una sensibilissima riduzione dei fondi appostati in bilancio avvenne nel 1989.

Gran parte degli stessi vennero fatti confluire nei proventi dell’esercizio concorrendo in modo decisivo al raggiungimento di un apparente ed artificioso pareggio.

Nel quadro riassuntivo che segue sono riportati i fondi appostati nei diversi bilanci esaminati.

 

 

FONDI

1982

1983

1984

1985

1986

1987

1988

1989

1990

1991

Fondo accantonamenti tassati

78.072

78.072

78.072

78.072

78.072

78.072

78.072

Fondo oneri futuri

74.267

74.267

27.311

Fondo rischi su crediti

5.464

42.985

51.267

60.654

73.608

145.537

185.537

38.979

139.579

1.310.174

Fondo rischi su crediti per inter. di mora

13.570

34.302

58.498

58.498

58.498

92.836

134.871

238.658

252.855

524.855

Fondo interventi organizzazione

40.000

55.000

75.000

97.000

26.500

29.740

78.202

Fondo oscillazione cambi

6.000

12.000

20.000

25.000

27.000

23.165

23.165

13.555

15.702

Fondo oneri corsi

Aggiorn.to prof.le

1.500

3.000

4.500

5.500

5.500

5.500

Fondo spese ricerche e

Sperimentazione

5.000

10.000

13.000

13.000

13.000

Fondo imposte

47.898

56.467

3.619

7.976

79.045

23.411

13.871

13.001

13.801

Fondo plusvalenze

da reinvestire

480

95

1.039

1.977

986

Fondo rischi su effetti

allo sconto e all'incasso

113.354

14.974

Fondo adeguamento

Partecipazioni

5.012

16.571

Fondo trattamento fine rapporto

69.374

70.465

72.166

73.169

72.622

69.552

67.956

39.588

40.603

29.592

Cassa previdenza personale

4.997

4.997

4.997

4.997

4.997

4.997

4.997

TOTALE

295.855

355.883

442.658

421.843

539.828

585.810

605.171

518.048

655.173

1.923.477

C) Capitale e riserve

Nel periodo preso in esame il patrimonio netto contabile della società variò nel modo che segue:

2.5 Osservazioni sui conti economici relativi agli esercizi dal 1982 al 1991

Una prima osservazione s'impone: il margine operativo lordo risulta molto ristretto rispetto all’elevato volume di affari e fortemente influenzato dai "costi dei servizi" e dalle "spese gestioni speciali".

Su di esso influiscono anche, positivamente o negativamente, le variazioni in più o in meno delle giacenze di magazzino.

Le illustrate anomalie riguardanti le giacenze di magazzino, da ritenersi inattendibili, si riflettono sui risultati degli esercizi esaminati, da considerarsi anch’essi inattendibili.

Ad analoga conclusione si perviene considerando la posta, attiva costituita dagli interessi passivi addebitati ai consorzi agrari, che influirono notevolmente sui risultati economici. Si tratta infatti di una componente positiva di reddito in gran parte puramente apparente o quanto meno virtuale, per l’incapacità della maggioranza dei consorzi agrari di far fronte ai loro debiti.

Per valutare gli effetti positivi nominali che gli interessi in parola, peraltro elevati, hanno avuto sui risultati della gestione nel periodo 1982-1991, si riportano di seguito gli importi relativi agli "Interessi attivi" sui crediti vantati dalla Federconsorzi, imputabili, in misura preponderante, ai consorzi agrari:

anno

(lire milioni)

Importo

1982

lire

121.631

1983

lire

108.898

1984

lire

107.593

1985

lire

174.557

1986

lire

168.282

1987

lire

143.601

1988

lire

161.060

1989

lire

85.896

1990

lire

154.190

1991

lire

92.190

totale

lire

1.317.898

Vanno aggiunti i proventi riportati annualmente nei conti economici derivanti da interessi di mora, sui crediti verso i consorzi agrari ammontanti per il periodo considerato a complessive lire 524.648 milioni, così distinti per ciascuna annualità:

anno

(lire milioni)

Importo

1982

lire

13.570

1983

lire

20.732

1984

lire

24.196

1985

lire

30.115

1986

lire

----

1987

lire

34.337

1988

lire

42.036

1989

lire

103.786

1990

lire

116.236

1991

lire

119.640

totale

lire

504.648

I proventi venivano così implementati con "interessi attivi" del tutto od in larga misura solo nominali.

Amministratori e sindaci ben sapevano che gli interessi non sarebbero stati mai riscossi, ma se ne servivano per occultare le perdite reali, senza neppure stanziare fondi ai quali attingere per far fronte ai mancati introiti.

Se la Fedit avesse applicato nella formazione dei bilanci i criteri previsti dalla tecnica contabile e dalle norme civilistiche si sarebbero ben presto evidenziate le perdite reali.

Confermano l'assunto le enormi perdite risultanti dai bilanci al 31 dicembre 1991 e al 31 dicembre 1992, rispettivamente di lire 1.681.825 milioni e di lire 658.839 milioni.

2.6 I risultati dei bilanci relativi agli anni 1989 e 1990

Il "pareggio" di bilancio fu raggiunto negli agli anni 1989 e 1990 attraverso l’utilizzo di riserve e di fondi e di "passività liberate".

Non si tratta di componenti positive di reddito ma sono operazioni di natura esclusivamente contabile.

In particolare il pareggio del bilancio 1988 fu possibile con l’utilizzo dei seguenti fondi:

Fondo Oscillazione Cambi

9.610 milioni

Fondo rischi su crediti

55.558 milioni

Svalutazioni dirette liberate

92177 milioni

Fondo TFR Tassato

13.700 milioni

Fondo corsi di aggiornamento prof.le

7.500 milioni

Fondo Spese ricerca

5.500 milioni

Fondo oneri futuri

13.000 milioni

TOTALE

220.921 milioni

Per l’esercizio 1989 il pareggio fu possibile mediante l’utilizzo dei seguenti fondi:

Fondo Oscillazione Cambi

13.555 milioni

Fondo rischi su crediti

9.000 milioni

Svalutazioni dirette liberate

36.423 milioni

Fondo rischi interessi di mora

5.791 milioni

Fondo imposte

69 milioni

TOTALE

64.838 milioni

Quindi per l’anno 1988 furono utilizzati fondi per ben lire 220.921 milioni, mentre per l’anno 1989 per complessive lire 64.838 milioni.

A ciò va aggiunto l'utilizzo di sopravvenienze attive costituite da "Debiti prescritti" per lire 159.733 milioni.

2.7 Anomalie gestionali riscontrate

Nell'anno 1990 la società Coopers & Lybrand fu incaricata della riconciliazione dei saldi dei partitari dei fornitori e dei clienti.

Il controllo della società evidenziò gravi anomalie gestionali, di seguito elencate:

 

- fatture non contabilizzate o registrate su altro partitario (altri uffici)

lire

993.000.350

- fatture non contabilizzate o registrate su altri partitari (Cap)

lire

114.797.500

- altri pagamenti doppi

lire

2.166.159.946

- note di credito da recuperare

lire

167.294.327

- pagamenti doppi – APO

lire

176.870.731

- sopravvenienze passive riferite a fatture di acquisto anni precedenti al 1990 scaturite dalla riconciliazione

lire

8.864.095.775

- sopravvenienze attive riferite alla riconciliazione dei saldi clienti relativi ad anni precedenti al 1990

lire

2.915.523.107

- lista fornitori sospesi in assenza di documentazione

lire

1.840.205.468

Inoltre:

- registrazioni duplicate delle fatture passive "orzo" avvenute nel 1987 e nel 1988

lire

2.570.307.750

- note di credito a completamento fatture del 1989 (ESSO – FIAT – SIAPA)

lire

6.568.900.783

- fatture passive 1989 registrate per un importo superiore

lire

2.000.000.000

- rilevazione di una sopravvenienza passiva dovuta ad una erronea contabilizzazione della fattura Italiana Oli e Risi

lire

2.496.349.900

- errata contabilizzazione di interessi passivi riferiti al prestito in eurolire

lire

2.555.000.000

Appare evidente che i risultati degli esercizi di riferimento erano sensibilmente alterati.

La regolarizzazione delle anomalie avvenne, anch'essa, con una procedura non corretta che alterò il risultato dell’esercizio 1990.

L’aspetto di maggiore gravità che emerge dai dati raccolti e dalla documentazione esaminata riguarda i consistenti "pagamenti doppi" rilevati.

 

2.83. Valutazioni critiche

Il crescente indebitamento ed il crescente squilibrio finanziario non impedirono alla Fedit di distribuire utili ai soci, i consorzi agrari, fino al 1988 per un totale di 5,8 miliardi.

La cessazione della gestione degli ammassi pubblici obbligatori segnò la fine dell’opulenza della Federconsorzi.

Molti consorzi agrari erano già, negli anni Settanta, in una situazione di difficoltà che si accentuò progressivamente nel decennio successivo.

La Federconsorzi, che gran parte dei suoi profitti aveva tratto dalla attività di mediazione commerciale esercitata nei confronti dei suoi soci e che era stata governata da un gruppo dirigente con rilevanti e riconosciute capacità gestionali, fu segnata negli anni Ottanta dagli effetti di tre fattori concomitanti ed interdipendenti.

La dirigenza del periodo non si rivelò della stessa statura di quella del passato. Dal novembre 1981 all’aprile 1989, la carica di presidente fu ricoperta dal senatore Ferdinando Truzzi e, quella di direttore generale, dal ragionier Luigi Scotti.

Si accentuò l’influenza delle organizzazioni di categoria ed in particolare della Coldiretti che, in armonia con le impostazioni politiche generali del partito di riferimento, la Democrazia Ccristiana, piegò il mutualismo, insito nella struttura a base cooperativa del sistema, ad assistenzialismo e quindi, di fronte alla sempre più accentuata crisi economica e finanziaria di consorzi, assegnò alla Fedit il ruolo tipico di un ente pubblico assistenziale a sostegno del sistema satellitare dei consorzi, conservati così vitali per mantenere il consenso politico ed elettorale che ne derivava a prezzo del progressivo depauperamento e dell’inevitabile tracollo forte della casa madre.

Grazie al sostegno della Federconsorzi non vennero commissariati e liquidati quei consorzi le cui condizioni avrebbero richiesto tale provvedimento.

Si trattò, quindi, di una scelta politica ed economica radicalmente sbagliata, che coltivava l’illusione di poter far fronte alla crisi con l’iniezione di danaro pubblico, come era avvenuto ed avveniva in altri settori economici, trascurando di rammentare che la permanente gestione monolitica del sistema federconsortile da parte di un solo partito, ed anzi di una sola parte della Democrazia cristiana, avrebbe incontrato l’invalicabile opposizione degli altri partiti di governo e di opposizione.

In tal modo si crearono i presupposti del collasso irreversibile.

Il progressivo aggravarsi della situazione, che i bilanci continuavano ad occultare con varie alchimie, finì per non poteva non ppreoccupare la pur inadeguata ed organicamente succube perfino una dirigenza della Fedit.

inadeguata, succube ed inerte come quella della Fedit, e, soprattutto la Coldiretti che aveva il massimo interesse a non perdere gli immensi vantaggi che dalla vitalità della controllata Fedit le derivavano.

Si giunse così al maggio 1987: il ragionier Scotti incontrò presso la Fedit i responsabili dei singoli consorzi.

Oggetto della riunione fu la correttezza dell’impostazione dei bilanci dei consorzi dell’anno in corso, poiché si temeva di trovarsi di fronte ad una situazione reale peggiore di quella ufficiale.

Ciò basterebbe a dare l’esatta misura dell’inadeguatezza dei controlli interni –- dei Collegi sindacali - ed esterni e cioè ministeriali.

Malgrado avesse ricevuto assicurazioni di fedeltà, il ragionier Scotti andò a parlare della questione con la persona che è apparsa alla Commissione come il vero dominus esterno della Fedit e cioè con il presidente della Coldiretti, onorevole Lobianco.:

Eevidentemente, o aveva motivo di non fidarsi delle assicurazioni ricevute, o la situazione prospettatagli era in realtà molto preoccupante.

Non potendo confidare nelle risorse interne della Fedit, l'onorevole Lobianco ritenne di avvalersi di un tecnico esterno, il professor Pellegrino Capaldo.

Ll'onorevole Lobianco. E Ffu proprio quest'ultimo Lobianco a presentò are al ragionier Scotti il professor Capaldo, che si incontrò ripetutamentepiù volte con i dirigenti della Fedit e dei consorzi.

Ad ulteriore conferma del ruolo preminente e decisivo delle organizzazioni professionali, di cui si è già trattato, va rilevato che

In nota Cap.secondo; par.quarto

il prof.essor Capaldo si incontrò più volte per discutere i problemi della Fedit non con i soli tecnici ma anche e, soprattutto, con i presidenti della Coldiretti e della Confagricoltura come ha ricordato alla Commissione il 1° febbraio 2000 il presidente pro tempore di ques’ultima., dott.or Wallner:

"La Federconsorzi continuava da sempre ad assumere connotazioni politiche, per cui era impossibile imporre una gestione e una considerazione economicistica, non dico rigorosa, ma almeno confacente con i tempi.

(…) ………..Fui convocato, come sempre, da Lobianco (lo considero un galantuomo, anche se mi hanno insegnato che a un certo punto bisogna assumersi le proprie responsabilità) ad un incontro con il professor Pellegrino Capaldo …(…). Mi chiese se ero d’accordo a partecipare ad alcune riunioni in cui avremmo rappresentato al professor Pellegrino Capaldo la vicenda. Risposi: "Altroché, se sono d’accordo! Anche senza preavviso, comunque e dovunque io vengo". Potrei essere più preciso, ma partecipai a non più di tre riunioni.

Dissi al professor Pellegrino Capaldo tutto quello che mi stava in corpo, compresa l'assoluta necessità, a mio avviso, che fosse assunta la responsabilità della gestione di un corpo malato, obiettivamente e finanziariamente, a cui porre mano molto più che rapidamente. Con mia sorpresa l'ultima volta il professor Capaldo mi guardò attentamente facendomi un piccolo complimento, nel senso che mostrò di capire perché passassi per un uomo difficilmente gestibile e molto appassionato e, rivolto a Lobianco, disse (questo non me lo dimenticherò): "Il dottor Wallner dice delle cose che per buona parte sono incontestabili. Se qua non ci mettiamo le mani, la situazione peggiora". Tuttavia alla fine aggiunse: "Non fasciamoci la testa prima che sia rotta" (…)".

I risultati dell’esplorazione diel professor Capaldo, che da quel momento sembra essere diventato diventò il più autorevolemassimo e decisivo "consigliere" della Federconsorzi

In nota ("non si muoveva foglia che Capaldo non voglia lesse" dichiarava il dottor Cocco, presidente del Collegio sindacale della Fedit, alla Commissione ministeriale di inchiesta Poli Bortone il 3 aprile 1995 per descriverne il ruolo)

si tradussero in un progetto di accorpamenti di consorzi, di dismissioni di partecipazioni non strategiche, ma anche in una forte rassicurazione per tutti.

Il professor Capaldo stimò in almeno 1.000 miliardi il patrimonio netto della Fedit e, quindi in una somma tale da rassicurare sulla possibilità di far fronte al crescente indebitamento bancario.

Il ragionier Scotti percorse anche la strada di tentare di avviare una maggiore capitalizzazione dei consorzi ed quindi di ottenere l’afflusso di capitali dall’interno del mondo agricolo, utilizzando i benefici previsti dalla legge n.  752/8 del 1986 (anticipazioni a tasso agevolato ed a rimborso differito) ma, come era prevedibile, senza alcun esito.

L’idea era infatti velleitaria: tendeva a risolvere il problema della sottocapitalizzazione dei consorzi senza intaccarne la struttura, non per rilanciarne l’operatività ma per consentire respiro finanziario alla Federconsorzi.

Eppure i reali problemi finanziari della Federconsorzi e dell'intero comparto agricolo non erano sconosciuti: il presidente della Fedit, il dottor Truzzi, denunciava nel 1983 che il settore agricolo aveva un debito complessivo di ben 14.000 miliardi.

Anche i dipendenti della Fedit, che pur godevano di non lievi privilegi, chiedevano la ristrutturazione dell'azienda, tanto da scioperare nel 1986.

All'Assemblea nazionale dell'associazionismo agricolo del 1° dicembre 1986, il presidente della Coldiretti, onorevole Lobianco, poneva il problema della dotazione di mezzi finanziari ed indicava la prospettiva della creazione di una finanziaria.

Nel frattempo, il P.S.I.artito socialista italiano presentava nel 1986 un progetto di riforma della Federconsorzi e dei consorzi agrari che mirava a sottrarli al controllo esclusivo della Coldiretti e della Confagricoltura, invocava il commissariamento dei consorzi in passivo e criticava fortemente gli amministratori della Fedit.

Il P.C.I.artito comunista italiano, con una coeva interrogazione in Senato, chiedeva che la Federconsorzi venisse riformata aprendosi al concorso di tutti gli operatori agricoli.

Nulla accadde; è tuttavia interessante osservare come il problema venisse individuato non nel sistema Federconsorzi in sé, ma nella sua gestione monopolistica.

Nel marzo dell'anno successivo, la Coldiretti lanciava il c.d.osiddetto "pProgetto AQUILAquila" che prevedeva la distribuzione dei prodotti agricoli degli aderenti alla Coldiretti tramite i canali commerciali della Federconsorzi.

Il progetto non riscosse molti consensi, al di fuori della Coldiretti.

Dichiarava a "Il Sole 24 ore" del 30 aprile 1987, il dottor Stefano Wallner, presidente della Confagricoltura: "Per quanto riguarda la Federconsorzi ed i suoi progetti di collaborazione con il mondo industriale nel campo della distribuzione, io dico che prima si dovrebbe fare della Fedit una cosa seria e poi eventualmente pensare a progetti ambiziosi".

Ha riferito alla Commissione, nel corso dell’audizione del 22 febbraio 2000, l'ex sottosegretario all'agricoltura, Maurizio Noci: "In verità, il presidente Lobianco, con altri colleghi della Coldiretti, aveva cercato, poco prima dello scioglimento della Federconsorzi, di mandare avanti un piano che, secondo me, non poteva essere ben visto dalla Presidenza del Consiglio e neanche dal mondo parlamentare ed economico italiano, perché era la brutta fotocopia del famoso "Programma Quadrifoglio" degli anni Settanta. Chiamavano questo piano "progetto Aquila", per il quale occorrevano - se non vado errato - dai 18.000 ai 25.000 miliardi".

Nel 1988, il P.C.I.artito comunista italiano presentò una proposta di legge di riforma della Fedit e dei consorzi agrari chiedendo che la reale consistenza del patrimonio e delle risorse della Fedit e dei consorzi fossero accertate da una commissione ministeriale che ne avrebbe dovuto riferire al Parlamento.

Ancora una volta non se ne fece nulla.

Dunque l'opposizione politica premeva per cambiare ma continuandova a fare della cooperazione il caposaldo di ogni riforma.

La Coldiretti pensò invece ad una soluzione gestionale sul modello di quella che avevano portato, in quegli anni, al vertice dell'Iri Romano Prodi e dell'Eni Franco Reviglio.

Ma la Federconsorzi presentava una struttura ed una condizione che non ne lo consentivanono la salvezza, se non a prezzo di strutturali e senza radicali cambiamenti che non sembra si volessero.

La cultura politica di una parte della Democrazia Cristiana che era più vicina alla Fedit ed ai temi dell'agro-alimentare pensò invece ad una soluzione gestionale sul modello di quella che aveno portato, in quegli anni, alla testa dell' Iri Romano Prodi e dell'Eni Franco Reviglio.

Ma la Federconsozri non era né l'Iri né l'Eni ed il prescelto non era né Prodi né Reviglio.

 

 

Parte seconda

  1. La scelta manageriale. La nomina del dottor Pellizzoni
  2.  

    La nomina del dott.or Silvio Pellizzoni a direttore generale della Fedit concretizzò le esigenze convergenti, pur se ispirate da finalità e sollecitazioni diverse, delle due organizzazioni, che da decenni la governavano, la Coldiretti e la Confagricoltura , di imprimere alla gestione una svolta manageriale.

    In particolare la Confagricoltura la sollecitava vigorosamente da tempo, verosimilmente anche per contrastare il potere notevolmente maggiore della Coldiretti, che aveva sempre espresso presidenti e direttori generali della Fedit e che vantava un preponderante numero di consiglieri di amministrazione.

    Il suo Ppresidente , il dott.or Wallner, era consapevole delle condizioni di gravi difficoltà economiche e finanziarie in cui si dibatteva il sistema dei consorzi e della Fedit, e premeva perché questa rendesse chiari ed intelligibili i contenuti gestionali e perché si desse una nuova struttura adeguata ai tempi ed alle nuove esigenze del mondo agricolo.

    Ad avviso della Commissione, le sollecitazioni diel presidente Wallner sono in apparente contraddizione con l’essere la Confagricoltura beneficiaria al pari della Coldiretti di sovvenzioni annuali, ordinarie e straordinarie, di entità miliardaria.

    All’epoca, la percezione di contributi, anche rilevanti, da enti con funzioni pubblicistiche era, per organizzazioni politiche e di categoria, come si è storicamente accertato, pratica assai diffusa . In nota.Un flusso miliardario di contribuzioni dirette ed indiretteusciva dalle casse della Fedit per raggiungere in misura preponderante quelle della Coldiretti ed in misura minore ma pur sempre assai cospicua quelle della Confagricoltura; da ultimo anche della Confcooperative.

    Tutto era pagato in tutto od in parte dalla Fedit: per le sedi nazionali, , costituite da storici palazzi ricchi di opere d’arte, di proprietà della Fedit, le organizzazioni sindacali agricole corrispondevano formalmente somme molto modeste che detraevano dai contributi che loro dava la Fedit stessa ; le manifestazioni pubbliche, i congressi, le autovetture, persino gli abbonamenti ai quotidiani!

    È probabile che non si considerasse neppure la possibilità che il risanamento di un’impresa potesse e dovesse far cessare le contribuzioni indebite.

    Ed infatti la nomina di Pellizzoni non fece per nulla cessare i finanziamenti.

    Si rese vacante la carica di amministratore delegato della Fedital (ex Polenghi Lombardo) azienda della Fedit, in condizioni pre fallimentari,. che da anni, ancorché beneficiaria di ingenti soccorsi della casa madre, continuava a perdere miliardi.

    La scelta del nuovo amministratore competeva formalmente al Consiglio di amministrazione della Fedital o, al più, a quello della Fedit ed al direttore generale ragionier. Scotti.

    La nomina fu fatta , invece, su designazione delle due associazioni.

    Dalla Fedital, il dottor Pellizzoni, dopo poco tempo, fu chiamato al vertice della Fedit.

    Il dottor Silvio Pellizzoni era un buon manager dedito all’insegnamento, quando fu chiamato a dirigere dapprima una società del gruppo Federconsorzi, la Fedital, che da anni, ancorché beneficiata di enormi risorse, continuava a perdere miliardi, e successivamente la stessa Federconsorzi.

    Egli non era, tuttavia l’unico candidato a quella poltrona di direttore generale, sulla quale, prima del rag.ionier Scotti, si erano sseduti prima di lui amministratori discussi ma di sicuro spessore ed autorevolezza.

    AGGIUNGERE Alla nota 7

    Ha riferito il presidente Lobianco : "……sempre d'accordo con il dottor Wallner, consigliammo i nostri amministratori di dotarsi di un direttore che fosse anche un manager. In quell'occasione si consigliò agli amministratori di procedere al cambio del Presidente Truzzi con Scotti e di assumere Pellizzoni che aveva operato positivamente alla Polenghi Lombardo….. Il nome di Pellizzoni lo suggerì il presidente Wallner". E quest’ultimo ha affermato:….. Ricordo che diedi tre nomi: Villa, famoso manager della Buitoni passato poi – credo – alla CIR di De Benedetti, e che interpellato non si rese disponibile, Pellizzoni e un altro. Per la prima volta, naturalmente sempre tardivamente, mi fu comunicato dal presidente Scotti, che prima era direttore generale, che avrebbero avuto intenzione di prendere Pellizzoni. Chiesi come mai Villa non era stato considerato; mi risposero che era stato contattato ma aveva rifiutato. Chiesi a Villa e mi rispose che le condizioni fatte a lui erano diverse, ma questo non ha nessun conto.

    Concorsero alla sua nomina le scelte professionali ed rifiuti di altri che gli sarebbero stati preferiti.

    La nomina di una manager alla guida della Federconsorzi in sostituzione del ragionieri Scotti, rivelatosi sostanzialmente non all'altezza del compito, compensato con una presidenza remunerativa e prestigiosa ma priva di poteri reali, era invocata - come si è detto - dalla Confagricoltura ed avvertita come un esigenza anche dalla Coldiretti.

    La situazione economico-finanziaria della Fedit diventava ogni giorno più pesante; era necessario preparare la società ai nuovi ed incalzanti obblighi in materia societaria che dovevano culminare nella certificazione del bilancio.

    V'era la necessità di offrire una un’immagine moderna di una struttura cooperativa e consortile di cui, da tempo, invocava la trasformazione, non solo una vivacissima opposizione politica che si batteva -  invero con scarsissimi risultati  - da quasi mezzo secolo, ma anche una parte della maggioranza politica e dello stesso partito di maggioranza relativa.

    Non c'era, però, nelle associazioni che dominavano la Fedit ed in particolare nella Coldiretti, la volontà di cambiarne la struttura che assicurava consenso politico, e sostegno elettorale e cospicui benefici economici..

     

  3. I tentativi di soluzione interna della crisi

Al dottor Pellizzoni fu quindi affidata l’impossibile missione di risollevare le sorti del sistema senza poter intervenire sulle ragioni strutturali che ne avevano determinato la crisi e che consistevano nella organizzazione stessa del sistema federconsortile e nell'ormai consolidato snaturamento delle funzioni delle Federconsorzi in un ente assistenziale.

Per di più gli furono dati ampi poteri formali, ma il potere decisionale reale rimase saldamente nelle mani delle associazioni sindacali ed in particolare della Coldiretti e dell'onorevolei Lobianco.

Ben consapevole di ciò e dei limiti impliciti del suo mandato, Iil dottor Pellizzoni assunse l’incarico di direttore generale della Fedit, il 13 aprile 1989.

In nota :Fu convenuta una retribuzione altissima : pagato per tutti i suoi incarichi .,

In una prima fase, il nuovo direttore generale, che aveva scarse conoscenze del sistema fFederconsortile , fece ricorso, per accertare quali fossero le reali condizioni economiche e finanziarie della Fedit e per approfondire le ragioni della mancanza di remuneratività della gestione e dello squilibrio finanziario, ad una elevato numero vera e propria alluvione di consulenze, costosissime e di dubbia utilità delle quali si giovò per far elaborare e poter presentare un programma strategico di risanamento complessivo.

In nota

Sul ponderoso utilizzo di risorse in consulenze della più varia natura costosissime ed in parte di dubbia utilità, pende la valutazione della magistratura penale di Roma.

per ogni esigenza della Fedit ma pur tuttavia nello stesso tempo fece elaborare e presentò un programma strategico di risanamento complessivo.

Ben consapevole dei limiti del suo mandato, e pur essendogli facile e semplice la diagnosi della malattia del paziente, non potendo intervenire con le semplici e radicali cure che il caso richiedeva, il medico Pellizzoni - pagato complessivamente circa un miliardo l'anno! - si prodigò in una alluvione di accertamenti diagnostici costosissimi e di cure sintomatiche parziali.

Sull’enorme ed non sempre ingiustificato dispendio di risorse in consulenze della più varia natura e di dubbia utilità pende la valutazione della magistratura penale di Roma.

Il salasso cui la società fu sottoposta in nome dell'ammodernamento, sembra, quale che sarà l'esito del giudizio, scandaloso.

UnProprio una consulenza, in particolare,però, quella redatta dai professori dei dottori Pavan e Cattaneo rivelòava al dottor Pellizzoni le numerose e gravi anomalie delle scritture contabili e dei bilanci della Fedit e gettò una luce illuminante su quanto era accaduto in passato.

In nota:

Al documento dei due tecnici ha attinto anche la Commissione che li ha intesi su alcuni aspetti del loro lavoro

.

Fu così avviata un'azione di "pulizia" del bilancio ma essa , pur giovandosi di apporti tecnici di elevato livello, ebbe connotazioni più estetiche che sostanziali , non giungendo a rappresentare la reale drammatica situazione economica e finanziaria che fu, dunque, pur sempre occultata. Il grado di affidabilità e, quindi, di verità delle scritture contabili, pur adeguate ed informatizzate, rimase del tutto insoddisfacente.ma si mantennero vaste zone d'ombra.

Tra i principali problemi del sistema, la direzione del dottor Pellizzoni individuò (come quella del rag.ionier Scotti) la mancanza di risorse proprie della Fedit e dei consorzi e l’inadeguatezza dimensionale dei consorzi.

Fu elaborato un progetto riformatore d’accorpamento delle strutture periferiche per creare un più ampio bacino d’utenza.

Esso si poneva nella stessa linea di un precedente intervento, compiuto molti anni prima, che aveva ridotto il numero dei consorzi da 90 a 74.

I consorzi dovevano diventare solo 50.

Il progetto doveva trovare esecuzione già nel 1990 ma, a maggio 1991, era rimasto quasi del tutto inattuato avendo incontrato irriducibili opposizioni negli organismi di direzione dei consorzi .

La Fedit reagì chiedendo al Ministero nell’ottobre del 1990, la liquidazione coatta di 6 consorzi già commissariati in base alle oggettive condizioni di grave crisi, dando così anche un forte segnale dell’impossibilità di sostenere il peso del sistema.

Nella sostanza, nonostante le enormi spese ed i proclami vergati in altisonante gergo tecnico, la gestione del dottor Pellizzoni cambiò poco; il grado di affidabilità e, quindi, di verità delle scritture contabili era tale che, anni dopo il commissariamento, non esisteva ancora certezza sui crediti e sui debiti.

Uno dei pilastri dell’intervento riformatore elaborato dalla direzione del dottor Pellizzoni, che per altro non era per nulla originale ed innovativo ma si poneva nella stessa linea di un precedente intervento compiuto molti anni prima e che aveva ridotto il numero dei consorzi da 90 a 72, consisteva nell’accorpamento delle strutture periferiche per creare una più ampio bacino di utenza.

I consorzi dovevano diventare solo 50. Il progetto doveva trovare esecuzione già nel 1990 ma, a maggio 1991, era rimasto quasi del tutto inattuato.

La Fedit reagì chiedendo anche per tale ragione oltre che per le oggettive condizioni di grave crisi, cchiedendo al Ministero il commissariamento di un nutrito numero di consorzi.

Anche lLa direzione del dottor Pellizzoni, infatti, individuava traufficialmente i due principali problemi del sistema nella mancanza di risorse proprie della Fedit e dei consorzi e nella eccessiva parcellizzazione della rete dei consorzi.

Sembra alla Commissione che iIn realtà non fu colto un problema ben più grave.

Esso consisteva nel fatto che la Fedit non operava come una centrale di acquisto ai prezzi migliori e nell’interesse esclusivo e secondo le esigenze dei soci, ma come una intermediaria monopolistica e parassitaria che guidava la politica delle unità produttive.

Neil progetti ramma del dottor Pellizzoni del maggio 1991 si rinviene solo un timido accenno alla questione problema sotto del "miglioramento" delle funzioni di centrale di d’acquisto.

Nell’ambito di una strategia di complessiva ristrutturazione della Fedit e della sua struttura dirigenziale, fu redatto, sulla base delle indicazioni di una società specializzata, un piano di risanamento che si articolava su 13 progetti e che fu presentato nel corso di una grande manifestazione, a Bracciano nel luglio 1989. "Nacquero così tredici progetti (…), articolati in una numerosa serie di sottoprogetti. Si analizzava tutto quello che riguardava la Federconsorzi, i consorzi agrari e le società controllate. Questi progetti andarono avanti in un certo modo fino al mese di aprile del 1990 e poi proseguirono in un altro modo. Si cercò di creare la massa critica necessaria per poter smuovere questa vecchia signora di 98 anni - - come la chiamavo io  - e che faceva fatica a muoversi".

Per sostenere i nuovi investimenti che esso comportava si pensò ad un modesto programma di vendite con ricavo presunto di 268 miliardi.

Tali dismissioni dovevano però essere approvate del Consiglio di amministrazione; rispetto ad esse vi furono tuttavia forti resistenze, in particolare, da parte della Confagricoltura e di alcuni consiglieri ed infine da parte della struttura interna.

Il dottor Pellizzoni si rivolse allora al prof.essor Capaldo perché convincesse i presidenti confederali della necessità di vendere.

Il piano fu approvato solo nell’aprile 1990 ma rimase, tuttavia, del tutto inattuato.

A giudizio del dottor Pellizzoni esisteva un problema strutturale: il deficit di gestione era dovuto al fatto che la Fedit non era remunerativa, a cagione degli oneri che la gravavano e cioè del costo dei mezzi economici impegnati, che consentiva lauti guadagni solo al sistema bancario.

Ha affermato in proposito il dott.or Pellizzoni nella sua audizione del 20 luglio 2000:

"All'epoca il professor Capaldo stimò che gli affari gestiti da Federconsorzi e dai consorzi agrari avessero una potenzialità di utile operativo mediamente pari al 3,5 per cento (…)…... . Il tasso di interesse medio all’epoca era pari al 14 per cento: pertanto sarebbe stato necessario un rapporto tra Vendite e Attività nette investite uguale a 4, per ottenere una gestione equilibrata, cioè con un ROA del 14 per cento.

Tutto il mondo agricolo e cooperativo ha sempre ignorato questa seconda componente della formula: nei bilanci di queste entità economiche si osserva molto spesso un rapporto Vendite e Attività Nette investite troppo basso (…)….

uUn attivo pesantissimo (…) dava un utile operativo estremamente ridotto. Occorreva pertanto modificare il sistema e, per fare ciò, vi sono soltanto due possibilità: (…).. si deve aumentare fortemente il fatturato oppure (…)… occorre ridurre drasticamente l'attivo e, contemporaneamente, l'indebitamento (…). Vi furono tuttavia delle difficoltà (…)...

Occorre considerare che (…). era un sistema bloccato".

Il dottor Pellizzoni puntò, quindi, dichiaratamente sull’aumento dell’utile operativo che sperava potesse consentirgli di ridurre anche l’indebitamento.

Ma l’aumento dell’utile operativo richiedeva che il sistema operasse complessivamente nel modo più redditizio possibile e ciò implicava, come si è già detto, risorse adeguate ad impedire il tracollo dei consorzi che l’utile avrebbero dovuto alimentare.

Lo stesso ex direttore generale ha ricordato le ragioni per le quali il progetto fallì:

"Ci sono stati due periodi ben precisi: quello che va dal 13 aprile 1989 al 30 giugno 1990 (che possiamo definire "piano numero 1") durante il quale, siccome le analisi del professor Capaldo e i dati che erano a disposizione all'inizio si riferivano al 1987, la dimensione del problema in termini di necessità finanziarie per poter, per così dire, "salvare il sistema" sembrava sì notevole, perché per comuni mortali parlare di 200 o 400 miliardi significava riferirsi a cifre alte, ma all'interno del sistema esistevano molte capienze in termine di patrimonio per poterlo fare.

Quando arrivai io, dopo poco, arrivarono i bilanci dei consorzi agrari del 1988: rielaborando questi dati stimai che il fabbisogno era passato da 200 ad 800 miliardi, fabbisogno che si poteva ancora ritrovare all'interno del patrimonio della Fedit. Qui finisce il primo periodo.

Dopo il 30 di giugno 1990, una volta formulato questo piano, cominciarono ad arrivare i bilanci dei consorzi agrari relativi al 1989 dai quali si poté verificare che il gap economico ad essi relativo era più grave di quanto previsto (…)…. a giugno cominciammo a leggere la realtà di questi consorzi con una certa consapevolezza rispetto a prima. Effettuate queste stime, si riscontrò che il fabbisogno finanziario (…)… si attestava intorno ai 1.500 miliardi.

Ciò voleva dire che il piano così come era stato concepito all'inizio, e che doveva essere di modernizzazione, necessitava di un adeguamento. Infatti, occorrevano degli interventi molto più drastici di quanto non previsto precedentemente (…)….. In secondo luogo, era stato messo in luce un aspetto chiarissimo e cioè che il sistema presentava degli elementi di inerzia (…). Si era (…) in presenza di una situazione che richiedeva un processo decisionale che era certamente più vicino ai tempi della politica che non a quelli dell'imprenditorialità (…)",.

La conclusione che ne trasse il dottor Pellizzoni fu che:

"(…).. gli unici strumenti con cui si poteva ancora salvare la situazione erano sostanzialmente due. In primo luogo, era opportuno individuare una formula che poteva chiamarsi commissariamento (…)……. (…) La seconda ipotesi di soluzione era che Federconsorzi intraprendesse quella che oggi definiremmo una privatizzazione.

Intendo dire che dal momento che la legge istitutiva del 1948 garantiva a questo istituto certi privilegi, forse era il caso di trasformarlo in una sorta di "fondazione" individuando, per tutte le principali attività, dei partners imprenditori, i quali avrebbero potuto assicurare due aspetti molto importanti: in primo luogo assicurare del capitale fresco risolvendo il problema della mancanza del capitale proprio ( …)……. In secondo luogo, questi imprenditori avrebbero portato in tutte le attività, soprattutto quelle industriali quell'imprenditorialità che, malgrado il massiccio e massacrante inserimento di consulenti, non si riusciva a garantire al sistema.

(…) Da parte delle Confederazioni agricole vennero iniziate una serie di attività che possiamo definire di ricerca di aiuti esterni. Al riguardo debbo dire (…)… che osservai che il giorno che sarebbero arrivati degli aiuti esterni senza però che si fosse riusciti a cambiare il sistema e qualora la legge me lo avesse permesso, mi sarei dimesso. Infatti, ciò avrebbe voluto dire inserire dei quattrini in un contesto, ma poi continuare tutto come prima.

(…) Quasi per dare una provocazione al sistema, per vedere come avrebbe reagito, chiedemmo al Ministero se metteva in liquidazione coatta amministrativa sei consorzi agrari; il Ministero puntualmente lo ha fatto ed è venuto fuori il "caos", perché per la prima volta Federconsorzi non si è surrogata ai debiti dei consorzi agrari, con una ripercussione politica notevolissima. Devo dire però che lo rifarei domani mattina, perché per lo meno uno scossone venne dato."

Per ammissione del suo stesso ideatore, dunque, il progetto di risanamento fallì perché esso si basava su presupposti economici e finanziari non realistici.

Ad avviso della Commissione, l’aggravamento delle condizioni di crisi dei consorzi non era, però, del tutto imprevedibile ma, al contrario, costituiva un’evoluzione inevitabile. Un piano di risanamento adeguato avrebbe dovuto tenerne conto.

Il problema principale era chiaro da tempo.

La situazione economica e finanziaria dei consorzi, singolarmente e complessivamente considerati, come si è visto peggiorava sempre di più, anche perché su di essi si ripercuoteva la crisi delle imprese agricole e dei coltivatori.

Ma i Cconsorzi Aagrari, unici soci della Fedit, rappresentavano, ad un tempo, le strutture servite dalla Fedit, che dall’intermediazione doveva ricavare i suoi profitti e la base della forza associativa e politica della Coldiretti e della Confagricoltura. Pur essendo divenuti, quindi, nella più parte dei casi organismi passivi era pressoché impossibile abbandonarli ed altrettanto difficile, parimenti, per ragioni strutturali connesse alla tipologia del servizio ed alla specificità dell’utenza, ottenerne radicali cambiamenti di gestione.

La Fedit pertanto aveva cominciato a sostenerli fin dai primi anni Ottanta e continuava a farlo in forme molteplici , accollandosene le difficoltà e gli oneri, percorrendo la strada dell’inevitabile, sempre maggiore, indebitamento esterno.

Una realistica soluzione possibile del problema economico e politico si poteva individuare solo nella progressiva riduzione dei flussi in favore dei consorzi ed in una cospicua riduzione dell’indebitamento della Fedit.

Alcuni consorzi ne avrebbero gravemente sofferto, ma il sistema si sarebbe potuto forse salvare.

Era, comunque, vitale una riduzione dell’indebitamento bancario .

Durante la gestione Pellizzoni, nonostante gli opposti propositi, non solo si continuò a sostenere finanziariamente i consorzi ma si sostennero anche le società collegate, sulla base di progetti imprenditoriali costosissimi ed improduttivi.

.

Passando all’esame delle scelte gestionali, sembra alla Commissione che Uno degli aspetti negativi più evidenti dla guida del dott. Pellizzoni sembra alla Commissione abbia i questa ella gestione Pellizzoni Pellizzoni è, poi, costituito dall'aver notevolmente accentuato l'indebitamento della Fedit non solo per sostenendoere non i consorzi secondo un indirizzo politico già consolidato, ma anche lle società collegate con e progetti imprenditoriali costosissimi ed improduttivi.

Ed invero Infatti nel 1989, in piena crisi, la Fedit contrasse debiti a lungo termine con il sistema bancario internazionale per:

In totale l’investimento fu di 239 miliardiQuindi, in parte per sostenere le società collegate ed in parte per una operazione che sembrava ignorare del tutto le reali condizioni economiche, reddituali e finanziarie della riguardante la Federconsorzi che non poteva più sostenere ilit un suo ruolo di holding finanziaria.

Per di più il dottor Pellizzoni era stato chiamato prima ad amministrare la stessa Fedital e ne conosceva le reali condizioniche dava la chiara idea di come, non avendone più i mezzi, la dirigenza della Fedit e della Coldiretti continuasse a pensare e ad agire come se la società fosse ancora la grande Fedit dei tempi di (???) Mizzi.

In totale l’investimento fu di 239 miliardi, nonostante al dottor Pellizzoni fosse ben nota la reale situazione e la reale capacità reddituale dell'impresa.

L’intervento ripetuto della Fedit in favore della Fedital (ex Polenghi -Lombardo) costituisce, invero,oltre, l’esempio più chiaro della cattiva gestione della società dovuta alla sottomissione ad interessi gli interessi politici. della Coldiretti.

La Fedital era una azienda che perdeva sistematicamente, ma che assicurava ai produttori di latte lombardi la vendita certa del prodotto.

Ha riferito alla Commissione l’ex presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sull'AIMA, senatore Robusti, nel corso dell'audizione del 7 ottobre 1999: "La Polenghi Lombardo ha costituito per molto tempo uno strumento significativo di supporto all'attività politica non tanto attraverso il pagamento del latte a prezzi più alti -  come è accaduto per la Centrale del latte di Milano  - quanto attraverso la rilevazione di risorse che servivano a gestire l'attività politica. Ciò produsse, anche per effetto di un'incredibile gestione di quella struttura, una montagna di debiti e la necessità di chiudere quella partita".

Sul punto, peraltro in una intervista all’Espresso del 27 maggio 1991, il ministro Goria faceva affermazioni di segno opposto:

"Tutti sapevano, e da gran tempo, che la Federconsorzi era sovraccarica di debiti.

(...) lL’idea di avere una propria azienda di latte (la Polenghi n.d.r.) era certamente suggestiva. Ma pagare ogni litro di latte 25 lire di più del prezzo pagato dalle aziende concorrenti ha prodotto solo bilanci in passivo e quasi 150 miliardi di debiti con le banche".

Al dottor Pellizzoni si deve, tuttavia, la riorganizzazione della struttura dirigenziale interna e l'inizio di una politica di restrizione creditizia nei confronti dei consorzi agrari .

Con la sua gestione traddittoriamente furono lanciati numerosi progetti di sviluppo, che avrebbero tutti avuto necessità di quelle risorse che la Fedit non aveva e che, così com'era, non avrebbe mai più potuto avere.

Dall'audizione diel dottor Pellizzoni svoltasi nella seduta del 20 luglio 1999: "Nacquero così tredici progetti (…), articolati in una numerosa serie di sottoprogetti. Si analizzava tutto quello che riguardava la Federconsorzi, i consorzi agrari e le società controllate. Questi progetti andarono avanti in un certo modo fino al mese di aprile del 1990 e poi proseguirono in un altro modo. Si cercò di creare la massa critica necessaria per poter smuovere questa vecchia signora di 98 anni - come la chiamavo io - e che faceva fatica a muoversi"come ha riferito il .

dottor Pellizzoni nel corso dell’audizione del 20 luglio 1999.

Sul piano operativo i risultati non potevano essere che modesti.

Esisteva infatti un problema strutturale: il deficit di gestione era dovuto alla non remuneratività della stessa, in ragione degli oneri e cioè del costo dei mezzi economici impegnati, che consentiva lauti guadagni solo al sistema bancario mutuante.

Ancora dall'audizione Pellizzoni: "All'epoca il professor Capaldo stimò che gli affari gestiti da Federconsorzi e dai consorzi agrari avessero una potenzialità di utile operativo mediamente pari al 3,5 per cento……..; ciò vuol dire che, poste le vendite pari a cento, se ottengo un utile pari al 3,5 per cento, ho raggiunto la massima possibilità che può offrire il sistema competitivo nel quale opero. Il compenso dipende dal numero di giri del mio capitale per poter pagare i tassi di interesse.

In altre parole, quello che si chiama tecnicamente il ROA, cioè l'Utile Operativo diviso le Attività Nette investite, posso suddividerlo in due componenti: la prima è costituita dalle lire di fatturato prodotte come utile; la seconda è rappresentata dalle lire di investimento necessarie per generare una lira di fatturato.

Il tasso di interesse medio all’epoca era pari al 14 per cento: pertanto sarebbe stato necessario un rapporto tra Vendite e Attività nette investite uguale a 4, per ottenere una gestione equilibrata, cioè con un ROA del 14 per cento.

Tutto il mondo agricolo e cooperativo ha sempre ignorato questa seconda componente della formula: nei bilanci di queste entità economiche si osserva molto spesso un rapporto Vendite e Attività Nette investite troppo basso……: per esempio, cento miliardi di attività generano cento miliardi di vendite.

E' evidente che in passato la Federconsorzi, i consorzi agrari e le società collegate hanno ricevuto finanziamenti agevolati che purtroppo si sono trasformati successivamente in debiti a breve, perché i soldi arrivavano in ritardo.

… II bilanci avevano un attivo pesantissimo, che generava proporzionalmente uno scarsissimo fatturato e dava un utile operativo estremamente ridotto. Occorreva pertanto modificare il sistema e, per fare ciò, vi sono soltanto due possibilità: con le stesse risorse, con lo stesso attivo,….. si deve aumentare fortemente il fatturato oppure……, se ciò non è possibile (perché il mercato e la concorrenza non lo consentono), occorre ridurre drasticamente l'attivo e, contemporaneamente, l'indebitamento.…. Non bisognava essere grandi esperti per capire questa alternativa. Vi furono tuttavia delle difficoltà….. e non ho mai capito se fossero legate alla complicazione di questo concetto oppure dipendevano dal fatto che il sistema non si rassegnava alla necessità di vendere un camioncino.

Occorre considerare un arco storico di 98 anni: il sistema è stato commissariato diverse volte; ha ricevuto aiuti pubblici; è stato, per così dire, viziato. Non vi sono mai stati stimoli per introdurre elementi di imprenditorialità basati su questi concetti. (…) Era un sistema bloccato.

Ci sono stati due periodi ben precisi: quello che va dal 13 aprile 1989 al 30 giugno 1990 (che possiamo definire "piano numero 1") durante il quale, siccome le analisi del professor Capaldo e i dati che erano a disposizione all'inizio si riferivano al 1987, la dimensione del problema in termini di necessità finanziarie per poter, per così dire, "salvare il sistema" sembrava sì notevole, perché per comuni mortali parlare di 200 o 400 miliardi significava riferirsi a cifre alte, ma all'interno del sistema esistevano molte capienze in termine di patrimonio per poterlo fare.

Quando arrivai io, dopo poco, arrivarono i bilanci dei consorzi agrari del 1988: rielaborando questi dati stimai che il fabbisogno era passato da 200 ad 800 miliardi, fabbisogno che si poteva ancora ritrovare all'interno del patrimonio della Fedit. Qui finisce il primo periodo.

Dopo il 30 di giugno 1990, una volta formulato questo piano, cominciarono ad arrivare i bilanci dei consorzi agrari relativi al 1989 dai quali si poté verificare che il "gap" economico ad essi relativo era più grave di quanto previsto…….. Non solo, nel frattempo, avendo effettuato una serie di audit presso i consorzi, ci si rese conto dell'esistenza di un certo tipo di realtà. Basta immaginare che tutto ciò si verificò dal 1° luglio dell'89 e in quel lasso di tempo era stato necessario farsi rilasciare i piani triennali dei consorzi agrari e, una volta ricevuti, si dovette ovviamente valutare la loro fattibilità. Quindi, a giugno cominciammo a leggere la realtà di questi consorzi con una certa consapevolezza rispetto a prima. Effettuate queste stime, si riscontrò che il fabbisogno finanziario…… - si trattava sempre di stime e quindi non erano calcoli alla lira - si attestava intorno ai 1.500 miliardi.

Ciò voleva dire che il piano così come era stato concepito all'inizio, e che doveva essere di modernizzazione, necessitava di un adeguamento. Infatti, occorrevano degli interventi molto più drastici di quanto non previsto precedentemente……; con tali interventi si sarebbe dovuto cercare di valorizzare tutto l'avviamento che esisteva nelle attività della Federconsorzi.

In secondo luogo, era stato messo in luce un aspetto chiarissimo e cioè che il sistema presentava degli elementi di inerzia (…). Infatti, io stesso parlai in sede di comitato dell'esistenza di lacci e lacciuoli - di cui ovviamente non accuso nessuno - tuttavia, va tenuto presente al riguardo che ogni consorzio agrario aveva un suo consiglio di amministrazione e quest'ultimo era formato da diversi gruppi. Inoltre ogni volta era necessario interpellare anche le associazioni locali e poi ridiscutere tutto in base a quanto esse avevano detto. Si era… quindi in presenza di una situazione che richiedeva un processo decisionale che era certamente più vicino ai tempi della politica che non a quelli dell'imprenditorialità…., questo naturalmente detto con tutto il rispetto nei confronti della politica.

Pertanto, gli unici strumenti con cui si poteva ancora salvare la situazione erano sostanzialmente due. In primo luogo, era opportuno individuare una formula che poteva chiamarsi commissariamento……… ma anche in altri modi; noi usavamo la parola commissariamento in termini ampi considerato che generalmente i consorzi agrari si commissariavano. (…) La seconda ipotesi di soluzione era che Federconsorzi intraprendesse quella che oggi definiremmo una privatizzazione.

Intendo dire che dal momento che la legge istitutiva del 1948 garantiva a questo istituto certi privilegi, forse era il caso di trasformarlo in una sorta di "fondazione" individuando, per tutte le principali attività, dei partners imprenditori, i quali avrebbero potuto assicurare due aspetti molto importanti: in primo luogo assicurare del capitale fresco risolvendo il problema della mancanza del capitale proprio; …….infatti non c'era la possibilità di raccogliere capitale proprio in quanto per farlo sarebbe stato necessario rivolgersi direttamente agli agricoltori e chiedere loro soldi sarebbe stata una cosa ovviamente impossibile. In secondo luogo, questi imprenditori avrebbero portato in tutte le attività, soprattutto quelle industriali quell'imprenditorialità che, malgrado il massiccio e massacrante inserimento di consulenti, non si riusciva a garantire al sistema.

(…) Da parte delle Confederazioni agricole vennero iniziate una serie di attività che possiamo definire di ricerca di aiuti esterni. Al riguardo debbo dire…… - non ricordo se questa mia affermazione sia riportata nel verbale che mi riguarda - che osservai che il giorno che sarebbero arrivati degli aiuti esterni senza però che si fosse riusciti a cambiare il sistema e qualora la legge me lo avesse permesso, mi sarei dimesso. Infatti, ciò avrebbe voluto dire inserire dei quattrini in un contesto, ma poi continuare tutto come prima.

(…) qQuasi per dare una provocazione al sistema, per vedere come avrebbe reagito, chiedemmo al Ministero se metteva in liquidazione coatta amministrativa sei consorzi agrari; il Ministero puntualmente lo ha fatto ed è venuto fuori il "caos", perché per la prima volta Federconsorzi non si è surrogata ai debiti dei consorzi agrari, con una ripercussione politica notevolissima. Devo dire però che lo rifarei domani mattina, perché per lo meno uno scossone venne dato."

La Coldiretti perseguì fino all'ultimo, come ricordato dal dottor Pellizzoni, la via Con lo sterile trascorrere del tempo la situazione della Federconsorzi si aggravava sempre di più.

Nella seconda metà dell' anno 1990 e nei primi mesi dell'anno 1991, il tema dominante era cambiato; ai progetti di ristrutturazione e di rilancio, che erano costati miliardi in consulenze, si era sostituta una sempre più drammatica evidenza: a causa del continuo peggioramento della situazione, perché agli studi ed ai proclami non facevano seguito i fatti, non si trattava più di rilanciare la Federconsorzi ma di tentarne il salvataggio.

Infatti, se nelle riunioni del Comitato esecutivo dei primi mesi del 1990 si cominciano a rendere espliciti i pericoli, nel corso del Comitato esecutivo del 3 agosto 1990 -  si era quindi nella seconda metà dell'esercizio - il responsabile finanziario della Fedit, dottor Bambara, dichiarava che solo a condizione che: i consorzi agrari privi di un adeguato bacino di utenza fossero accorpati; fossero ceduti rami di azienda ed immobili consortili; fossero creati poli di servizi con conferimento a società nazionali di stabilimenti della Fedit; si vendessero beni mobili ed immobili, il bilancio 1990, sia pur con qualche difficoltà, sarebbe risultato in pareggio.

E' infine significativo, per valutare l'attendibilità dello stesso bilancio, il fatto che, nonostante nessuno degli elencati presupposti (che avrebbero in verità richiesto ben più dei residui cinque mesi per realizzarsi), si fosse concretizzato, esso fu chiuso comunque in pareggio!

In data 1° febbraio 1991 il dottor Pellizzoni affermava dinanzi al C.E.omitato esecutivo della Federconsorzi:

"..(…) uUn ulteriore elemento di preoccupazione è dato dalla timorosa attenzione dimostrata dalle banche nei confronti dei Cap e della Federconsorzi. Esse considerano la loro esposizione nei confronti del sistema Federconsortile rischiosa, chiedono di analizzare i conti ed i programmi ed avvertono il limite della nostra azione costituito dall'assenza di azionisti finanziatori …(…) alla domanda formulata dai banchieri su quali siano i fattori di successo del piano egli ha risposto che sono tre: la disponibilità di operatori industriali a porre in essere alleanze strategiche; il sostegno di un pool di banche; la volontà del paese di rivitalizzare la Federconsorzi quale insostituibile strumento di sostegno del settore agricolo".

INSERIRE?.

E finalmente al C.E.omitato esecutivo del 14 maggio 1991, e cioè di tre giorni prima del commissariamento, il dottor Paolo Bambara, direttore dell'area finanza, affermava: "La Federazione si trova oggi in una situazione di scarsa liquidità dovuta principalmente alla mancata attuazione delle dismissioni previste nel piano e all'inadempimento dei consorzi agrari anche con riguardo alle forniture correnti.

(…) Questa situazione di carente liquidità ha consigliato di differire taluni pagamenti ad alcuni fornitori ed ha prodotto una timorosa attenzione del sistema bancario che tuttavia mostra nei confronti della Federazione una residua significativa disponibilità". (n.d.r. Credito Italiano ) .

A commissariamento avvenuto, il dottor Pellizzoni fu estromesso; fu additato come corresponsabile di unel commissariamento che avrebbe voluto cogestire e che, invece, lo vide in posizione di totale esautoramento e, quasi beffardamente, nominato dal ministro Goria come proprio "consulente speciale", che indicava una funzione che che non aveva mai esercitato e che mnon avrebbe maiai esercitatoò.

In sintesi ed in definitiva è opinione della Commissione che il dottor Pellizzoni, in anni in cui era ancora molto forte la sudditanza dell'impresa alla politica, si comportò come uno dei tanti amministratori che, in cambio di una lautissima retribuzione, accettarono di abdicare al loro ruolo sostanziale.

Egli enon riuscì ad assumere quelle determinazioni che la legge, e prima ancora le regole economiche, gli imponevano, rimettendosi, di fatto, alla volontà di chi dall'esterno governava, contro la legge, effettivamente la Fedit.

A tutto ciò va aggiunto che la condizione in cui si trovava la Federconsorzi, per le ragioni statutarie più volte ricordate, di grave mancanza di mezzi finanziari propri, costituiva un limite operativo oggettivo.

Ma la sottocapitalizzazione in sé non fu la ragione decisiva della crisi.

Innanzitutto si deve osservare che, nei decenni precedenti il 1980, la Federconsorzi - che aveva lo stesso capitale simbolico - aveva tanto prosperato da diventare la grande organizzazione -"holding" di fatto - descritta nel capitolo quarto.

In secondo luogo il ricorso sistematico al credito bancario non era affatto un connotato esclusivo della Fedit.

Al dottor Pellizzoni fu affidata l’impossibile missione di risollevare le sorti del sistema senza intervenire sulle ragioni strutturali che ne avevano determinato la crisi e che consistevano nella organizzazione stessa del sistema federconsortile e nell'ormai consolidato snaturamento delle funzioni delle Federconsorzi in un ente assistenziale.

Le sue reali difficoltà non erano di ordine tecnico ma sistemico. Gli era stato richiesto un trapianto impossibile: una politica di gestione ispirata a criteri di economicità e profitto in un organismo cooperativo eterogovernato.

Gli furono dati ampi poteri formali, ma il potere decisionale reale rimase saldamente nelle mani delle associazioni sindacali ed in particolare della Coldiretti e dell'onorevole Lobianco.

Sembra, quindi, alla Commissione che la guida del dott.or Pellizzoni non abbia potuto alleviare l'indebitamento ed abbia anzi accellerareaccelerato la crisi della Fedit.

Ciò non toglie che gli siano addebitabili, come si è evidenziato, errori di valutazione ed una consapevole manipolazione dei bilanci d’esercizio.

 

 

32.

2. I primi allarmi a livello ministeriale sullo stato di crisi della Federconsorzi

La Commissione ha acquisito una qualificata diagnosi tecnica sulla reale situazione della Federconsorzi, eseguita poco tempo prima dell’insediamento dell'onorevolei Goria al Ministero dell’agricoltura.

Infatti il professor Saccomandi, ministro dell’agricoltura dal 27 luglio 1990 al 12 aprile 1991 nel VI governo Andreotti, affidò ad un consulente della società Arthur Andersen, il dottor Carlo Artusi, che in quel tempo lavorava presso il Ministero dell'agricoltura per l'analisi dei problemi della cooperazione, il compito di monitorare la Federconsorzi e di riferirgli.

Le valutazioni dell’ dottor Artusi, riferite al Ministro, sono le seguenti, come da lui ricostruite: "In tale veste, ebbi due riunioni informali con il vertice di Federconsorzi (Dottor Pellizzoni e Dottor Bambara) nelle quali, unitamente al Dottor Carlo Cocco, vice capo di Gabinetto del M.A.F. - e presidente del collegio sindacale della Fedit! (n.d.r.) - esaminammo le grandi linee della situazione finanziaria Federconsorzi (…) a quanto ricordo, emergeva, in sintesi, una situazione finanziaria molto grave, caratterizzata da alto indebitamento verso banche fronteggiato da crediti verso consorzi agrari di difficile esigibilità immediata ed un patrimonio immobilizzato di lenta e complessa dismissione.

In particolare, per quanto ricordo:

Quindi una richiesta di rientro da parte di una o più banche avrebbe immediatamente generato uno stato di crisi, peraltro non sanabile nel breve periodo, e probabilmente un effetto "domino" su tutte le altre banche esposte.

Di questo, nell’appunto e a voce, ritengo in due o tre riunioni, discussi con il Ministro, ipotizzando scenari di risanamento che potessero salvaguardare la struttura avviando contemporaneamente processi di reperimento di risorse finanziarie, attraverso dismissioni o altro, che potessero ridurre l’indebitamento.

Non è dato sapere se i risultati di tale lavoro furono comunicati al successore diel professor Saccomandi, il ministro Goria, ma esistono indizi che depongono per una risposta affermativa.

Basta considerare che una delle soluzioni indicate, e cioè la moratoria degli intessi bancari, fu fatta propria dal ministro Goria, il quale era perfettamente informato sulla reale situazione del sistema come di seguito si vedrà meglio.

 

  1. Le ragioni del dissesto

La Commissione ha ritenuto di acquisire un ampio spettro di valutazioni e di approfondimenti tecnici sulle ragioni della crisi del sistema Federconsorzi-consorzi agrari, per consentire una visione completa delle diverse posizioni, verificarne la fondatezza e pervenire, infine, in forma documentata e dialettica, a proprie conclusioni supportate dagli approfondimenti compiuti.

Conseguente e correlato a queste, si rivelerà il convincimento maturato dalla Commissione in ordine all’esistenza o meno di un’effettiva condizione d’insolvenza della Federconsorzi all’atto del commissariamento e della richiesta di concordato preventivo.

La Commissione ha acquisito una pluralità di valutazioni sulle ragioni della crisi del sistema Federconsorzi-consorzi agrari.

323.1 La tesi degli amministratori della Federconsorzi

Secondo gli amministratori della Fedit le ragioni della crisi consistevano nella non adeguata capitalizzazione, a causa della struttura cooperativa; nelle funzioni di supporto sociale assolte dalla Fedit nelle campagne in mancanza di pubblici interventi; nella crisi dell’agricoltura in generale, nell'inadeguatezza del modello gestionale ed organizzativo; infine nel sostegno dato ai consorzi.

 

323.2 Le valutazioni dei giudici fallimentari

La sentenza di omologazione del concordato preventivo della Federconsorzi, adottata il 23 luglio 1992, identifica tre principali cause del dissesto.

L'erogazione di crediti ai consorzi agrari senza alcuna valutazione del rischio di insolvenza, o addirittura, con la consapevolezza del rischio stesso, poi verificatosi.

L'utilizzazione antieconomica del patrimonio, attuata attraverso la concessione in locazione a canoni irrisori od in comodato gratuito di immobili anche prestigiosi (con conseguenze, oltre che sul reddito di esercizio, anche sul valore dìi scambio del bene).

Gli oneri derivanti dall'indebitamento bancario reso necessario per concedere credito ai consorzi nella misura e con l'avvedutezza anzidetta.

323.3 Le valutazioni del cCommissario giudiziale

Scriveva il commissario giudiziale Picardi in data 21 gennaio 1992 nella relazione particolareggiata sul concordato preventivo Fedrconsorzi:

"(…) Come spesso accade in casi simili, alla base dell’insolvenza non si rinviene un’unica causa, ma un complesso dl anomalie economico-funzionali, sia di origine oggettiva, dipendenti cioè da accadimenti estranei al potere dispositivo dell' imprenditore e dallo stesso imprevedibili e incontrollabili, sia di origine soggettiva, aventi cioè correlazione con il comportamento e con le scelte degli amministratori.

(…) Verosimilmente, una prima, e forse fondamentale, causa dei dissesto, va colta nello stesso contesto nel quale la Federconsorzi ha operato. Il mondo agricolo frammentato in numerosissime imprese spesso di dimensioni molto modeste (…).Si aggiunga la notevole rigidità dei mercato agricolo (…) caratterizzato da una scarsa attitudine a seguire la legge della domanda e dell’offerta, e influenzato, invece, dalla incidenza dei fattori naturali sulla produzione.

(…) Come si è accennato, la Federconsorzi spesso ha finito per operare non da società lucrativa, ma secondo la logica di una società consortile, già prima della legge 10 maggio 1976 n. 377. Si è così costatato, di frequente, la disapplicazione di alcune disposizioni attinenti allo scopo lucrativo e la sua sostituzione con la funzione consortile. Un’analisi approfondita sulle ragioni della crisi della Federconsorzi si rinviene nella relazione particolareggiata sul concordato preventivo Federconsorzi, redatta in data 21 gennaio 1992 dal commissario giudiziale professor Picardi.

In essa si assume che alla base della condizione della Federconsorzi definita come d’insolvenza non c’era una sola causa ma un complesso di "anomalie economico-funzionali" dipendenti in parte "da accadimenti estranei al potere dispositivo dell'imprenditore e dallo stesso imprevedibili e incontrollabili" ed in parte dal comportamento e dalle scelte degli amministratori.

Si può convenire con il commissario giudiziale sull’analisi del contesto della Federconsorzi "costituito da un "mondo agricolo frammentato in numerosissime imprese spesso di dimensioni molto modeste(…) nonché sulla "notevole rigidità dei mercato agricolo (…) caratterizzato da una scarsa attitudine a seguire la legge della domanda e dell’offerta, e influenzato, invece, dalla incidenza dei fattori naturali sulla produzione".

Non sembra invece condivisibile che tutto ciò costituì una concausa del dissesto perché il quadro descritto accompagnò tutta la vita della Federconsorzi e, quindi, anche i lunghi periodi di fulgore e non i soli anni del declino.

Di decisiva importanza sembra invece la condivisibile osservazione che: "(…) la Federconsorzi spesso ha finito per operare non da società lucrativa, ma secondo la logica di una società consortile, già prima della legge 10 maggio 1976 n. 377. Si è così costatato, di frequente, la disapplicazione di alcune disposizioni attinenti allo scopo lucrativo e la sua sostituzione con la funzione consortile.

(…) Probabilmente questa è una delle prime cause della odierna insolvenza. Causa latente, sotterranea, con radici lontane, ed emersa, nella sua gravità, solo in tempi recenti".

Anche l’esplorazione e l’approfondimento del rapporto creditizio tra Federconsorzi e consorzi agrari coglie indiscutibilmente nel segno e merita una ampia citazione: " (…) Un'ulteriore causa della attuale insolvenza della Federconsorzi è, poi, ascrivibile all’andamento economico e finanziario negativo di vari consorzi agrari Provinciali (…). I Consorzi hanno gestito, in ambito provinciale, i rapporti con gli agricoltori, allargando le sfere di attività, e comprendendo non solo l’attività di intermediazione commerciale (per l’acquisto e la rivendita dl prodotti agricoli), ma affiancandovi anche, spesso, attività di produzione diretta, per la quale non tutti i consorzi erano attrezzati finanziariamente, tecnicamente e professionalmente.

A seguito di tali attività, i consorzi agrari si trovano, oggi, in una grave crisi di liquidità, dovuta, per lo più, alla politica creditizia adottata verso gli agricoltori. A questi ultimi venivano, infatti, concesse lunghe dilazioni, che giungevano a superare, a volte, i duecento giorni.

I consorzi agrari si trovano, oggi, in una grave crisi di liquidità, dovuta, per lo più, alla politica creditizia adottata verso gli agricoltori. A questi ultimi venivano, infatti, concesse lunghe dilazioni, che giungevano a superare, a volte, i duecento giorni. Tali dilazioni non venivano coordinate con le dilazioni massime concesse dai fornitori. La mancanza di una capitalizzazione e della possibilità di fornirsi di mezzi propri, al pari di un’azienda comune, hanno, così, indotto i Consorzi a tentare di risolvere lo squilibrio, aumentando il loro indebitamento nei confronti della Federazione, e trasferendo su di essa gli oneri finanziari.

In altri termini, il nesso che si è venuto a creare tra Federconsorzi, Cap ed agricoltori sta alla base di una plausibile spiegazione della crisi nella quale ha finito con il trovarsi coinvolta la Società ammessa al concordato preventivo.

(…) Le difficoltà degli agricoltori si sono riversate sui Cap che li sostenevano e ne erano creditori.

Le difficoltà (e, a volte, la cattiva gestione) del Cap si sono riversate, a loro turno, sulla Federconsorzi, che, in concreto, ne costituiva il supporto e ne assicurava la sopravvivenza.

(…) Sono state sostanzialmente trasferite, al Consorzi in crisi, risorse finanziarie che, in una ottica dl economicità, avrebbero dovuto essere attribuite, piuttosto, ai Consorzi sani, i quali in qualche caso se ne sono doluti.

(…) L’impegno crescente e, progressivamente assunto, dalla Federconsorzi, verso i Cap, in dipendenza prevalentemente delle operazioni di finanziamento commerciale, è testimoniato dalla dilazione dei crediti Federconsorzi verso i Consorzi. Si tratta, spesso, di forniture concesse ai Consorzi Agrari e da questi ultimi non pagate. Nel 1986 il credito complessivo ammontava a 1.187 miliardi, ed è progressivamente aumentato fino a raggiungere, nel 1990, l’importo dl 2.114 miliardi.

La differenza fra i due importi, pari a 927 miliardi, non rispecchia, peraltro, la reale entità dello sforzo finanziario profuso nei confronti del Consorzi Agrari, poiché, nel frattempo, sono stati abbandonati, e, dunque, azzerati, perché non più esigibili, crediti per 618 miliardi.

A fronte di queste operazioni, dovendo la Federconsorzi acquistare sul mercato le forniture da attribuire, poi, al Cap, va sottolineato il crescente indebitamento, determinato dalla necessità di reperire i mezzi finanziari a ciò destinati. Da una esposizione verso gli istituti di credito, che nel 1986 era di 1.072 miliardi, si è passati ai 3.508 miliardi dei 1990.

La differenza dell’indebitamento, nel quinquennio 1986/1990, è pari a 2.436 miliardi".

Il professor Picardi rilevava inoltre un dato di notevole interesse e cioè una tecnica di appostazione contabile e di rappresentazione dei fatti economici nel bilancio che concorreva a consentire agli amministratori di pubblicizzare una situazione economica e finanziaria notevolmente migliore di quella effettiva.

Osservava, infatti, che: "(…) Nei conti economici Federconsorzi figura costantemente una particolare contrapposizione tra proventi e oneri finanziari. Una pur sommaria ed approssimativa ricostruzione lascia presumere che la differenza, ora segnalata, sia coperta dalle operazioni di finanziamento a favore dei Cap per 1.545 miliardi (927 md + 618 md), dagli impegni relativi all’investimento in partecipazioni per circa 600 miliardi, e dall’incremento dei credito verso il Ministero dell’Agricoltura e Foreste, riferito alla passata gestione degli ammassi, per circa 200 miliardi.

Nei conti economici Federconsorzi figura costantemente una particolare contrapposizione tra proventi e oneri finanziari.

Mentre gli oneri finanziari sono stati effettivi e realmente sostenuti, riferendosi ad interessi concretamente liquidati per l’esposizione verso gli istituti dl credito, la considerazione dei proventi finanziari poggia più che altro su di una rilevazione meramente contabile, riferita cioè ad interessi attivi calcolati sul credito verso i Cap e verso il Ministero dell’Agricoltura e Foreste, a tassi di circa tre o quattro punti superiori a quelli di mercato.

Parte di tali crediti, tuttavia, presentano (…) difficoltà di incasso, così come problematico appare il conseguimento dei relativi interessi. La differenza, quindi, sempre positiva, tra proventi e oneri finanziari risulta essere, più che altro, il frutto di una mera operazione contabile, tendente a migliorare il risultato economico riferito alla gestione ordinaria, nonché ad assorbire partite straordinarie di costo e, perciò, a condizionare, in definitiva, positivamente ogni eventuale valutazione sulla gestione". Sul piano più strettamente patrimoniale, va sottolineato che il crescente indebitamento verso terzi, ed in particolare verso il sistema bancario, si contrappone alla lievitazione dei complessivi crediti verso i beneficiari del mezzi finanziari, in tal modo reperiti. L’applicazione di crediti rigorosi di abbattimento dei crediti, tenuto conto della dubbia realizzabilità di una buona parte di essi, è, pertanto, uno dei fattori determinanti, dello squilibrio tra attivo e passivo.

Una delle ragioni di forza della Federconsorzi era costituita, dalla rete commerciale; estremamente ramificata e disseminata nel territorio nazionale, posta in essere dai Consorzi Agrari Provinciali, veri e propri canali distributivi per i prodotti ed i servizi. Tale rete di commercializzazione si doveva rivelare, però, anche un punto di debolezza, In quanto non era assicurata da obblighi giuridici e vincolati, bensì dipendeva dal rapporto intercorrente fra Federconsorzi e Cap. La prima "doveva", perciò, tenere in vita i secondi, con ogni mezzo e con ogni sforzo, se voleva continuare ad usufruire della rete distributiva, imperniata sui Consorzi Agrari Provinciali.

La Federconsorzi, alla pari del Cap, è una cooperativa, e cioè una società a capitale variabile, dotata di mezzi propri pressocchè trascurabili. L’insufficiente e inesistente capitalizzazione ha causato la necessità di ricorso ai sistema bancario, per l’approvvigionamento dei mezzi finanziari occorrenti alla politica gestionale. Gli usuali parametri proporzionali fra capitali di rischio e capitali presi a prestito sono qui pressocché azzerati in partenza, esponendo l’impresa ai più gravi rischi nel casi nel quali ragioni intrinseche o congiunturali rendono più difficile l’esercizio delle attività.

I Cap assumendo anche attività di produzione diretta hanno finito per deviare dai loro obiettivi primari, la Federconsorzi, oltre ad intensificare in maniera abnorme la sua opera di sostegno versi i Consorzi medesimi, si è impegnata in attività industriali (vedi ad es. Arsol, Siapa, Fedital, Zuccherificio Castiglionese, ecc.), finanziarie e assicurativa (vedi Fata e Banca Credito Agrario di Ferrara), attraverso l’assunzione diretta o indiretta di partecipazioni. Ai mezzi finanziari occorrenti per l’acquisizione della partecipazione e per le successive, imprescindibili esigenze di ricapitalizzazione delle nuove partecipate (attraverso vari aumenti di capitale), si sono, tuttavia, aggiunte le necessità derivanti dalla copertura delle perdite verificatesi presso alcune delle partecipate stesse.

Un caso emblematico è rappresentato dalla Fedital, che ha richiesto interventi di copertura, a fronte di una perdita di oltre £ 200 miliardi accumulatasi tra 1988 e 1990.

Considerato che, come si è detto, la Federconsorzi manca sia di una propria capitalizzazione sia della possibilità dl rifornirsi di mezzi propri al pari di una holding comune, si può agevolmente intuire come il mercato creditizio e, quindi, l’indebitamento, sia stato, anche relativamente al settore partecipazioni, l’unica via per reperire i necessari mezzi finanziari.

Il costo complessivo (riferito, cioè, alla acquisizione dell’investimento, alla eventuale ricapitalizzazione e al ripianamento delle perdite) delle partecipazioni ammonta, nel quinquennio 1986/1990, a circa 600 miliardi di lire.

Va aggiunto che l’espansione delle attività, ed in particolare dl quelle indirettamente esercitate, attraverso le partecipate, ha avuto costi superiori rispetto a quelli apparenti e commisurati all’importo degli investimenti. Infatti la detta espansione ha comportato, per la Federconsorzi, un sovradimensionamento, per il quale essa era impreparata. La gestione delle società controllate, per quel che risulta e per quel che è possibile oggi verificare, non è stata tenuta in modo adeguatamente organizzato e soddisfacente.

Solo in tempi recentissimi, e cioè dopo il commissariamento, è stata posta in essere su meritoria iniziativa del Commissari governativi un’opera di integrale ricostruzione, classificazione ed analisi delle società controllate. Tanto vero che solo nel corso della procedura, e in dipendenza di successivi aggiornamenti, gli organi del concordato preventivo hanno potuto prendere concreta ed esauriente cognizione di tutte le partecipazioni. E’ evidente che la mancanza di una adeguata ed unitaria gestione delle partecipazioni ha determinato costi supplementari, in dipendenza di maggiori perdite, minori introiti, mancati od erronei interventi, la cui quantificazione è impossibile. Va, infine, rivelato che l’espansione delle attività e il sovra dimensionamento, di cui si è detto, avrebbero implicato la necessità di una politica da holding, che, per quel che è dato rilevare, nella Federconsorzi è mancata.

Gli immobili di proprietà e le società immobiliari sono stati amministrati, in alcuni casi, con criteri diversi da quelli di economicità e redditività.

Sono state privilegiate, talvolta, forme di godimento, non remunerative, a favore di soggetti appartenenti al mondo agricolo, ingenerandosi, a posteriori, dubbi e perplessità sul "ritorno" dipendente da tali utilizzazioni. Come si vedrà, persino le locazioni a terzi non sempre corrispondono ai prezzi di mercato.

E’ verosimile che, nei complesso delle cause che hanno determinato l’insolvenza, questa ora accennata sia una delle minori. Ma, in attesa di eventuali approfondimenti, non poteva essere taciuta.

Altro elemento dl insufficienza gestionale è rappresentato dalla tenuta della contabilità, che, sino a poco tempo fa….. non è stata all’altezza delle necessità di un soggetto imprenditoriale delle dimensioni della Federconsorzi.

La documentazione contabile e la proiezione, su libri e registri, delle attività esercitate costituiscono, in primo luogo, la fonte di informazione per l’imprenditore, indispensabile per adottare tempestivamente le iniziative e le correzioni di rotta, che risultino imprescindibili.

La Federconsorzi, solo in tempi relativamente recenti ha, invece, cominciato a dotarsi di una attrezzatura contabile, pari alle sue esigenze. Anche questo è uno del motivi che non ha consentito la percezione tempestiva della crisi e delle sue proporzioni e, quindi, può essere indicato come una causa dell’insolvenza.".

Di non minore importanza è, inoltre, il rilievo che il costo complessivo delle partecipazioni, assunte dalla Federconsorzi, comprendente l’acquisizione e gli investimenti ad ogni titolo, ammontava, nel quinquennio 1986/1990, a circa 600 miliardi di lire e che, in particolare, la Fedital aveva richiesto interventi di ben 200 miliardi per coprire le perdite accumulatesi tra 1988 e 1990.

Anche a tal fine la Federconsorzi non poté che ricorrere all'indebitamento bancario aggravando il suo squilibrio.

Gli immobili di proprietà e le società immobiliari, infine, secondo il

commissario erano stati amministrati, "in alcuni casi, con criteri diversi da quelli di economicità e redditività" privilegiando "forme di godimento, non remunerative, a favore di soggetti appartenenti al mondo agricolo" (…) persino le locazioni a terzi non sempre corrispondono ai prezzi di mercato".

N.B.Variazione del titolo

23.4 Le valutazioni dei consulenti Sica-martellini-carbonettidella procedura fallimentare.

3.4 Le valutazioni dei consulenti Carbonetti, Martellini e Sica

Il giudice delegato, dottor Ivo Greco, autorizzò, in data 5 maggio 1992, i commissari governativi a conferire all'avvocato Lucio Ghia, alla professoressa Maria Martellini ed al professor Mario Sica l’incarico l fine di compiere accertamenti sulle cause del dissesto, dando loro iede mandato ad alcuni esperti l’incarico di esaminare i bilanci gli ultimi cinque bilanci della Federconsorzi dal 1986 al 1990.

Con provvedimento in data 12 maggio 1992, il collegio degli esperti, su istanza del commissario giudiziale prof.essor Picardi, che aveva chiesto un accertamento tecnico contabile, fu integrato con la designazione da parte del giudice delegato del professor Francesco Carbonetti.

L'avvocato Ghia - che era il legale che aveva presentato la richiesta della Fedit di ammissione al concordato preventivo - solo nel luglio 1992 cessò di far parte del gruppo.

Il prof.essor Carbonetti era da tre anni presidente della banca Fideuram, creditrice della Federconsorzi e sarebbe diventato, successivamente presidente della SGR.

La relazione degli esperti fu depositata in data 16 marzo 1993 .

In pari data il prof.essor Carbonetti redasse un documento sulle eventuali responsabilità penali connesse alla gestione, acquisito dal P.M. pubblico ministero di Roma con decreto del 18 aprile 1993.

I I risultati che tale consulenza da essi raggiunse, nonostante le perplessità che suscita la posizione del prof.essor Carbonetti, vanno, tuttavia, ricordati. ti, la cui importanza consiste nell’essere stati fatti propri dal Tribunale fallimentare di Roma, sembrano, alla Commissione, inficiati dalle ragioni, di seguito esposte, che integrano una delle numerose anomalie della procedura fallimentare, delle quali si tratterà diffusamente in seguito. La scelta dei consulenti incaricati dal giudice delegato Greco di esaminare gli ultimi cinque bilanci della Federconsorzi, al fine di compiere accertamenti sulle cause del dissesto, suscita notevoli perplessità.

L'incarico fu dapprima conferito, in data 5 maggio 1992, all'avv.ocato Lucio Ghia, alla professoressa Maria Martellini ed al professor Mario Sica.

L'avvocato Ghia era il legale che aveva presentato la richiesta della Fedit di ammissione al concordato preventivo. Appare evidente l'incompatibilità logica e giuridica.

La professoressa Martellini, di Milano era fiduciaria del commissario governative Locatelli.

commissariamento (maggio 1991). Gli esperti distinguonoevano, "sotto il duplice profilo della loro chiarezza e verità", bilanci relativi agli esercizi 1986-1988 dagli ultimi due giudicando i primi "estremamente carenti nella loro capacità informativa" al punto da non fornire una "informazione chiara e veritiera circa la situazione patrimoniale e l’andamento economico della società".

Ma anche gli ultimi due, se appaiono al collegio rivano sufficientemente chiarie determinavano "riserve relative al congruo apprezzamento di talune poste, in particolare di quelle attinenti ai crediti e alle immobilizzazioni finanziarie".

Anche in merito all’operato degli amministratori, i tre professori distinguonoevano fra il periodo anteriore al giugno 1989 e quello che si chiudeva con il commissariamento (maggio 1991):

"(…) Nel primo periodo, le gravissime conseguenze sulla situazione finanziaria, economica e patrimoniale della Federconsorzi del progressivo dissesto di molti Consorzi e di talune società controllate sono sostanzialmente ignorate dagli organi collegiali.

Il secondo periodo è, invece, caratterizzato da una crescente consapevolezza del problema. Gli organi amministrativi finalmente formulano piani di risanamento, i cui tentativi di attuazione peraltro si scontrano con resistenze che si rivelano insormontabili.

La ragione fondamentale di tale insuccesso va probabilmente individuata nella incoerenza tra il quadro giuridico, che garantiva ai consorzi piena autonomia, e la prassi, che attribuiva alla Federconsorzi la responsabilità di assicurare ai consorzi stessi ogni necessario supporto finanziario; sicché la Federconsorzi finiva per assumersi i doveri di una holding senza disporre del relativo potere di comando".

Non é agevole individuare il preciso momento in cui può ritenersi acquisita la certezza della inevitabilità del dissesto. Può peraltro rilevarsi che la preoccupazione per le ragioni dei terzi - vale a dire il timore che l’accumularsi degli oneri finanziari finisse per azzerare il valore del patrimonio netto - comincia ad emergere all’inizio del 1990 e si intensifica con il trascorrere del tempo. All’inizio del 1991 appare ormai chiaro che il salvataggio del sistema federconsortile non può più essere ragionevolmente perseguita con risorse generate al suo interno e richiederebbe un intervento esterno, del quale però non si intravedono concreti profili di realizzabilità.

Discorso in parte analogo può farsi con riguardo ai rapporti finanziari con le società controllate. Un atteggiamento di sostanziale noncuranza per le perdite di gestione di molte di esse, coperte da sistematiche ricapitalizzazioni, viene improvvisamente interrotto, alla fine del 1988, dal presentarsi, in tutta la sua drammaticità, della crisi della Fedital. Il piano di risanamento di quest’ultima, fondato su ingenti apporti di capitale, si dispiega in un prospettiva temporale troppo lunga rispetto all’incombere del dissesto della stessa Federconsorzi.

In definitiva gli effetti dirompenti sul bilancio della Federconsorzi dei rapporti finanziari tanto con i Consorzi quanto con le società controllate divengono oggetto di attenzione degli organi amministrativi quando probabilmente é ormai troppo tardi per porvi rimedio, tenuto conto anche delle difficoltà culturali e ambientali con cui ogni tentativo di modificare prassi inveterate era destinato a scontrarsi.

E’ ragionevole supporre che, se fossero state in uso procedure contabili e di controllo di gestione adeguate alla complessa realtà operativa della società, avrebbero potuto essere colti con maggiore tempestività i segnali dello squilibrio economico e finanziario che poi ha condotto alla crisi.

Il dissesto della Federconsorzi, per vero, affonda le sue radici in fatti e comportamenti risalenti assai indietro nel tempo caratterizzati da trascuranza per quella logica di economicità cui ogni impresa, pur nel rispetto della propria specifica missione, deve necessariamente ispirarsi."

La conclusione degli stessi esperti è che: "All’inizio del 1991 appare ormai chiaro che il salvataggio del sistema federconsortile non può più essere ragionevolmente perseguito con risorse generate al suo interno e richiederebbe un intervento esterno, del quale però non si s’intravedono concreti profili di realizzabilità".

323.5 Le valutazioni dei consulenti del pubblico ministero di Roma nel procedimento a carico degli amministratori della Federconsorzi

Un importante documento tecnico è costituto dalla consulenza tecnico-contabile fatta eseguire ad un gruppo d’esperti dal pubblico ministero di Roma, nell’ambito del procedimento penale a carico degli amministratori della Federconsorzi perché essa contiene valutazioni sistematiche di rilievo che sembrano alla Commissione in larga misura condivisibili.

In esso si legge che: "La Federconsorzi si colloca in un sistema nel quale tutti i soggetti interessati, (consorzi agrari, società controllate e la stessa Federconsorzi) si muovevano in circuito chiuso, al di fuori del regime di mercato. La produzione di beni aveva normalmente un cliente unico ed esclusivo il quale, a sua volta, rappresentava il tramite per il collocamento e la distribuzione dei prodotti presso i vari Consorzi per raggiungere, infine, l'impresa agricola.

La Federconsorzi svolgeva ancora nei confronti dei suoi soci ex lege, i consorzi agrari, una importante funzione di credito (…). Nell'attivo registrato all'epoca del commissariamento, emergono e primeggiano i crediti verso i consorzi, crediti che avevano un valore contabile di lire 2.349.156 milioni, somma enorme che poneva in risalto un indebitamento sempre crescente e con scarse possibilità di realizzo.

(…) Se poi si considera che la Federconsorzi effettuò finanziamenti diretti o indiretti ai Cap o rinnovò cambiali agrarie ormai da tempo scadute, può formularsi una prima conclusione: la funzione di credito nei confronti dei Cap fu gestita senza alcuna valutazione del rischio o, addirittura, con la consapevolezza del rischio. Non sembra al Collegio che la politica di credito seguita da Federconsorzi possa essere giustificata da finalità mutualistiche".

La Commissione condivide in particolare l’assunto che lo scopo mutualistico connesso alla forma di cooperativa assunta da Federconsorzi aveva un limite invalicabile nell'interesse comune, nel senso che l'adozione di strumenti di soccorso in favore di alcuni consorzi in crisi finanziaria doveva trovare riscontro e giustificazione nella realizzazione dell’interesse di tutti i soci e, quindi, della stessa Federconsorzi. che consentiva ai consorzi di conservare la funzione di scambio con i fornitori.

Ed è proprio in relazione a questa ultima funzione della Federconsorzi che occorre soffermare l'attenzione. L' art. 3 del D.L. n. 1235 del 1948 consentiva alla società di compiere in favore dei soci operazioni di credito agrario di esercizio e di concedere fidejussioni dirette o a mezzo di fidejussioni. Tale operazione risulta svolta con forte intensità e sempre con un ritmo crescente. Nell'attivo registrato all'epoca del commissariamento, emergono e primeggiano i crediti verso i consorzi, crediti che avevano un valore contabile di lire 2.349.156 milioni, somma enorme che poneva in risalto un indebitamento sempre crescente e con scarse possibilità di realizzo (…). Se poi si considera che la Federconsorzi effettuò finanziamenti diretti o indiretti ai Cap o rinnovò cambiali agrarie ormai da tempo scadute, può formularsi una prima conclusione: la funzione di credito nei confronti dei Cap fu gestita senza alcuna valutazione del rischio o, addirittura, con la consapevolezza del rischio. Non sembra al Collegio che la politica di credito seguita da Federconsorzi possa essere giustificata da finalità mutualistiche.

Lo scopo mutualistico connesso alla forma di cooperativa assunta da Federconsorzi trova un limite invalicabile nell'interesse comune, nel senso che l'adozione di strumenti di soccorso in favore di alcuni Cap in crisi finanziaria, deve trovare riscontro e giustificazione nella realizzazione di interesse di tutti i soci e, quindi della organizzazione della stessa Federconsorzi.

I risultati di questa gestione, invece, si sono risolti in una situazione globale di crisi che ha investito i Cap, le società controllate e la stessa Holding.

L'aspetto speculare di questa gestione si riscontra nel forte e sempre crescente indebitamento che la Federconsorzi contraeva con il ceto bancario.

Gli inadempimenti dei Cap, solo formalmente coperti dalla concessione di dilazioni nei pagamenti previo calcolo degli interessi, creava nella Federconsorzi la mancanza di risorse interne necessarie alle altre funzioni ed al mantenimento della stessa organizzazione aziendale. Alla mancanza di tali risorse sopperiva l'onere del credito bancario che se da un lato creava liquidità momentanee, dall'altro faceva crescere a dismisura l'indebitamento verso gli istituti di credito, indebitamento che costituisce il secondo aspetto della gestione federconsortile che merita sicura censura.

Se si considerano congiuntamente i due profili sopra osservati e cioè l'indebitamento dei Cap verso Federconsorzi e l'indebitamento di quest'ultima verso il ceto bancario, si coglie la più significativa causa del dissesto.

Va ancora considerato che la posizione della Federconsorzi risulta fortemente aggravata dal credito vantato da Federconsorzi verso il Ministero dell'Agricoltura (…) iscritto in bilancio fin dal 1989 e che ad oggi ammonta a L. 463.043 milioni. Fatta eccezione di una diffida inoltrata nel marzo 1991, la Federconsorzi ha praticamente fatto accumulare un consistente credito, notificando un atto di citazione soltanto nel luglio 1992. (…) E’ appena il caso di rilevare come anche questo consistente credito, che i commissari governativi avevano addirittura ritenuto di dover azzerare per il difetto della esigibilità, ha notevolmente pesato sulla situazione di crisi in cui la società ricorrente si è trovata.

Un terzo profilo …concerne… l'utilizzazione che Federconsorzi ha fatto del suo patrimonio.

Non può dirsi che il principio della economicità abbia sempre presieduto la gestione immobiliare. E' risultato che prestigiosi edifici sono stati dati in locazione pattuendo canoni modestissimi con notevoli perdite che si ripercuoteranno anche nella situazione patrimoniale futura.

I commissari governativi lamentano nel ricorso introduttivo che la società, al fine di sanare posizioni debitorie di alcuni Cap in dissesto, aveva acquistato da questi stessi degli immobili che però erano stati lasciati in uso allo stesso consorzio in comodato gratuito senza termine di scadenza.

Si è trattato dunque spesso di una gestione cui era estraneo il principio della redditività e che veniva attuata per fini diversi da quello dell'interesse imprenditoriale.

I consulenti così concludono:

"Consorzi - FEDERCONSORZIederconsorzi - società partecipate hanno, indubbiamente, costituito un sistema integrato, ma questa integrazione trova (o avrebbe dovuto trovare) i suoi limiti nelle diverse personalità giuridiche e nella separazione dei patrimoni e delle connesse responsabilità in quanto, come è noto, il nostro ordinamento giuridico sconosce di norma, il gruppo (…)".

A ciò va aggiunto che il dissesto non può essere interpretato dal punto di vista "politico" ed etico, ed accreditato, sul piano giuridico, come una sorta di prezzo pagato ad una funzione "sociale", che non legittimava di certo il soggetto economico e la persona giuridica Federconsorzi al suicidio economico in favore dei consorzi ed in danno dei creditori.

Va, infine, osservato che non pare che la gestione sia stata mossa da intenti esclusivamente solidaristici, tenuto conto dell’altissimo costo della struttura amministrativa che comprendeva elevatissime remunerazioni per i dirigenti, continue elargizioni miliardarie e locazione semigratuita di immobili alla Coldiretti ed alla Confagricoltura e ad altri soggetti privati e, da ultimo, qualificazione dei beneficiati per appartenenza politica.

Per quanto concerne l’indebitamento della Federconsorzi con il ceto bancario, anche i citati esperti ritenevano che il "credito bancario se da un lato creava liquidità momentanee, dall'altro faceva crescere a dismisura l'indebitamento verso gli istituti di credito, indebitamento che costituisce il secondo aspetto della gestione federconsortile che merita sicura censura".

La più significativa causa del dissesto viene quindi colta nei due aspetti del progressivo incremento del credito concesso ai consorzi e nel correlativo incremento dell'indebitamento, anche per il peso degli oneri finanziari, della Federazione verso le banche.

I tecnici non mancavano di stigmatizzare "l'utilizzazione che Federconsorzi ha fatto del suo patrimonio (…). E' risultato che prestigiosi edifici sono stati dati in locazione pattuendo canoni modestissimi con notevoli perdite che si ripercuoteranno anche nella situazione patrimoniale futura (…). Si è trattato dunque spesso di una gestione cui era estraneo il principio della redditività e che veniva attuata per fini diversi da quello dell'interesse imprenditoriale".

Qui appare opportuno riportare l'andamento dei fenomeni che hanno caratterizzato in modo particolare la gestione de qua e ne hanno determinato il negativo esito sul quale si indaga:

  1. Il progressivo incremento del credito concesso ai Consorzi.
  2. Il correlativo incremento dell'indebitamento e del rischio della Federazione verso le banche e gli istituti finanziari anche dipendente dal fatto che la Fedit non disponeva di capitale proprio.
  3. I conseguenti oneri finanziari.
  4. L'insolvenza dei Consorzi emersa in tutta la sua gravità al momento della verità: commissariamento e concordato preventivo.
  5. (…)

In ordine ai bilanci vi è da dire che quelli degli esercizi 1985, 1986 e 1987 espongono addirittura degli utili - che, per giunta sono stati distribuiti - e quelli degli esercizi 1989 e 1990 si chiudono in pareggio, laddove, invece, si sarebbero tutti chiusi con notevoli perdite, ove i crediti per sorte e financo per interessi di mora verso i Consorzi, ed il Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste fossero stati opportunamente svalutati con l'iscrizione al passivo di fondi rischi costituiti con accantonamenti che sono, com'è noto, dei componenti negativi del reddito.

Il modus operandi suesposto si è manifestato in maniera più accentuata nei bilanci fino al 1988, di tal che quelli del 1989 e del 1990, con le loro parziali rettifiche, costituiscono anch'essi una prima smentita dei precedenti.

A loro volta i bilanci del 1989 e del 1990 sono smentiti da quelli del 1991 e del 1992 redatti dai Commissari Governativi e dalle risultanze della procedura di concordato preventivo.

In particolare i bilanci degli esercizi 1985, 1986, 1987 e 1988 chiudono con utili rispettivamente di lire 2,9; 2,9; 3,1 e 3,4 miliardi, resi possibili dagli omessi accantonamenti ai fondi rischi dell'ordine di 100 miliardi; con la ovvia sottolineatura che per il principio di continuità che lega ciascuno di tali documenti a quelli successivi le dette omissioni sono via via cumulate nel tempo.

I bilanci fino all'esercizio 1988 sono, altresì, smentiti dalla relazione del c.da. al bilancio del 1989 dove con riferimento ai rilevantissimi componenti straordinari del reddito sia negativi che positivi si afferma che i conti economici del 1989 e del 1990 "sono indubbiamente di assestamento e recepiscono gli effetti di accadimenti precedenti" (non evidenziati a suo tempo ndr). Infine in detti bilanci i crediti finanziari verso i Consorzi derivanti da una rateizzazione dodecennale intervenuta nel 1972 e che sarebbe scaduta nel 1994, venivano allocati nella sezione del patrimonio circolante e non in quella delle immobilizzazioni.

Il bilancio del 1989, a sua volta, chiude in pareggio ma a tale risultato si è giunti tra l'altro:

  1. Cancellando dal passivo (e quindi iscrivendo nel conto economico la corrispondente sopravvenienza attiva) debiti per L.159,7 miliardi che i consulenti contabili a suo tempo officiati dai Commissari governativi hanno accertato prevalentemente inesistenti ad origine. Dal che si argomenta, anche per questo fatto, la non rispondenza alla realtà dei bilanci precedenti che esponevano tali passività, nonché l'inesistenza della attuale sopravvenienza attiva.
  2. Attraverso un insufficiente accantonamento al fondo rischi su crediti che ha determinato un decremento del fondo stesso di L. 46,6 miliardi, a fronte di un incremento quali - quantitativo del rischio, riconosciuto poi in parte nel bilancio 1990 ed in tutta la sua gravità nel momento della verità: decreto di commissariamento e concordato preventivo.

Il bilancio dell'esercizio 1990. infine, chiude in pareggio, ma a tale risultato si è giunti, tra l'altro:

  1. Eliminando una svalutazione di L. 36,4 miliardi del trentennale irriscosso credito verso il MAF a suo tempo prudentemente effettuata.
  2. Mediante un ulteriore insufficente accantonamento ai fondi rischi su crediti.
  3. Con liberazione di ulteriori passività (la cui natura è stata già precisata) per 221,4 miliardi.

Detto bilancio è smentito, poi, da quello del 1991redatto dai Commissari governativi, laddove viene esposta una perdita di ben L. 1.681,8 miliardi, dovuta essenzialmente agli accantonamenti ai fondi rischi su crediti - L. 1.442,6 miliardi - in parte, non quantificabile con precisione, ma rilevante, omessi in precedenza.

Il bilancio del 1990 ed anche i precedenti sono ancora smentiti da quello del 1992, anch'esso redatto dal Commissario governativo, dove, a fronte di crediti per complessive L. 3646 miliardi, i relativi fondi rischi sono appostati in L. 2.400 miliardi, con la precisazione che per quelli verso i Consorzi - L. 2.152 miliardi - la svalutazione è di L. 1650 miliardi, e per quelli verso il MAF - L. 549 miliardi - è di L. 500 miliardi.

Anche il bilancio del 1992 conclude con una perdita, di L. 650,8 miliardi, dovuta, dunque, essenzialmente alle ulteriori svalutazioni dei crediti maturati e non svalutati in precedenza.

La procedura di concordato preventivo infine ha evidenziato un deficit patrimoniale valutabile tra 2.311 e 2.480 miliardi che sta a smentire tutti i bilanci precedenti, anche se si tiene conto del precipitare della situazione connesso al commissariamento (17 maggio 1991, appena 17 giorni dopo 3 l’approvazione del bilancio 1990) e dei minus realizzi tipici della procedura concorsuale qui accentuati dalla cessione in blocco delle attività.

(…) Le cause di dissesto e più in generale le perdite e/o i costi straordinari sopportati dalla FEDERCONSORZI sono numerosi e di varia natura e se ne fa qui una elencazione certamente incompleta, ma quella più importante è costituita dal mancato realizzo dei crediti concessi in larga misura ai Consorzi Agrari, ancorchè non meritevoli, come dimostrato, tra l'altro dall'analisi dei bilanci di numerosi affidati esposta nel capitolo V, dai procedimenti concorsuali ed anche penali instaurati in epoca posteriore e prossima a numerosi affidamenti.

E con la sottolineatura che il Consiglio di Amministrazione ed il Comitato Esecutivo erano espressione dei Consorzi stessi.

(…) In esito alla politica creditizia testè puntualizzata, in sede di concordato preventivo è risultato che crediti verso i consorzi inseriti in contabilità per L. 2.349,1 miliardi sono stati svalutati dagli stessi Commissari Governativi proponenti a L. 1.048,2 miliardi e poi realizzati per L. 532,5 miliardi con una perdita, quindi, di L. 1.816,6 miliardi, che si pone come causa fondamentale del dissesto.

A tale perdita vanno aggiunte le cancellazioni di crediti verso gli stessi consorzi attuate a vario titolo negli armi per complessive L. 366,7 miliardi.

(…) Nel quadro dei rapporti con i Consorzi si situa anche il credito verso il Ministero dell'Agricoltura e Foreste, a suo tempo ceduto dai Consorzi stessi alla Fedit a deconto delle proprie posizioni debitorie, iscritto nella proposta di concordato in L. 420,1 miliardi e dagli stessi proponenti, completamente svalutato (…).

Nel periodo 1985 - 1991 la FEDERAZIONE ha versato contributi associativi alla Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti (L. 31,9 miliardi) ed alla Confederazione Generale dell'agricoltura Italiana (L.24,7 miliardi) per complessive L. 56,6 miliardi.

E stata acquisita agli atti copiosa documentazione concernente le prestazioni rese da professionisti e consulenti esterni alla Fedit, dalla quale risulta, tra l'altro, quanto segue relativamente al periodo 1 gennaio 1989 - 30 giugno 1993.

Le fatture emesse dalle società di consulenza ammontano a L 28,2 miliardi IVA compresa. Le fatture emesse da persone fisiche ammontano a L. 11 miliardi IVA compresa.

(…) Biennio1989 - 1990. Fatture emesse dalle società di consulenza lire 16,2 miliardi IVA compresa. Fatture emesse da persone fisiche lire 3,8 miliardi.

(…) L'analisi condotta …..ha evidenziato che in molti casi gli onorari pattuiti e fatturati sono di gran lunga superiori a quelli previsti dalle tariffe professionali per prestazioni analoghe;

Non sembra,infatti, che possano configurarsi tali:

  1. l'elargizione di crediti a Consorzi dissestati, frequentemente a causa di atti di gestione sui quali oggi indagano numerose Procure della Repubblica;
  2. la locazione semigratuita di immobili alla Coldiretti ed alla Confagricoltura e ad altri soggetti privati FEDERCONSORZI e Cap - ha sottolineato il Commissario Giudiziale alla procedura di concordato preventivo - sono soggetti economici e non socio politici".

323.6 Le conclusioni della Commissione di indagine ministeriale Poli Bortone

Con D.Mdecreto ministeriale. n. 34644 del 12 ottobre 1994, il ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali pro tempore, on.orevole Poli Bortone, nominò una Commissione di indagine sul dissesto della Federconsorzi, integrata con decreto ministerialeD.M. n. 34913 del 29 ottobre 1994.

La Commissione aveva lo scopo di analizzare la situazione che aveva condotto al commissariamento della Federconsorzi e, in particolare, le modalità con cui si era pervenuti al crescente indebitamento dell'intero sistema consortile, quale fosse la situazione creditizia, compresa quella relativa al portafoglio ammassi, nonché quella dei consorzi agrari nei confronti dell'organizzazione federale, quali fossero state le perdite e quali fossero state le risultanze economiche del sistema di partecipazione societaria nel settore agroindustriale ed in altri settori di intervento.

Inoltre si chiedeva alla Commissione di accertare quali rapporti organizzativi e finanziari fossero intercorsi fra il sistema federconsortile e gli organismi operanti in agricoltura, nonché le responsabilità degli organi aziendali e di controllo antecedenti e successivi alla data del commissariamento.

Nel giugno del 1995, la Commissione rassegnava al Ministro le conclusioni alle quali era pervenuta in merito alle cause del dissesto e ad alcuni altri argomenti di indagine specifici, indicati in decreto, dichiarando che l'indagine era stata svolta fino al 17 maggio 1991, data del commissariamento.:

"Per quanto attiene alle responsabilità degli organi aziendali e di controllo ministeriale, successive alla predetta data, la commissione si riserva - è detto in premessa - nel caso in cui il signor Ministro ritenga di accordare una congrua proroga, di completare le indagini e pervenire ad una eventuale, successiva relazione. In tale sede potrà essere ulteriormente ed analiticamente approfondito, altresì, l'argomento - che nella presente relazione è trattato soltanto genericamente - delle perdite e delle risultanze economiche derivanti dal sistema delle partecipazioni societarie nel settore agroindustriale ed in altri settori di intervento".

Nella realtà, se non fosse per un cospicuo numero di allegati, la relazione del giugno 1995 non sembra soddisfare gli obiettivi posti alla Commissione che, per sua stessa ammissione non aveva esaminato specificamente la situazione creditizia della Fedit relativa al portafoglio ammassi, né trattato analiticamente il problema delle perdite e delle risultanze economiche delle partecipazioni societarie nel settore agroindustriale - salvo indicare in 800 miliardi le perdite Polenghi Lombardo - e soprattutto nulla riferiva in merito alle responsabilità degli organi aziendali e di controllo per il periodo successivo alla data del commissariamento.

Per il periodo antecedente al commissariamento, anche se in modo sintetico, lala relazione conclusiva evidenziava le grandi responsabilità del Consiglio di amministrazione della Fedit, del Collegio sindacale, dei vertici delle organizzazioni professionali che all'epoca, di fatto, amministravano l'azienda e, soprattutto, degli organi ministeriali, cui spettavano compiti di vigilanza e controllo.

Una forte vigorosa censura, inoltre, veniva rivolta al sistema bancario che aveva finanziato la Federconsorzi senza adeguate garanzie e senza avere esperito idonea istruttoria sulla entità del rischio che si andava ad assumere.

In particolare, sSulle cause del dissesto della Fedit, i componenti della Commissione scrivevanoesprimevano valutazioni in linea sostanziale con tutte quelle sopra ricordate, scrivendo:

"Il dissesto della Federconsorzi ha tra le sue cause rilevanti carenze gestionali. (…) Tra le carenze gestionali va ricordato anzitutto l’impianto contabile, inidoneo a consentire un qualsiasi effettivo controllo di gestione.

(…) Gli amministratori e gli organi preposti al controllo dell’azienda sembrano avere smarrito la via che assicura la sopravvivenza e lo sviluppo dell’azienda: equilibrio economico d’esercizio, equilibrio finanziario, efficienza nell’utilizzazione delle risorse. Negli ultimi due esercizi, 1989 e 1990, la crescente consapevolezza del dissesto non riesce a tradursi in comportamenti efficaci. Per esempio, nel luglio del 1989, quando ormai i sintomi del male erano gravi ed evidenti, si è proceduto ad un monitoraggio della salute aziendale ed è stato preparato un piano quinquennale di risanamento. Tale piano è stato illustrato nel corso dell’Assemblea dei Soci del 30 aprile 1990, ma alle parole non sono seguiti i fatti. (…).

(…) La politica seguita nell’erogazione del credito da parte degli Amministratori della Fedit rappresenta un primo aspetto censurabile del loro operato.

Per tutto il quinquennio preso in esame dai relatori (1986-1990) si procede a erogazioni di crediti e ad altre operazioni finanziarie in favore dei consorzi in evidente stato di dissesto o addirittura già posti in liquidazione coatta amministrativa. Si tratta quindi di operazioni per le quali la perdita poteva considerarsi ex ante certa (pag. 148 e seg.).

La Fedit, però, ha tentato di realizzare questi fini - supporto e sopravvivenza dei consorzi e delle società partecipate più deboli e più squilibrati - senza ispirare la sua gestione al pareggio economico e senza avere la ragionevole certezza di fronteggiare, alle scadenze prestabilite, le sue notevoli e crescenti esposizioni finanziarie verso il sistema bancario, dato che una gran parte di crediti connessi con le forniture effettuate a molti Consorzi Agrari Provinciali non venivano incassati. (…)".

Anche per la Commissione ministeriale l’obiettivo mutualistico dell’assistenza ai consorzi, pur in una visione che considerava "il sistema costituito dalla Federconsorzi e dal complesso dei consorzi (…) come un tutto unico" non poteva essere perseguito oltre i limiti derivanti dagli equilibri di bilancio.

Nella relazione si fa presente che "Gli immobili di proprietà e le società immobiliari sono stati amministrati con criteri diversi da quelli di economicità e redditività, e sono state privilegiate, talvolta, forme di godimento non remunerative, anche a favore di soggetti estranei all’organizzazione federconsortile. E’ risultato, tra l’altro, che prestigiosi edifici sono stati dati in locazione pattuendo canoni modestissimi" (…).

Appare inoltre condivisibile la conclusione raggiunta sulle partecipazioni: "L’acquisizione delle partecipazioni, le varie ricapitalizzazioni ed il connesso ripianamento delle perdite (Polenghi-Fedital, in particolare), anche in considerazione della scarsissima entità del capitale proprio della Fedit, hanno ulteriormente incrementato l’esposizione finanziaria nei confronti del sistema bancario, così dilatando il rischio aziendale complessivo, le perdite economiche e la possibilità di registrare "imbarazzi finanziari".

Di particolare interesse risultano le osservazioni sui costi della struttura: " Ad avviso della Commissione, inoltre, e comunque, un limite invalicabile doveva essere considerato quello segnato dai dati economico-finanziari della stessa Federconsorzi, l’obiettivo mutualistico dell’assistenza non potendo essere perseguito al di là della sua sostenibilità nel bilancio.

Dalle discussioni risultanti dai verbali degli organi collegiali risulta una impostazione di fondo, e cioè che il sistema costituito dalla Federconsorzi e dal complesso dei consorzi era visto come un tutto unico, sicché occorreva continuare a sostenere finanziariamente ciascun consorzio per evitare che l’insolvenza di uno solo di essi potesse essere considerato dalle banche come sintomo di un dissesto generale.

(…) A proposito dell’indebitamento che, secondo i giudici della Sezione Fallimentare del Tribunale civile di Roma, "costituisce il secondo aspetto della gestione federconsortile che merita sicura censura" (p. 48), è da mettere in evidenza anche il comportamento degli istituti di credito, che hanno finanziato la Federconsorzi senza adeguate garanzie e senza avere esperito idonea istruttoria sulla entità del rischio che si andavano ad assumere (istruttoria che avrebbe dovuto condurre, almeno da un certo momento in poi, a non più concedere il credito invece incautamente accordato).

(…) Un’altra forma di finanziamento a breve termine o comunque di accrescimento della liquidità fu realizzato mediante la costituzione della società Agrifactoring, che operava lo sconto di fatture emesse dai Consorzi Agrari, compresi quelli insolventi. E’ da evidenziare che tra le due società (Federconsorzi ed Agrifactoring) si veniva a determinare un evidente conflitto di interessi essendo rappresentate dagli stessi soggetti. Ad esempio il ragionier Luigi Scotti era contemporaneamente Presidente di Agrifactoring, Presidente di Federconsorzi e consigliere di amministrazione della sezione credito agrario della Banca Nazionale del Lavoro. (…).

Un terzo profilo da porre in evidenza in ordine alla gestione della Federconsorzi è quello concernente l’amministrazione del patrimonio immobiliare. Infatti, gli immobili di proprietà e le società immobiliari sono stati amministrati con criteri diversi da quelli di economicità e redditività, e sono state privilegiate, talvolta, forme di godimento non remunerative, anche a favore di soggetti estranei all’organizzazione federconsortile. E’ risultato, tra l’altro, che prestigiosi edifici sono stati dati in locazione pattuendo canoni modestissimi. (…).

Da un punto di vista più generale va rilevato che la patrimonializzazione-immobilizzazione di importanti risorse - per di più mal poste a reddito - costituiva, nella situazione di alto e crescente indebitamento verso il sistema bancario, ad elevati prezzi di mercato, a fronte di un alto e crescente credito verso i Cap (che spesso non pagavano nemmeno gli interessi), un permanente e sostanziale fattore di squilibrio economico e finanziario.

Un quarto aspetto riguarda le partecipazioni, la cui gestione è stata, in generale, quanto mai improvvida; soprattutto non c’è stata una gestione unitaria ed un’analisi approfondita degli interventi da effettuare. L’acquisizione delle partecipazioni, le varie ricapitalizzazioni ed il connesso ripianamento delle perdite (Polenghi-Fedital, in particolare), anche in considerazione della scarsissima entità del capitale proprio della Fedit, hanno ulteriormente incrementato l’esposizione finanziaria nei confronti del sistema bancario, così dilatando il rischio aziendale complessivo, le perdite economiche e la possibilità di registrare "imbarazzi finanziari".

(…) lLe spese di funzionamento hanno subito una rilevante dilatazione: i cosiddetti costi di struttura sono passati da 90 miliardi di lire, nel 1988, a 171 miliardi di lire nel 1989 e a 178 miliardi di lire nel 1990. (…) L’incremento di tali costi, dunque, non era legato a fatti oggettivi operativi ma alla perversa logica che presiedeva alle scelte aziendali. A questo proposito il dottor Gentili, Consigliere Fedit, afferma: "c’erano troppe spese, i dirigenti che prendevano degli stipendi pazzeschi (...). C’erano circa cento persone distaccate presso altri Enti".

Per quanto concerne, infine, il tema di controlli, per i quali si rinvia al capitolo terzo, si rammenta che la Commissione Poli-Bortone concludeva che: "(…) Il Ministero non è andato oltre la presa d’atto della documentazione ricevuta e non ha mai esercitato le facoltà di ispezione e/o di sospensione delle deliberazioni, né mai è stato sollecitato in tal senso dai sindaci di nomina ministeriale.

(…) La fine traumatica della Federconsorzi è dovuta a molteplici cause che qui si riassumono non in ordine di importanza, in quanto considerate equivalenti, o perlomeno, concomitanti.

Vi è certamente una responsabilità dei vertici aziendali, che a partire dal 1989, ma con tutta probabilità anche negli anni immediatamente antecedenti, avrebbero dovuto avere piena consapevolezza delle condizioni di dissesto della società. Se non fossero sufficienti i dati oggettivi relativi alla situazione della Federconsorzi, basterebbe richiamare l’affermazione del ragionier Scotti il quale, nell’audizione innanzi la Commissione ha riferito che, pur in presenza di gravi anomalie, l’azienda aveva continuato a concedere crediti "per mantenere in piedi il palazzo".

Questi Amministratori, spesso prescelti per affinità politico- sindacale piuttosto che per la loro professionalità, anziché svolgere il proprio ruolo istituzionale di fatto seguivano supinamente, almeno nelle scelte strategiche, le indicazioni di coloro che li avevano designati: non l’Assemblea dei Soci o i Consigli di Amministrazione ma le Organizzazioni Professionali di appartenenza, la Coldiretti e la Confagricoltura di allora. Queste ultime si sono assunte, con un’accentuazione crescente nell’ultimo decennio, il ruolo se non di "amministratori di fatto" almeno di "azionisti di riferimento e di comando", in nome di esigenze che poco avevano a che fare con le finalità economiche cui doveva rispondere anche la Federconsorzi: spetterà alla Magistratura competente stabilire se tale ingerenza sia fonte di responsabilità sul piano giuridico.

Questa particolare "politica" ha comportato sprechi e sperperi ingiustificati ed in contrasto con la linea di rigore che la situazione richiedeva. In particolare è emerso che dalla Federconsorzi è uscito un flusso di denaro ininterrotto e rilevantissimo in favore delle due Organizzazioni Professionali, fino alla vigilia del commissariamento.

Nella medesima direzione vanno considerati anche la sconsiderata politica creditizia verso i Cap e le Società Controllate; l’uso discutibile di Agrifactoring, la gestione disastrosa di alcune Società Controllate; il disordine amministrativo contabile; il costosissimo utilizzo, soprattutto negli ultimi anni, di consulenti nei diversi settori aziendali; la dilatazione delle spese generali; la cattiva amministrazione degli immobili; la carente gestione delle risorse umane sia sotto il profilo della selezione sia sotto quello formativo che sotto quello organizzativo; la carenza dei controlli sui Consorzi Agrari e sulle Società Controllate; la sovrapposizione di funzioni e la presenza spesso delle stesse persone nelle posizioni di vertice delle diverse articolazioni del gruppo; oltre ad altre particolari vicende attualmente oggetto di indagini da parte della Magistratura penale (e.g. vicenda "vitelli").

Non ultima responsabilità va ascritta alle banche finanziatrici che - almeno a partire da un certo momento - hanno continuato ad espandere progressivamente il credito in misura incongrua rispetto alla meritevolezza della Federconsorzi. Ci sono infine le responsabilità del mancato esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo previste dalla Legge da parte del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, che è sembrato, nella sua assoluta latitanza, in una posizione addirittura rovesciata e di sudditanza nei confronti della Fedit e dei suoi cosiddetti "azionisti di riferimento" (Coldiretti e Confagricoltura). Infatti, il Ministero non è andato oltre la presa d’atto della documentazione ricevuta e non ha mai esercitato le facoltà di ispezione e/o di sospensione delle deliberazioni, nè mai è stato sollecitato in tal senso dai sindaci di nomina ministeriale.

(…) Nonostante la gravità della situazione è probabile, peraltro, che l’azienda si sarebbe potuta salvare se, da parte del Ministero, ci fosse stato un vigoroso e tempestivo impegno nell’approfondire la conoscenza della realtà aziendale e conseguentemente fossero state date le adeguate direttive all’organo Commissariale".

4. 7 Le conclusioni raggiunte dalla Commissione

 

La condizione in cui si trovava la Federconsorzi, per le ragioni statutarie più volte ricordate, di assoluta mancanza di mezzi finanziari propri, ne costituiva un limite operativo oggettivo; tuttavia la sottocapitalizzazione non fu, in sé, la ragione decisiva della crisi.

Basta osservare che, nei decenni precedenti il 1980, la Federconsorzi, con lo stesso capitale simbolico, e, pur dovendo ricorrere al credito d'esercizio, si era costituita, con i ricavi di esercizio realizzati, un grande patrimonio immobiliare e di partecipazioni.

Fino agli anni Ottanta aveva prosperato, fino a diventare una grande holding impropria.

La causa remota ed indiretta del dissesto della Federconsorzi va sicuramente individuata nella crisi dei consorzi agrari, alla quale concorse la struttura stessa del sistema federconsortile.

La causa diretta, principale e decisiva fu la dissennata politica creditizia di sostegno ed alimento dei consorzi agrari, praticata a partire dai primi anni Ottanta.

Il ricorso incessante al credito bancario generò un grave, insanabile squilibrio economico e finanziario.

Causa concorrente della crisi fu una analoga politica di impegno finanziario (copertura di perdite; finanziamenti) nei confronti delle numerose società controllate e collegate.

Venuti meno gli ingenti profitti realizzati fino agli anni Ottanta con le gestioni speciali dagli ammassi e con i ricavi dell'intermediazione commerciale, l'indisponibilità di mezzi propri per operazioni di rischio, di per sé comportanti ingenti immobilizzazioni finanziarie, si risolse in un ulteriore indebitamento nei confronti del sistema bancario.

In proposito, va anche osservato che il ricorso sistematico al credito bancario non fu un connotato esclusivo della Fedit.

Negli anni Ottanta, l’intero sistema industriale italiano era finanziato a tal punto dal sistema bancario che ad ogni 1000 lire di merci immesse sul mercato corrispondeva l’utilizzo di mezzi propri dei produttori per sole 20 lire!

Le banche, in gran parte in mano pubblica, "erano intervenute sempre più largamente a coprire le sempre più vistose falle aperte dalla caduta dei livelli di autofinanziamento o erano state chiamate ad accollarsi il carico di iniziative puramente assistenziali".

La Fedit ebbe, però, come si è evidenziato, una decisiva particolarità.

A differenza delle altre imprese, non utilizzò il credito bancario per validi investimenti produttivi ma solo per finanziare la sua attività d'intermediazione e, soprattutto, di banca finanziatrice dei consorzi e di un sistema di imprese satelliti in crisi.

Il dissesto fu, quindi, dovuto alle scelte degli amministratori, decisivamente influenzate da quelle delle associazioni di categoria, la Coldiretti e la Confagricoltura, che dominavano - la prima in misura preponderante - l'intera organizzazione federconsortile.

Alla mala gestio strategica si aggiunse, costituendone riflesso, una mala gestio corrente.

Le scritture contabili erano complessivamente inattendibili; i crediti che la Federconsorzi vantava nei confronti dei consorzi agrari e delle società controllate, in larga misura non esigibili, furono esposti nei bilanci come se fossero esigibili, gonfiando artificiosamente l'attivo.

I bilanci dal 1982 al 1991 non rappresentarono veridicamente la realtà economica e patrimoniale dell'impresa, occultando le perdite.

In particolare, i bilanci dal 1982 al 1988 si chiusero in utile perché si omise di procedere ad accantonamenti di fondi rischi nell’ordine di circa 100 miliardi l’anno.

Negli anni 1989 e 1990, il pareggio del bilancio fu realizzato mediante l'utilizzo di fondi che non costituiscono veri e propri componenti positivi di reddito ma solo partite contabili. I dati del magazzino erano, sostanzialmente, inattendibili. Il ricco patrimonio immobiliare della Federconsorzi fu gestito con criteri antieconomici e di scarsissima redditività.

Le conseguenti responsabilità degli amministratori e dei sindaci appaiono evidenti.

Quelle di questi ultimi appaiono di gravità non minore di quelle dei primi.

In particolare la presidenza del Collegio sindacale, lungi dal garantire la vigilanza pubblicistica sulla corretta gestione dell'impresa, prevista dalla legge, venne del tutto meno ai suoi doveri di controllo.

 

5. I risvolti penali della mala gestio dei consorzi e della Federconsorzi

Dinanzi alla Procura della Repubblica di Roma si sono aperti, per le vicende della Federconsorzi, tre fascicoli processuali.

Di essi uno relativo all’Agrifactoring è stato subito archiviato, senza alcun approfondimento.

Un secondo, relativo ad un fatto specifico, si è concluso con sentenza definitiva pronunciata dal Ttribunale, in data 16 giugno 1998, con l’assoluzione di tutti g gli imputati.

Un terzo procedimento, a carico di cinquantuno amministratori e dirigenti della Federconsorzi, succedutisi nel tempo, pende dinanzi alla I sezione del tribunale di Roma.

Le imputazioni di cui sono chiamati a rispondere, dinanzi alla prima sezione del Tribunale, sono costituite da plurime e gravi ipotesi di falsificazione dei bilanci e di bancarotta fraudolenta, aggravate dall’ingente danno patrimoniale, lesivo dell'ordine economico nazionale.

In particolare l’accusa riguarda:

di sottoporre le riflessioni che precedono al Procuratore della Repubblica di Roma per le valutazioni di competenza.

 

Capitolo Quinto

 

L’indebitamento della Federconsorzi nei confronti del ed ile sistema bancario italiano ed internazionale

 

  1. Banche creditrici , eEntità e La natura e l'entità degli affidamenti

Una delle principali questioni che Lla Commissione ha approfondito il tema dell’enorme indebitamento contratto ffrontato è costituita dall’indebitamento daella Federconsorzi con gli istituti di credito italiani e stranieri.

Alla data del commissariamento, 17 maggio 1991, le banche italiane vantavano crediti nei confronti della Federconsorzi per complessive lire 2.381,268 miliardi.

L’elenco degli istituti creditori italiani, in numero di quarantacinque, è il seguente:

  1. BANCA CARIGE SPA

  • BANCA CASSA DI RISPARMIO DI TORINO SPA
  • BANCA COMMERCIALE ITALIANA SPA
  • BANCA DELLE MARCHE SPA
  • BANCA DI PIACENZA SPA
  • BANCA DI ROMA SPA
  • BANCA FIDEURAM SPA
  • BANCA INTESA SPA
  • BANCA LOMBARDA SPA
  • BANCA NAZIONALE DELL’AGRICOLTURA
  • BANCA NAZIONALE DEL LAVORO SPA
  • BANCA POPOLARE COMMERCIO ED INDUSTRIA SCRL
  • BANCA POPOLARE DELL’ADRIATICO SPA
  • BANCA POPOLARE DI ANCONA SPA
  • BANCA POPOLARE DELL’ETRURIA E DEL LAZIO S.C.R.L.
  • BANCA POPOLARE DI BERGAMO – CREDITO VARESINO SCRL
  • BANCA POPOLARE DI CREMONA
  • BANCA POPOLARE DI LODI
  • BANCA POPOLARE DI MILANO SCRL
  • BANCA POPOLARE DI NOVARA S.C.R.L.
  • BANCA POPOLARE DI SONDRIO SCRL
  • BANCA POPOLARE DI SPOLETO SPA
  • BANCA POPOLARE DI VERONA , S. GEMINIANO E SAN PROSPERO S.C.R.L.
  • BANCA POPOLARE DI VICENZA S.C.P.A.R.L.
  • BANCA TOSCANA SPA
  • BANCO AMBROSIANO VENETO S.P.A
  • BANCO DI NAPOLI SPA
  • BANCO DI SARDEGNA SPA
  • BANCO DI SICILIA SPA
  • CARIPLO SPA
  • CASSAMARCA SPA
  • CASSA DI RISPARMIO DI BOLOGNA SPA
  • CASSA DI RISPARMIO DI CITTA’ DI CASTELLO SPA
  • CASSA DI RISPARMIO DI FANO SPA
  • CASSA DI RISPARMIO DI PARMA E PIACENZA SPA
  • CREDITO EMILIANO SPA
  • DEUTSCHE BANK SPA
  • DRESDNER BANK A.G.
  • FORTIS BANK SA
  • ICCREA SPA
  • ISTITUTO BANCARIO SAN PAOLO DI TORINO ISTITUTO MOBILIARE ITALIANO SPA
  • MEDIOVENEZIE SPA
  • BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA SPA
  • ROLO BANCA SPA
  • UNICREDITO ITALIANO SPA
  •  

    Le banche estere creditrici, in numero di sedici, erano le seguenti :

    Inserire il numero nell’elenco

    1. THE SUMITOMO BANK, LIMITED

  • THE MITSUBISHI TRUST AND BANKING CORPORATION
  • THE DAI-ICHI KANGYO BANK, LIMITED
  • THE TAIYO KOBE BANK, LIMITED
  • THE SANWA BANK, LIMITED
  • ASSOCIATED JAPANESE BANK (INTERNATIONAL), LIMITED
  • CREDIT COMMERCIAL DE FRANCErance
  • GENOSSENSCHAFTLICHE ZENTRALBANK AKTIENGESELLSCHAFT
  • THE BANK OF TOKYO, LIMITEDTD
  • CAISSE D’EPARGNE DE L’ETAT DE GRAND-DUCHE DE LUXEMBOURG
  • BANQUE NATIONALE DE PARIS (LUXEMBOURG) S.A.
  • CREDIT GENERAL S.A. DE BANQUE
  • THE LONG-TERM CREDIT BANK OF JAPAN, LIMITED
  • REPUBLIC NATIONAL BANK OF NEW YORK, (LUXEMBOURG) S.A.
  • THE MITSUBISHI BANK, LIMITED
  • BANQUE HERVET
  • Al momento del concordato i rischi delle banche estere erano, ai cambio dell’epoca, pari a 429,5 miliardi nei confronti dellai Federconsorzi,. pari a 429,5 miliardi.

    Al debito della Fedit va aggiunto quello contratto nei loro confronti daella Agrifactoring sSpa, pari a lire 247,9 miliardi. L’Agrifactoring era, infatti, una società di factoring partecipata dalla Federconsorzi che operava quasi esclusivamente su crediti di quest’ultima e che fu travolta dalla crisi della sua debitrice. (cfr. amplius cap……..)

    L’esposizione complessiva delle banche estere, senza tener conto del debito dei consorzi agrari, era pari a 667,6 miliardi; i

    I crediti delle banche italiane nei confronti della Fedit derivavano da aperture di credito e dallo sconto di titoli crediti delle .;

    qQuelli delle banche estere derivavano da operazioni in pool o prestiti sindacati a lungo termine.

    I crediti delle banche italiane nei confronti della Fedit derivavano da numerose tipologie di operazioni come si evince dal seguente elenco relativo al 1991 :Nota:

    Sommario Fidi in essere - Intero aggregato bancario

    Anno 1991

    Anticipi in conto corrente e/o finanziamenti import/export

    124.136

    Apertura di credito in conto corrente

    831.242

    Apertura straordinaria di credito in conto corrente

    102.292

    Castelletto sconto e/o Sbf (salvo buon fine)

    941.706

    Castelletto sconto e/o Sbf – conc.ne straordinaria

    220.030

    Crediti agrari di esercizio – articoli 1 e 2 della legge 5 luglio 1928, n. 1760

    673.612

    Crediti agrari di miglioramento - articolo 1 della legge 5 luglio 1928, n. 1760

    45.386

    Disponibilità immediata assegni Sbf

    7.500

    Finanziamenti Fedit/Artigiancassa, legge 949 del 25 luglio 1952

    102.000

    Finanziamenti a medio termine

    150.252

    Finanziamenti in divisa estera

    55.000

    Finanziamenti in divisa estera pool banche / ctv in lire

    125.356

    Finanziamenti legge 1329 del 1965 (cosiddetta legge Sabatini)

    400.000

    Mutuo legge 4 agosto 1971, n. 592

    129

    Operazione pool banche

    84.398

    Rischi indiretti per impegni di firma

    49.749

    Rischio su fideiussioni

    171.040

    Sovvenzione diretta

    23.330

    Importo totale utilizzato

    2.381.064

    Saldo accordato

    4.107.158

     

    1.1  Le ragioni dell’indebitamento: il sistema Fedit–consorzi–Agrifactoring

    La Fedit non aveva, in pratica, disponibilità proprie perché il suo capitale era modestissimo ed insuscettibile di aumenti, come si è evidenziato nel capitolo precedente.

    La Fedit, per svolgere tutta la sua attività d’impresa e compiere tutte le connesse operazioni economiche e finanziarie, non poteva, pertanto, che attingere al credito bancario.

    In particolare, poiché non si limitava a svolgere flimitato per legge a 4,65 milioni.

    Non limitandosi a funzioni di intermediazione tra i produttori ed i consorzi, ma acquistanva do e vendeva ndo in proprio tutti i prodotti, la Fedit doveva ricorrere sistematicamente, per pagare i fornitori, all’indebitamento. credito bancario.

    Essa riceveva in pagamento dai propri clienti e soci, vale a dire e cioè dai consorzi agrari, cambiali emesse dai consorzi stessi o dagli agricoltori che ne erano i clienti finali.

    I titoli venivano passati allo sconto presso le banche o fattorizzati presso l’Agrifactoring, di cui la Fedit era il cliente quasi esclusivo.

    Quando, negli anni Oottanta, si manifestò una difficoltà sempre crescente fino a diventare una irreversibile e diffusa impossibilità dei cConsorzi agrari adi far fronte ai loro impegni, cominciò a crescere l’indebitamento della Federconsorzi nei confronti del sistema bancario.

    All’origine dell’indebitamento della Fedit ci furono, quindi, una ragionie strutturalie derivanti dall’architettura del sistema federconsortile e dal connessa con il suo stesso ruolo creditizio che la Fedit si assunse da essa svolto nei confronti dei consorzi agrari.

    A queste va aggiunto il venir meno dei ricavi che, insieme con i ricavi della gestione degli ammassi che ,ne aveva in precedenza, per decenni, fatto la fortuna.

    Tuttavia se la Federconsorzi non avesse praticato una sconsiderata politica di sostegno ad oltranza dei cConsorzi in crisi, anche attraverso la concessione di credito commerciale e finanziario, l’inaridirsi dei flussi positivi non avrebbe di per sé comportato una progressione esponenziale dei debiti nei confronti del sistema bancario e dell’Agrifactoring.

    Quest’ultima, per far fronte alle richieste della Federconsorzi, che si traducevano di fatto in anticipazioni ed in pagamenti di debiti, fu era costretta ad indebitarsi a sua volta fortemente sul mercato italiano ed estero.

    L’indebitamento dell’Agrifactoring, al tempo del commissariamento della Fedit, era pari a ben 1.242,6 miliardi, di cui 429 miliardi verso le banche che ne erano socie e cioè la Banca nNazionale del lavoro, l’Ifibanca ed il Banco di Santo Spirito.

     

     

     

    1.2 Le procedure di concessione degli affidamenti e le garanzie

     

    Alla data del commissariamento gran parte delle banche italiane era di proprietà pubblica e, proprio tra le banche a partecipazione diretta del Tesoro e di proprietà dell’IRI, vi sono alcuni tra i maggiori creditori della Fedit e di Agrifactoring.

    Non esisteva nessuna garanzia

    Pper crediti così ingenti, come quelli sopra esposti né le banche italiane né le banche estere vantavano garanzie..

    I crediti erano, inoltre, progressivamente lievitati nel corso degli anni egli anni senza che una sola banca avesse ritenuto di ridurre o contenere la prendesse una qualche iniziativa a tutela del propriao esposizione.

    Al contrario, nella maggior parte dei casi, l’affidamento fu progressivamente aumentato.

    credito.

    Ciò sembra tanto più sconcertante se si considera che, alla data del commissariamento, gran parte delle banche italiane era di proprietà pubblica e proprio tra le banche a partecipazione diretta del Tesoro e di proprietà dell’Iri vi sono alcuni tra i maggiori creditori della Fedit e di Agrifactoring.

    La Commissione si è, pertanto, posta i seguenti interrogativi: le Le procedure di concessione furono corrette?

    Le banche conoscevano le reali condizioni della Federconsorzi?

    In particolare, le banche avevano avvertito che la situazione economica e finanziaria della Fedit si era progressivamente degradata e che, quindi, i loro crediti erano esposti ad un rischio sempre maggiore d’insolvenza?

    Perché non avevano chiesto garanzie e perché -,   come si è già evidenziato – - invece di contenere l’esposizione l’avevano complessivamente e progressivamente aumentata?

    Gli interrogativi che l’entità degli affidamenti hanno posto alla Commissione sono i seguenti :

     

    perché le banche li concessero?

    chiesero ed ottennero garanzie ed, in caso negativo, perché non se preoccuparono ?

    le procedure di concessione furono corrette ?

    conoscevano le banche le reali condizioni della Federconsorzi?

    Per rispondere a tali quesiti, in base a parametri il più possibile attendibili, gli interrogativui A tal fine sembra opportuno esporre, innanzitutto, sinteticamente, lo schema delle procedure considerate tecnicamente ottimali, imposte e suggerite dalla Banca d’Italia, valide al tempo dei fatti, che le banche seguivano (od avrebbero dovuto seguire) per la concessione del credito.

    Il riconoscimento, da parte degli istituti di credito della capacità di credito del mutuante si concretizza nella procedura di concessione fido.

    Gli affidamenti sono concessi su espressa richiesta del cliente tenuto ad esporre l’importo del fido, la durata del fido, le eventuali garanzie.

    Sono inoltre previsti contenuti specifici in relazione alla qualità del soggetto richiedente: in particolare, per le società come la Federconsorzi, rivestono fondamentale importanza il bilancio e la situazione contabile.

    Le banche provvedono ad assumere tutte le informazioni utili per l’istruttoria delle pratiche di fido che debbono avere un approfondimento adeguato all’entità ed al grado di rischio del finanziamento da concedere.

    In presenza di una domanda di fido o di rinnovo, le banche si avvalgono di fonti di informazione esterne come i dati della Centrale rischi e di fonti di informazione interne che si concretizzano nelle analisi di bilancio per indici e per flussi e nella verifica del patrimonio e della credibilità dei valori dichiarati.

    Gli accertamenti possono comportare anche l’accesso dei funzionari incaricati di condurre l’istruttoria. Sono, infatti, importanti le caratteristiche organizzative e gestionali dell’impresa e le qualità manageriali degli amministratori.

    Le indagini interne proseguono con l’analisi dei supporti informativi dell’impresa; si tratta di supporti storici, quali i bilanci di esercizio, o prospettici, quali piani particolari e budget.

    Le analisi di carattere storico, nel senso sopra chiarito, vengono attuate di solito mediante la tecnica degli indici ed in certi casi mediante la tecnica dei flussi.

    La "tecnica degli indici" è chiamata in linguaggio internazionale ratio analysis perché si avvale di una serie di quozienti o rapporti (ratios) con valore segnaletico sulla situazione finanziaria, economica e patrimoniale.

    La "tecnica dei flussi" analizza l’azienda in senso dinamico, prendendo in esame i movimenti finanziari, manifestatisi nel corso della gestione, e l’equilibrio tra entrate ed uscite.

    Le analisi di carattere prospettico sono rivolte ad individuare l’evoluzione della gestione aziendale e la futura solvibilità, cioè la sua attitudine ad autogenerare i mezzi per far fronte all’indebitamento.

    Gli strumenti che, a questo scopo, le banche utilizzano principalmente sono: il budget e i suoi bilanci prospettici.

    In nota:

    I "bilanci prospettici o proforma" costituiscono anticipazioni dei bilanci degli esercizi successivi, costruite tenendo conto dei dati storici, delle tendenze in corso e delle probabili variazioni che interverranno in futuro nella struttura del capitale aziendale e nella formazione del reddito di esercizio.

    Esaurite positivamente tali indagini ed analisi, è compito del dirigente dell’ufficio addetto alla istruzione della pratica (Ufficio Ffidi, Ufficio Ssviluppo o Segreteria) provvedere a formulare la proposta di concessione di fido.

    La proposta è corredata da una valutazione dettagliata sui risultati delle informazioni assunte e deve contenere le osservazioni sulla struttura giuridica del richiedente, sulle proprietà immobiliari, sugli scopi della richiesta di fido, e sulla durata di esso, sugli eventuali garanti, in sintesi sull’affidabilità.

    L’ultima fase della procedura per la concessione di fido è la deliberazione di affidamento.

    La decisione sulla proposta di concessione di fido spetta ad appositi organi deliberanti, solitamente formati da più persone e diversi a seconda dell’importo dell’affidamento da accordare.

    Di norma, infatti, le singole dipendenze delle banche sono delegate ad istruire e deliberare direttamente le concessioni di fido entro determinati limiti di importo, mentre le pratiche di importo superiore devono essere sottoposte ad organi di livello più elevato. I limiti di importo, le facoltà e le denominazioni dei vari organi sono previsti nei singoli statuti e regolamenti di ciascuna banca.

    Le procedure descritte sono codificate da decenni e, parimenti da decenni, sono note le tecniche di analisi.

    Sulla base di quanto esposto, appare evidente che le banche disponevano di strumenti di indagine idonei a consentire loro una conoscenza realistica delle condizioni economiche e finanziarie della Federconsorzi.

    Con l'ausilio di tali strumenti, le osservate e descritte anomalie di bilancio, non

    In nota:Vedi retro Cap.quarto

    potevano costituire ostacoli insormontabili alla conoscenza delle reali condizioni economiche, e, soprattutto finanziarie, della Federconsorzi.

    Va, inoltre, rammentato che gli istituti di credito potevano giovarsi della conoscenza delle condizioni economiche e finanziarie dei principali clienti della Fedit: i consorzi agrari.

    Sulla base di tali premesse, la Commissione ha chiesto, con una propria articolata nota, a tutte le banche italiane creditrici le ragioni per le quali concessero crediti così rilevanti senza nessuna garanzia da parte della Federconsorzi ed ha proceduto a raccogliere le valutazioni contenute nelle istruttorie, prodromiche alla concessione e/o al rinnovo degli affidamenti, condotte dal personale di ciascun istituto.

    In nota :Sulla documentazione acquisita è stato condotto uno studio dettagliato trasfuso, per comodità di lettura, su supposto informatico(C.D.).

    È stato, in tal modo, possibile eseguire la verifica dell’adeguatezza e completezza delle istruttorie eseguite da tutte banche.

    In nota L’esame è stato limitato, in aderenza al mandato ricevuto dalla Commissione , al periodo dal 1982 in poi.

    Passando, quindi, al loro esame, è emerso che i bilanci della Federconsorzi venivano valutati ogni anno, ma ne venivano tratte conclusioni infondatamente positive a seguito di analisi palesemente insufficienti e superficiali.

    L’ammontare complessivo dell’indebitamento veniva sistematicamente sottovalutato; non si dava rilevanza al fatto che il credito aveva natura esclusivamente commerciale e non era destinato ad investimenti che potessero modificare positivamente il quadro economico.

    Un significato di particolare rilievo sembra aver assunto agli occhi degli analisti delle banche la notevolissima consistenza del patrimonio immobiliare della Federconsorzi.

    Si riteneva, non infondatamente, che esso fosse stato e fosse persino sottostimato nei bilanci e, quindi, veniva considerato una garanzia di solvibilità.

    Significativamente, però, non ci preoccupava di stimarne il reale valore e di compararlo con l’ammontare dei debiti esposti e/o occultati.

    Si è constatato l’affiorare, nelle relazioni degli organi tecnici di alcune banche, di timidi dubbi e di perplessità .

    Non si è mai, però, riscontrato un adeguato approfondimento critico dei dati di bilancio e mai si è rinvenuta una rielaborazione eseguita sulla base degli indici tecnici, finalizzata a far emergere le reali condizioni economiche e finanziarie della Federconsorzi.

    D'altra parte, a giustificazione del loro operato, le banche non avrebbero potuto invocare, sul piano tecnico, la circostanza che la Federconsorzi presentasse bilanci criptici e non veridici.

    Come si è esposto, esse disponevano degli strumenti tecnici che avrebbero consentito di cogliere il reale stato dell’impresa, va piuttosto osservato che non è parso che fosse per loro decisivo conoscerlo.

    Nessuna delle banche ha comunque affermato che la comune politica di non garantire i crediti fosse motivata da presunte buone condizioni economiche e finanziarie della Federconsorzi.

     

     

    IN NOTA

    In proposito il ragionier Luigi Scotti, già direttore generale e presidente della Federconsorzi, dichiarava il 20 marzo 1995 alla Commissione ministeriale di indagine sulla Fedit: "(…) Le banche ci davano i soldi senza una garanzia. Noi abbiamo ipotecato immobili solo per i mutui agevolati o a lungo termine per gli altri non abbiamo dato garanzie. Solo il Credito Italiano per i 250 miliardi ci chiese garanzie.

    Siccome le banche ricevevano i nostri bilanci e noi fornivamo le necessarie delucidazioni, se richieste, evidentemente si ritenevano soddisfatte".

    La tesi del ragionier Scotti è coerente con l’assunto, suo e di altri, secondo il quale la Federconsorzi non era in stato di insolvenza e quindi non doveva essere commissariata: le banche avrebbero finanziato l’impresa a ragion veduta confidando nelle sua affidabilità economica e finanziaria ed anzi, in tal modo, attestandone la solidità.

    La Commissione ha verificato che, in realtà, le condizioni della Federconsorzi erano da tempo di irreversibile decozione.

     

     

    La Commissione ha così, maturato il documentato convincimento che le analisi, funzionali alla concessione ed ai rinnovi del crediti, furono condotte in maniera del tutto insufficiente, quasi in forma di un mero rituale d’obbligo, come se non fosse neppure da dubitarsi che la Federconsorzi, indipendentemente dall’andamento dell’impresa, dovesse godere degli affidamenti che chiedeva , senza nessun’altra garanzia oltre a quella del suo stesso nome.

    La principale preoccupazione che traspare, infatti , con chiarezza, da tutti i documenti acquisiti non era costituita dall’affidabilità, ma dalla rilevanza del cliente e, quindi, dall’entità e dalla remuneratività dei flussi del lavoro che la Fedit poteva assicurare.

    Nessuna banca, nessun operatore intendeva rimanere fuori dal giro Federconsorzi. Non si badava, quindi, ad acquisire garanzie ma ad acquisire o a non perdere l’ottimo cliente.

    A riprova della natura rituale delle analisi condotte dagli istituti va osservato che, anche quando, eccezionalmente, le valutazioni tecniche assumevano un contenuto allarmante, nulla mutava.

    Ed invero, negli atti della Cariplo si legge: "(…) Nel contesto delle crescenti difficoltà dei Consorzi Agrari e della gestione ancora negativa della controllata Fedital, la Federconsorzi ha chiuso l’esercizio ’89 formalmente in pareggio ma sostanzialmente invece con un - forte disavanzo - che è stato ripianato con utilizzo fondi vari ed altri marchingegni che quantomeno suscitano perplessità (…)".

    La Cariplo non modificò la sua linea e, anzi, dimostrò massima disponibilità e fiducia nei confronti della Federconsorzi e della sua nuova gestione.

    Le banche agirono, dunque, improvvidamente, non tutelando adeguatamente i loro azionisti pubblici e privati. Non levarono allarmi o moniti, che avrebbero costretto amministratori e politici ad affrontare tempestivamente il problema dell’indebitamento consentendo soluzioni meno dannose e traumatiche di quella che maturò il 17 maggio 1991.

    1.3 La posizione delle banche creditrici italiane sull’assenza di garanzie a presidio degli affidamenti concessi alla Federconsorzi

    Nel presente paragrafo, si esporranno sinteticamente le risultanze delle indicazioni specificamente fornite dalle banche sulle ragioni per le quali non ritennero di presidiare i loro crediti nei confronti della Fedit con garanzie e si riporteranno alcuni elementi significativianalisi dei rapporti di tutte le banche creditrici con la Federconsorzi e si riporteranno gli elementi più significativi, ddedotti dalla documentazione acquisita relativa agli affidamenti. ed alle ragioni di questi ultimi.

     

    In nota: Lla Commissione ha chiesto a tutte le banche creditrici di trasmettere :::::e di valutazione di tutte le banche.

     

    italiane creditrici le ragioni per le quali concessero crediti così rilevanti senza nessuna garanzia da parte della Federconsorzi ed a raccogliere le valutazioni contenute nelle istruttorie, prodromiche alla concessione e/o al rinnovo degli affidamenti, condotte dal personale di ciascun istituto.

    È stato eseguito uno studio dettagliato di

    Sulla tutta la documentazione acquisita è stato, di poi, eseguito uno studio dettagliato .

    Un elenco …………………è stato trasfuso su supposto informatico.

     

     

    LE BANCHE CREDITRICI / ANALISI

     

    I rapporti con Federconsorzi furono avviati nel 1989 e furono oggetto di modesta movimentazione.

    A garanzia delle linee di credito concesse non furono acquisite garanzie accessorie.

    La Carige ha riferito che ciò avvenne "(…) per uniformità con il comportamento seguito in precedenza dalle altre banche finanziatrici" appellandosi, quindi, a null’altro che alla prassi.

    Le note dell’area crediti speciali poste a base dell’istruttoria non denotano traccia di analisi tecniche.

    L’istituto intrattenne rapporti con la Federconsorzi dal giugno del 1984. Dalla relazione della Banca sulla costituzione ed evoluzione del rapporto creditizio si rileva che "(…) il parere favorevole si fonda su valutazioni positive in merito a: controparte pubblica (…) - compagine sociale costituita da 74 consorzi agrari provinciali e interprovinciali - organizzazione capillare sul territorio nazionale e presenza di uffici commerciali all’estero e presso la Cee - presenza attiva nella ricerca applicata e nella partecipazione / costituzione di nuove imprese (partecipazioni iscritte in bilancio per 62 miliardi) - bilanci 81/83 che evidenziano discreta liquidità e ottima patrimonializzazione, con indebitamento elevato ma inferiore al settore ed ai singoli consorzi; la redditività operativa negativa viene motivata dalle finalità "cooperative" dell’azienda che precludono il conseguimento di margini su commercializzazione; il conto economico chiude in utile con il concorso di redditi finanziari consistenti – trend di fatturato positivo in particolare per sementi e mangimi (…) – previsioni di ottenere operatività soddisfacente – elevato indebitamento sul sistema (88% del fatturato di cui garantito per l’11%) ma con utilizzi contenuti al 53 % - concessione recente di nuovi affidamenti per 230 miliardi circa da BNL e da Caisse Nationale de Credit Agricole per 76 miliardi".

    A fronte del considerevole fido accordato non fu richiesta nessuna garanzia.

    A seguito di successivi riesami della posizione Federconsorzi, nel corso del rapporto, vennero evidenziati in qualche caso elementi di valutazione anche negativi.

    Non fu però adottato nessun provvedimento di restrizione degli affidamenti ma, al contrario, fu allargato il fido sempre in assenza di garanzie.

    In particolare si legge nella documentazione acquisita: "(…) Il riesame ad agosto ’88 esamina il bilancio ’87, da cui si rileva un peggioramento della situazione con una non più sufficiente copertura delle immobilizzazioni da parte del capitale permanente, un forte incremento dell’indebitamento e riduzione della liquidità; il fatturato è comunque in ripresa e l’utile finale consegue da proventi finanziari e plusvalenze; la redditività è sempre negativa ed i margini si deteriorano a causa della riduzione registrata dai prezzi dei prodotti agricoli (da notizie di stampa si registrano situazioni deludenti e preoccupazioni sull’indebitamento dei consorzi); (…) con delibera del Comitato del 26/3/90 viene erogato un finanziamento in valuta di 5 miliardi, scadenza 10/10/90, con parere favorevole espresso in considerazione della durata e della destinazione del finanziamento (importazione di bovini da parte di alcuni consorziati)".

    Nella nota esplicativa trasmessa dall'istituto di commento si legge: "(…) Dall’esame dell’evoluzione del rapporto creditizio appare chiaro come all’epoca la Banca nutrisse aspettative positive in merito alle capacità esdebitative della Fedit, tenuto conto da un lato della ripresa registrata nel Bilancio ’88 accompagnata da prospettive di sviluppo favorevoli e dall’altro dal tipo di controparte rappresentato da una figura istituzionale pubblica che non ha fatto ritenere necessaria l’acquisizione di garanzie a supporto del credito, nonché in considerazione della consistenza e regolarità dell’operatività appoggiata".

    Osserva in proposito la Commissione che il bilancio 1988 non poteva indicare un’inesistente ripresa.

    La banca intrattenne con la Federconsorzi, a far data dal 1947, innumerevoli rapporti. Le motivazioni per le quali la banca non chiese garanzie sono state così esposte dall'istituto: "(…) il rapporto fiduciario con tale contropartita ( la Federconsorzi – n.d.r.) si presentava quale relazione di elevato standing per tutto il ceto bancario, sia per la rilevante ampiezza del fatturato, sia per la consistente corrente dei flussi di lavoro utile, anche indotto, che potevano essere acquisiti, costituendo un preciso punto di riferimento nell’ambito dell’intero settore agricolo ed agroindustriale (…). Sin dall’origine delle operazioni si confidò sul fatto che i finanziamenti bancari fossero assistiti direttamente dalla garanzia dello Stato a favore delle banche (…) il perseguimento da parte della "Federconsorzi" di finalità di pubblico interesse nonché il quadro operativo generale comportante un’aspettativa di sorveglianza da parte dello Stato, hanno indubbiamente avuto riflessi sotto il profilo della valutazione del merito creditizio della relazione fiduciaria".

    La Banca ha riferito che: "(…) dall’esame dei libri fidi e della documentazione rinvenuta è emerso che gli affidamenti concessi alla Federconsorzi non sono stati mai assistiti da garanzia di terzi. Dalla stessa documentazione non è dato rilevare quali siano state le motivazioni che all’epoca indussero la Banca a concedere le facilitazioni in assenza di garanzie".

    I rapporti tra la Banca e la Federconsorzi risalgono al 1971.

    L'istituto ha riferito che "(…) non esistono garanzie a favore di questo Istituto, nell’interesse della Federazione italiana dei consorzi agrari, stanti l’ingente patrimonializzazione e la generalizzata indisponibilità di Fedit a rilasciarle al sistema". In merito all’istruttoria degli affidamenti, emblematica sembra una annotazione in calce ad un verbale del 27 gennaio 1988 di approvazione di un finanziamento in pool :"(…) valutati positivamente la convenienza ed il rischio dell’operazione – stante l’importanza del beneficiario – il Comitato unanime dispone l’intervento dell’Istituto con una quota di partecipazione di £. 2 miliardi".

    La banca ha così motivato la mancata acquisizione di garanzie assumendo che:: "(…) la Federconsorzi era equiparata ad ente pubblico e pertanto le tre Aziende Bancarie confluite nella Banca di Roma non avevano ritenuto necessaria l’acquisizione di garanzie".

    In merito alle ragioni della mancata acquisizione di garanzie si legge nella nota della Banca "(…) non si è ritenuto di richiedere garanzie a sostegno degli affidamenti concessi. Si trattava, infatti, di controparte già in relazione con la maggioranza del sistema bancario per la cui acquisizione si rendeva opportuno da parte delle banche non ancora in rapporto praticare condizioni vantaggiose e competitive al fine di ottenere la canalizzazione di operatività".

    In merito all’esistenza, natura ed entità delle garanzie acquisite la Banca Carime ha comunicato "(…) le linee di credito ordinarie non erano assistite da alcuna garanzia trattandosi di affidamenti in prevalenza strutturati su forme tecniche autoliquidabili, validamente supportate dai crediti vantati dalla Fedit".

    Nella nota della banca, in merito alle garanzie si legge: "(…) posso affermare che i tre Istituti ritenessero Federconsorzi controparte solida ed affidabile in proprio, tant’è che i rapporti sono frutto di una azione di sviluppo (…)" .

    La Federconsorzi deteneva il 13 per cento circa del capitale sociale della Bna.

    Nella relazione trasmessa in merito alle garanzie si legge: "(…) la natura delle linee di credito concesse alla Federconsorzi, di per sé, escludeva l’acquisizione di ulteriori garanzie che non fossero la solidità dell’Ente e la sua configurazione giuridica sostanzialmente pubblica".

    Molteplici e di rilevante importo furono i rapporti intercorsi tra l’istituto in esame e la Federconsorzi.

    Le motivazioni poste a base delle delibere di affidamento fanno tutte indistintamente riferimento al ruolo svolto dalla Fedit nel settore agricolo in campo nazionale ed alla sua natura di organo "statale".

    I rapporti ebbero inizio nell’anno 1988 ed ebbero contenuto minore.

    Non furono acquisite garanzie.ad ad oggetto operazioni in pool, comodo di cassa ordinario su conto corrente, castelletto generico di portafoglio ecc..

    Il rapporto ebbe inizio nell’anno 1989 con la Banca popolare abruzzese marchigiana, divenuta successivamente Banca popolare dell’Adriatico.

    Dalla documentazione richiesta si evince che nessuna garanzia fu acquisita in merito alle operazioni di affidamento.

    La Federconsorzi fu affidata per la prima volta nell’ottobre del 1986. Nessun. Anche i successivi affidamentoi non furono assistitoi da garanzie a supporto.

    Nessun affidamento fu assistito da garanzie.

    La banca ha subito sostanziali modificazioni per fusioni ed incorporazioni. La documentazione è stata prodotta dal 1989 in quanto proprio per effetto di tali fusioni non è stato possibile reperire quella per i periodi precedenti.

    L’istituto, nato dalla fusione della Banca popolare di Bergamo e del Credito Varesino, ebbe con la Federconsorzi rapporti di scarso rilievo.

    Alla data del commissariamento la posizione creditoria di tutti e tre gli istituti esaminati era globalmente pari a 5,5 miliardi, privi di garanzie accessorie.

     

    I rapporti con la Federconsorzi ebbero inizio nell’anno 1987, con la concessione delle seguenti linee di credito: scoperto di conto corrente e castelletto per sconto o accredito salvo buon fine di portafoglio commerciale.

    L’assenza di garanzie sussidiarie sugli affidamenti concessi è così motivata dalla banca: "il n.s. Istituto ha concesso linee di credito nel corso del 1989 senza garanzie, peraltro non presenti sul sistema per analoghe tipologie di credito, nella convinzione che l’attività di Fedit ricoprisse un ruolo d’interesse pubblico salvaguardato dallo Stato".

    L’Istituto ebbe rapporti con la Federconsorzi sin dal 1982.

    Non risultano essere mai state acquisite garanzie.

    La banca non ha fornito nessuna informazione per quanto attiene alle comunicazioni alla Centrale Rischi in quanto: "(…) le norme allora vigenti stabilivano che le informazioni dovessero essere conservate per almeno un anno a decorrere dall’ultima trasmissione/ricezione/segnalazione con /da la Centrale dei Rischi".

    Nella relazione dell'istituto si legge: "(…) gli assecondamenti relativi alla gestione statale olio di semi e semi oleosi importati e le operazioni connesse alle campagne ammassi obbligatori grano e cereali minori sono stati concessi a valere sulla garanzia statale del loro ripianamento (…). Altri assecondamenti concessi alla Fedit nel periodo considerato sono stati concessi in via fiduciaria, sulla base delle risultanze di bilancio (…)".

    ?Nessuna garanzia????.

    L’assenza di garanzie è stata così giustificata: "rapporto di vecchia data, ampiamente sperimentato e con andamento regolare e corretto; nell’importanza del Gruppo (V gruppo alimentare in Europa); per la natura degli affidamenti (autoliquidabili) per la circostanza che uno degli Organi Vigilanti era il Ministero dell’Agricoltura e Foreste (…)".

    La Federconsorzi godette, presso l’istituto in esame, di linee di credito cosiddetto "finanziamento ammassi" sia in forma di apertura di credito in conto corrente sia in forma di prestito cambiario nonché di linee di credito in forma di anticipazioni su effetti salvo buon fine; nessuna delle linee di credito era presidiata da garanzie reali o personali.

    Le motivazioni poste a sostegno degli affidamenti sono sintetizzate in una nota nelinterna ala relazione dell’istituto del 14 dicembre 1988, nella quale ove si legge: "il bilancio Federconsorzi è di non facile lettura e la situazione finanziaria influenzata da ritardi nell’incasso dei crediti verso lo Stato, tuttavia la ns. tranquillità di rischio si basa essenzialmente sul compito svolto dalla stessa, che riteniamo insostituibile e paragonabile a quello di in vero e proprio ente governativo (…)".

    L’istituto ebbe rapporti con la Federconsorzi sin dal 1982, con l’accensione di conti correnti di gestione relativi alle campagne ammassi obbligatori per le annualità 1962-1963 e 1963-1964.

    La documentazione trasmessa dalla banca in esame ha riguardato unicamente il Banco di Perugia, istituto incorporato dalla Banca Toscana spa in data 11 ottobre 1991.

    L’assenza di garanzie specifiche in ordine alla concessione dei fidi deriva "(…) dall’ingente patrimonio della cliente".

    I rapporti tra la banca in esame e la Federconsorzi furono molteplici.

    Nelle relazioni tecniche in calce alle singole delibere di affidamento, in merito alle motivazioni poste a base delle stesse per la formulazione di parere positivo, si rinviene la seguente considerazione, più volte ripetuta: "considerata l’importanza rivestita dalla cliente in campo nazionale, nonché i compiti istituzionalmente attribuiti alla Federconsorzi a sostegno dell’economia agricola e che, a tal fine, affianca l’opera dei Consorzi Agrari, soci – ope legis – della stessa (…)".

    In merito alle garanzie, l’istituto ha precisato che non venivano acquisite in modo particolare per i finanziamenti di campagna, in relazione alle positive risultanze degli annuali studi di revisione e tenuto conto della correttezza e regolarità pluridecennale dei rapporti intrattenuti.

    In merito alla mancanza di garanzie la banca ha scritto "(…) dalla regolarità di andamento del rapporto nel corso degli anni, nonché infine dalla generica rispondenza comunque costituita dal patrimonio della Federconsorzi".

    Il rapporto tra la banca in esame e la Federconsorzi può essere suddiviso nei seguenti raggruppamenti:

    1. linee di credito finalizzate al sostegno dell’attività commerciale ed all’integrazione del fabbisogno finanziario della Federconsorzi;
    2. linee di credito a carattere ciclico, finalizzate all’approntamento dei mezzi finanziari occorrenti per lo svolgimento della gestione delle campagne di ammasso volontario;
    3. posizione debitoria derivante dalla gestione oli e semi oleosi campagna 1950/1951.

    Le linee di credito di cui al punto a) fecero registrare un incremento da £. 9 miliardi del 1982 a ben £. 110 miliardi del 1989.

    Il maggiore incremento interessò lo smobilizzo del portafoglio crediti sia attraverso l’apertura di credito contro cessione in garanzia degli effetti (+ 44 miliardi) sia attraverso lo sconto ex legge 28 novembre 1965, n. 1329, cosiddetta legge Sabatini (+ 30 miliardi).

    Gli affidamenti concessi per smobilizzo crediti furono garantiti da firma dei trattatari; i restanti fidi di credito ordinario non furono assistiti da specifiche garanzie.

    I dati comunicati riguardano l’azienda bancaria Cariplo, la sezione di credito agrario, l’Istituto bancario italiano, la Cassa di risparmio di Calabria e Lucania (Carical).

    Anche nel caso in esame ed in ordine alle garanzie si legge: "gli affidamenti accordati alla Fedit erano senza specifica garanzia, con l’eccezione delle aperture di credito concesse a fronte di ammassi volontari i cui utilizzi erano assistiti da privilegio sulle sementi e sulle somme ricavate dalla vendita ai sensi della legge 1297 del 20/11/51".

    Quanto alle motivazioni sulla concessione di affidamento nella relazione conclusiva di una delle pratiche testualmente si legge "(…) nel contesto delle crescenti difficoltà dei Consorzi Agrari e della gestione ancora negativa della controllata Fedital, la Federconsorzi ha chiuso l’esercizio ’89 formalmente in pareggio ma sostanzialmente invece con un – forte disavanzo – che è stato ripianato con utilizzo fondi vari ed altri marchingegni che quantomeno suscitano perplessità (…)" .

    La nota della banca così recita: "la Cassa riteneva, così come la totalità delle banche italiane e straniere (è ben nota la "querelle" in proposito sollevata sia in sede ABI sia da queste ultime), che la Federazione dei Consorzi Agrari fosse un’entità pubblica per la quale avrebbe – all’occorrenza – risposto lo Stato Italiano".

    Dalla relazione agli atti si legge: "(…) Preme precisare che i motivi che hanno portato gli Organi deliberanti di questa Banca ad affidare la Federazione italiana dei consorzi agrari sono riconducibili, oltre alla natura pubblica o semipubblica del consorzio stesso, alla bontà dei dati contabili esibiti in quel periodo ed al consistente patrimonio immobiliare intestato (…) al momento della concessione delle linee di credito gli Organi deliberanti non avevano alcun dubbio in merito al positivo rientro degli affidamenti concessi (…) queste motivazioni trovavano conforto anche negli affidamenti accordati nel periodo da altri Istituti facenti parte del sistema creditizio".

    Il rapporto con la Federconsorzi ebbe inizio nell’anno 1982 e, fino al secondo semestre dell’anno 1990, il credito fu rappresentato esclusivamente da ammassi volontari e obbligatori e da campagne di commercializzazione.

    In merito alla mancanza di garanzie accessorie si legge nella relazione trasmessa dalla banca: "la posizione è stata ritenuta sicura sotto il profilo del rischio in considerazione dell’importanza della Federazione nel comparto agroalimentare in campo nazionale".

    La posizione Fedit non è mai stata assistita da alcun tipo di garanzia, né reale né personale.

    In merito alle garanzie nella relazione trasmessa dalla banca si legge "(…) Mentre per le linee di credito di tipo ordinario (apercredito in conto corrente e castelletto sconto) non erano previste forme di garanzie speciali, i finanziamenti agli ammassi erano supportati dagli specifici privilegi agrari disciplinati dalla legge. La mancata acquisizione di garanzie aggiuntive a fronte delle facilitazioni creditizie di tipo ordinario, era verosimilmente da collegare alla natura autoliquidante della forma tecnica prevalente (castelletto), avute per di più presenti le coobbligazioni cambiarie assunte dai vari Consorzi con l’emissione dei titoli scontati".

    Fino all’anno 1982 le linee di credito concesse alla Federconsorzi ebbero la forma di "conti correnti temporanei" per il regolamento delle operazioni di finanziamento degli ammassi obbligatori e volontari effettuate sotto il coordinamento (operazioni in pool) dell’Istituto regionale di credito agrario Emilia Romagna di Bologna.

    In ordine alle garanzie, nella relazione dell’istituto si legge: "i disavanzi delle gestioni afferenti alle campagne di ammasso obbligatorio, commercializzazione ed importazione di prodotti agricoli avevano natura di - debito di Stato – e come tale non richiedevano ulteriori garanzie".

    L’istituto in esame (ex Banca d’America e d’Italia) intrattennne con la Federconsorzi numerosi rapporti.

    La mancanza di garanzie accessorie è così spiegata: "il rapporto Fedit non era assistito da garanzie personali e/o reali, considerato il rischio attenuato insito in questa relazione, riconducibile alla tipologia in gran parte – autoliquidante – delle linee di credito ed al conseguente frazionamento del rischio a carico di soggetti terzi".

    Le note rilevate a margine delle delibere di affidamento fanno riferimento al ruolo della Federconsorzi nella economia nazionale, all’evidente supporto prestato da tutto il sistema bancario italiano ed alla notevole redditività del rapporto.

    Nella delibera del Comitato esecutivo dell’11 luglio 1988, in merito al parere favorevole espresso sull’affidamento, testualmente si legge: "quanto sopra nonostante il permanere di punti negativi, già evidenziati in passato, quali la situazione precaria di alcuni consorzi agrari (notizie di stampa riportate dalla nostra Sede cifrano a Lit.640 mil. l’esposizione Fedit), la gestione commerciale della Fedit, che risente, nonostante i programmi di ristrutturazione, della antica impostazione piuttosto politica che manageriale dell’attività produttiva, per finire la scarsa disponibilità di informazioni commisurate, come quantità e qualità, alle dimensioni del Gruppo e del nostro rischio. Sotto il profilo del controllo del rischio, e tenuto conto dei punti negativi sopra elencati, la nostra Sede ritiene di potersi basare, in mancanza di meglio, sulla reattività della cliente a richieste di rientro (…)".

    Nella relazione trasmessa, la banca ha evidenziato che il rapporto di credito si sviluppò in una logica di accordato/utilizzato che non dava adito ad allarmismi.

    Soltanto nell’anno 1988/89 vi fu un utilizzo pieno delle linee di credito.

    Quanto alle garanzie: "(…) la linea di credito non era assistita da alcuna garanzia trattandosi di affidamento a breve termine, valido fino a revoca".

    Nella relazione trasmessa dalla banca si legge: "(…) la nostra banca ha sempre considerato il rischio di credito verso Fedit, come un rischio verso il settore pubblico italiano per le seguenti ragioni:

    Il giudizio globale, posto alla base delle concessioni degli affidamenti da parte della banca si rinviene nella deliberazione del Comitato esecutivo del 9 marzo 1989 nella quale si legge: "(…) appare evidente che la Federconsorzi è una realtà economica molto importante in Italia in grado di indirizzare e condizionare l’intero settore agrario (…) l’ampia fiducia espressa dal sistema bancario che affida complessivamente l’esaminata per circa £.4.000/mld (…) la possibilità di entrare in rapporti d’affari con un primario gruppo (…)".

    La banca non ha trasmesso le informazioni richieste dalla Commissione, necessarie per poter formulare adeguate valutazioni di merito.

    La banca non ha trasmesso le informazioni richieste dalla Commissione, necessarie per poter formulare adeguate valutazioni di merito.

    Il rapporto fiduciario con la Federconsorzi risulta iniziato nel gennaio 1974, ha avuto andamento sostanzialmente regolare e caratterizzato da periodiche oscillazioni nell’utilizzo delle linee di credito.

    Non risultano acquisite garanzie a fronte degli affidamenti concessi.

    Le note introduttive alle delibere di affidamento, pur facendo riferimento ad una situazione non rosea sotto il profilo dei risultati:

    "(…) anche per il 1989 il rapporto costi/ricavi è risultato deludente (…) purtroppo anche nel 1989 non si sono verificate evoluzioni significative (…) il reale problema della società scaturisce però dall’esame della situazione patrimoniale il cui dato più significativo è rappresentato dalla elevatissima esposizione verso il sistema creditizio a breve, pari ad oltre 2.000 mld (…)"

    si concludono con un parere favorevole alla concessione delle linee di credito, in relazione al ruolo svolto dalla Federconsorzi nel campo agricolo nazionale.

    La Federconsorzi intrattenne rapporti con l’istituto a far data dal 1986.

    Nella relazione agli atti in merito alla costituzione ed evoluzione del rapporto creditizio, la banca ha affrontato la questione dell’effettiva natura giuridica della Federconsorzi s, scrivendo chei legge:: "(…) benché la sua forma costitutiva fosse all’evidenza privatistica – in quanto costituita quale società cooperativa a responsabilità limitata – non poteva essere ignorata la circostanza che alla medesima fosse sicuramente attribuibile una rilevanza strategica di natura pubblica (…) i Consorzi e la Federazione debbono dare comunicazione al Ministero delle proposte di modifiche statutarie, dei bilanci, delle deliberazioni dei Consigli, dei Comitati e delle assemblee (…)" con il risultato che il loro operato era di fatto sottoposto al "controllo statale".

    Nessuna garanzia fu richiesta a sostegno dei fidi concessi.

    1.4 Il ruolo "pubblico" della Federconsorzi

    Nessuna delle banche interpellate ha rivendicato l’adeguatezza delle proprie determinazioni sul merito creditizio intrinseco della Federconsorzi.

    Esso non ebbe, quindi, come già rilevato, un ruolo decisivo nell’erogazione dei crediti.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    1.2 Le ragioni della concessione dei crediti

    Nel paragrafo precedente si è esposta, in estrema sintesi, quella che la Commissione ritiene essere stata la ragione dell’indebitamento della Federconsorzi.

    Le enunciazioni trovano amplio sviluppo in altri capitoli della presente relazione ed ad essi si rinvia per un approfondimento.

    In questa sede s’intende dar risposta ad alcuni quesiti riguardanti l’azione delle banche, rammentando che alla data del commissariamento gran parte delle banche italiane erano di proprietà pubblica e che, proprio tra le banche a partecipazione diretta del Tesoro e di proprietà dell’IRI, si rivengono alcuni tra i maggiori creditori della Fedit e di Agrifactoring.

    Due fatti sono incontrovertibili.

    Non esisteva nessuna garanzia per crediti così ingenti: circa 4.000 miliardi nei confronti della sola Federconsorzi.

    I crediti erano lievitati nel corso degli anni senza che una sola banca prendesse una qualche iniziativa a tutela del proprio credito.

    Come era potuto accadere?

    Avevano le banche avvertito che la situazione economica e finanziaria della Fedit si era progressivamente degradata e che, quindi, i loro crediti erano a esposti ad un rischio sempre maggiore d’insolvenza?

    Perché non avevano chiesto garanzie e perché, invece di contenere l’esposizione l’avevano complessivamente e progressivamente aumentata?

     

    Una risposta di parte a questi interrogativi era è stata data dal ragionier Luigi Scotti, già direttore generale e presidente della Federconsorzi, che dichiarava il 20 marzo 1995 alla Commissione ministeriale di indagine sulla Fedit: "(…) Le banche ci davano i soldi senza una garanzia. Noi abbiamo ipotecato immobili solo per i mutui agevolati o a lungo termine per gli altri non abbiamo dato garanzie. Solo il Credito Italiano per i 250 miliardi ci chiese garanzie.

    Siccome le banche ricevevano i nostri bilanci e noi fornivamo le necessarie delucidazioni, se richieste, evidentemente si ritenevano soddisfatte".

    La tesi del ragionier Scotti è coerente con l’assunto suo e di altri, secondo il quale la Federconsorzi non era in stato di insolvenza e che quindi non doveva essere commissariata:, le banche avevano finanziato l’impresa a ragion veduta confidando nelle sua affidabilità economica e finanziaria ed anzi, in tal modo, attestandone la solidità’affidabilità.

    La Commissione ha verificato (cfr. cap. ) che, in realtà, le condizioni della Federconsorzi erano da tempo di irreversibile decozione e che la politica creditizia delle banche non confidava nella solidità dell’impresa.

    La Commissione ha proceduto, infatti, a chiedere a tutte le banche italiane creditrici le ragioni per le quali avessero concessero crediti così rilevanti senza nessuna garanzia allada parte della Federconsorzi ed a raccogliere le valutazioni contenute nelle’ istruttoriae, prodromicahe alla concessione e/o al rinnovo degli affidamenti, condottea dal personale di ciascun istituto.

    Nessuna delle risposte raccoltetrasmesse ha fatto riferimento a presunte positive condizioni della Federconsorzi.

    Alcune banche si sono appellate alla prassi, come la Cassa di rRisparmio di Genova e Imperia, che ha riferito che non erano state acquisite garanzie "(…) per uniformità di comportamento seguito in precedenza dalle altre banche finanziatrici".

    La Banca Fideuram ha posto in evidenza l’aspetto della concorrenza interbancaria: "(…) non si è ritenuto di richiedere garanzie a sostegno degli affidamenti concessi. Si trattava, infatti, di controparte già in relazione con la maggioranza del sistema bancario per la cui acquisizione si rendeva opportuno da parte delle Banche non ancora in rapporto praticare condizioni vantaggiose e competitive al fine di ottenere la canalizzazione di operatività".

    Le banche , come si è esposto, hanno coralmente affermato Tutte le altre hanno riferito che finanziarono, e finanziarono senza garanzie formali, la Federconsorzi, ritenendo che essa espletasse una funzione pubblicistica e confidando, quindi, nel sostegno dello Stato, garanzia implicita che non richiedeva altre, più concrete garanzie.

    In merito è illuminante un’antologiauna sintesi delle risposte pervenute.

     

    La Cassa di rRisparmio di Torino ha tentato di collegarsi anche ad un dato economico scrivendo che: "Dall’esame dell’evoluzione del rapporto creditizio appare chiaro come all’epoca la Banca nutrisse aspettative positive in merito alle capacità esdebitative della FEDIT, tenuto conto da un lato della ripresa registrata nel Bilancio ’88 accompagnata da prospettive di sviluppo favorevoli e dall’altro dal tipo di controparte rappresentato da una figura istituzionale pubblica che non ha fatto ritenere necessaria l’acquisizione di garanzie a supporto del credito, nonché in considerazione della consistenza e regolarità dell’operatività appoggiata". I"n tal modo ma si è riferita ad una ripresa inesistente e si è spinta oltre ogni limite giuridico giungendo ad identificare nella Fedit addirittura "una figura istituzionale pubblica".

     

    La Banca Commerciale ha evidenziato sia il profilo della redditività sia quello della i ritenuta qualificazione fattuale pubblicistica : "(…) Il rapporto fiduciario con tale contropartita (la Federconsorzi – n.d.r.) si presentava quale relazione di elevato standing per tutto il ceto bancario, sia per la rilevante ampiezza del fatturato, sia per la consistente corrente dei flussi di lavoro utile, anche indotto, che potevano essere acquisiti, costituendo un preciso punto di riferimento nell’ambito dell’intero settore agricolo ed agroindustriale (…)."

    "(…) Il perseguimento da parte della Federconsorzi" di finalità di pubblico interesse nonché il quadro operativo generale comportante un’aspettativa di sorveglianza da parte dello Stato, hanno indubbiamente avuto riflessi sotto il profilo della valutazione del merito creditizio della relazione fiduciaria"".

    La Banca di Roma è stata categorica : "(…) La Federconsorzi era equiparata ad ente pubblico e pertanto le tre Aziende Bancarie confluite nella Banca di Roma non avevano ritenuto necessaria l’acquisizione di garanzie"".

    La Banca pPopolare di Lodi ha espresso un concetto analogo: "(…) Il nostro Istituto ha concesso linee di credito nel corso del 1989 senza garanzie, peraltro non presenti sul sistema per analoghe tipologie di credito, nella convinzione che l’attività di Fedit ricoprisse un ruolo d’interesse pubblico salvaguardato dallo Stato."

    Sulla stessa linea si è posta la Banca nazionale dell’l’aAgricoltura che siè stata però l’unica ad appellarsi anche all’affidabilità della Federconsorzi: "(…) La natura delle linee di credito concesse alla Federconsorzi, di per sé, escludeva l’acquisizione di ulteriori garanzie che non fossero la solidità dell’Ente e la sua configurazione giuridica sostanzialmente pubblica".

    Se si considera che la Federconsorzi deteneva il 13 per cento circa del capitale sociale delladi tale b Banca appare evidente la preoccupazione di proclamare l’esistenza di un effettivo merito creditizio nei confronti dell’azionista-finanziata.

     

    Il tema della effettiva natura giuridica della Federconsorzi è stato affrontato solo dall’Unicredito: "(…) Benché la sua forma costitutiva fosse all’evidenza privatistica – in quanto costituita quale società cooperativa a responsabilità limitata – non poteva essere ignorata la circostanza che alla medesima fosse sicuramente attribuibile una rilevanza strategica di natura pubblica (…)".

     

     

    Nessuna delle banche interpellate ha rivendicato l’adeguatezza delle proprie determinazioni sul merito creditizio intrinseco della Federconsorzi che non ebbe, quindi, un ruolo decisivo nell’erogazione dei crediti.

     

    Il ceto bancario si è richiamato ad una garanzia governativa che non aveva nessun fondamento dal punto di vista giuridico.

    E’ stato, in tal modo, ribadito un punto di vistadelle che, , che all’epoca del commissariamento, fu sostenuto pubblicamente,, con grande virulenza, dalle sole banche estere.

    La natura giuridica della Federconsorzi era, infatti, così chiaramente privatistica, da non consentire di poter contare, ma solo di poster sperare, nell’intervento dello Stato e, quindi, non abilitava nessuna pretesa giuridica.

    In proposito, sembra opportuno riprodurre il testo di cordare una sorta di memorandum scritto all’indomani del commissariamento della Fedit da un dirigente bancario italiano, nel quale sembra di poter cogliere l’espressione, senza riserve, del punto di vista degli operatori..

    Scriveva, il 23 maggio 1991, Gian Marco Petrelli, alla guida della filiale milanese della Barclays bBank di Milano, al dottor Felice Gianani, direttore generale della Associazione bancaria italiana (ABI): "La Federconsorzi pur non essendo strettamente un ente pubblico, si è di fatto, comportata come tale.

    L'attività di sostegno degli agricoltori e dei prezzi agricoli è stata condotta come se la Federconsorzi avesse in effetti il ruolo di ente di pubblica utilità.

    Gli stretti legami politici intrattenuti durante tutta la propria vita aziendale, hanno portato all'elezione in Parlamento di uomini dell'organizzazione e, in varie occasioni, alla designazione dei Ministri dell'Agricoltura. La commistione di Federconsorzi con "il palazzo" e con lo Stato e' innegabile.

    (…) La comunità bancaria internazionale ha sempre considerato la Federconsorzi come un ente pubblico italiano; né la Federconsorzi né il Governo hanno fatto alcunché, per correggere detta impressione. In pratica la Federconsorzi e l’AIMA, sono state considerate i principali enti pubblici italiani preposti al sostegno dell'agricoltura.

    Lo stesso processo seguito per il commissariamento si è svolto con modalità' (convocazione dei creditori fatta dal Ministro dell'Agricoltura presso il Ministero, progetto di piano finanziario prospettato direttamente dal Ministro, ecc.) più appropriate a quanto avviene negli enti pubblici che nelle imprese private.

    La precipitosa decisione del Ministro dell'Agricoltura di commissariare la Federconsorzi, per i tempi e le circostanze in cui è stata attuata, sembra inquadrarsi nella manovra governativa per ridurre o limitare il disavanzo pubblico, con ciò implicitamente confermando la natura di ente pubblico di Federconsorzi.

    (…) Il comunicato stampa afferma che le proposte per definire le posizioni debitorie e rilanciare l'attività di Federconsorzi sono del Governo, con ciò confermando glig1i intendimenti di politica economica generale che si vogliono perseguire e la natura di Federconsorzi quale strumento governativo per l'attuazione di tale politica.

    (...) La Federconsorzi può anche essere stata mal gestita, tuttavia nei fatti ha sostenuto il mondo agricolo italiano con il beneplacito del Governo per vari decenni. Che in queste attività aventi finalità pubbliche il profitto e l'equilibrio dei conti non fossero la priorità essenziale di Federconsorzi era da molti anni noto ed accettato dal Governo, che ha sempre avuto a disposizione i bilanci della Federconsorzi.

    (…) L’acquiescenza del Governo ai risultati economico finanziari della Federconsorzi conferma la pratica natura di ente pubblico della Federconsorzi, individua una specifica responsabilità del Governo per non essere intervenuto molti anni prima, con ciò traendo in inganno e danneggiando i creditori.

    (…) Il caso Federconsorzi è strettamente collegato alla lotta politica fra partiti di Governo e non.

    (…) Nel caso di insolvenza di Federconsorzi, i creditori danneggiati dovrebbero ripetere le somme da tutti coloro che hanno tratto beneficio dalla Federconsorzi stessa con ciò contribuendo all'insolvenza della medesima. Ciò significa perseguire gli agricoltori italiani, chi ha venduto, a prezzi superiori di quelli europei, il latte e la frutta a Polenghi e Massalombarda; chi ha ricevuto credito a condizioni favorevoli dai consorzi agrari per l'acquisto di concimi, sementi e mezzi meccanici; chi ha ottenuto prezzi di favore su acquisti, sull’ammasso di prodotti agricoli, sulle coperture assicurative, ecc. (…)".

    Osserva la Commissione che in effetti la Federconsorzi aveva svolto a lungo i compiti tipici di una agenzia governativa ed aveva avuto grande rilievo anche nell'assetto strutturale dell'agricoltura italiana.

    Ciò è vero però fino a quando è durata la stagione degli ammassi e fino a quando il centro decisionale dalla politica agricola non si è spostatoa da Roma a Bruxelles.

    Ma da moltissimi anni prima del Ccommissariamento la Federconsorzi aveva cessato di essere il braccio esecutivo della politica degli ammassi.

    Essa non svolgeva più nessuna funzione pubblicistica.

    Ciò era ben noto alle banche che praticavano alla Federconsorzi un credito di natura esclusivamente commerciale.

    Dalle istruttorie raccolte dalla Commissione emerge, da un lato, che non veniva fatto nessun riferimento alla garanzia statale; dall’altro, che veniva analizzato l’andamento economico e finanziario dell’impresa.

    I bilanci venivano valutati ogni anno e ne venivano tratte conclusioni infondatamente positive a seguito di analisi palesemente insufficienti e superficiali.

    L’ammontare complessivo dell’indebitamento veniva sottovalutatoo; non ci si chiedeva come potesse essere arginato; non si dava rilevanza al fatto che il credito aveva natura esclusivamente commerciale e non era destinato ad investimenti che potessero modificare positivamente il quadro economico.

    Un ruolo decisivo giocava agli occhi degli analisti la notevolissima consistenza patrimoniale della Federconsorzi che si riteneva persino sottostimata nei bilanci e che, quindi, si riteneva una garanzia di solvibilità.

    Ma, la principale preoccupazione che traspare con chiarezza da tutti i documenti acquisiti non era per nulla costituita dall’affidabilità ma dalla rilevanza del cliente e, quindi, dall’entità del lavoro che la Fedit assicurava poteva assicurare.

    A favore della banche va tuttavia rilevato che la Federconsorzi non utilizzava totalmente gli affidamenti di cui godeva: perché? Volpe

    Nessuna bBanca, nessun operatore intendeva rimanere fuori dal giro Federconsorzi.

    Non si badava, quindi, ad acquisire garanzie ma ad acquisire o a non perdere l’ottimo cliente.

    Si era da anni innestata una spirale perversa ed incontrollata tra credito, lavoro e rischi.

    Le bBanche non possono inoltre invocare, a giustificazione del loro operato, la circostanza che la Federconsorzi presentava bilanci criptici e non veridici.

    Serie e doverosamente approfondite analisi avrebbero consentito di cogliere con facilità il reale stato dell’impresa perché i documenti contabili ne consentivano comunque l’intelligibilità.

    Va considerato che, anche quando le valutazioni tecniche avevano un contenuto allarmante, nulla mutava.

    Ed invero, negli atti della Cariplo si legge: "(…) Nel contesto delle crescenti difficoltà dei Consorzi Agrari e della gestione ancora negativa della controllata Fedital, la Federconsorzi ha chiuso l’esercizio ’89 formalmente in pareggio ma sostanzialmente invece con un - forte disavanzo - che è stato ripianato con utilizzo fondi vari ed altri marchingegni che quantomeno suscitano perplessità (…)".

    Ed allegato ad una delibera del Comitato esecutivo dell’11 luglio 1988 della Deutsche Bank (ex Banca d’America e d’Italia) che rinnovava gli affidamenti, si legge il seguente parere: "quanto sopra nonostante il permanere di punti negativi, già evidenziati in passato, quali la situazione precaria di alcuni consorzi agrari (notizie di stampa riportate dalla nostra Sede cifrano a Lit. 640 mil. l’esposizione FEDIT), la gestione commerciale della FEDIT, che risente, nonostante i programmi di ristrutturazione, della antica impostazione piuttosto politica che manageriale dell’attività produttiva, per finire la scarsa disponibilità di informazioni commisurate, come quantità e qualità, alle dimensioni del Gruppo e del nostro rischio. Sotto il profilo del controllo del rischio, e tenuto conto dei punti negativi sopra elencati, la nostra Sede ritiene di potersi basare , in mancanza di meglio , sulla reattività della cliente a richieste di rientro (…)".

    Agirono, dunque, lLe Bbanche agirono dunque improvvidamente per fini di lucro, non tutelando adeguatamente i loro azionisti pubblici e privati.

    Le loro giustificazioni non sono né fondate né accettabili.

    Esse contribuirono indirettamente alla rovina della Federconsorzi non levando mai tempestivamente allarmi o moniti, che avrebbero costretto amministratori e politici ad affrontare tempestivamente il problema dell’indebitamento consentendo soluzioni meno traumatiche e dannose per l’economia nazionale.

    Non va, tuttavia, sottaciuto che in passato v’erano stati gli interventi dello Stato in precedenti casi di crisi di imprese di rilievo nazionale.

    Inoltre l e la compenetrazione con la presenza nella Federconsorzi delle associazioni professionali della Coldiretti e della Confagricoltura e la contiguità della Coldiretti al , quindi, di una partecomponente del maggior partito italiano dell’epoca, la Democrazia cristiana, potevano abilitarevano il ceto bancario a ritenere l’esistenzaesistente di un’implicita copertura garanzia non pubblica, ma politica.

    Se ne dedurrebbe Si evidenzia così uun ulteriore profilo di quella nefasta i sudditanza del ceto bancario dell’epoca non alle leggi dell’economia ma aa quelle della lla politica. , causa di dannoi gravissimii per il Paese.

     

     

     

     

     

    1.3

    1.2 Le ragioni della concessione dei crediti

    Una risposta di parte a questi interrogativi è stata data dal ragionier Luigi Scotti, già direttore generale e presidente della Federconsorzi, che dichiarava il 20 marzo 1995 alla Commissione ministeriale di indagine sulla Fedit: "(…) Le banche ci davano i soldi senza una garanzia. Noi abbiamo ipotecato immobili solo per i mutui agevolati o a lungo termine per gli altri non abbiamo dato garanzie. Solo il Credito Italiano per i 250 miliardi ci chiese garanzie.

    Siccome le banche ricevevano i nostri bilanci e noi fornivamo le necessarie delucidazioni, se richieste, evidentemente si ritenevano soddisfatte".

    La tesi del ragionier Scotti è coerente con l’assunto suo e di altri secondo il quale la Federconsorzi non era in stato di insolvenza e quindi non doveva essere commissariata: le banche avevano finanziato l’impresa a ragion veduta confidando nelle sua affidabilità economica e finanziaria ed anzi, in tal modo, attestandone la solidità.

    La Commissione ha verificato che, in realtà, le condizioni della Federconsorzi erano da tempo di irreversibile decozione e che la politica creditizia delle banche non confidava nella solidità dell’impresa.

    Nessuna delle risposte trasmesse ha fatto riferimento a presunte positive condizioni della Federconsorzi.

     

     

     

     

     

     

    Banca d’Italia

    Banche estere

    Una delle principali questioni che la Commissione ha affrontato è costituita dal rapporto tra la Federconsorzi ed i consorzi agrari, da un lato, e gli istituti bancari italiani e stranieri, dall’altro.

    Alla data del commissariamento, 17 maggio 1991, l’ammontare complessivo del debito della Federconsorzi nei confronti del sistema bancario italiano ed estero era pari a lire 3.875 miliardi di cui 382 per debiti e 3.493 per interessi.

    La banche creditrici italiane erano in numero di ….adde

    quelle estere di ….adde

    Al momento del concordato i rischi delle banche estere erano, ai cambi 1991, pari a 429,5 miliardi nei confronti di Federconsorzi.

    Nella pagina accanto si può leggere l’elenco delle banche italiane ed estere corredato dell’esposizione di ciascuna.

    L’esposizione del sistema non era tuttavia limitata alla Fedit ma riguardava anche i consorzi agrari e la società Agrifactoring, partecipata dalla Fedit.

    Se al debito della Fedit si aggiunge quello della Agrifactoringpari a lire 247,9 miliardi, l’esposizione delle banche estere, senza tener conto del debito dei consorzi agrari era pari a 667,6 miliardi.

    I crediti delle banche italiane nei confronti della Fedit derivavano da adde e dallo sconto di titoli.

    Quelli delle banche estere in prevalenza da prestiti sindacati a lungo termine.

    Il debito aveva raggiunto le proporzioni esposte per effetto del peso degli interessi.

    L’evoluzione è sintetizzata nella tabella seguente

    In sintesi il sistema Fedit – consorzi –Agrifactoring funzionava come segue.

    La Fedit non aveva disponibilità proprie perché il capitale era limitato per legge a 4,65 milioni; poiché non si limitava a funzioni di intermediazione ma acquistava e vendeva tutti i prodotti, ricorreva sistematicamente per tutte le operazioni al credito bancario; riceveva in pagamento dai consorzi titoli che venivano sempre meno onorati e che venivano passati allo sconto presso le banche o fattorizzati presso l’Agrifactoring, di cui la Fedit era il cliente quasi esclusivo.

    All’origine dell’indebitamento c’era, quindi, fondamentalmente l’impostazione commerciale della Fedit che, insieme con i ricavi delle gestioni speciali, costituiva una fonte che l’aveva resa floridissima fino agli anni Ottanta ma che, con le difficoltà prima e l’impossibilità da ultimo dei consorzi di far fronte ai loro impegni, si era del tutto inaridita e per di più la costringeva a farsi oggettivamente garante delle inadempienze, attraverso concessioni di credito diretto od indiretto ai consorzi in difficoltà e, per sostenerle, conseguente aumento dell’indebitamento, nei confronti del sistema bancario e dell’Agrifactoring.

    Quest’ultima, per far fronte alle richieste della Federconsorzi, che si traducevano di fatto in anticipazioni ed in pagamenti di debiti Fedit, era costretta ad indebitarsi fortemente sul mercato italiano ed estero.

    L’indebitamento dell’Agrifactoring, all’atto del commissariamento della Fedit era pari a 429 miliardi verso Banca Nazionale del lavoro, Efibanca e Banco di Santo Spirito, e pari a 247,9 miliardi verso banche estere.

    L’esposizione complessiva di tutte le banche italiane ed estere, senza tener conto di quella dei consorzi, era quindi di ….ADDE

    Si sono subito evidenziati due elementi: per crediti così ingenti nessuna garanzia era stata richiesta e concessa; i crediti erano lievitati nel corso di almeno cinque anni senza alcuna iniziativa da parte di nessuna banca a tutela del proprio credito.

    Se a ciò si aggiunge che, fino all’anno 1991, gran parte delle banche italiane erano di proprietà pubblica e che, proprio tra le banche a partecipazione diretta dello Stato e dell’Iri, si rinvengono i maggiori creditori della Fedit e di Agrifactoring, lo sconcerto si acuisce.

    Si è quindi proceduto ad accertarne le ragioni.

    Dagli accertamenti compiuti, mediante audizioni acquisizioni documentali ed accertamenti tecnici, è emerso uno scenario complesso.

    Giova rammentare che al sistema federconsortile erano affidati, di fatto, compiti tipici di una agenzia governativa che ebbe grande rilievo anche nell'assetto strutturale dell'agricoltura italiana almeno fino a quando il centro decisionale dalla politica agricola non si spostò da Roma a Bruxelles.

    In sintesi le banche italiane concessero credito alla Fedit perché…

    Adde VOLPE

    Dall'audizione di Luigi Scotti del 20 marzo 1995 alla Commissione ministeriale di indagine:

    (…) Le banche ci davano i soldi senza una garanzia. Noi abbiamo ipotecato immobili solo per i mutui agevolati o a lungo termine per gli altri non abbiamo data garanzie. Solo il Credito Italiano per i 250 miliardi ci chiese garanzie. Siccome le banche ricevevano i nostri bilanci e noi fornivamo le necessarie delucidazioni se richieste evidentemente si ritenevano soddisfatte.

    (…) Le nostre intenzioni erano quelle, dopo l’Assemblea (del 1990 n.d.r.) di prendere contatto con le banche per ristrutturare i nostri debiti. Ci sono testimoni di questo, perché fu una decisione adottata nello studio del professor Pescatore."

    2. La reazione delle banche italiane ed estere al commissariamento

    Il commissariamento della Federconsorzi colse impreparato di sorpresa ed impreparato l'intero ceto bancario nazionale ed estero.

    La maggioranza deGli gli istituti di credito italiani non aveva maturato piena consapevolezza della reale e drammatica situazione economico-finanziaria della Federconsorzi ed, in ogni caso, per le ragioni esposte nel paragrafo precedente, o non sie ne preoccupavano delle sorti della Federconsorzi o per le ragioni esposte nel paragrafo precedente.non avevano maturato piena consapevolezza della reale e drammatica situazione economico-finanziaria.

    Inoltre, uUn provvedimento come quello adottato dal ministro Goria era, inoltre, come si è già detto, del tutto imprevisto a quel tempo, evedibile sulla base dell’esperienza di casi analoghi.

    Si può ritenere che, anche chi sapeva, confidava in una soluzione politica a carico delle pubbliche finanze secondo una abusata costumanzausanza. Tutte le banche avevano dato credito senza garanzie: ai consorzi agrari perché garantiti dalla Federconsorzi; alla Federconsorzi perché la consideravano - non ha rilevanza se a torto o a ragione - un ente parastatale garantito dallo Stato ed in particolare dal Ministero dell'agricoltura.

    Pochi istituti di credito sapevano o potevano sapere quale fosse la reale situazione economico finanziaria della Federconsorzi.

    Non pare credibile che l'ignorassero la gravità del problema il Banco di Santo Spirito (di poiin seguito Banca di Roma) atteso che ne era presidente il professor Pellegrino Capaldo, chiamato dall'onorevole Lobianco, quale consulente della Federconsorzi, ben informato quindi sulle condizioni di questa.

    Non sembra parimenti credibile che l'ignorasse non se ne rendesse conto la Banca nNazionale del lavoro, che gestiva la più parte delle operazioni delle Federconsorzi, che era socia maggioritaria dell’Agrifactoring e che era esposta, come banca e come gruppo, per cifre considerevoli aumentate nel corso del tempo che, quindi, veniva a trovarsi in una condizione di massima esposizione come banca e come gruppo.

    Di certo Nnon l'ignorava di certo il Credito Italiano -  presieduto dal professor Barucci  - che il 17 maggio 1991, giorno del commissariamento, era si dichiarava disponibile a concedere una ulteriore linea di credito di 250 miliardi proprio per consentire che doveva consentire una operazione di consolidamento dei debiti. ma che, per la prima volta nella storia della Federconsorzi, aveva chiesto concrete garanzie costituite dai crediti della Fedit nei confronti del MAF.

    In ogni caso, tenuto conto che l'affidamento nei confronti della Fedit era un affidamento da parte dell'intero sistema, non era pensabile che una singola banca creditrice potesse, con singola ed autonoma decisione, sospendere o revocare le linee di credito.

    Dichiarato il commissariamento, le banche italiane ed estere venivano a trovarsi in una situazione molto difficile.

    Scoprivano tutte o fingevano di scoprire "ufficialmente", perché lo dichiarava il Governo italiano, e la più parte, inopinatamente, che un loro grande debitore era in un persistente "stato di squilibrio economico e finanziario", e venivano poste di fronte alla prospettiva di perdere in tutto in parte capitali ed interessi.

    Come se non bastasse veniva loro prospettata la fine del sistema federconsortile, sul quale avevano tanto lucrato guadagnato e sul quale continuavano a lucrareguadagnare, e veniva loro chiesto di rischiare ulteriori capitali in una progettata, e fino al giorno prima insospettata, ipotesi di "Fedit 2".

    Le banche italiane rimasero attonite di fronte al commissariamento ed alla richiesta di sacrifici che il Governo loro chiedeva, come dimostrano i verbali delle riunioni tenutesi preso l’aAssociazione bancaria italiana. I dirigenti delle banche erano tra l’incredulo e lo stupefatto, come si ricava dalle annotazioni contenute nelle agendei diari di uno dei primi commissari governativi della Fedit, ildel dottor Cigliana.

    Le banche estere reagirono con inaudita violenza, giungendo a minacciare l'ostracismo del mercato internazionale alle istituzioni pubbliche e para-pubbliche italiane.

    Esse erano convinte che lo Stato italiano dovesse far fronte ai debiti della Federconsorzi come se si trattasse di debiti propri, rivendicando una sorta di affidamento internazionale privilegiato che doveva -  secondo le loro aspettative   - loro consentire loro di essere pagate integralmente.

    La fibrillazione delle banche italiane e di quelle estere era acuita da altre due circostanze.

    La dal fatto che la crisi delle Federconsorzi significava anche il venir meno della garanzia, sempre assicurata dalla Fedit, del pagamento dei debiti contratti dai consorzi agrari. con il sistema bancario italiano ed estero.

    Inoltre, lLa posizione delle banche estere appariva la più complessa e ricca di connotazioni politiche e prassi finanziarie internazionali.

    A crisi conclamata, di fronte alla richiesta del ministro dell’aAgricoltura, onorevole Goria, che, come meglio si vedrà neil capitoloi sesto e settimo …ADDE…, chiedeva alle banche di rinunciare ad una parte degli interessi e di concorrere al rilancio del sistema, le banche estere chiesero, invece di essere garantite direttamente dal Governo italiano, quanto ai crediti verso la Fedit, e dalla Banca del Tesoro, la Banca nNazionale del lavoro, quanto ai crediti verso Agrifactoring.

    I loro argomenti non avevano valenza giuridica, in quanto la determinazione dell’identità giuridica del contraente, costituisce un elemento preliminare ed elementare nell’istruttoria creditizia.

    I loro argomenti non erano giuridici: nei contratti da esse stipulati, la Fedit era chiaramente indicata come un soggetto privato.

    Per chiarire tali argomenti, giova riportare alcuni brani di una sorta di memorandum scritto all’indomani del commissariamento da un dirigente bancario italiano, alla guida della filiale milanese di una banca estera - che peraltro sembra sintetizzare efficacemente il comune sentire anche del mondo bancario italiano - ed avvalersi delle dichiarazioni rese a questa Commissione dal rappresentante delle banche estere, dottor Rosa, il 27 ottobre 1999.

    Era pertanto inconcepibile, per banche operanti sul mercato internazionale, non porsi la questione della ignorare la natura giuridica della Federconsorzi. del contraente.

    della Federconsorzi. Ed, infatti, esse avevano stipulato contratti, esaminati dalla Commissione, nel all’internocorpo dei quali la Federconsorzi era chiaramente indicata come un soggetto privato.

    Il punto di vista delle banche estere è stato riferito alla Commissione dal rappresentante dell’Aassociazione italiana fra le delle banche estere, dottor Guido Rosa, il 27 ottobre 1999 .

    Il dottor Rosa, ha ricordato che l’esistevano nza di due forme di finanziamenti, uno eseguito in pool, e cioè sotto forma di "prestiti sindacati", e l’altro, posto in essere dalle filiali italiane, di scoperti di conto che si rinnovavano di anno in anno, ha affermato: Dalla Direzione generale della Barclays bank di Milano, Gian Marco Petrelli scriveva, il 23 maggio 1991, al dottor Felice Gianani, direttore generale della Associazione bancaria italiana (ABI): "La Federconsorzi pur non essendo strettamente un ente pubblico, si è di fatto, comportata come tale.

    L'attività di sostegno degli agricoltori e dei prezzi agricoli è stata condotta come se la Federconsorzi avesse in effetti il ruolo di ente di pubblica utilità.

    Gli stretti legami politici intrattenuti durante tutta la propria vita aziendale, hanno portato all'elezione in Parlamento di uomini dell'organizzazione e, in varie occasioni, alla designazione dei Ministri dell'Agricoltura. La commistione di Federconsorzi con "il palazzo" e con lo Stato e' innegabile.

    "(…) la Sumitomo e la Mitsubishi erano le banche capofila dei due prestiti sindacati da Londra".

    (…) I crediti non erano assistiti da garanzie (…). La ragione è che nell'analisi di queste banche - giusta o sbagliata che fosse - la Federconsorzi veniva considerata un "rischio pubblico" e quindi, in caso di insolvenza, si contava indirettamente sulla responsabilità dello Stato.

    (…) La Federconsorzi era vista dalla comunità finanziaria internazionale come un ente pubblico perché svolgeva un ruolo pubblico nell'ambito del settore agricolo italiano, quindi si supponeva che, comunque, ci sarebbe stato l'appoggio dello Stato".

    Il dottor Rosa ha, poi, evidenziato quello che alla Commissione sembra un aspetto di notevole rilevanza per la comprensione dell’evoluzione della vicenda Federconsorzi, costituito dal collegamento tra il debito della Federconsorzi e quello di Agrifactoring, che poneva gravi problemi alla credibilità e, quindi, allo standing della Banca nNazionale del lavoro, che era, nello stesso tempo, creditrice importante della Federconsorzi e dell’Agrifactoring e socia di quest’ultima.

    Egli ha infatti sottolineato che "(…) uno scalpore maggiore (…) lo suscitò il caso Agrifactoring in quanto, (…) non si poteva ammettere che una società di questo genere fosse lasciata cadere (…).

    Non esistevano fideiussioni, ma (…) le banche straniere facevano affidamento sulla struttura dell'azionariato della società. Il 75 per cento del capitale di Agrifactoring era posseduto dal sistema bancario italiano e la principale banca azionista era la BNL. Ciò faceva sì che agli occhi delle banche straniere vi fosse un coinvolgimento del sistema bancario e soprattutto della BNL che (…) allora era la banca del Ministero del tesoro".

    Va rammentato che per i prestiti internazionali in favore degli enti pubblici italiani, vigeva la clausola cosiddetta di cross default che prevedeva che, se il prestito ad un ente avesse fatto default e cioè non fosse stato ripagato, le banche creditrici avrebbero avuto il diritto di chiedere il rimborso anticipato dei prestiti concessi anche agli altri enti pubblici italiani. (…) La comunità bancaria internazionale ha sempre considerato la Federconsorzi come un ente pubblico italiano; né la Federconsorzi né il Governo hanno fatto alcunché, per correggere detta impressione. In pratica la Federconsorzi e l’AIMA, sono state considerate i principali enti pubblici italiani preposti al sostegno dell'agricoltura.

    Lo stesso processo seguito per il commissariamento si è svolto con modalità (convocazione dei creditori fatta dal Ministro dell'Agricoltura presso il Ministero, progetto di piano finanziario prospettato direttamente dal Ministro, ecc.) più appropriate a quanto avviene negli enti pubblici che nelle imprese private.

    La precipitosa decisione del Ministro dell'Agricoltura di commissariare la Federconsorzi, per i tempi e le circostanze in cui è stata attuata, sembra inquadrarsi nella manovra governativa per ridurre o limitare il disavanzo pubblico, con ciò implicitamente confermando la natura di ente pubblico di Federconsorzi.

    (…) Il comunicato stampa afferma che le proposte per definire le posizioni debitorie e rilanciare l'attività di Federconsorzi sono del Governo, con ciò confermando g1i intendimenti di politica economica generale che si vogliono perseguire e la natura di Federconsorzi quale strumento governativo per l'attuazione di tale politica.

    (...) La Federconsorzi può anche essere stata mal gestita, tuttavia nei fatti ha sostenuto il mondo agricolo italiano con il beneplacito del Governo per vari decenni. Che in queste attività aventi finalità pubbliche il profitto e l'equilibrio dei conti non fossero la priorità essenziale di Federconsorzi era da molti anni noto ed accettato dal Governo, che ha sempre avuto a disposizione i bilanci della Federconsorzi.

    (…) L’acquiescenza del Governo ai risultati economico finanziari della Federconsorzi conferma la pratica natura di ente pubblico della Federconsorzi, individua una specifica responsabilità del Governo per non essere intervenuto molti anni prima, con ciò traendo in inganno e danneggiando i creditori.

    (…) Il caso Federconsorzi è strettamente collegato alla lotta politica fra partiti di Governo e non.

    (…) Nel caso di insolvenza di Federconsorzi, i creditori danneggiati dovrebbero ripetere le somme da tutti coloro che hanno tratto beneficio dalla Federconsorzi stessa con ciò contribuendo all'insolvenza della medesima. Ciò significa perseguire gli agricoltori italiani, chi ha venduto, a prezzi superiori di quelli europei, il latte e la frutta a Polenghi e Massalombarda; chi ha ricevuto credito a condizioni favorevoli dai consorzi agrari per l'acquisto di concimi, sementi e mezzi meccanici; chi ha ottenuto prezzi di favore su acquisti, sull’ammasso di prodotti agricoli, sulle coperture assicurative, ecc.

    (…) Se Federconsorzi svolge una pubblica funzione agendo da ente pubblico con il beneplacito e la sorveglianza del Governo e se la gestione ed il risanamento di Federconsorzi sono faccenda governativa, l'unico modo serio e dignitoso secondo il quale il Governo deve procedere è quello di ammettere la pratica natura di ente pubblico di Federconsorzi, liquidarne le attività con regolare pagamento dei debiti, riscontrare in un nuovo ente quelle attività che fossero eventualmente ritenute di pubblico interesse.

    (…) Qualora il Governo declinasse per assurdo di far fronte alle proprie responsabilità dirette per la Federconsorzi, gli eventuali sacrifici dovrebbero riversarsi su tutti i creditori (compresi i fornitori) e su tutti coloro che hanno direttamente o indirettamente beneficiato dell'azione di Federconsorzi. La pretesa del Governo di addossare alle banche un onere che pare sia di un migliaio di miliardi, non solo va contro il già tardivo programma di rafforzamento patrimoniale del Sistema Bancario Italiano in vista del mercato unico europeo, ma rappresenta da parte del Governo un inammissibile scarico di responsabilità proprie su altri (…).

    Ha riferito alla Commissione il dottor Guido Rosa, rappresentante della associazione delle banche estere: "(le banche estere hanno proceduto ad n.d.r) effettuare finanziamenti in favore della Federconsorzi e della società Agrifactoring nelle forme di finanziamento tipiche delle filiali italiane delle banche estere, i cosiddetti finanziamenti fatti in pool - come si dice in termini tecnici -, cioè prestiti sindacati da Londra.

    Al momento della messa in liquidazione della Federconsorzi l'ammontare complessivo dei crediti delle banche estere nei confronti di Federconsorzi era di circa 400 miliardi, mentre il credito nei confronti della società Agrifactoring era di circa 250 miliardi.

    Nei confronti dei consorzi agrari l'ammontare dei crediti era parecchio inferiore; (...) approssimativamente siamo nell'ordine di 30 miliardi per i vari consorzi."

    "I finanziamenti delle filiali italiane avevano la forma di scoperti di conto che si rinnovavano di anno in anno."

    (Le banche che vantavano i maggiori crediti erano) (…) "le banche giapponesi e le banche europee.

    (…) la Sumitomo e la Mitsubishi erano le banche capofila dei due prestiti sindacati da Londra".

    (…) i crediti non erano assistiti da garanzie (…). La ragione è che nell'analisi di queste banche - giusta o sbagliata che fosse - la Federconsorzi veniva considerata un "rischio pubblico" e quindi, in caso di insolvenza, si contava indirettamente sulla responsabilità dello Stato.

    (…) la Federconsorzi era vista dalla comunità finanziaria internazionale come un ente pubblico perché svolgeva un ruolo pubblico nell'ambito del settore agricolo italiano, quindi si supponeva che, comunque, ci sarebbe stato l'appoggio dello Stato. (…) uno scalpore maggiore (…) lo suscitò il caso Agrifactoring in quanto, (…) non si poteva ammettere che una società di questo genere fosse lasciata cadere (…)

    (…) non esistevano fideiussioni, ma (…) le banche straniere facevano affidamento sulla struttura dell'azionariato della società. Il 75 per cento del capitale di Agrifactoring era posseduto dal sistema bancario italiano e la principale banca azionista era la BNL. Ciò faceva sì che agli occhi delle banche straniere vi fosse un coinvolgimento del sistema bancario e soprattutto della BNL che (…) allora era la banca del Ministero del tesoro.

    (…) i crediti delle banche giapponesi nei confronti di Agrifactoring e della Fedit sono stati soddisfatti (…). Ad oggi, l'ammontare complessivo dei rimborsi è dell'ordine del 40 per cento, il famoso 40 per cento che era stato indicato per avere la liquidazione.

    (…) Per Agrifactoring la percentuale di rimborsi è superiore perché c'era stato un abbandono di crediti - questo eravamo riusciti ad ottenerlo - da parte della Banca Nazionale del lavoro e delle banche italiane per cui si è arrivati oggi ad un rimborso complessivo dell'ordine del 70 per cento.

    (…) Per quanto riguarda poi Agrifactoring, vi è stata una postergazione volontaria da parte delle banche italiane nei confronti delle banche estere. Questo era stato concordato allora proprio perché Agrifactoring era stato il caso di maggiore sensibilità per le banche straniere, e quindi in sostanza le banche italiane avevano deciso volontariamente di fare questa postergazione di una parte dei crediti con un meccanismo un po’ complicato a favore solo delle banche straniere.

    (…) Perché le banche straniere non hanno voluto far parte del pool di SGR perché (…) quando venne alla luce la proposta della costituzione di SGR, le banche straniere avevano risposto in maniera favorevole all'idea della costituzione di SGR. Questo perché sapevamo tutti che se ci fossimo affidati esclusivamente alla procedura concorsuale, probabilmente ci avremmo impiegato 10 o 15 anni per arrivare alla liquidazione degli attivi. E sapevamo, peraltro, che la differenza fra il caso Federconsorzi e molti altri casi era che nel caso Federconsorzi c'erano degli attivi che valevano.

    (…) La ragione per la quale le banche estere hanno in qualche modo accettato il progetto, ma non hanno partecipato all'azionariato di SGR, è perché francamente non è un business, non è un tipo di attività che si può fare da Londra, che la City, o la Chase, o una banca giapponese può fare, perché diventava praticamente difficile per loro partecipare ad una procedura liquidatoria attraverso una società di questo genere.

    (…) Quindi fu una decisione di tipo assolutamente pratico (…) le banche estere all'unanimità decisero per il no. Esse preferirono rimanere creditori chirografari, assumendo però il vantaggio che naturalmente con il pagamento di SGR si sarebbe accelerato di molto il rimborso fino al 40 per cento.

    (…) la cosiddetta clausola di cross default (…) significa che in tutti i contratti di prestito degli enti pubblici italiani vi è una clausola per cui in realtà se l'ENI - faccio solo un esempio - in un suo prestito avesse fatto default, cioè non l'avesse ripagato, le stesse banche avrebbero avuto il diritto di far giocare la clausola di richiesta di rimborso anticipato anche ad altri prestiti di enti pubblici italiani.

    Secondo quando dichiarato dal dottor Rosa: "(…) Nel caso di Federconsorzi - il cross default n.d.r. - era stato usato come minaccia, ma oltre al cross default si diceva: attenzione, perché comunque sia il sistema pubblico italiano avrà sempre bisogno di fondi sui mercati finanziari internazionali e, se voi non ripagate Federconsorzi, la comunità finanziaria internazionale ne terrà conto. Ma fu una ritorsione di pressione, di parole (…)., perché poi in realtà, come lei sa, le cose andarono in un certo modo.

    (…) Certamente però questa ritorsione fu abbastanza forte nel caso di Agrifactoring perché molte banche straniere decisero, almeno temporaneamente, di chiudere le linee di credito alla BNL.

    (…) la postergazione si aveva solo nel caso di Agrifactoring. Quella postergazione in generale la negoziai io stesso tramite un importante banchiere.

    (…) Le banche estere esercitarono pressioni nei confronti della BNL per ottenere la soddisfazione dei loro crediti.

    (…) Le banche straniere fecero un'enorme pressione sulla BNL e sul sistema bancario italiano.

    (…) Ritenevano infatti che nel sistema bancario mondiale non si fosse mai verificato che alcune banche lasciassero cadere una propria società, anche senza aver concesso la fideiussione. Era una questione deontologica, tanto più che la BNL era la banca del Ministero del Tesoro; ciò rendeva il tutto ancora più inammissibile. Quindi, fu esercitata una forte pressione sulla BNL affinché si assumesse la responsabilità del pagamento di tutti i crediti".

    La soluzione del problema fu la seguente, sempre nella ricostruzione del presidente dell’AIBE: "(…) (…) In realtà pPoi queste banche azioniste, BNL, Banco di Santo Spirito e le altre, accettarono di postergare i loro crediti in favore degli altri creditori, anche perché loro stesse erano finanziatrici di Agrifactoring, e ciò fu considerato un primo passo verso la riconciliazione del sistema bancario internazionale nei confronti della BNL.

    (…) Tutto il sistema delle banche internazionali chiese che le banche italiane si assumessero l'onere di rimborsare i crediti, al punto che molte banche estere avevano unilateralmente interrotto i rapporti con la BNL arrivando perfino a sospendere certi crediti. Una volta che la BNL e le altre banche accettarono e avviata la procedura si ristabilirono rapporti di lavoro corretti.

    (…) Possiamo affermare che, da un lato, c'è stata una pressione nei confronti dello Stato italiano per quanto riguarda la Fedit, dall'altro, c'è stata una pressione su BNL per quanto riguarda Agrifactoring".

    (…) La costituzione di SGR e il fatto che questa avrebbe pagato il 40 per cento, un ammontare tale che consentiva alla liquidazione di pagare almeno il 40 per cento in tempi molto più brevi rispetto ad una procedura concorsuale normale, fu visto positivamente dalla banche estere, anche se decisero di non partecipare al capitale. Non ci fu assolutamente alcuna mediazione politica, fu una negoziazione tra creditori, che era il sistema bancario, e debitori.

    (…) Per quanto concerne Agrifactoring il momento di distensione dei rapporti, che io sappia, avvenne quando le banche decisero di postergare i propri crediti e quando anche le altre banche italiane, che non erano azioniste di Agrifactoring, decisero di postergare, in parte, i loro crediti in favore delle banche estere.

    (…) Il progetto SGR fu presentato alle banche estere che, pur decidendo di non partecipare assolutamente all'azionariato di SGR, aderirono all'idea generale. Di fatto però non vi furono negoziazioni tra banche estere e SGR sull'ammontare dei crediti da rimborsare. In realtà la SGR fu presentata come una società costituita dalle banche che accettavano di trasformare i propri crediti in azioni SGR. Si ritenne che lasciar giacere, troppo a lungo non gestiti, attivi di un certo valore - e una prima difficoltà fu proprio quella di darne una valutazione precisa - avrebbe causato una svalutazione dei beni. Quindi le banche disponibili ad effettuare l'operazione potevano accettare di trasformare i loro crediti in azioni SGR con l'obiettivo di arrivare perfino ad un rimborso superiore a quanto si poteva ipotizzare attraverso una gestione attiva di SGR.

    (…) Banca Nazionale del lavoro affermava di essere un creditore di Agrifactoring e quindi anch'essa vittima del dissesto Federconsorzi. Questa era la linea di difesa della Banca Nazionale del lavoro: non è stata BNL a mandare a picco Agrifactoring ma quest'ultima è vittima di Federconsorzi.

    In realtà, Agrifactoring era creditore in larga misura di Federconsorzi e il dissesto di Agrifactoring in larga misura è connesso a quello di Federconsorzi. Quella dunque era la linea di difesa: il vero responsabile era dunque il caso Federconsorzi e non Banca Nazionale del lavoro.

    (…) Di fatto, poi, ci fu un periodo, dal '90 al '95, in cui il rating della Repubblica italiana fu addirittura diminuito da parte delle agenzie internazionali, non solo per problemi di bilancio, di deficit pubblico, eccetera, ma anche per il comportamento delle autorità italiane in certe vicende. Per cui l'argomentazione nel caso di Federconsorzi fu quella che dicevo.

    (…) E' vero, lo Stato italiano non aveva dato garanzie per Federconsorzi; Nel caso specifico lo Stato italiano diceva: siete voi che avete in qualche modo interpretato il coinvolgimento dello Stato italiano, ma non è così di fatto.

    (…) la costituzione di SGR (…) fu una novità della quale ebbi conoscenza, almeno nella sua idea originale, fin dall'inizio perché, se ricordo bene, veniva dal dottor Roveraro, che allora era presidente di Akros Spa - Milano.

    (…) Ricordo che fummo convocati a questa riunione dal professor Capaldo e dal dottor Geronzi che ci annunciarono l'idea della costituzione di SGR.

    Vi fu, dunque, una duplice pressione, da un lato, nei confronti dello Stato italiano per quanto riguarda la Fedit, dall'altro, sulla Banca nNazionale del lavoro per la vicenda Agrifactoring.

    In sintesi le Va osservat Aa giudizio della Commissione , che le banche estere, che riflettevano una opinione del sistema bancario italiano. P, puur conoscendo bene la natura di privata cooperativa della Federconsorzi, e chiedevano, sulla base del ruolo svolto da essa nel settore agricolo, del controllo pubblico cui era soggetta e del legame tra la Fedit ed i Ministri dell’agricoltura, chiedevano una privilegiata garanzia governativa, che aveva un carattere esclusivamente politico ed era palesemente perché del tutto infondata dal punto di visto giuridico ed anzi gravemente lesiva del principio di parità tra i creditori.

    Negli scritti delle banche giapponesi indirizzati al gGoverno si minacciava esplicitamente una ritorsione al mancato pagamento da parte dello Stato dei debiti Fedit, sotto forma di chiusura alle richieste di credito di enti pubblici italiani, da parte dei mercati internazionali.

    La debolezza strutturale della economia italiana del tempo rendeva più temibili le minacce.

    Il ministro Goria non si piegò né poteva piegarsi alla ingiusta richiesta. prevaricazione che Forti furono le preoccupazioni della va fortemente anche la Banca d'Italia che nulla di diverso, però, poteva e doveva fare.

    Fu il sistema bancario italiano, come si vedrà di seguito, a corrispondere, in parte, alle loro richieste delle banche estere privilegiandole, con notevole sacrificio, nel riparto er sistemare prima di tutto la questione Agrifactoring.come si vedrà di seguito.

    3. Il ruolo della Banca d’Italia

    Come è stato evidenziato nel capitolo precedente, il credito erogato complessivamente alla Federconsorzi, alle società da questa controllate ed ai consorzi agrari era pari, alla data del 31 marzo 1991, anteriore di un mese e mezzo circa al commissariamento, a circa ottomila miliardi..

    La cifra, ricavata dalle segnalazioni alla centrale rischi, comprende i crediti derivanti dalle cambiali agrarie riscontate presso la Banca d’Italia, ma non comprende i crediti delle filiali estere di banche italiane e delle società finanziarie controllate dalle banche italiane ed in particolare, quindi, dell’Agrifactoring sSpa, che da sola vantava, nei confronti degli stessi soggetti un credito superiore a mille miliardi.

    Tenuto conto della ricaduta dei rischi, l’affidamento complessivo si deve, quindi, stimare in oltre novemila miliardi.

    A fronte di una tale entità di affidamenti tutti, salvo che la trascurabile cifra di 36 miliardi, non garantiti, se non genericamente dal patrimonio degli affidati, la Commissione si è chiesta se vi fu, da parte della Banca d’Italia, esercizio adeguato dei suoi poteri-doveri di vigilanza.

    Per rispondere correttamente all’interrogativo sono necessarie due premesse: in forza delle norme allora ed ora vigenti, alla Banca d’Italia non competeva sindacare il cosiddetto merito creditizio, e cioè esprimersi preventivamente o successivamente sulla opportunità della concessione e sulla natura e qualità degli affidamenti e seguire l’evoluzione del rapporti, ma vigilare sul rispetto delle regole da essa stessa dettate a tutela dell’integrità del patrimonio; la Federconsorzi non costituiva un "gruppo" in senso tecnico e, pur esercitando il credito agrario, non costituiva un gruppo bancario.

    La posizione ufficiale della Banca d’Italia sul tema è stata esposta alla Commissione il 12 ottobre 1999, nel corso dell’audizione dal dottor Claudio Clemente, direttore principale del Servizio vigilanza sugli enti creditizi, che si è richiamato correttamente ai concetti sopra esposti: "Le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza ad esse attribuiti dalla legge, avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all'efficienza e alla competitività del sistema finanziario, nonché all'osservanza delle disposizioni in materia creditizia. Questo principio determina un quadro di riferimento che presuppone la natura eminentemente imprenditoriale dell'attività bancaria, criterio cardine al quale le autorità amministrative improntano l'intera azione di vigilanza.

    (…) Compito della Banca d'Italia è valutare essenzialmente la loro capacità di fronteggiare i rischi assunti e l'impatto che l'eventuale deterioramento dei crediti può determinare sulla stabilità dei singoli intermediari, sul sistema bancario e, in ultima analisi, sull'economia nel suo complesso. (…) Il metodo di supervisione si è andato evolvendo, sin dalla seconda metà degli anni Ottanta, in senso "prudenziale", basato cioè sulla identificazione di regole generali che definiscono l'ambito entro il quale si esplica l'autonomia imprenditoriale (…) nell'ambito di questa cornice regolamentare è sottoposto a vaglio il complessivo grado di equilibrio delle banche. La rischiosità insita nella concessione di finanziamenti viene in particolare contenuta entro limiti calcolati rapportando al patrimonio aziendale il complesso dei crediti erogati dalle banche, ponderato secondo opportuni coefficienti (…)".

    Affrontando il merito della questione, il dottor Clemente ha dichiarato: "Con riferimento al rispetto delle disposizioni di vigilanza, una verifica effettuata nella fase attuale, ormai a quasi dieci anni di distanza rispetto a quei momenti, ci indica che le esposizioni che le banche segnalavano nei confronti della Federconsorzi, a livello individuale, non superavano i limiti previsti dalla vigilanza in termini di coperture patrimoniali e in termini di concentrazione del rischio. Sto parlando di limiti generali riferiti all'intero sistema delle banche di cui è possibile effettuare un'analisi statistica.

    Come pure ho detto nella relazione, le banche che risultavano esposte nei confronti della Federconsorzi non hanno subìto, in conseguenza della sua crisi, danni tali da mettere a repentaglio la loro stabilità.

    (…) La crisi della Fedit non ha pregiudicato la stabilità di alcuna delle banche esposte.

    L'esposizione delle singole banche nei confronti della Federconsorzi non era tale da generare un problema di stabilità. Vi sono state diverse situazioni di crisi tra le banche, ma posso affermare che nessuna di queste è riconducibile alla vicenda Federconsorzi.

    (…) Devo anche dire che, dal 1991 ad oggi, la strumentazione a disposizione della Banca d'Italia è profondamente cambiata. In particolare, nel 1992, con il recepimento della seconda direttiva comunitaria, sono state introdotte nuove regole di vigilanza, che tra l'altro fanno riferimento al gruppo bancario nel suo complesso e non solo alle singole aziende; successivamente, nel 1993, il testo unico bancario ha consentito di riformulare in maniera sostanziale molti degli strumenti a disposizione della vigilanza".

    Alla domanda se il sistema bancario e la Banca d'Italia avessero avuto dei segnali tecnici delle gravi difficoltà della Fedit prima del commissariamento del 17 maggio 1991, il rappresentante della Banca d’Italia rispondeva:

    (…)"Direi di no, non avevamo indicazioni negative da parte del sistema, perché il sistema non classificava la Federconsorzi come "sofferenza" nelle segnalazioni di vigilanza. Non avendo la Banca d'Italia una responsabilità di controllo sulle imprese non bancarie, non finanziarie, la conoscenza della situazione di tali imprese è mediata attraverso le informazioni che arrivano dal sistema bancario; la Federconsorzi non era qualificata come sofferenza, quindi la recuperabilità dei crediti che la riguardavano non risultava messa in dubbio da parte di nessuna azienda di credito.".

    L’assunto coincide, sul piano generale, con quanto complessivamente accertato dalla Commissione con riferimento temporale all’anno 1990.

    Considerando che l’attività di vigilanza della Banca d’Italia si concretizza in ispezioni periodiche nei confronti dei singoli istituti e che il rispetto delle istruzioni di vigilanza ne costituisce oggetto indefettibile, si è verificato se, nel corso di singole attività ispettive, vi fossero anomalie.

    Sul punto la risposta del dottor Clemente è stata le seguente: "ma non risulta che nel corso di ispezioni siano stati sollevati problemi (in relazione all'affidamento della stessa effettuato dalle banche nel periodo immediatamente precedente al suo commissariamento), sull'eventuale ridotta dimensione della garanzia rispetto all'affidamento; tale circostanza è possibile attribuirla anche alla particolare funzione svolta dalla Federconsorzi nell'ambito del sistema dei consorzi agrari, all'insieme delle garanzie implicite che per la Federconsorzi derivavano da crediti nei confronti dello Stato. Però esprimo a questo punto una valutazione personale".

    La Commissione, nell’intuitiva impossibilità di sottoporre ad esame le risultanze di tutte le attività ispettive e nel prendere quindi atto di quanto dichiarato dal rappresentante della Banca d’Italia, non può, tuttavia, esimersi dal rilevare che gli affidamenti alla Federconsorzi, se non superavano i limiti di vigilanza, non potevano tuttavia non costituire, in particolare per le banche di non grandi dimensioni, parte considerevole di rilievo degli impieghi che avrebbero potuto essere meglio monitorati, sotto il profilo delle implicite potenzialità negative.

    Se ne deduce che la crisi della Federconsorzi colse di sorpresa la stessa Banca d’Italia che, solo dopo il commissariamento, condusse una indagine per accertare l’impatto sul sistema del grave indebitamento dell'organizzazione Fedit-consorzi agrari.

    A crisi dichiarata la Banca d’Italia fu chiamata ad occuparsi della questione della Fedit, non solo per i riflessi dell’indebitamento sul sistema interno, ma anche per quelli sul mercato internazionale e sulla valutazione complessiva di affidabilità del "sSistema Italia".

    "Come sempre accade in questi casi -  ha riferito il dottor Clemente  -, la Banca d'Italia è stata sollecitata da organismi internazionali, banche, specie estere, società di rating, ad assumere un ruolo diretto nella vicenda, ruolo che la Banca centrale, coerentemente con le proprie funzioni istituzionali, non poteva avere (…).

    Era comunque ben presente l'esigenza di preservare il clima di fiducia sui mercati: vennero così mantenuti aperti canali di comunicazione con i vari soggetti che avevano interessato la Banca d'Italia.

    In diverse occasioni fu rappresentato a esponenti del sistema bancario italiano e internazionale che la valutazione del merito di credito della Federconsorzi non poteva essere fondata sul convincimento che essa costituisse di fatto un organismo pubblico e che lo Stato italiano si sarebbe accollato le perdite di gestione o sarebbe comunque intervenuto a sostegno della Fedit".

    La Banca d’Italia ebbe un ruolo anche nella vicenda SGR.

    A tale proposito il dottor Clemente ha affermato il dottor Clemente: "La Banca d'Italia non esercita un ruolo attivo nelle procedure finalizzate alla risoluzione delle crisi di impresa; spetta ai creditori infatti individuare le modalità operative e i criteri reputati più idonei a meglio tutelare i propri diritti. La disciplina attualmente in vigore stabilisce che le banche possono, ove lo ritengano conveniente, trasformare in capitale di rischio i crediti vantati nei confronti di soggetti in crisi, nel rispetto di una specifica procedura (…). Le banche debbono soltanto notificare tali interventi alla Banca d'Italia.

    (…) Anche all'epoca dell'operazione SGR le iniziative avviate dalle banche per recuperare i crediti non erano assoggettate a specifici interventi autorizzativi, contrariamente a quanto stabilito in via generale dalle disposizioni emanate dalla Vigilanza in materia di partecipazioni. La possibilità delle banche di acquisire partecipazioni nel capitale di imprese era infatti circoscritta ad una puntuale tipologia riconducibile, in definitiva, a soggetti esercenti attività bancaria, ovvero attività collaterali o funzionali a questa, ed era sottoposta alla preventiva autorizzazione della Banca d'Italia. Il rilievo di azioni finalizzato ad agevolare il recupero dei crediti ovvero a una migliore tutela dei diritti delle banche poteva essere invece liberamente effettuato, prescindendo dalla natura dell'attività svolta dal soggetto partecipato e da adempimenti autorizzativi; in tali casi si richiedeva soltanto una comunicazione alla Vigilanza (…). In base alle informazioni comunicate dal Banco di Santo Spirito alla Banca d'Italia nel maggio del 1992, l'iniziativa prevedeva l'istituzione, da parte di una decina dei maggiori creditori, di una società per azioni con un capitale sociale di 30 miliardi di lire da sottoscrivere in proporzione ai rispettivi crediti. La società avrebbe avuto per oggetto la gestione, l'affitto, l'acquisto, la vendita di attività immobiliari e mobiliari, nonché il compimento di qualsiasi operazione finanziaria ad esso finalizzata, ivi compresa, l'acquisizione e la cessione di partecipazioni. All'iniziativa avrebbero potuto prendere parte, ove l'avessero ritenuto conveniente, anche altri soggetti creditori della Federconsorzi. La società si sarebbe resa cessionaria delle attività della Fedit, per la quale era stata avviata la procedura di concordato preventivo con decreto del tribunale di Roma del luglio 1991 (…). Le motivazioni dell'iniziativa venivano identificate nella possibilità di assicurare una più efficace tutela delle ragioni creditorie delle banche interessate, altrimenti destinate a subire le dispersioni connesse con i lunghi tempi di realizzo e con gli oneri di una procedura concordataria che si profilava di rilevante complessità e durata. Come precisato nell'informativa rassegnata dalle banche, al rilievo da parte della società dei beni della Fedit si sarebbe dato corso solo subordinatamente all'omologa del concordato preventivo, procedura concorsuale nell'ambito della quale il progetto necessariamente andava a inscriversi.

    (…) Dell'intervento delle banche nel capitale della società di smobilizzo la Banca d'Italia prese nota nel giugno del 1992. In tale sede si precisò - in ossequio al principio della natura imprenditoriale dell'attività bancaria sulla quale mi sono poc'anzi soffermato - che ogni valutazione e connessa responsabilità sui vari profili della iniziativa non poteva che far carico esclusivamente ai competenti organi aziendali.

    (…) La costituzione e l'acquisizione di pacchetti di azioni della SGR da parte del sistema bancario era un'operazione che le banche potevano realizzare liberamente, in quanto sottratta alla normativa generale di vigilanza in materia di partecipazioni. Le banche avevano il solo obbligo di notificare l'esigenza di sottoscrivere il capitale della SGR alla Banca d'Italia, cosa che hanno fatto e a cui si è dato esito con una lettera in cui si prendeva atto della costituzione della SGR, esattamente nel giugno del 1992. Nella lettera veniva ribadito, altresì, che l'operazione era liberamente assumibile, che tutte le scelte di merito riguardavano le aziende e, inoltre, che l'operazione si inquadrava in una procedura concorsuale".

    Tuttavia, ad avviso della Commissione, l’importanza dell’operazione, non certo abituale, era tale che la BbBanca d’Italia non ebbe avrebbe in nessun caso potuto avere la funzione meramente notarile accreditata dal suo rappresentante.

    L’eventuale opposizione della Banca d’Italia avrebbe sicuramente fatto naufragare il Piano Capaldo: è ben difficile ipotizzare una sfida all’Istituto da parte delle banche interessate all’operazione.

    Se ne deduce può dedurre che in realtà la Banca d’Italia fu favorevole al progetto di cui non valutò sembra forse aver valutatoappieno tutte le possibili implicazioni.

     

     

    Capitolo Sesto

     

    Il commissariamento

    1. Premessa

    Il commissariamento della Federconsorzi ha posto alla Commissione molteplici interrogativi alcuni dei quali sembrano aver trovato risposte soddisfacenti nelle risultanze dell'inchiesta.

    Per altri è solo possibile formulare ipotesi.

    Le principali domande che la Commissione si è posta sono: se il commissariamento della Fedit fu deciso in base a ragioni reali di natura economica e finanziaria che l'imponevano; se invece fu il frutto di scelte o decisioni di natura, del tutto od in parte, politica; quali esse furono e quali finalità perseguivano; se fu correttamente e adeguatamente gestito; se l'epilogo nella richiesta di concordato preventivo era previsto e voluto; se vi fu un legame di preordinazione funzionale tra il commissariamento ed il successivo rilievo dei beni della Fedit da parte della SGR.

    2. Il cammino verso il commissariamento

    Nella parte della presente relazione dedicata al tema della vigilanza ministeriale sui consorzi agrari e sulla Federconsorzi, si è posto in evidenza come, negli anni 1988-1989, la condizione della Federconsorzi fosse tale da suscitare la preoccupazione del ministro dell’agricoltura pro tempore, onorevole Mannino, e l’attenzione del presidente del Consiglio, onorevole De Mita.

    La questione di un eventuale commissariamento della Federconsorzi non si propose tuttavia prima dell’anno 1990.

    Il ministro Mannino ha, infatti, smentito di aver mai discusso con l’onorevole Arcangelo Lobianco del commissariamento della Federconsorzi, come riferito dal settimanale "Terra e vita" del gennaio-febbraio 1998.

    Durante il ministero dell'onorevole Mannino, attraverso il conferimento dell’incarico di nuovo direttore generale al dottor Silvio Pellizzoni, la Coldiretti, d’intesa con la Confagricoltura, diede vita ad un tentativo di risanamento interno e di rilancio della Federconsorzi, che era sostanzialmente ispirato dalla finalità di razionalizzare e rendere più efficiente la gestione, senza, tuttavia, modificare la struttura del sistema.

    Nell'anno che precedette il commissariamento furono elaborati dal gruppo dirigente della Fedit progetti di ristrutturazione del sistema Federconsorzi-consorzi, nessuno dei quali fu realizzato.

    La Commissione li giudica, tuttavia, di rilievo, in quanto sembrano costituire la base dei progetti lanciati contestualmente al commissariamento.

    Nel loro contenuto e nelle loro implicazioni si può rinvenire, inoltre, una chiave di lettura delle determinazioni assunte dal ministro Goria.

    Nel settembre del 1990 fu costituita, ad iniziativa della Fedit e con la sua partecipazione, la Agrifin spa, società finanziaria di partecipazione con partners pubblici e privati del sistema agro-alimentare, che segnava l'inizio di una collaborazione con associazioni di cooperative anche di diversa ispirazione politica, la Lega delle cooperative agricole A.n.c.a., la Confcooperative e l'Agica-Generalfina.

    L'Agrifin non giunse, tuttavia, mai ad uno stadio operativo.

    Fu ben presto palese, infatti, che interventi settoriali o marginali non sarebbero stati sufficienti a risollevare le sorti della Federconsorzi ed a rilanciarla.

    Ad avviso degli amministratori della Federconsorzi, erano necessarie, per risolvere i problemi dell’indebitamento e degli oneri finanziari, sinergie strategiche con il sistema creditizio e contributi esterni ma, soprattutto, si palesava indispensabile ed indifferibile una modifica strutturale.

    Fu quindi elaborato un progetto che faceva perdere alla Federconsorzi la sua connotazione storica di società cooperativa di secondo grado e la trasformava, di fatto, in una società per azioni.

    L'intento era, dunque, da un lato di far fronte a quello che sinteticamente, qualche tempo dopo, sarebbe stato correttamente definito nel decreto di commissariamento "persistente squilibrio economico e finanziario", ma anche, e nello stesso tempo, di lanciare la nuova Federconsorzi.

    Ciò si coglie con chiarezza, a giudizio della Commissione, nelle affermazioni del direttore generale della Fedit, dottor Pellizzoni, nel corso del Comitato esecutivo della Federconsorzi del 1° febbraio 1991, anteriore di soli tre mesi al commissariamento: "un ulteriore elemento di preoccupazione è dato dalla timorosa attenzione dimostrata dalle banche nei confronti dei CAP e della Federconsorzi.

    Esse considerano la propria esposizione nei confronti del sistema Federconsorzi rischiosa, chiedono di analizzare i conti e i programmi e avvertono il limite della nostra azione costituito dall’assenza di azionisti finanziatori."

    Nello stesso tempo, il dottor Pellizzoni elencava i fattori indispensabili che dovevano concorrere per assicurare successo al piano di risanamento:

    Ascoltato in merito da questa Commissione, il dottor Pellizzoni ha precisato, nel corso dell'audizione del 9 novembre 2000, che la "timorosa attenzione" proveniva dalla Banca nazionale del lavoro che aveva mandato suoi uomini presso la Fedit ad esaminare conti e bilanci.

    La disponibilità degli operatori economici era stata positivamente sondata dal dottor Pellizzoni che si era assicurato la disponibilità della Ferruzzi, nel corso di un colloquio che ha rivelato di aver avuto con Raul Gardini.

    Per quanto concerne il versante bancario, il dottor Pellizzoni aveva preso contatti con l'Istituto San Paolo di Torino e soprattutto con la Cariplo, guidata in quel momento dal dottor Mazzotta, riscontrandone la piena disponibilità.

    A giudizio della Commissione, le iniziative del dottor Pellizzoni erano ben conosciute dai massimi responsabili della Coldiretti e della Confagricoltura, apparendo impensabile che non fossero informati di questioni sulle quali il loro apporto decisionale sarebbe stato fondamentale.

    D’altronde, nell'aprile del 1991, il Presidente della Cariplo manifestava pubblicamente l'interesse delle Casse di risparmio alla riorganizzazione e razionalizzazione del sistema consortile, previa trasformazione dei consorzi agrari in società per azioni.

    Si muovevano, così, i primi passi verso la costituzione di un pool di banche che doveva consentire alla Federconsorzi di fronteggiare la debitoria mediante un "consolidamento", che richiedeva comunque l’apporto di capitali freschi e, nello stesso tempo, il sostegno finanziario al progetto della nuova struttura.

    All’epoca, ministro dell'agricoltura era il professor Saccomandi, che non era un politico; il dottor Pellizzoni fu invitato, dall’onorevole Lobianco ad attendere l’insediamento di un Ministro più autorevole per trattare con le banche.

    Il direttore generale della Fedit interruppe la sua azione.

    La realizzazione del complesso progetto, sopra tratteggiato, richiedeva decisioni rapide e determinazioni che non sembravano potere essere espresse dal mondo federconsortile, del quale il direttore generale avvertiva l’opposizione sostanziale.

    Fu così che, in una visione sostanzialmente dirigistica, per superare le resistenze ed accelerare i tempi, la nuova dirigenza della Fedit, ed in particolare il dottor Pellizzoni, maturò l'idea che, per avviare un programma di effettivo risanamento e trasformazione della Federconsorzi, fosse necessario commissariarla.

    Il commissariamento era da lui considerato, sembra alla Commissione di comprendere, come una sorta di transitorio governo "dittatoriale" che, garantendo pieni poteri a chi fosse stato investito della funzione di commissario, avrebbe dovuto e potuto consentire di superare le resistenze - provenienti dalle organizzazioni sindacali, da alcune strutture interne e dagli organismi dei consorzi - che l'azione della dirigenza incontrava al progetto che riteneva salvifico.

    Il dottor Pellizzoni ne parlò al professor Capaldo e all’onorevole Lobianco.

    Il presidente della Coldiretti gli diede una diplomatica risposta interlocutoria, pervenendo in seguito ad una determinazione negativa. "Una voltaha dichiarato alla Commissione l’onorevole Lobianco nel corso dell'audizione del 1° febbraio 2000 - mi venne a trovare il direttore generale della Federconsorzi, il dottor Pellizzoni, il quale venne a lamentarsi con me che il piano di risanamento che lui aveva proposto procedeva lentamente. E aggiunse che la stessa cosa avveniva nell'unificazione dei consorzi agrari, e via di seguito. Poi mi chiese che cosa io ne avrei pensato di un commissariamento. Io mi limitai a dirgli che ci avrei pensato sopra. Ma quando ci ho pensato, tra me e me, sono stato contrario perché non si trattava del commissariamento di un'azienda, ma di un sistema e quindi esso avrebbe bloccato il funzionamento di tutto il resto".

    Nel frattempo maturava la scadenza della presentazione e dell’approvazione del bilancio relativo all’anno 1990 che, per la seconda volta consecutiva, si chiudeva in pareggio.

    Si formava un nuovo Governo, presieduto dall’onorevole Andreotti; il 13 aprile 1991 l’onorevole Goria si insediava al Dicastero dell’agricoltura.

    3. Il ruolo del ministro dell’agricoltura Goria

    Il ruolo di protagonista di una breve ma decisiva stagione delle vicende della Federconsorzi, dal commissariamento fino alla richiesta di concordato preventivo, consiglia di tracciare un breve profilo del ministro dell'agricoltura Giovanni Goria.

    Dalla sintetica ricostruzione delle tappe principali della sua carriera politica si ricava che si trattava di uno dei pochi politici dotato di specifiche conoscenze tecniche e di notevoli esperienze nel campo economico e finanziario.

    Di ciò deve tenersi conto nel ricostruirne e valutarne l'operato che, comunque si voglia giudicare, non si può, in nessun caso, attribuire ad inesperienza o ad ingenuità.

    Ed invero, Giovanni Goria, nato il 30 luglio 1943 ad Asti, laureato in economia e commercio, svolse una esperienza da economista dirigendo l’Ufficio studi e programmazione dell’amministrazione provinciale e della camera di commercio di quella città. Eletto deputato per la Democrazia cristiana nel 1976, nella circoscrizione di Cuneo-Alessandria-Asti, fu capo dell’Ufficio economico del presidente del Consiglio, onorevole Andreotti. Fece parte della Commissione finanze e tesoro della Camera dei deputati. Fu rieletto deputato, nella stessa circoscrizione, nel 1979. Fu sottosegretario al bilancio nei due Governi Spadolini, incarico dal quale si dimise perché chiamato a dirigere l’Ufficio economico della Democrazia cristiana. Nel 1982, fu nominato Ministro del tesoro e, nel 1988, Presidente del Consiglio. Fece sempre capo alla corrente della "Sinistra di Base".

    La nomina dell'onorevole Goria a ministro dell’agricoltura, il 13 aprile 1991, fu accolta con prudenza dal presidente della Confagricoltura, onorevole Giuseppe Gioia (che era anche vice presidente della Federconsorzi), e salutata con entusiasmo dal presidente della Coldiretti, onorevole Arcangelo Lobianco, che dichiarò alla rivista "Terra e vita" (n. 16/91): "Mettendo da parte l’amicizia che mi lega a Goria devo sottolineare che la sua nomina ha colto in pieno le indicazioni che erano partite nei giorni scorsi quando chiedemmo una guida prestigiosa per il mondo agricolo".

    Dinanzi a questa Commissione l’onorevole Lobianco ha confermato il suo appoggio iniziale, aggiungendo di essere stato lui a fare il nome di Goria in sede di assemblea dei Gruppi parlamentari della Democrazia cristiana, ai quali competeva l’indicazione dei candidati alla carica di Ministro.

    È noto il peso che avevano le indicazioni della Coldiretti nella designazione del Ministro dell'agricoltura che, dal 1948, era sempre stato un democristiano.

    La nomina dell’onorevole Goria fu accolta con pari, e forse maggiore, entusiasmo dal dottor Pellizzoni al quale la caratura tecnica e politica del nuovo ministro schiudeva prospettive di proficua collaborazione.

    Rimane, tuttavia, dubbio se l’insediamento dell'onorevole Goria al Ministero dell’agricoltura era visto dalla Coldiretti come uno sostegno alle sole ipotesi di risanamento interno della Federconsorzi od anche alla trasformazione ed al rilancio del sistema.

    4. Gli eventi immediatamente antecedenti il commissariamento

    Il 30 aprile 1991 l'Assemblea della Federconsorzi approvò il bilancio relativo all'anno 1990, che si chiuse in pareggio.

    I lavori furono aperti dal tradizionale messaggio del presidente della Coldiretti, onorevole Lobianco, che sembrò auspicare, per la prima volta nella storia dell’organizzazione, una apertura al mondo esterno: "(…) E' indispensabile procedere con attenzione al rapido evolversi degli assetti strutturali e di mercato all'interno del sistema agro-alimentare (…) il patrimonio di uomini, di esperienze, di tecnologia e di strutture che in questi anni il sistema Federconsorzi ha saputo creare, deve essere ricollocato in quella nuova realtà (…)".

    L'onorevole Lobianco sembrava arroccarsi, tuttavia, in una posizione di rigida difesa dell'assetto organizzativo, che altri all'interno della Democrazia cristiana, come i ministri Pandolfi e Mannino e, ciò che più conta, come il ministro Goria, consideravano anacronistico e ritenevano del tutto superato.

    Aggiungeva infatti: "(…) L'attualità della Federconsorzi e della sua formula organizzativa (…) va salvaguardata (…) tutta la Coldiretti è impegnata affinché una formula associativa così rilevante per l'agricoltura italiana sia non solo salvaguardata da ogni tentativo di snaturamento ma, diversamente, sia proiettata nelle dinamica realtà economica nazionale e comunitaria".

    L'incalzare degli eventi, di lì a qualche giorno, trasformò le parole dell’onorevole Lobianco in una sorta di epitaffio della Federconsorzi, rendendo palese, a giudizio della Commissione, l'ostinazione della Coldiretti a conservare un sistema di potere, per quasi cinquant'anni impenetrabile, irreversibilmente superato, nella sua consistenza economica e finanziaria, proprio dalle leggi, inflessibili, di quel mercato nazionale e comunitario, cui voleva molto cautamente aprirsi.

    La Coldiretti perseguì fino all'ultimo la via del salvataggio politico mediante l’utilizzo di risorse pubbliche, ma non ebbe successo.

    Previa intesa con i rappresentanti di alcune forze politiche, tentò di far inserire i consorzi agrari tra i beneficiari degli stanziamenti governativi in favore dell’agricoltura, previsti da un disegno di legge allora in discussione in sede deliberante dinanzi alla Commissione agricoltura del Senato.

    Il senatore Micolini, allora vice presidente della Coldiretti, aveva presentato un emendamento che avrebbe assicurato ai consorzi circa un terzo delle provvidenze.

    Insorse il senatore Fabbri del Partito socialista italiano che, con l’appoggio di esponenti della maggioranza e dell’opposizione, fece rimettere l’esame del provvedimento all’Assemblea e, di fatto, fece fallire l'operazione.

    Il bilancio della Federconsorzi, approvato, come sempre, all'unanimità all'Assemblea, a riprova del carattere sostanzialmente monolitico dell'intera organizzazione (Federconsorzi, consorzi agrari, Coldiretti), fu trasmesso al Ministro dell'agricoltura per il visto formale che mai era mancato.

    Si trattava di un bilancio che, nonostante si chiudesse in pareggio, rifletteva in realtà una situazione talmente grave da indurre lo stesso direttore generale Pellizzoni, in una nota intitolata "I problemi da affrontare con estrema urgenza", a rilevare: "I problemi straordinari di natura strutturale e finanziaria che si evincono dal bilancio 1990 e dal suo commento, riguardano la percorribilità del piano di risanamento e rilancio (...). I provvedimenti da adottare devono essere tali da porre la federazione nella condizione di operare in maniera stabile.

    Sarebbero pertanto dannose soluzioni solo temporanee che si limitassero, di fatto, a rinviare i problemi (…) il piano operativo e le relative modalità di attuazione (…) non possono da soli risolvere i problemi senza il supporto di azioni di carattere finanziario ormai di natura straordinaria (…) che potranno implicare sinergie strategiche con il sistema creditizio e contributi esterni, in modo da avviare a soluzione i problemi dell'indebitamento e degli oneri finanziari ormai divenuti difficilmente gestibili".

    In assenza del Ministro, il bilancio fu sottoposto al sottosegretario che lo sostituiva, l’onorevole Noci, socialista, che non lo vistò e lo rimise al ministro.

    L’onorevole Noci, ascoltato nella seduta del 22 febbraio 2000, ha così riferito alla Commissione, che gli ha sottoposto la tesi secondo la quale egli avrebbe immediatamente nutrito sospetti sulla veridicità e correttezza del bilancio e, consultati degli esperti, i quali avrebbero confermato i suoi sospetti, si sarebbe rifiutato di apporre il visto, riferendone a Goria: "Non consultai nessuno (…)ha affermato - quando sul tavolo (…) giunse quel bilancio (…). Non ero nelle condizioni; in primo luogo la firma spettava al Ministro, toccava a lui; in secondo luogo, non ero onestamente ben predisposto nei confronti della Federconsorzi, sbagliando (…). Non entrai nel merito del problema. Seppi solo dopo qualcosa, prima no".

    Al suo rientro presso il Ministero, Goria si trovò, quindi, ad affrontare la questione che non poneva tuttavia, apparentemente, problemi immediati, perché si trattava pur sempre di un bilancio chiuso formalmente in pareggio.

    L'onorevole Goria sapeva tuttavia, al pari degli amministratori e dei sindaci della Federconsorzi, dell’onorevole Lobianco, del professor Capaldo e di altri, che la situazione finanziaria era molto più compromessa di quanto ufficialmente non si dichiarasse e assunse subito la decisione di intervenire.

    Non è dato sapere se la sua consapevolezza fosse precedente l'assunzione della carica e se quindi, accettando il Ministero, fosse al corrente che si sarebbe trovato ad affrontare il problema Fedit o se invece fu informato subito dopo il suo insediamento.

    Certo è che conosceva bene uno dei problemi della Federconsorzi e dell’intero sistema poiché, già nel 1985, quando era Ministro del tesoro, aveva previsto nella legge finanziaria una spesa di 1.713 miliardi per far fronte al debito dello Stato nei confronti della Fedit e dei consorzi per la gestione degli ammassi.

    Egli inoltre ben conosceva l'importanza della Fedit nel sistema agroalimentare italiano ed il peso politico della rappresentanza parlamentare, ancora di tutto rispetto, della Coldiretti.

    Nello stesso tempo gli si prospettava - a giudizio della Commissione - una straordinaria opportunità di rilancio politico, che poteva passare attraverso l’apertura dell’organizzazione federconsortile all’apporto delle forze e delle organizzazioni di sinistra ed attraverso la gestione della ristrutturazione di una parte preponderante dell’intero comparto agro-industriale italiano.

    Il Ministro parlò della situazione con l’onorevole Lobianco che ha riferito del colloquio alla Commissione nella seduta del 1° febbraio 2000: "Avevo incontrato il ministro Goria qualche giorno prima del commissariamento, mi aveva fatto presenti alcune sue preoccupazioni, ma non mi aveva parlato di commissariamento".

    Il Presidente della Coldiretti ha fornito maggiori dettagli al pubblico ministero di Perugia il 4 settembre 1996 dichiarando: "Quando il ministro Goria si insediò mi recai da lui per prospettargli quale era la situazione della Fedit, poiché in precedenza un tentativo di inserire il sistema consortile nel progetto di finanziamenti per la cooperazione (300 miliardi all'anno per 5 anni) era fallito (cfr. supra) per l'opposizione principalmente dei socialisti, in particolare del senatore Fabbri, nonché in parte della Lega delle Cooperative, principalmente quella di ispirazione socialista.

    Eravamo intorno all'aprile '91 e il giorno 30 si tenne l'assemblea di Federconsorzi per il rinnovamento delle cariche e l'approvazione del bilancio.

    Qualche giorno dopo l'assemblea ebbi un nuovo colloquio con Goria, il quale si mostrò riservato e preoccupato per la situazione finanziaria di Fedit. Io gli esposi che la pur notevole esposizione debitoria era ampiamente coperta dal patrimonio e che le difficoltà finanziarie, dovute principalmente al fatto che Fedit pagava i fornitori al più entro 90 giorni, incassando dagli agricoltori ad un anno, non avevano impedito di adempiere tutti i pagamenti correnti con puntualità.

    Aggiunsi anche che era in corso una ristrutturazione del sistema consortile e in preparazione un piano di dismissione come desumibile anche dalla Relazione al bilancio'90, per ovviare alla situazione.

    Riproposi al ministro l'opportunità di abbinare alla politica, che Fedit intendeva comunque portare avanti per il risanamento, anche provvedimenti governativi di sostegno per indurre le banche ad allungare i termini di rientro rinegoziando i tassi con eventualmente un contributo da parte dello Stato sugli interessi. Ebbi la sensazione che avesse già preso delle decisioni, anche se non riuscivo a capire come potesse un ministro insediato mi pare a marzo e senza una men che minima istruttoria, basandosi soltanto sul bilancio, prendere decisioni come quella di commissariare pochi giorni dopo la Fedit".

    Appare evidente alla Commissione, quindi, che il colloquio o i colloqui che l’onorevole Lobianco ebbe con il Ministro furono per lui del tutto insoddisfacenti.

    Il suo tentativo di rassicurare il ministro Goria sull’efficacia del progetto interno di risanamento non ebbe evidentemente successo, se ne ricavò l’impressione che il Ministro avesse preso delle decisioni che non erano quelle che si aspettava, e che gli aveva sottoposto, perché in tal caso avrebbe riportato una ben diversa sensazione di completa concordanza.

    Il commissariamento costituiva una delle possibili decisioni che l’onorevole Goria poteva prendere e, dunque, se non fu discusso, come si potrebbe pur ipotizzare, esso fu sicuramente evocato e cominciò ad essere temuto dall’onorevole Lobianco.

    Il Presidente della Coldiretti si trovava, così, stretto tra la richiesta che veniva dall’interno della Fedit ed una possibile conforme iniziativa del Ministro, il quale mostrava, a giudizio della Commissione, di voler operare in piena autonomia, escludendo la Coldiretti dalla decisione tecnica e politica e dal controllo della gestione commissariale.

    E’ evidente come tutto ciò fosse inaccettabile per l’onorevole Lobianco che aveva sostenuto la nomina del ministro Goria con ben diverse aspettative e che poteva forse giungere ad arrendersi alla ineluttabilità del commissariamento, solo se avesse potuto gestirlo e controllarlo per poi dirigere anche la fase del riassetto del sistema.

    L’azione politica del Ministro e quella dell’onorevole Lobianco, si divaricarono, a giudizio della Commissione, subito.

    Il ministro Goria si determinò al commissariamento della Federconsorzi, traendo lo spunto tecnico dal risultato dell’esercizio 1990, avvalendosi della conoscenza della reale situazione e perseguendo le finalità politiche sopra indicate.

    Nel frattempo, l’onorevole Lobianco tentava strade diverse ottenendo dall’allora ministro del bilancio, l'onorevole Cirino Pomicino, l’impegno ad inserire nella imminente legge finanziaria per il 1991, lo stanziamento dei fondi necessari per il pagamento alla Fedit dei crediti miliardari che essa vantava nei confronti del Ministero dell’agricoltura.

    L’onorevole Cirino Pomicino ha infatti dichiarato al pubblico ministero di Perugia il 25 settembre 1996: "(…) Ricordo che nell’aprile 1991 Lobianco si rivolse a me sottoponendomi principalmente i problemi finanziari della Fedit con riferimento ai debiti che lo Stato aveva nei riguardi della stessa e sollecitando altresì agevolazioni fiscali per i consorzi agrari e per i coltivatori diretti, a loro volta debitori sempre verso la Fedit. I debiti dello Stato e a cascata dei consorzi verso la Fedit erano in larga parte motivati dalla questione degli ammassi. In quella occasione assicurai l’on. Lobianco di avere la massima attenzione verso le questioni prospettate, al fine di poter intervenire con la legge finanziaria, che sarebbe stata varata di li a qualche mese".

    Va osservato che in quel momento non si parlava per nulla del commissariamento della Fedit nel mondo economico, finanziario e politico in generale.

    Il problema era vissuto in tutta la sua drammaticità solo da chi sapeva.

    5. L’iniziativa del ministro Goria

    Molti erano in attesa di ciò che sarebbe successo, dal momento che, contrariamente alla prassi, il ministro Goria continuava a non apporre la sua firma sulla relazione che corredava il bilancio 1990.

    Egli ebbe un colloquio di natura tecnica con il professor Capaldo di cui conosceva, evidentemente, il ruolo presso la Federconsorzi, esternandogli il suo proposito di sottoporla a regime commissariale.

    Ha ricordato il professor Capaldo nel corso dell'audizione del 20 aprile 1999: "Intorno all’aprile 1991, il ministro dell’agricoltura Goria, appena insediato, mi invitò ad esprimere un parere sulla situazione della Federconsorzi che, come egli stesso mi manifestò nel corso di quell’incontro, lo preoccupava molto, tanto da indurlo a ritenerne necessario il suo commissariamento. In quella occasione affermai che, per la conoscenza che avevo della Federconsorzi, sentivo di suggerire al Ministro di non procedere puramente e semplicemente al commissariamento. Anzi, dal momento che l’onorevole Goria era stato per molti anni Ministro del tesoro gli dissi che commissariare una istituzione come la Federconsorzi non era la stessa cosa che commissariare una banca dopo che la Banca d’Italia aveva trovato una soluzione. Quello che in sostanza intendevo sottolineare era il rischio che si poteva correre commissariando la Federconsorzi senza essere in possesso di un piano o di un programma preciso. Inoltre, rispetto alle ripetute manifestazioni di preoccupazione del ministro Goria, gli consigliai di predisporre una ispezione al fine di conoscere meglio la situazione, considerato anche che lo stesso statuto della Federconsorzi attribuiva espressamente questa facoltà al Ministro dell’agricoltura".

    Il Ministro, dunque, affermò chiaramente che considerava il commissariamento come un provvedimento doveroso e necessario; ascoltò le osservazioni, di indubbia correttezza tecnica, del professor Capaldo ma, come si vedrà di seguito, non le recepì, se non nelle parte relativa ad un accertamento ispettivo, che attuò avvalendosi di due tecnici di sua fiducia estranei al Ministero.

    Il ministro Goria, non è dato sapere se prima o dopo il colloquio con il professor Capaldo, ma ragionevolmente prima, fece quindi il passo più importante e politicamente decisivo: sottoporre il suo intendimento al presidente del Consiglio Andreotti per averne l’approvazione.

    Il presidente Andreotti, ha infatti dichiarato, nel corso della sua audizione del 15 febbraio 2000, che il ministro Goria andò a parlargli del commissariamento della Federconsorzi: "Fui informato in via breve dal ministro Goria che la situazione della Federconsorzi era di grave crisi, perché dopo un lungo periodo nel quale le banche avevano avuto molta fiducia nei suoi confronti, anche con una certa larghezza, era sopraggiunto un atteggiamento di grande restrizione, praticamente di quasi impossibilità di contatti. In questa situazione Goria riteneva che, al fine di poter avere un colloquio tra Federconsorzi e banche, occorresse un fatto nuovo e che, comunque, la stessa situazione finanziaria interna della medesima Federconsorzi consigliasse il commissariamento".

    Prima del colloquio, il presidente Andreotti volle aggiornare le sue conoscenze sulla Federconsorzi ed accertò che il Ministero dell'agricoltura aveva da poco "approvato" o più esattamente vistato il bilancio: "Io lo dissi a Goriaha ricordato il senatore Andreotti - e Goria mi disse che a maggior ragione questo rendeva lui preoccupato e reputava indispensabile arrivare al commissariamento perché diceva che erano emerse queste situazioni."

    L’importanza della questione indusse il Presidente del Consiglio a chiedersi se fosse necessario sottoporla al Consiglio dei ministri; ha affermato, infatti, il senatore Andreotti: "Di questa proposta parlai con qualcuno dei colleghi; ne parlammo anche con il Ministro del bilancio e con quello del tesoro e si ritenne che, essendo una competenza del Ministro dell'agricoltura, non fosse necessario far esaminare la proposta stessa dal Consiglio dei Ministri.

    (…) D'altra parte si trattava di un aspetto abbastanza tecnico e quindi dicemmo al ministro Goria che, se quella era la valutazione del suo Ministero, non vi erano obiezioni da parte governativa, nemmeno relativamente alla procedura giuridica. Il Ministro quindi procedette alla nomina dei commissari che fu opera del suo Ministero senza valutazioni da parte della Presidenza del Consiglio".

    Dal punto di vista politico, il presidente Andreotti ha rivendicato la corresponsabilità politica della decisione "l'ho deciso anche io; - ha affermato - ho dato la mia adesione. Ho detto a Goria che, se lo reputava necessario, non avevo alcuna obiezione da fare (…)".

    Egli ha inoltre escluso che con il commissariamento della Fedit si volesse "dissolvere i consorzi agrari; anzi, si considerava questa un'opportunità per risanare la situazione finanziaria e rimettere i consorzi in condizioni di continuare. Non vi era cioè una critica concettuale ai consorzi agrari stessi, a parte alcune polemiche che ci potevano essere su alcuni aspetti particolari (…). L'argomento che sembrò decisivo da parte del Ministro era che, in quelle condizioni, non essendovi più la disponibilità delle banche nei confronti della Federazione, la situazione sarebbe andata per forza in avaria. Pertanto, con dei nuovi interlocutori quali i commissari, dotati quindi dell'autorevolezza del Ministero, si sarebbe potuta probabilmente trovare una soluzione nei confronti delle banche. Questa è la situazione come la ricordo".

    Il senatore a vita ha definito, poi, come estremamente critico il giudizio del ministro Goria nei confronti delle banche: "Sosteneva che avessero largheggiato, forse in modo esagerato, nel passato e che fossero arrivate adesso ad una forma di chiusura anche abbastanza inusuale, perché spesso le banche devono anche accompagnare, se possibile, l'uscita da una situazione di crisi. Però quale fosse poi il tasso di indebitamento o quali fossero le singole banche interessate, non lo so. Certamente Goria mi disse che su questo aveva anche parlato con il presidente dell'Associazione bancaria, che se non mi sbaglio in quel momento era Tancredi Bianchi".

    Osserva, tuttavia, la Commissione che non si è accertata nessuna traccia di un atteggiamento di restrizione creditizia da parte del sistema bancario nei confronti della Federconsorzi o di rifiuto alla richiesta di nuove operazioni di finanziamento o comunque di soccorso alla Federconsorzi; al contrario, le prime esplorazioni in tale direzione, condotte dal dottor Pellizzoni, erano risultate incoraggianti.

    Ottenuta la necessaria approvazione del Governo, il Ministro fece predisporre il provvedimento di commissariamento.

    Ha dichiarato il capo di gabinetto del ministro Goria, dottor Virgilio, a questa Commissione, il 24 febbraio 2000: "So per certo però che sin da una settimana prima del commissariamento avevamo redatto insieme il decreto di commissariamento con il nominativo in bianco; il Ministro mi disse di tenerlo segreto in un cassetto e di aspettare le sue determinazioni ai fini della pubblicazione (…)".

    Subito dopo il Ministro, senza avvalersi in alcun modo della struttura ministeriale, procedette alla nomina di due esperti di sua fiducia, per una rapida valutazione tecnica delle reali condizioni della Fedit.

    Il giorno 8 maggio 1991 il Ministro ufficializzò la sua iniziativa informando il presidente della Fedit, il ragionier Scotti, di aver dato incarico al commercialista professor Flavio Dezzani ed all'immobiliarista Renato Della Valle di acquisire elementi di valutazione sul bilancio 1990, e chiedendogli di prestare loro assistenza.

    Ed infatti, il successivo 11 maggio, il dottor Della Valle provvide ad acquisire l’elenco degli immobili della Fedit.

    Il 14 maggio si tenne il Comitato esecutivo della Fedit. Il direttore finanziario dottor Bambara comunicò l'ultima iniziativa assunta dalla dirigenza per acquisire liquidità di cui c'era assoluto bisogno: si stava trattando con il Credito Italiano un prestito di 250 miliardi, ma la banca chiedeva come garanzia crediti di pari importo nei confronti del Ministero dell’agricoltura.

    Di ciò sarebbe stato informato il ministro Goria che avrebbe dato il suo consenso all’operazione, non sollevando obiezioni come debitore ceduto; in tal modo, tuttavia, ebbe evidentemente a convincersi sempre di più della gravità della situazione.

    Il direttore generale Pellizzoni significativamente rassegnò al verbale della riunione: "(…) La necessità di evitare un ricorso al credito ulteriore rispetto alle iniziative illustrate dal Dr. Bambara se non siano accertate concrete prospettive di risanamento che, come è noto, non dipendono solo da iniziative del management.

    (…) Egli fa presente che, sulla base delle valutazioni effettuate dagli Uffici, la situazione patrimoniale dalla Federazione presenta ancora un saldo attivo e che sono allo studio presso il Ministero dell’Agricoltura e Foreste, iniziative da adottare per far fronte al momento di difficoltà che la Federazione attraversa".

    Appare chiaro alla Commissione che non poteva trattarsi in nessun caso di provvedimenti provvidenziali che contemplavano l'utilizzo di risorse pubbliche.

    Un tentativo in tal senso era stato già fatto dall’onorevole Lobianco ed era fallito per l'opposizione politica dei socialisti e dei comunisti.

    Di altro non poteva trattarsi, quindi, che del commissariamento che, successivamente, il dottor Pellizzoni qualificherà ingiustificato ed imprevisto per allontanare da sé l'accusa di aver voluto e provocato la fine dell'organizzazione federconsortile.

    I consulenti del Ministro erano già all'opera e le sue possibili iniziative erano già note a troppi ed in troppi ambienti interessati perché la dirigenza della Fedit potesse, a giudizio della Commissione, ignorare davvero che la Fedit stava per essere commissariata.

    Nel frattempo il ministro Goria era impegnato nella ricerca dei commissari di fiducia.

    Il 15 maggio 1991, offrì l’incarico al dottor Cigliana di cui aveva, nei giorni precedenti, positivamente sperimentato le capacità.

    Il 16 maggio, per parlagli dei suoi intendimenti, il ministro Goria ricevette il dottor Cigliana alle ore 19 in una sede non meglio identificata, ubicata in via Crispi. Il colloquio fu lungo, tanto da terminare alle 22.30.

    Fu con tali premesse, e, quindi, a commissariamento già definitivamente deciso, ed a commissari officiati, che si giunse alla riunione del 17 maggio 1991 presso la Presidenza del Consiglio alla quale, del tutto erroneamente, sarebbe in seguito stato attribuito un significato politico decisivo per le sorti della Federconsorzi.

    6. Le reali condizioni della Federconsorzi alla data del 17 maggio 1991

    Prima di procedere oltre, nella ricostruzione dei fatti, sembra indispensabile sintetizzare le conclusioni raggiunte dalla Commissione in merito alla condizione economica e finanziaria in cui si trovava la Federconsorzi alla data del 17 maggio 1991.

    La Commissione ha valutato due tesi opposte.

    Secondo la prima, sostenuta dagli amministratori, e fatta propria dall’onorevole Lobianco, essa era sostanzialmente in bonis, il risanamento dell’impresa era iniziato e quindi non era né necessario né opportuno un intervento tutorio.

    Si sostiene, al contrario, che la situazione era insostenibile e che la Fedit si trovava in uno stato che imponeva il commissariamento

    Rinviando per lo sviluppo del tema delle condizioni della Fedit alla data del 17 maggio 1991 ai capitoli precedenti e successivi, in questa sede va enunciato il convincimento raggiunto dalla Commissione:

    L’intervento tutorio, nella forma del commissariamento, era quindi doveroso.

    7. La riunione del 17 maggio 1991 a Palazzo Chigi

    Il mattino del 17 maggio 1991, si tenne a Palazzo Chigi una riunione politica che aveva per oggetto il commissariamento della Fedit.

    Forse rendendosi conto di aver fatto un grave errore politico nel sostenere la nomina di Goria, il quale aveva dimostrato subito di voler rompere lo schema tradizionale che voleva il Ministro dell'agricoltura ossequioso del potere delle organizzazioni professionali, l'onorevole Lobianco non tentò di influire con nuovi incontri diretti sulle determinazioni del Ministro.

    Quando gli fu chiaro che la decisione del ministro Goria si doveva considerare imminente, egli percorse l’unica strada che gli rimaneva, e cioè l’appello alla Presidenza del Consiglio di cui, evidentemente, ignorava la posizione.

    Si rivolse all’onorevole Cristofori, che era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, di estrazione Coldiretti.

    Sembra a questo punto, opportuno lasciare la parola agli stessi protagonisti.

    Ha ricordato dinanzi a questa Commissione l’onorevole Cristofori, nel corso dell'audizione del 29 febbraio 2000: "(…) Devo dire che fui molto meravigliato quando mi telefonò Lobianco (…) dicendomi di aver saputo che il ministro Goria intendeva commissariare la Federconsorzi. Lobianco aggiunse di ritenere che la cosa sembrava essere abbastanza imminente e quindi - dopo aver conferito con il presidente Andreotti, il quale non era al corrente della questione - mi feci carico di parlarne con il ministro Goria il quale mi confermò che, in base alla valutazione dei bilanci da lui effettuata – l'onorevole Goria era stato da poco nominato Ministro, forse solo il mese prima – e considerata la funzione vigilante del suo Ministero in questo ambito, fosse necessario procedere al commissariamento.

    Dopo aver sondato la disponibilità del presidente Andreotti, chiesi al ministro Goria di partecipare ad un incontro presso la Presidenza del consiglio che il Ministro stesso fissò per il successivo 17 maggio, un giorno da ricordare, dal momento che a quella data ci accorgemmo che in realtà tutto era stato già deciso".

    In realtà, come si è visto, i ricordi dell’onorevole Cristofori, relativi alla questione se il presidente Andreotti fosse informato o meno delle intenzioni del ministro Goria, non appaiono coerenti con quanto riferito dal senatore a vita, che ha assunto la piena corresponsabilità politica della scelta compiuta.

    E’ possibile, invero, che il ministro Goria abbia informato il presidente Andreotti solo successivamente.

    In tal caso sarebbe però poco credibile che potesse essere davvero imminente un commissariamento di cui il Ministro dell’agricoltura non aveva ancora neppure informato il Presidente del Consiglio, il quale avrebbe potuto non condividerne la scelta, con conseguenze politiche intuibili.

    Appare più probabile alla Commissione una imprecisione nei ricordi dell’onorevole Cristofori.

    In ogni caso, le cose non cambierebbero di molto.

    Alla riunione del 17 maggio parteciparono il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, il segretario della Democrazia cristiana, onorevole Arnaldo Forlani, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, onorevole Nino Cristofori, il ministro dell’agricoltura, onorevole Giovanni Goria, il ministro del bilancio, onorevole Paolo Cirino Pomicino e il presidente della Coldiretti, onorevole Arcangelo Lobianco.

    Il giorno prima delle riunione, il 16 maggio, l’onorevole Cristofori parlò della questione del commissariamento con il professor Capaldo, come riferito alla Commissione: "(…) Avevo cercato il professor Capaldo, che conoscevo bene, per chiedergli - non ricordo se telefonicamente o di persona - come la pensava. Ricordo con sicurezza che egli era nettamente contrario al commissariamento. Egli riteneva che quella strada avrebbe condotto verso un cammino estremamente pericoloso sul piano economico. Parlando con lui mi convinsi che occorreva riflettere molto prima di arrivare al commissariamento".

    Ha spiegato inoltre l’onorevole Cristofori: "(…) La riunione ebbe luogo nel salottino del presidente Andreotti, che si trovava vicino al suo studio ed era comunicante con l'aula del Consiglio dei ministri.

    Promossi questo incontro perché credevo che quella presa dal ministro Goria non fosse una decisione definitiva ma che avesse ancora un carattere interlocutorio (…).

    Per quanto mi riguarda, sentii il dovere di prendere quella iniziativa perché ero consapevole dell'importanza del problema che aveva importanti risvolti sia dal punto di vista economico che politico.

    (…) Ricordo molto bene quanto dichiarai nel corso di quell'incontro proprio per via delle mie preoccupazioni; il Ministro (…) affermò che, a suo modo di vedere, essendo il suo un ministero vigilante, l'unica possibile e corretta iniziativa fosse quella di commissariare la Federconsorzi.

    Dal momento che ero stato io a convocare quella riunione, presi subito la parola esprimendo la mia contrarietà rispetto all'intenzione manifestata dal Ministro giacché ritenevo che occorresse aspettare prima di procedere ad un'iniziativa di quel genere. Infatti, dalla esposizione di Goria non era emersa la gravità della situazione tradotta in dati concreti o in numeri (…)".

    I ricordi dell’onorevole Lobianco, ascoltato dalla Commissione il 1° febbraio 2000, coincidono: "In quella riunione il ministro Goria disse di voler commissariare la Federconsorzi perché la situazione economica era pesante. Gli chiesi come avesse potuto fare una valutazione del genere, dal momento che si era insediato soltanto da un mese, e lui mi rispose di averne esaminato il bilancio che risultava preoccupante.

    (…) Gli chiesi di prendere qualche giorno di tempo per capire meglio la situazione, ma lui mi rispose di aver già deciso e di aver già agito di conseguenza.

    Il ministro Pomicino propose allora di reperire dei fondi per la cooperazione e di fare entrare in tale ambito risorse da non considerare ovviamente a fondo perduto. Il presidente Andreotti sostenne che il Governo non disponeva di risorse per un'operazione del genere per cui mi rivolsi a Forlani, che in altre circostanze aveva difeso il mondo agricolo, chiedendogli di comunicarmi se il problema era effettivamente rappresentato dalla Coldiretti oppure se magari esistevano accordi sotterranei non di mia conoscenza".

    Ma il segretario politico della Democrazia cristiana rimase in silenzio: "Avevo invitato l'onorevole Forlani - ha ricordato l’onorevole Cristofori - perché ritenevo che appoggiasse l'iniziativa di Lobianco. In realtà, invece, la reazione dell'onorevole Forlani fu di prendere atto delle preoccupazioni manifestate dal ministro Goria; questo in sostanza è stato il suo atteggiamento.

    Forlani non intervenne mai, forse perché conosceva già i fatti. Tuttavia appariva preoccupato dell'aspetto politico, probabilmente a causa della contrarietà di Lobianco".

    Il ricordo dell’onorevole Forlani è stato rassegnato al pubblico ministero di Perugia il 20 settembre 1996: "(…) Come segretario della Democrazia Cristiana non venni interessato della decisione di commissariare la Fedit ed anzi ne ebbi notizia casualmente, essendomi recato a Palazzo Chigi per parlare di altre questioni con il presidente Andreotti in concomitanza di una riunione informale del presidente con Lobianco, Goria e Cristofori. Non ricordo se fosse presente anche il ministro Pomicino. Ed in questa occasione appresi che il ministro Goria era estremamente deciso a commissariare la Fedit e che non intendeva accettare interferenze, appellandosi alle prerogative della sua carica. Disse che era pervenuto a questa decisione dopo aver esaminato, mi pare, la relazione annuale della Fedit. Non volle neppure approfondire il merito della questione e la motivazione della sua decisione. Lasciò ai presenti soltanto la possibilità di prendere atto di quanto stava facendo. Si trattava di un atteggiamento veramente deciso, che non dava alcun incoraggiamento per i presenti ad intervenire e a prolungare la discussione".

    Fu solo al termine della riunione che il ministro Goria comunicò i nomi dei commissari, come riferito alla Commissione dall’onorevole Lobianco: "(…) Al termine della riunione chiesi ancora chi fossero i commissari e Goria mi rispose che si trattava di persone di sua fiducia. Fece i nomi del professor Gambino, del dottor Cigliana - che non conoscevo - e del dottor Locatelli, di cui conoscevo qualcosa dai giornali per essere un consulente del partito socialista dell'epoca.

    Tornato in ufficio mi telefonò il presidente della Federconsorzi che mi comunicò l'imminente arrivo di una notifica. Era già stato tutto deciso a livello politico".

    La riunione si concluse, secondo l’onorevole Cristofori, con una presa d’atto da parte del Presidente del Consiglio di una decisione che rientrava nelle competenze esclusive del Ministro dell'agricoltura, al quale competeva la vigilanza sulla Fedit. "Il presidente Andreotti disse che, se gli elementi emersi non erano sufficienti a stabilire un'iniziativa particolare, doveva decidere il Ministro competente, al quale chiese se aveva sentito gli esponenti della Federconsorzi.

    Egli disse di non aver sentito nessuno, ribadì quindi che si trattava di una sua responsabilità e che disponeva di esperti nell'ambito del Ministero in grado di provvedere. Aggiunse, inoltre, che, se non avesse provveduto al commissariamento, sarebbe incorso in una responsabilità non solo di natura politica".

    Il ricordo dell’onorevole Cirino Pomicino, raccolto dal pubblico ministero di Perugia il 25 settembre 1996, non si discosta da quello degli altri presenti.

    La ricostruzione del senatore Andreotti è parsa più articolata.

    Innanzitutto, secondo il senatore a vita, la riunione, non fu sollecitata da Cristofori, ma dallo steso Goria che, dovendo assumere il provvedimento, "voleva spiegarlo anche per depurarlo da qualunque significato di carattere polemico o di altra natura che non quella di una situazione non altrimenti sostenibile nei confronti delle banche".

    L’onorevole Cristofori, che assume di essersi opposto, "non mi fece certamente né obiezioni, né fu portatore di proposte diverse.

    (…) La riunione non ebbe toni particolarmente difficili, né polemici.

    (…) Goria mi aveva chiesto di fare questa riunione anche con il rappresentante della Coldiretti e con il rappresentante della Democrazia cristiana proprio perché lui voleva spiegare che si trattava di una necessità di carattere obiettivo e che non c'era nessun sottofondo, nessuna altra finalità nel provvedimento.

    Quindi - ripeto - la riunione non ebbe toni particolari, né vi furono delle obiezioni, altrimenti sarebbero state esaminate; quella fu una riunione informativa, con questa preoccupazione".

    Il senatore Andreotti ha poi confermato che il commissariamento era già stato deciso, aggiungendo però che "se nella riunione fossero emerse delle valutazioni, o delle proposte, o delle obiezioni, eravamo lì tutte persone ragionanti. Se fosse stato necessario un supplemento di istruttoria o addirittura la possibilità di non procedere, allora la riunione avrebbe avuto questo significato. Ma nella riunione fu chiarito che non c'erano motivi di carattere né politico, né sindacale o altro: era soltanto una riunione informativa".

    Al termine della riunione Goria dispose che fosse reso pubblico il commissariamento.

    8. Osservazioni Conclusive

    La pubblicazione del decreto di commissariamento determinò grande sconcerto, ma nessuno degli interessati, pur criticandolo, insorse e prese l'iniziativa di impugnarlo; nessuno ne contestò i presupposti e la legittimità.

    Non lo fecero in particolare i soci della Federconsorzi e cioè i consorzi agrari.

    Eppure il decreto non era stato preceduto da una fase istruttoria vera e propria, nessuna struttura ministeriale era stata interessata; la motivazione di esso era sintetica; solo le scarne osservazioni del professor Flavio Dezzani, incaricato dal ministro Goria di esaminare i bilanci e la situazione finanziaria della Fedit avrebbero, in seguito, sostenuto tecnicamente la decisione del ministro, ancorché limitatamente allo squilibrio economico e finanziario denotato dal bilancio 1990.

    Il decreto di commissariamento, infine, fa riferimento con sicurezza ad una patologia cronica che non poteva essere evidenziata dall’ultimo bilancio.

    D'altra parte, per quanto concerne i bilanci precedenti, non esistevano rilievi agli atti del Ministero.

    Ciò induce questa Commissione a ritenere che il ministro Goria fosse in possesso di più complete informazioni - di cui non si è trovata traccia documentale - provenienti verosimilmente dalla stessa Fedit.

    E’ sufficiente rammentare che, il mattino del commissariamento, il professor Flavio Dezzani era ancora a colloquio con i dirigenti della Fedit, proprio per espletare il suo incarico, che non aveva, quindi, ancora concluso.

    E’ opinione della Commissione che il provvedimento avrebbe incontrato serie difficoltà al vaglio formale della magistratura amministrativa e che il Ministro sarebbe stato costretto, per difenderlo, ad esplicitare tutte le sue conoscenze sulla situazione della Federconsorzi.

    Ciò costituisce prova evidente che gli interessati, la dirigenza della Fedit, la presidenza della Coldiretti e della Confagricoltura, i soci dei consorzi agrari, sapevano bene che la situazione era molto più compromessa di quella che il decreto di commissariamento indicava, come del resto avrebbero dimostrato tutte le analisi successive, e che, quindi, esso fosse in realtà inevitabile dal punto di vista tecnico.

    E', altresì, opinione della Commissione che il tentativo dell’onorevole Lobianco di scongiurarlo, introducendo strumenti di mediazione politica che confliggevano con l'autonomia del ministro Goria e con la sua personale visione del problema, non fece che accelerarlo.

    La riunione politica, promossa ad iniziativa dell’onorevole Lobianco e dell'onorevole Cristofori, indusse il ministro Goria ad anticipare la messa in atto di un provvedimento, che sarebbe stata imminente ma non immediata.

    La decisione, di carattere tecnico e politico, era stata, infatti, già definitivamente presa qualche giorno prima del 17 maggio 1991.

    A riprova della irreversibilità della decisione, oltre a tutte le dichiarazioni raccolte ed alla ricostruzione degli eventi, milita la circostanza che un progetto di risanamento complessivo della Fedit, per quanto scarno e inadeguato, era già pronto, tanto da poter essere pubblicizzato contestualmente al commissariamento.

    Ad esaurimento del tema, si può, quindi, affermare, che il commissariamento della Fedit fu un intervento necessitato, perché le condizioni l'imponevano, una volta caduta la protezione politica di cui essa godeva.

    I Gruppi parlamentari che la Coldiretti esprimeva e l'entità del consenso che essa riusciva a canalizzare, non avevano più la forza del passato; il peso politico del modo agricolo si era considerevolmente ridotto; da tempo, premevano nel settore agro-alimentare gli interessi di gruppi privati che la presenza della struttura federconsortile non consentiva di dispiegarsi.

    Non va trascurato che nel corso dell’assemblea della Coldiretti dell’anno 1990, l’onorevole Lobianco aveva presentato il progetto di una Coldiretti come soggetto politico autonomo.

    La Commissione non ha potuto approfondire, per i limiti temporali imposti, quali fossero le posizioni delle correnti della Democrazia cristiana in relazione al progetto e quali ne fossero le implicazioni auspicate o temute a quel tempo.

    Sembra però certo che esso non incrinò i rapporti tra l’onorevole Lobianco e la corrente demitiana della sinistra di base, alla quale questi si era avvicinato da qualche anno.

    Secondo l'onorevole Lobianco: "Il pomo della discordia poteva essere proprio Coldiretti (…).

    Coldiretti infatti già da anni aveva elaborato una graduale linea di autonomia rispetto alla D.C.: dall'originario collateralismo politico si era passati alla colleganza ideale nell'autonomia (…). Tra i possibili sbocchi poteva esserci anche la possibilità che gli organi associativi decidessero il disimpegno politico di Coldiretti (tale decisione è stata poi effettivamente presa nel congresso del novembre '93 e da allora Coldiretti lascia libertà di voto agli associati (…). L'impressione era che la D.C. non volesse impegnarsi, impressione che ebbi anche da colloqui con Forlani che aveva un atteggiamento fumoso, e che viceversa i socialisti fossero decisamente contrari agli interessi Coldiretti e ostili a Federconsorzi".

    In tal modo l’onorevole Lobianco adombra una personale ostilità politica nei suoi confronti, accreditando così la tesi della natura di operazione politica del commissariamento della Fedit.

    E’ opinione della Commissione che si debba convenire con l’onorevole Lobianco sul fatto che analoghe crisi erano state risolte riversandone l’onere sui contribuenti e che fu, quindi, politica la scelta di non farlo per la Federconsorzi.

    La decisone era, però, finalmente corretta e segnava una positiva inversione di tendenza.

    Essa, come si è premesso, si fondava su una situazione di inoppugnabile, incontenibile ed irreversibile crisi della Fedit.

    La Commissione ritiene, quindi, che il tentativo dell’onorevole Lobianco di far passare il commissariamento come un provvedimento del tutto ingiustificato, dovuto solo ad una vendetta politica nei confronti della Coldiretti e della sua persona, sia smentito dall’evidenza dei fatti.

    Va, altresì, ricordato che la più forte opposizione al CAF, acronimo della triade Craxi-Andreotti-Forlani, veniva dalla corrente che si rifaceva all'ex presidente del Consiglio De Mita, al quale, a sua volta, faceva capo l'onorevole Lobianco.

    Alla sinistra di base si richiamava anche l'onorevole Goria, ma il Ministro sembrava perseguire un progetto di personale rilancio politico che, nonostante il sostanziale insuccesso, doveva, comunque, continuare ad assicurargli la presenza anche nel successivo primo governo Amato.

    Ne consegue che il commissariamento della Fedit obbedì all'esigenza di porre fine ad un anomalo controllo monopolistico di un settore importante dell'economia, non più compatibile con l'invalsa cogestione diffusa del potere e con le istanze di privatizzazione e modernizzazione che premevano sull'agro-alimentare.

    Il commissariamento non fu, a giudizio della Commissione, adeguatamente preparato.

    Non è dato sapere con certezza se il ministro Goria, che non ha lasciato appunti o tracce in merito, prese contatto con operatori bancari prima di rendere pubblica la sua volontà.

    Solo dalla testimonianza del senatore Andreotti si ricava che il Ministro conferì con il massimo esponente dell’Associazione bancaria italiana.

    Par di comprendere che egli contasse sul fatto che le banche si sarebbero conformate all’indirizzo del Governo.

    Quanto avvenne dopo induce a ritenere che non vi furono quegli approfondimenti che avrebbero consentito al Ministro di rendersi conto dell'inadeguatezza del suo progetto di rifondazione e che gli avrebbero consigliato proposte operative più valide e soprattutto condivisibili dal sistema bancario italiano ed estero, che era chiamato a sostenerlo.

    Il commissariamento poteva anche essere rinviato per il tempo necessario ad approntare un progetto maggiormente condiviso e a cercare e trovare un commissario o più commissari che meglio conoscessero il settore e che, con maggiore autorevolezza, si rendessero interpreti del progetto di risanamento.

    Il commissariamento obbedì ad una necessità tecnica. La Fedit era in realtà in una condizione definibile con linguaggio giuridico di decozione se non di piena insolvenza.

    La sua crisi economica e finanziaria era ingravescente ed irreversibile.

    Una volta stabilita la necessità tecnica del commissariamento della Fedit, appare agevole rispondere all'interrogativo sull'esistenza di ragioni politiche. Sotto questo profilo non si sono accertate pressioni interne o esterne alla Democrazia cristiana, per colpire il potere della Coldiretti.

    E’ però evidente che l’onorevole Lobianco, a prescindere da una debole e sterile promessa di aiuto dell’onorevole Cirino Pomicino, fu lasciato solo a difendere la Fedit e il suo sistema, che era di per sé avversato dal maggior alleato di governo, il partito socialista, e da tutta l'opposizione di destra e di sinistra.

    A quel tempo, come è noto, prevaleva all'interno della Democrazia cristiana l'asse Forlani-Andreotti, e dunque, appare chiaro che non rientrava nelle loro strategie politiche il sostegno alla Federconsorzi, il cui destino fu messo interamente nelle mani del ministro Goria.

    E' motivo di riflessione che analoghe crisi erano state poste in passato a carico dei contribuenti italiani.

    Forse per la prima volta fu operata una opzione non assistenziale che paradossalmente, proprio per ispirarsi a criteri economici e finanziari e non ad altro, risultò anomala ed in contraddizione con l'impianto del sistema su cui ricadeva, che rappresentava, anch'esso, una anomalia dell'organizzazione imprenditoriale italiana.

    Sul punto sono della massima chiarezza le parole del presidente Andreotti: "(…) Ogni volta che una determinata situazione assumeva il carattere pubblico, si pensava che qualcuno dovesse pagare per forza e si potesse continuare a finanziare senza rischio per il finanziatore stesso, ma anche senza contropartite valide di carattere economico. Non so se questo sia stato il motivo che spinse il ministro Goria ad assumere certe decisioni, ma questa potrebbe essere proprio la spiegazione.

    (…) Vorrei ricordare che si era anche in una fase abbastanza avanzata di discussione di quella che sarebbe stata una sostanziale novità normativa; si stava cioè lavorando sul trattato di Maastricht, il quale prevedeva che i conti pubblici e i bilanci avrebbero dovuto essere molto più rigorosi di quanto erano stati fino a quel momento e che l'indebitamento in determinate direzioni non avrebbe potuto essere più considerato lecito. Mi sembra, quindi, che questo fosse anche un clima in cui si imponeva la necessità di un certo riassetto di situazioni".

    E' opinione della Commissione che, se era assolutamente necessario commissariare, era parimenti necessario riformare l'impianto Federconsorzi e consorzi agrari, operando scelte che dovevano passare attraverso il Parlamento.

    Questa sembra essere una responsabilità politica del ministro Goria, che con il consenso del Governo, tentò una "rivoluzione" per via amministrativa di una questione che si sarebbe dovuta affrontare a seguito di un dibattito aperto a tutti i contributi e con soluzioni iscritte in una coerente visione dell’assetto del sistema agro-alimentare.

    9. Il "patto scellerato"

    La Commissione ritiene di aver raccolto elementi sufficienti per chiarire un interrogativo che è serpeggiato nelle indagini condotte e cioè se il commissariamento della Federconsorzi fu il prodotto di un patto e tra chi l’eventuale patto fu stipulato.

    La decisione di commissariare la Federconsorzi fu avallata dal silenzio-assenso del segretario politico della Democrazia cristiana e, fu, quindi di natura politica segnando, per quel che poi accadde, di fatto, la fine di un monopolio.

    La distanza tra una decisione politica ed un "patto scellerato" è, tuttavia, siderale.

    Fu il presidente della Coldiretti, onorevole Lobianco, a parlare per la prima volta di un "patto" accompagnandolo con la qualificazione di "scellerato".

    Nel dare l’addio alla presidenza dell’associazione, due anni dopo il commissariamento, affermò nel suo discorso assembleare: "Ho dovuto fare i conti con le conseguenze di un patto scellerato di certi personaggi eseguito con freddo cinismo per la distruzione di una struttura importante per l’agricoltura.

    (…) Certi ex potenti di ieri non mi hanno perdonato la dura e testarda battaglia per difendere l’autonomia della Coldiretti e per non asservirla a nessun potente (…) non mi hanno risparmiato certi potentati economici per aver osato additarli come un pericolo per la nostra agricoltura e la nostra economia".

    La Commissione ha sentito in merito l’onorevole Lobianco, ma non ne ha ricevuto spiegazioni chiare ed appaganti.

    A lungo, tenuto conto di quanto avvenuto successivamente al commissariamento, è stata coltivata l’idea che il "patto scellerato" denunciato dall'onorevole Lobianco si riferisse ad un commissariamento programmato in funzione della cessione di tutti i beni della Federconsorzi alla società SGR.

    E’ opinione della Commissione, come si vedrà di seguito, che l’assunto sia destituito di ogni fondamento.

    Si può ipotizzare che, in realtà, l’onorevole Lobianco si riferisse alla scelta politica della Democrazia cristiana di non sostenere la Fedit e, quindi, la Coldiretti, oppure al progetto di consentire l’ingresso nell’area federconsortile di imprenditori privati non graditi alla Coldiretti o, infine, alla circostanza che i commissari furono scelti secondo una logica di appartenenza politica che vedeva rappresentati un settore della Democrazia cristiana e del Partito socialista, ed esclusa del tutto la rappresentanza della Coldiretti.

    "Il patto" consisteva, dunque, nell’esclusione della Coldiretti dal tradizionale ed indiscusso controllo del sistema.

    Secondo quanto dichiarato dall’onorevole Lobianco al pubblico ministero di Perugia, lo stesso onorevole Forlani gli avrebbe detto di essere rimasto vittima di un inganno: "Soltanto in un'occasione, parlando con Forlani, lui mi disse che forse era stato ingannato. Siccome quest'affermazione poi a Perugia l'ha negata - si tratterebbe quindi della mia parola contro la sua - non mi sento di metterla in discussione".

    L’onorevole Forlani ha tuttavia riferito al pubblico ministero di Perugia: "(…) Prendo atto che Lobianco ha riferito di un fugace incontro con me, nel quale io avrei risposto ad una sua sollecitazione circa gli esiti del commissariamento con la frase "mi dispiace mi hanno ingannato". Non ricordo l'episodio, non riesco ad ipotizzare da chi possa essere stato".

    E’ opinione della Commissione che non vi furono inganni, ma scelte consapevoli motivate e meditate da parte di tutti coloro che le assunsero.

     

    Capitolo Settimo

     

     

    Dal commissariamento al concordato preventivo

     

    1. Alcuni dati
    2.  

      Per meglio comprendere l'importanza sociale ed i riflessi, anche sull'occupazione, di quanto si esporrà, giova rammentare che, alla data del 31 dicembre 1990, la Federconsorzi aveva 1.311 dipendenti e le società controllate e collegate 2.711, per un totale di 4.022.

      I produttori agricoli che avevano conferito il loro prodotto alla Federconsorzi erano circa 50.000.

       

    3. I progetti riformatori del ministro Goria e la gestione commissariale

    2.1 I presupposti di tali progetti

    Qualsiasi progetto riguardante la Federconsorzi commissariata doveva tener conto di due aspetti essenziali: l'ammontare delle passività e l'ammontare delle attività.

    Cominciando da queste ultime e tenendo conto dei dati allora disponibili quali emergevano dal bilancio 1990, giudicato per altro non attendibile, le attività si componevano di crediti, di beni mobili ed immobili e di partecipazioni.

    Per quanto riguarda in particolare gli immobili, esisteva una notevole discrasia tra i valori di libro ed i valori loro attribuiti dai consulenti che avevano elaborato il progetto di rilancio della Fedit.

    Infatti, nel programma ufficiale di rilancio del gruppo Fedit, il valore degli immobili della società era indicato in 870 miliardi.

    Immobili iscritti per 55 miliardi nel bilancio Fedit venivano stimati 480 miliardi; immobili iscritti nel bilancio delle immobiliari per 90 miliardi venivano stimati 390 miliardi.

    Nello studio sopra indicato si evidenziava che:"Il patrimonio immobiliare è concentrato per il 43 per cento nel comparto terziario (commerciale) e presenta le massime opportunità di realizzo. Il comparto abitativo è concentrato su Roma ove il mercato è molto attivo e può consentire rapidi smobilizzi. La forte presenza di tipologie abitative commerciali e terziario nei maggiori centri urbani con immobili di pregio favorisce in linea teorica una immediata liquidabilità."

    2.2 Il programma originario

    Il commissariamento fu accompagnato da un comunicato stampa che indica con chiarezza il progetto riformatore del mMinistro Goria: "Negli ultimi anni la situazione economica della Federconsorzi è andata progressivamente peggiorando (…). Ad oggi la prospettiva per il futuro, pur tenendo conto della già avviata e indispensabile ristrutturazione dell’intero sistema distributivo facente capo alla organizzazione dei consorzi agrari, non lascia sperare di poter fronteggiare gli oneri finanziari connessi con l’indebitamento via via determinatosi.

    E’ dunque necessario intervenire senza ritardi attraverso un piano di sistemazione della posizione debitoria, piano che consenta ai creditori di recuperare le proprie spettanze in linea di capitale e, alla Federconsorzi, di continuare a svolgere, in modo equilibrato, la sua funzione al servizio della agricoltura.

    La organizzazione é in grado di pagare i propri debiti solo che le banche creditrici, nei confronti delle quali si mette a disposizione, sino all’ultima lira, l’intero patrimonio, si rendano disponibili, nel loro precipuo interesse, a preservare il valore delle attività e a cogestire, nelle forme più trasparenti, la realizzazione dell’attivo patrimoniale".

    Contemporaneamente al provvedimento di commissariamento, il Ministro rese pubbliche anche le linee principali di sistemazione della Federconsorzi che obbediscono ad una ispirazione fondamentale di privatizzazione, riecheggiano le idee del consulente del ministro Saccomandi, il dottor Artusi, e traducono in piano operativo le esigenze di consolidamento della posizione debitoria che la stessa dirigenza della Federconsorzi aveva tentato di realizzare.

    L'ipotesi elaborata dal Ministro, verosimilmente grazie ad apporti tecnici che non è stato possibile individuare, prevedeva la concentrazione delle attività della Federconsorzi in tre società per azioni:, una prima destinata a raccogliere le attività "liquide" (liquidità vera e propria, crediti commerciali, giacenze di magazzino, ecc.) e, al passivo, i debiti verso i fornitori, il fondo accantonamento per il personale, e altri debiti di gestione; una seconda società destinata a raccogliere le attività mobiliari (crediti finanziari, partecipazioni, - Bna-Fata-Credito agrario ferrarese-Fedital ecc.) ed infine una terza società destinata a raccogliere le attività immobiliari e i crediti a più lungo realizzo.

    Per quanto riguarda i debiti, si prevedeva che le banche ricalcolassero gli interessi relativi agli anni '89 e '90 sulla base dell’allora vigente tasso legale (pari al 10dieci per cento), e consolidassero il loro credito al 31 dicembre 1990, omettendo di computare gli interessi dal 1°gennaio 1991.

    Il debito della Fedit verso le banche sarebbe stato ripartito sulle tre società in proporzione al patrimonio di ciascuna di esse e sarebbero stati concordati i modi di realizzo dei cespiti.

    Non si mancava di prevedere la gestione di quelli immobiliari attraverso la collaborazione di una società, la SIB spa, che faceva capo allo stesso consulente del ministro Goria, il dottor Della Valle!

    La prima società per azioni, essendo destinata a continuare la gestione in forma di centrale d’acquisto come semplice mediatrice "e dopo una radicale riorganizzazione", avrebbe realizzato la trasformazione del sistema, segnando la fine di quello consortile.

    Non si prevedeva la cessazione di consorzi agrari, ma il rilevamento delle attività di quelli in crisi da parte di altri consorzi o di altri non meglio qualificati soggetti di nuova costituzione.

    Si trattava, come appare evidente, di una prospettiva di rivoluzione del sistema che si realizzava senza il minimo concorso dei soci della Fedit e cioè dei consorzi agrari, senza alcuna modifica legislativa, senza un dibattito parlamentare, senza chiarezza di prospettive, in virtù apparentemente della sola volontà del ministro Goria, tradottasi in uno scarno decreto.

    La struttura ipotizzata corrispondeva alle richieste che provenivano dall'interno della Fedit di liberare il governo della holding dalle limitazioni statutarie che ne condizionavano le determinazioni operative aprendo, inoltre, alla partecipazione dei privati, ed assicurava un risultato politico di notevole rilievo: la fine del dominio delle associazioni di categoria e della Coldiretti e, quindi, di quella parte della Democrazia cristiana che essa esprimeva.

    Il progetto fu abbandonato perché fu presto chiaro che un nuovo computo ed una moratoria degli interessi sui crediti alla Fedit da parte delle banche, per gli anni precedenti, non erano assolutamente possibili dal punto di vista giuridico per l’assenza di uno strumento che lo consentisse.

    Anzi, lo vietavano il codice civile e la normativa tributaria.

    Di conseguenza il peso schiacciante degli interessi avrebbe impedito qualsiasi produzione di utili alla nuova prevista società.

    Il commissariamento produsse, inoltre, l'effetto di una immediata sospensione dell'erogazione di crediti da parte di tutto il sistema, con conseguenti insostenibili problemi di liquidità; pertanto il progetto non poteva più trovare attuazione perché esso presupponeva la persistenza degli affidamenti bancari che, invece, furono tutti immediatamente sospesi.

     

    2.3 Il nuovo progetto Agrisviluppo

    Il ministro Goria continuò a perseguire, con chiara determinazione, la trasformazione della Fedit in una società per azioni che continuasse ad esercitarne le funzioni, anche dopo l'insuccesso delle sue proposte iniziali.

    Fu quindi elaborato dai Commissari governativi, in brevissimo tempo, un secondo progetto che ebbe la luce il 29 maggio 1991.

    Si ipotizzò la costituzione di una società alla quale affidare tutte le attività di commercializzazione svolte dalla Federconsorzi, presupponendo che i consorzi agrari riconoscessero alla nuova entità un ruolo rappresentativo dei propri interessi e concentrassero in essa i propri approvvigionamenti di merci.

    A loro volta i fornitori della Federazione avrebbero dovuto sottoscrivere degli accordi-quadro con la nuova società, per la commercializzazione dei propri prodotti nella rete di distribuzione dei consorzi agrari.

    Alla nuova società, raggruppante tutte le attività commerciali svolte dalla Federconsorzi, si progettava di affidare il compito di offrire ai produttori agricoli un pacchetto integrato di prodotti, tecnologie e servizi, nonché la collocazione sul mercato delle produzioni agricole.

    Il progetto si incarnò nella Fedit-Agrisviluppo spa, costituita in regime commissariale, in base ad uno studio elaborato da una società del gruppo IMI, il 6 giugno 1991 e cioè dopo soli 19 giorni dal commissariamento.

    Si procedette alla trasformazione di una preesistente società del gruppo, e cioè la Fedexport-Federconsorzi-Export-Import srl, con il dichiarato fine di svolgere tutte le attività di commercializzazione e di prestazione di servizi svolte dalla Fedit, assicurando "la continuità nella fornitura ed erogazione di mezzi e servizi utili all'agricoltura e salvaguardando l'integrità del sistema distributivo rappresentato dai consorzi agrari e dalla loro Federazione".

    Essa era concepita come strumento per la soluzione del problema Fedit e si concretizzava in una società per azioni al cui capitale (inizialmente di 30, a regime di 250 miliardi) avrebbero potuto concorrere i maggiori creditori della Fedit, e cioè le banche, i fornitori, i consorzi agrari, ed altri operatori del settore agricolo.

    La principale innovazione sul piano economico-funzionale sarebbe consistita nel fatto che l’attività sarebbe stata svolta non più attraverso l’acquisto e la rivendita dei beni, ma mediante una mera intermediazione.

    Le forniture sarebbero state fatte dal fabbricante/fornitore direttamente ai consorzi.

    I consorzi agrari sarebbero diminuiti di numero da 70 a 50.

    Si ipotizzava che la Federconsorzi restasse ente ammassatore ma l’attività venisse seguita e non più gestita da una sezione con autonomia contabile e amministrativa.

    Nel progetto, la nuova società avrebbe movimentato un giro d’affari di 3.650 miliardi.

    Si prevedeva la cessazione dell'attività creditizia della Federconsorzi, a causa della situazione di illiquidità in cui essa si era venuta a trovare, e si affidava a future innovazioni legislative la soluzione del problema del credito agrario.

    Il progetto fu accostato - da uno dei commissari, il dottor Locatelli - a quello che aveva interessato il Banco Ambrosiano con la costituzione del Nuovo Banco Ambrosiano.

    Dichiarava il ministro Goria alla Commissione agricoltura e foreste del Senato in data 4 giugno 1991: "Ci si domanda se la proposta di un piano di sistemazione della situazione debitoria della Federconsorzi e di rilancio della sua attività sia stata davvero fondata sulla situazione economica e finanziaria della organizzazione e non piuttosto su ragioni diverse. E ci si domanda anche se la strada scelta sia stata la migliore o anche soltanto l’unica possibile (…).

    Le domande, tutte legittime, muovono da un equivoco che va subito chiarito con estrema chiarezza.

    Lo stato di potenziale insolvenza della Federconsorzi non è stato evidenziato dalla proposta di sistemazione della situazione debitoria e di rilancio della sua attività e tanto meno dalla nomina dei commissari (…).

    La situazione di potenziale insolvenza era evidente sulla base di numerosi comportamenti ed è stata comunque denunciata con straordinaria chiarezza dall’approvazione dei bilanci della Fedit e delle società controllate per l’esercizio 1990.

    Per cogliere interamente quanto sopra richiamato, sono sufficienti pochi accenni preceduti dalla constatazione secondo la quale, per quanto ad oggi risulta, il bilancio 1990 è corrispondente alla vera situazione dell'organizzazione.

    E’ proprio tale bilancio, redatto anche grazie alla decisione degli amministratori in forma consolidata, a evidenziare però con chiarezza lo stato di difficoltà dell’organizzazione.

    E’ infatti puntigliosamente annotato negli atti come il sostanziale pareggio del conto consolidato e di quello della Fedit si ottiene esclusivamente attraverso annotazioni del tutto straordinarie e comunque non attinenti la gestione. Spiccano in particolare le cancellazioni di debiti ritenuti prescritti per 253 miliardi e la registrazione di plusvalenze per 275 miliardi. E’ di tutta evidenza che, anche solo in assenza di tali eventi - si ripete - del tutto estranei alla gestione, la perdita dell’esercizio sarebbe stata di circa 528 miliardi su ricavi totali inferiori a 4000 miliardi.

    (…) In più, se lasciata evolvere senza interventi radicali, la situazione avrebbe condotto ad una perdita dell’esercizio 1991 non inferiore a 1000 miliardi, rappresentata sostanzialmente da circa 100 miliardi di perdita della gestione operativa, da oltre 600 miliardi di oneri finanziari e da circa 300 miliardi di crediti inesigibili da registrarsi nell’anno come tali.

    Dalla situazione richiamata, si deducono alcune conclusioni difficilmente controvertibili.

    La prima: non reagire in modo drastico ad una simile situazione, avrebbe comportato per tutti coloro che verso di essa portano una certa responsabilità un peso personale e politico difficilmente sostenibile.

    La seconda: non esistendo possibilità di nessun genere circa un miglioramento della gestione tale da incidere in termini ragionevoli sul risultato economico, qualsivoglia idea di recupero della situazione non può in alcun modo prescindere dal blocco nel computo degli interessi passivi relativi alla situazione debitoria in essere.

    La prima verifica della situazione successiva all’inizio della gestione commissariale ha peraltro dimostrato, in termini incontrovertibili, l’impossibilità di procedere nella gestione normale; la liquidità era praticamente a zero; gli affidamenti, di fatto, ritirati da tempo (…).

    (...) Tutto ciò premesso, occorreva comunque valutare anche il patrimonio, certamente cospicuo. Ed è proprio sulla base di tale valutazione che si é ritenuto di poter proporre ai creditori un accordo (…). E’ di straordinaria evidenza che la proposta di accordo (che nelle sue linee essenziali appare ancora quella che meglio coglie anche l’interesse dei creditori) configura di fatto una cessio bonorum (…). Anche la proposta, certo non "centrale", di ricalcolare gli interessi maturati negli ultimi due anni rispondeva dichiaratamente all’esigenza di rendere più certo il raggiungimento dell’obiettivo dichiarato.

    (…) La proposta può essere modificata secondo mille ipotesi. Un dato solo non può essere modificato: senza il blocco nel computo degli interessi, non esiste alcuna possibilità di sistemare la situazione debitoria secondo formule concordate, e in tal caso, vista la situazione economica sopra descritta, restano unicamente le forme coatte di liquidazione.

    (…) Circa l’organizzazione del nuovo soggetto, si è predisposto un progetto dettagliatissimo che è disponibile al confronto con chiunque e aperto ad ogni miglioramento.

    Circa invece la capitalizzazione ed il controllo, si è proposto a quante Banche vogliono concorrere a sostenere l’attività della Fedit di sottoscrivere la parte di capitale che non fosse immediatamente collocabile nel mondo dell’agricoltura nella funzione di consorzio di collocamento, con l’impegno di renderlo disponibile al mondo agricolo via via che quest’ultimo andrà ad organizzarsi per riceverlo.

    (…) Corollario del tutto, è il piano di riassetto della rete periferica dei Consorzi Agrari Provinciali, che è già stato presentato e che va, ad ogni costo, rapidamente attuato".

    2.4 Il fallimento del progetto Agrisviluppo

    A sottoscrivere le azioni della nuova società furono chiamati i consorzi agrari ed i rappresentanti del mondo agricolo, ma in realtà la condizione economica e finanziaria dei consorzi non consentiva che in pochi casi la partecipazione alla nuova iniziativa, denominata con felice sintesi giornalistica Fedit 2.

    La categoria dei "rappresentanti del mondo agricolo" era inoltre assai nebulosa e non era quindi chiara e definita la composizione della compagine sociale e l'attribuzione della direzione.

    Dopo qualche iniziale resistenza, il progetto Agrisviluppo fu approvato dall'ABI, nel contesto di un protocollo di intesa globale con il Ministero dell'Aagricoltura che prevedeva anche la disponibilità delle banche a considerare congelati i saldi creditori verso la Fedit e parimenti congelati gli interessi dal 1° gennaio al 31 novembre 1991.

    Il tentativo non ebbe successo perché non prestarono la loro collaborazione molte banche italiane e tutte le banche estere per le ragioni che saranno più oltre illustrate.

    Infatti l'intesa tra Ministero ed ABI non fu approvata, come richiesto dal ministro Goria e dai commissari governativi, da tutte le banche ed al suo fallimento, alla fine di giugno 1991, fece seguito la richiesta di concordato preventivo.

    Va notato che tra le banche italiane che non aderirono al progetto di rilancio vi 'era la Banca Nnazionale del lavoro, che era la maggiore creditrice del gruppo Fedit-Agrifactoring.

    Ciò sembra significare che neppure il Dicastero del tesoro, in quel momento retto dal dottor Guido Carli, sosteneva il progetto.

    3. Il concordato preventivo: epilogo non annunciato del commissariamento

    I progetti del ministro Goria di tamponare la voragine debitoria con una moratoria e di rilanciare una Fedit di servizio aperta ai privati non più controllata dalle due associazioni di categoria, che da anni la dominavano e che, anche per il suo tramite, concorrevano a governare la politica agricola nazionale, fallirono senza appello.

    Su di essi si coagulò una invincibile opposizione.

    Dello schieramento facevano parte le banche estere, che non volevano e forse istituzionalmente non potevano investire nulla e che continuavano a chiedere di essere pagate integralmente e subito; numerose banche italiane, che non intendevano aderire alle richieste di rinuncia agli interessi e di nuovi investimenti, in particolare la Banca Nnazionale del lavoro - che già fortemente riottosa ad accettare di rinunciare a parte del dovutole, non intendeva assolutamente partecipare, evidentemente in conformità alla linea politica del Tesoro, alla rischiosa scommessa di investimenti (occorrevano a regime 300 miliardi) ad incerto ritorno), nella Fedit 2 progettata dal ministro Goria - ed infine le due associazioni di categoria, Coldiretti e Confagricoltura, e, le rispettive rappresentanze politiche.

    Nel descritto contesto, il ministro Goria ed il presidente del Consiglio Andreotti decisero il ricorso al concordato preventivo per la Fedit.

    Per quanto taluni,o come il commissario governativo dottor Cigliana, abbiano insistito nel voler presentare come naturale la decisione, essa non fu affatto un epilogo naturale del commissariamento.

    Molteplici convergenti indicatori attestano che il ministro Goria non aveva affatto in mente una soluzione esterna ed eterogestita ed ancor meno una cessione giudiziale dei beni.

    Egli, che voleva davvero, ancorché velleitariamente, rifondare il sistema, cambiando la struttura della Federconsorzi e preservando i consorzi, aveva però costantemente e pubblicamente affermato che, se il suo progetto non avesse trovato l'adesione delle banche, avrebbe fatto ricorso alla liquidazione coatta amministrativa.

    Concludendo la sua audizione in Senato, primasopra ricordata, affermava infatti il ministro Goria: "(…) Resta, a questo punto, del tutto evidente che una risposta negativa o anche solo fuori tempo da parte dei creditori (…) testimonierebbe chiaramente la scelta esplicita a favore degli strumenti amministrativi di liquidazione e lascerebbe ai creditori medesimi ogni responsabilità di tale decisione".

    Si può ipotizzare che il ministro Goria, quando si rese conto di aver perso la partita, fece prevalere considerazioni politiche e di opportunistica convenienza sulla coerenza.

    Dopo aver subìto un grave smacco politico - - il primo (ed unico) "no" delle banche italiane al Governo  - la scelta di dar corso ad una immensa liquidazione coatta che lo avrebbe mantenuto sotto il fuoco incrociato delle esigenze occupazionali e di quelle liquidatorie, e che avrebbe fatto apparire ogni giorno sempre più grave la sua disfatta, doveva apparirgli come un'era impresa titanica e forse suicida.

    Molto più semplice e pagante sotto il profilo politicamenteo poteva apparirgli trasferire il problema nell'ambito giudiziario: ciò gli avrebbe consentito una dignitosa uscita di scena.

    Le valutazioni politiche del presidente del Consiglio Andreotti non potevano essere diverse.

    Il commissariamento aveva inferto un gravissimo colpo ad un sistema di potere al quale la sua corrente non partecipava che in minima misura.

    Era stata presa una decisione coerente con la politica generale di contenimento della spesa pubblica. Il Governo non aveva alcun interesse ad assumersi il peso della gestione liquidatoria.

    La decisione di procedere alla liquidazione coatta amministrativa sarebbe, inoltre, sembrata come una ulteriore dichiarazione di ostilità alla lobby della Coldiretti ma, a differenza di quella concernente il commissariamento, non sarebbe stata giustificabile in termini di assoluta necessità.

    La scelta del ministro Goria, tecnicamente fatta passare come una decisione in linea di continuità tra liquidazione volontaria con vendita dei beni e concordato con cessione di beni, che i creditori avrebbero mostrato di gradire ma che in realtà avevano respinto, era del tutto incoerente con i suoi precedenti pubblici proclami, ma soddisfaceva l'esigenza di trasferire ad un organo esterno, il Tribunale di Roma, la gestione della crisi.

    Essa non sembrò segnare l'avvio concertato del progetto SGR.

    Anzi, in un primo tempo il ministro Goria non si mostrò favorevole all'operazione, esternando pubblicamente forti riserve sulla congruità del prezzo offerto. Di seguito cambiò sicuramente opinione, non sollevando più obiezioni.

    Favorevole era invece, a giudizio della Commissione, il senatore Andreotti.

    Il ministro Goria si mosse abilmente - è da ritenere sotto la guida del presidente del Consiglio Andreotti - spiegando le vele al vento vincente, tanto che la vicenda Fedit non ne segnò affatto, come avrebbe potuto e dovuto, la fine della carriera politica per inadeguatezza.

    L'onorevole Goria fu nominato ministro delle finanze nel successivo Governo Amato -  che immediatamente presentò un progetto di ripiano dei debiti pubblici verso la Fedit  - e scomparve dalla scena solo quando si dimise perché coinvolto nella vicenda penale riguardante la Cassa di risparmio di Asti.

    La Commissione ritiene che anche il commissariamento in precedenza non sia stato affatto concordato con colui – - il professor Capaldo  - che doveva, di lì a poco, dare il suo nome all'operazione SGR e che, non a torto, continua a rivendicare di averlo sconsigliato.

    Tenuto conto delle modalità con le quali il commissariamento avvenne; un banchiere anche meno provveduto del professor Capaldo, non solo non avrebbe operato violando ogni regola del mondo bancario, che non glielo avrebbe certo perdonato, ma non si sarebbe mai alienato la Coldiretti e quella parte della Democrazia cristiana, la sinistra di base, che l'aveva portato ad essere il più autorevole consulente della Fedit.

    Il ministro Goria decise il commissariamento d'intesa con il presidente del Consiglio Andreotti e con il consenso dell'onorevole Forlani e non tramando con il professor Capaldo ma, anzi, contro la Coldiretti - che aveva designato quest'ultimo a presidio della Fedit e che tentò fino all'ultimo di scongiurare il commissariamento o quanto meno di non farlo gestire da altri.

    Di fatto, una volta iniziata la procedura concorsuale, il ministro Goria perse un ruolo propositivo nella vicenda.

    4. La richiesta di concordato preventivo

    La richiesta di ammissione alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni, autorizzata dal Ministro il 3 luglio 1991, fu depositata presso la cancelleria del Tribunale di Roma il 4 luglio 1991.

    L'Assemblea dei soci e cioè dei rappresentanti dei consorzi agrari la ratificò il 9 luglio.

    Nella richiesta si evidenziavano i limiti ed i costi della struttura della FedrconsorziFederconsorzi e l’irreversibilità della sua crisi.:

    "La mancanza di un capitale di rischio adeguato sia da parte della Federconsorzi, sia da parte dei Consorzi, aveva già comportato la necessità di ricorrere costantemente e pesantemente al credito per qualsiasi necessità economica e finanziaria, con conseguente aumento degli oneri da indebitamento. Va tuttavia ricordato che negli anni di prosperità erano stati accumulati margini cospicui, divenuti mezzi patrimoniali della Federconsorzi e da quest’ultima investiti in immobili e partecipazioni.

    I risultati operativi dei Consorzi si sono dimostrati in genere largamente inferiori a quelli previsti. (…) E ciò ha comportato la necessità di rilevanti interventi finanziari, da parte della Federconsorzi, sia con lo sconto e il rinnovo massiccio di cambiali agrarie (spesso aventi carattere tipicamente finanziario); sia con interventi straordinari nei casi di dissesto dei Consorzi (acquisto di immobili il cui uso veniva poi ceduto a condizioni vantaggiose; annullamento di crediti, per centinaia di miliardi, negli ultimissimi anni; prestiti a lungo termine a tasso di favore). Sulle società industriali controllate dalla Federconsorzi incidevano invece sia la situazione di crisi e di inefficienza di molti Consorzi; sia (più ultimamente) la crisi della Federconsorzi (che ritardava al massimo i pagamenti delle merci fornite); sia una concezione dell’intero Gruppo che aveva caratteristiche tendenzialmente autarchiche e poco orientate sui valori di mercato.

    Le dilazioni di pagamento concesse dal Consorzio agli agricoltori erano maggiori rispetto a quelle riconosciute dai fornitori alla Federconsorzi, con conseguenti ulteriori oneri finanziari per quest’ultima. La quale imponeva poi ai consorzi una intermediazione che a volte era inutile e spesso costosa. (…).

    Tale rapida disamina evidenzia gli irreversibili sintomi di impossibilità a far fronte economicamente alle mutate esigenze dei tempi ed alle sfide internazionali che attendono l’agricoltura italiana. Assenza di capitale, onerosità di strutture e sistemi d’intervento che privilegiano "il servizio a scapito dell’economicità" hanno determinato progressivamente, quanto irreversibilmente, il dissesto della Federconsorzi (…).

    I Commissari nominati con il Decreto citato, hanno immediatamente constatato che la situazione si era deteriorata rispetto a quanto già riscontrato dal Ministero vigilante. Non solo, infatti, la gestione si svolgeva in condizioni di crescente deficit di conto economico, ma peggiorava di giorno in giorno, essendosi ormai utilizzate, fino all’estremo limite, le possibilità di manovra finanziaria all’interno del Gruppo e nei confronti dei fornitori. In particolare:

    - i pagamenti ai fornitori erano da alcuni mesi in situazione di forte ritardo;

    - ancora più grave appariva la situazione debitoria nei confronti di taluni importanti Società industriali controllate, fornitrici della Federconsorzi.

    Il Commissariamento ha inoltre determinato il blocco completo dei finanziamenti bancari con conseguente situazione di totale illiquidità.

    (…) I Commissari hanno sottoposto al Ministro dell’Agricoltura di richiedere al Tribunale di Roma l’ammissione alla procedura di Concordato Preventivo, ottenendo la relativa autorizzazione in data odierna.

    Ricorrono infatti tutte le condizioni previste all’articolo 160 della legge fallimentare per l’ammissione a tale procedura che tra l’altro appare la più omogenea rispetto al già operato tentativo di liquidazione volontaria che ha trovato l’adesione di una cospicua pluralità di creditori".

    Fin dalla richiesta, si evidenziava un vizio in grave contrasto con la procedura scelta e che dipendeva sia dallo stato della organizzazione tecnico-contabile della Fedit, sia dalla rapidità delle decisioni adottate.

    Non si procedette ad una esposizione estimativa delle componenti del patrimonio e dei criteri di valutazione adottati ma solo ad una elencazione analitica dei beni.

    5. La questione Agrifactoring ed i suoi riflessi sulla vicenda Federconsorzi

    Il tracollo della Fedit comportava la crisi irreversibile anche di una seconda grande debitrice del sistema bancario italiano ed estero: l'Agrifactoring, la società del factoring agricolo di proprietà del gruppo Banca nNazionale del lavoro, del Banco di Santo Spirito e della Federconsorzi, che aveva 10 miliardi di capitale ed un passivo di oltre 1250 miliardi.

    La società Agrifactoring spa era stata costituita nel 1982 ed era una società captive partecipata dalla Banca nazionale del lavoro holding al 40 per cento, dalla Fedit al 20 per cento, dal Banco di Santo Spirito al 20 per cento, e per il 20 per cento da altre banche contigue minori, che operava pressoché esclusivamente con la Fedit ed i consorzi agrari.

    Il concordato preventivo Agrifactoring fu chiesto in data 15 luglio 1991; il concordato preventivo Fedit fu chiesto qualche giorno prima, in data 4 luglio 1991. Le due richieste sono quindi coeve, interdipendenti ed inscindibili.

    Le due banche italiane azioniste dell'Agrifactoring non rischiavano solo la perdita del capitale ma ben di più, perché erano esposte per cifre considerevoli.

    Il gruppo Banca Nnazionale del lavoro (Banca Nnazionale del lavoro ed Efibanca) vantava crediti per 329 miliardi circa, mentre il Banco di Santo Spirito vantava crediti per 64 miliardi circa.

    Se a tali cifre si sommano i crediti nei confronti della Fedit, l'esposizione totale assomma all'ingente cifra di ben 465 miliardi per la sola Banca Nnazionale del lavoro. Le banche estere chiedevano con veemenza che le due banche italiane si assumessero i debiti, quali azioniste di Agrifactoring, invocando una prassi internazionale secondo la quale le banche garantivano il loro para-bancario.

    Non si trattava, in verità, di una pretesa anomala delle sole banche giapponesi, ma di una richiesta del sistema.

    Ciò è avvalorato dalle richieste ufficiali rivolte in tal senso all'Abi dalla omologa organizzazione francese (Abe).

    Ma la Banca nNazionale del lavoro, la banca del Mministero del tesoro, retto dal dottor Guido Carli, non era ancora uscita del tutto dalla gravissima crisi derivante dallo scandalo di Atlanta, che aveva determinato la sostituzione del presidente Nesi, e non poteva assumersi oneri impropri.

    Non intendeva, quindi, come del resto non poteva legittimamente fare neppure il Banco di Santo Spirito, farsi carico dei debiti Agrifactoring e doveva, anzi, tentare di limitare i danni.

    A tutto ciò va aggiunto che l'unica aspettativa di soddisfazione dei crediti verso Fedit e verso Agrifactoring era legata alla possibilità ed all'entità del realizzo dei beni della Fedit.

    A differenza di quanto accadde per la Fedit, che pur versava nelle medesime condizioni patrimoniali e giuridiche, l'Agrifactoring fu messa in liquidazione in applicazione dell’articolo 2448 codice civile, avendo perduto totalmente il suo capitale sociale.

    Il decreto di ammissione fu emesso in data 7 novembre 1991 e depositato in data 12 novembre 1991; la sentenza di omologazione fu pronunciata in data 23 luglio 1992 e depositata in data 3 agosto 1992 e, quindi, prima di quella relativa alla Fedit.

    La sentenza recepiva e faceva proprie le deduzioni sulle ragioni della crisi e sulla sussistenza delle condizioni di cosiddetta meritevolezza contenute nel ricorso della società e ribadite dal commissario giudiziale Francesco Giorgianni.

    Il decreto di ammissione fu pronunciato da un collegio presieduto dal dottor Greco e composto dai giudici Severini ed Urbani, mentre la sentenza di omologazione fu pronunciata un collegio presieduto dal dottor Greco e composto dai giudici Celotti e De Vitis.

    Si tratta, sostanzialmente, dello stesso collegio che omologò il concordato Fedit.

    L’Agrifactoring chiese di essere ammessa al concordato, assumendo di essersi trovata in una condizione di grave crisi finanziaria a causa della sospensione, dopo il commissariamento, dei pagamenti da parte della Fedit e di molti consorzi agrari, che costituivano pressoché la totalità dei suoi clienti, e della conseguente revoca o sospensione degli affidamenti e dei crediti da parte delle banche presso le quali si alimentava.

    Nella sentenza di omologa si legge ripetutamente che la crisi della Agrifactoring non era prevedibile e che essa fu dovuta esclusivamente alla parimenti imprevedibile crisi della Fedit.

    In particolare scriveva l’estensore, dottor Greco: "(…) Passando all’esame della meritevolezza, va detto, richiamando quando già si è accennato in precedenza, che detto requisito esiste certamente in relazione alle cause che hanno provocato il dissesto (articolo 181 n.4 legge fallimentare).

    (…) Intervenuta l’imprevedibile crisi della Federconsorzi, l’Agrifactoring fu conseguentemente travolta senza possibilità alcuna di potervi resistere.

    (…) Il consistente credito vantato nei confronti della Federconsorzi e l’impossibilità di vederlo soddisfatto, sia nel suo concreto ammontare sia in tempi brevi, trascinò l’Agrifactoring verso una situazione di grave illiquidità (…).

    (...) L’insolvenza, dunque, della società ricorrente fu dovuto a fattori imprevedibili ed esterni, di guisa che anche l’assenza di talune cautele, che nei confronti di qualunque altro terzo avrebbero rappresentato strumenti di ovvia precauzione, per la Federconsorzi, ritenuta cliente senza rischio di insolvenza, appare aspetto non imputabile a negligente gestione.

    Il requisito, dunque, della meritevolezza, sia considerato in relazione alle cause del dissesto che in relazione alla condotta del debitore, appare sussistente".

    L’assunto del Tribunale è così sintetizzabile in linguaggio non tecnico: la società Agrifactoring si trovò imprevedibilmente nell’impossibilità di far fronte ai suoi debiti perché il suo principale debitore, che riteneva sicuramente solvibile, e cioè la Federconsorzi, imprevedibilmente era divenutodivenne insolvente.

    Nessun addebito, pertanto, poteva essere mosso agli amministratori della società.

    Le valutazioni del Tribunale (e del commissario giudiziale) sembrano tuttavia contrastare con fatti non controvertibili.

    L’Agrifactoring era una società prigioniera "captive" di uno dei suoi soci, la Fedit. Gli altri soci erano tutti creditori, in misura crescente da anni , della Fedit.

    Essa era presieduta dalla stessa persona, e cioè il ragionier Scotti, che era nel contempo presidente della Fedit e che, quindi, ne conosceva perfettamente le sempre maggiori difficoltà finanziarie.

    La crisi della Federconsorzi non era, quindi, affatto imprevedibile per il management della società.

    Né essa poteva essere recepita come imprevedibile dal Tribunale ed in particolare dal presidente Greco, officiato della procedura di concordato preventivo della Fedit, tenendo conto che la Fedit era stata commissariata per "persistente – - dunque duratura  - condizione di squilibrio finanziario" dal Ministro dell’agricoltura e che, per affermare la sussistenza delle condizioni di meritevolezza concordataria della Fedit, lo stesso Tribunale distingueva le responsabilità degli amministratori precedenti da quella dei commissari e stigmatizzava la gestione finanziaria precedente che, quindi, avrebbe dovuto allarmare gli amministratori della società Agrifactoring e sconsigliare operazioni ad altissimo rischio.

    In realtà il semplice esame della progressione dell’indebitamento Fedit nei confronti di Agrifactoring avrebbe consentito di accertare come esso fosse andato aumentando a dismisura oltre ogni limite di ragionevolezza e che la società era stata utilizzata, senza scrupoli, dalla Fedit e dai suoi amministratori come una fonte senza limiti di approvvigionamento finanziario.

    Quanto all’insolvenza di molti consorzi agrari, questa non si era manifestata improvvisamente, ma si trascinava da anni ed andava progressivamente aumentando.

    Un sempre maggior numero di consorzi veniva commissariato per ragioni economiche e finanziarie.

    La crisi del sistema consortile era nota al sistema bancario, agli operatori economici, al mondo politico e formava oggetto di periodici articoli di stampa.

    Una minimale diligenza avrebbe dovuto indurre a ben diverse determinazioni gli amministratori di Agrifactoring spa se avessero ispirato la loro condotta, giudicata immune da colpe dal Tribunale, alla tutela di interessi autonomi della società amministrata e non esclusivamente a quelli della società holding.

    6. La questione dell'insolvenza della Federconsorzi

    Una delle questioni sulle quali la Commissione ritiene di aver raggiunto maggiore chiarezza è costituita dall’accertamento delle reali condizioni economiche e finanziarie della Fedit ed in particolare se essa era, al momento del commissariamento o, al tempo del concordato preventivo, in stato d’insolvenza.

    Premesso che l'insolvenza di un’impresa è comunemente definita come l'impossibilità in cui essa si trova di soddisfare le proprie obbligazioni con gli ordinari mezzi di pagamento, si sono registrate varie tesi:

    La prima tesi è propugnata da chi afferma che la Fedit non doveva essere commissariata per reali ragioni economiche e finanziarie; il commissariamento sarebbe, quindi, stato deciso solo per ragioni politiche: si adombra un cosiddetto "patto scellerato", caro all'onorevole Lobianco.

    L'esonero degli amministratori da ogni responsabilità, se non civile e penale, almeno morale, ne dovrebbe costituire, nonostante la sentenza d’omologa del concordato, che conclamò l’accertamento giudiziale dell’insolvenza dell’impresa, importante corollario.

    Essa mira ad accentuare le responsabilità politiche del ministro Goria e di parte della Democrazia cCristiana.

    L’assunto appare del tutto infondato per molti motivi .che sembrano alla Commissione, inoppugnabili.

    Ed invero:

    Si può quindi affermare, con ragionevole tranquillità, che la Fedit era, agli inizi dell’anno 1991, in una condizione d’irreversibile e grave dissesto ben noto agli amministratori.

    L’insolvenza non si era ancora manifestata ad alcun creditore o fornitore, ma ciò era dovuto, come si è rilevato, al credito bancario che non faceva che aumentare il passivo non pioù sostenibile.

    In sostanza i crediti ricevuti non erano rimborsabili, se non a prezzo d’ulteriori e crediti miliardari .

    Ben presto la Federconsorzi, senza soccorsi straordinari, non sarebbe stata più in grado di operare.

    All'atto del commissariamento, la Fedit non era, dunque, in uno stato di ma iin una condizione di grave dissesto, tanto contiguo all’insolvenza da confondersi con l’insolvenza stessa.

    Il commissariamento rese pubblico ciò che era conosciuto da pochi; la sospensione degli affidamenti e l'interruzione del circuito delle forniture rese insostenibile, nell'immediato, la situazione economica e finanziaria; mancarono persino i mezzi per pagare gli stipendi.

    Si determinò una condizione di conclamata ed evidente insolvenza.

    È noto alla Commissione che sul tema dell’insolvenza si è pronunciato il Tribunale penale di Roma e, che di tale decisione hanno mostrato di volersi avvalere alcuni amministratori per esimersi da responsabilità per il dissesto.

    Si tratta della sentenza depositata il 14 settembre 1998 e passata in giudicato, emessa dalla VI sezione penale il 16 giugno 1998 nei confronti dei dottori Pellizzoni, Bambara, Lorenti, Dodi, Botti, Ilari, Franzero, Corso e Simon.

    Il Tribunale era chiamato a stabilire se la restituzione da parte della Fedit di somme rilevanti al Credito Italiano, lo stesso giorno del commissariamento, costituisse un pagamento preferenziale e dunque una bancarotta.

    I presupposti dell’imputazione erano costituiti dall’esistenza di una condizione di insolvenza e dalla riconoscibilità della stessa.

    Va considerato che, come emerge dalla lettura del documento giudiziario, ciò che importava principalmente, al Tribunale stabilire non era stabilire se sussisteva uno stato di insolvenza, o ma se questa fosse riconoscibile e se quindi la bBanca avesse ricevuto la restituzione di quanto pur dovutole, in quanto consapevole dalle reali condizioni della Fedit e, quindi, in violazione virtuale della "par condicio" tra i creditori concorsuali.

    Tanto vale ad assegnare alla sentenza la sua reale portata.

    Uno dei capisaldi della decisione è, ad ogni modo, costituito dal seguente argomento: il decreto di commissariamento fa riferimento ad uno stato di squilibrio economico e finanziario e non d’insolvenza e la finalità del commissariamento fu il riequilibrio dell'impresa, considerata, pertanto, vitale.

    Si deve in proposito osservare che, a prescindere dalla difficoltà ontologica di commissariare un’impresa affermandone l'insolvenza, dichiarazione che avrebbe comportato automaticamente la liquidazione coatta o la richiesta di fallimento, il reale e gravissimo squilibrio economico e finanziario della Fedit non era per niente transitorio o curabile con mezzi normali.

    Il ministro Goria, lo stesso giorno in cui rese pubblico il commissariamento, circostanza che il Tribunale sembra aver trascurato del tutto, presentò effettivamente un progetto di risanamento, ma esso, non mirava a risanare la Fedit ma a crearne una nuova.

    Si trattava di un riconoscimento del dissesto così chiaro che nessuno si fece illusioni in merito.

    Il decreto inoltre si basava sulla constatazione, ad opera del consulente del Ministro, professor Dezzani, degli artifici contabili - che sembrerebbero dei veri e propri falsi  - che avevano portato ad esporre un bilancio in pareggio occultando pesanti perdite.

    In nota :Il prof. Dezzani dichiarò al P.M. di Perugia il 7 marzo 1996:

    "Conoscevo il Ministro Goria da anni e penso che per questo mi pregò di aiutarlo ad interpretare i bilanci della Fedit nel periodo 1989-90, bilanci formalmente in pareggio;(n.d.r. in realtà il primo denunciava un lieve attivo) ma già da una prima lettura vi erano indicazioni di forti perdite .Confermai anch’io che le impressioni di Goria erano giuste e stimai le perdite del 1989 in 400 miliardi circa ed quelle del 1990 in circa 500 miliardi.

    L’indebitamento Fedit verso le banche a fine 90 lo desunsi dai documenti di provenienza Fedit in 3.150 miliardi circa .Vi erano poi debiti verso i fornitori per oltre 1.000 miliardi nel 1989 e 860 miliardi nel 1990. Vi erano poi i debiti dei Cap per oltre 2.000 miliardi verso le banche e i debiti delle società controllate da Fedit ammontavano a circa 500 miliardi.

    Il dato aggregato del sistema consortile a fine 1990 era di una espsosizione verso le banche di circa 6.000 miliardi……So per certo che lui si esprimeva comunque nel senso che l’attivo della Fedit raggiungesse almeno il 60-70% di tutti i debiti Fedit".

    Il bilancio in pareggio era il frutto di una dissimulazione delle reali condizioni. Per questo motivo, alla pubblicazione del bilancio che non seguì alcuna iniziativa delle banche creditrici che sarebbe stata del tutto ingiustificata.

    Altro argomento di rilievo per il Tribunale -  che doveva giudicare proprio se la stessa banca aveva goduto di un rimborso preferenziale illecito  - è la decisione del Credito Italiano di concedere un finanziamento d’altri 250 miliardi alla Fedit proprio nell'imminenza del commissariamento ad attestazione che non v’erano timori.

    L'assunto trascura un dato significativo: per la prima volta una banca chiese una garanzia, un pegno, prima sulle azioni della Banca nazionale dell'agricoltura in portafoglio Fedit e poi sui crediti della Fedit verso il MAF, e, quindi una garanzia non solo seria ma anche idonea a costituire privilegio in caso di fallimento.

    Dunque, in realtà il Credito Italiano intendeva premuniresi adeguatamente.

    È vero invece che ben pochi tra i creditori, anche del ceto bancario, si attendevano, che la Fedit potesse essere commissariata.

    Va rimarcata un’ultima valutazione del Tribunale: il decreto di commissariamento non provocò lo stato d’insolvenza;

    furono le banche che avevano concesso i crediti per fiducia politica a tornare sui loro passi quando essa venne meno.

    A ciò va decisivamente opposto che le banche si trovarono di fronte ad un commissariamento per squilibrio economico e finanziario che imponeva, se non altro per doverosa prudenza, un’immediata autotutela.

    Non vi fu per nulla il ritiro di un affidamento politico ma una reazione tecnica alla gravità della situazione rappresentata nel provvedimento del Ministro, che segnalava la rischiosità dei crediti già maturati e ne sconsigliava di futuri.

    La sospensione degli affidamenti, da parte del sistema bancario, determinò una condizione d’immediata illiquidità ma prevenne la formazione di un più grave passivo.

    L’impresa era, al momento del commissariamento, in quello stato che taluni ritengono sovrapponibile all’insolvenza, altri di minore contenuto, costituito dal "dissesto".

    Ma, se la Fedit era in stato di dissesto non poteva legittimamente continuare a ricorrere al credito, a pena delle sanzioni penali previste dall'articolo 218 della legge fallimentare che proibisce il ricorso abusivo al credito dissimulando il dissesto.

    E, se non poteva continuare a ricorrere al credito, non poteva sopravvivere.

    7. L’operato dei primi cCommissari governativi

    I tre Ccommissari governativi nominati dal ministro Goria erano, almeno in parte, espressione della lottizzazione politica che caratterizzava il cosiddetto Governo del CAF.

    Il dottor Pompeo Locatelli era un commercialista milanese, molto vicino all'area socialista, che non risulta si fosse mai occupato in precedenza di agricoltura e consorzi agrari.

    Il professor Agostino Gambino era un tecnico di area democristiana, che poteva vantare una conoscenza delle problematiche della gestione della Federconsorzi per conto della quale aveva espresso un parere scritto sulla possibilità di sistemare i crediti che essa aveva nei confronti dei consorzi agrari.

    Il suo nome compare in un verbale del cComitato esecutivo della Fedit in epoca anteriore al commissariamento come quello di un "consulente" della Fedit.

    Il dottor Giorgio Cigliana era lontano dal mondo federconsortile, aveva avuto importanti esperienze bancarie e fu nominato per la fiducia che in lui riponeva il ministro Goria.

    Essi rimasero in carica dal 17 maggio 1991 al 9 giugno 1992, quando rassegnarono le dimissioni.

    Investiti del mandato, essi si trovarono ad affrontare la complessa situazione descritta nei paragrafi precedenti quali esecutori della volontà politica del ministro Goria, il quale stava giocando una partita importante per il rilancio della sua carriera politica, che aveva già raggiunto il vertice della Ppresidenza del Consiglio per segnare poi un notevole declino.

    L’onere principale dell’incarico fu ben presto assunto dal dottor Cigliana che ha lasciato copiosa documentazione del suo operato, anche in appunti rinvenuti presso la sede della Federconsorzi dal commissario governativo Lettera, e da questi consegnati alla magistratura di Perugia, nonché in agende esibite a questa Commissione.

    Dal complesso delle annotazioni del dottor Cigliana si evince che i tre commissari non costituivano – - ma non poteva essere diversamente – - una squadra affiatata protesa a raggiungere un unico scopo.

    Il prof.essor Gambino puntava risolutamente alla liquidazione coatta amministrativa.

    Il dottor Cigliana sembra essersi sempre ispirato ad una linea di dignità tecnica e di fedeltà istituzionale senza una propria ed originale progettualità.

    Nessuno dei commissari concorse a suggerire il commissariamento e il ricorso al concordato preventivo.

    Anzi il dottor Gambino era "furibondo"

    In nota: come si legge nel diario del dott.Cigliana

    quando apprese che il ministro Goria non intendeva far seguire al provvedimento amministrativo del commissariamento quello della liquidazione coatta, che avrebbe visto i tre commissari nella nuova e diversa veste di liquidatori ed aperto spazi gestionali che sembravano molto suggestivi al dottor Locatelli.

    Dei tre commissari il dottor Cigliana ed il professor Gambino non ebbero alcun rapporto con il professor Capaldo ed il suo piano.

    Sembra , invece che il dott.or Locatelli In nota : come si legge nel diario del dott.Cigliana dapprima elaborò nel febbraio 1992 ( e, quindi, due mesi prima della ufficializzazione della proposta Capaldo) un proprio progetto che prevedeva l’acquisto di tutti di beni da parte di un gruppo di creditori sottoponendolo al ministro Goria ed interessando anche un "M. Casella" che sembra di poter identificare nell’avvocato prof.essor Micheleario Casella che sarebbe stato di lì a poco l’ideatore e l’esecutore tecnico del Ppiano Capaldo.

    Successivamente, sempre secondo la stessa fonte, il dott.or Locatelli avrebbe rinunciato ad una autonoma iniziativa, dopo iniziali approcci con il prof.essor Capaldo che lo avrebbe ben presto estromesso.

    Non sembra, comunque, alla Commissione che possano muoversi addebiti di rilevo alla gestione commissariale.

    Il fallimento dei progetti del ministro Goria non è imputabile ai commissari.

    I tre commissari si dimisero sia perché ritennero esaurito il loro compito sia perché il Ministro che li aveva officiati si apprestava a lasciare il ministero dell’Aagricoltura. Inoltre, la gestione del concordato preventivo, per la parte relativa alle responsabilità governative, non poteva più vederli come protagonisti, perché il Piano Capaldo , come si è visto, non li riguardava .

    Scriveva il dottor Cigliana il 25 settembre 1997 all'Ispettorato del Ministero di grazia e giustizia a seguito di un esposto presentato contro l'avvocato Lettera: "fu proprio la sgradevole sensazione che qualche trattativa fosse in corso all'insaputa dei tre commissari ad indurre costoro a presentare le dimissioni il 27 maggio nella prospettiva anche di un imminente cambio di Governo che li avrebbe privati del riferimento al Ministro che li aveva chiamati".

    Come si è visto in realtà i commissari, o quanto meno il dott.or Cigliana ed il dott.or Locatelli, sapevano che era in corso di elaborazione un intervento; in data 23 marzo 1992, e quindi in data anteriore di circa un mese alla pubblicizzazione dell’offerta, il dottor Cigliana annotò:

    "Dda Picardi .(il commissario giudiziale; n.d.r.) Capaldo è stato da Greco (il presidente del Tribunale fallimentare n.d.r.) e da lui: Ggli hanno detto di rivolgersi a noi (ma non lo farà certo con me!)".

    E’, quindi, opinione della Commissione che i tre Ccommissari si dimisero perché si resero conto di non aver più prospettive operative perchéin quanto l’iniziativa era nelle mani di altri soggetti - i quali, che li avevano scavalcati e che non intendevano avvalersi di loro - e che non era prevedibile nessun loro ruolo attivo, in difformità dalle aspirazioni da essi dichiarate, neppure nel prosieguo della procedura fallimentare.

    In nota ibidem; la circostanza è stata altresì confermata dal dott. Greco nel corso della sua audizione

     

    8. Il ruolo delle banche estere

    Premesso che il debito complessivo dell’Agrifactoring ammontava a 1.216 miliardi e che di questi ben 429 miliardi rappresentavano il debito nei confronti di tre sole banche italiane (Banca Nnazionale del lavoro, Efibanca, Banco di Santo Spirito, - poi confluito nella Banca di Roma), per comprendere il meccanismo della tacitazione delle banche estere ed il collegamento con il Piano Capaldo occorre considerare la concatenazione della debitoria Fedit-Agrifactoring (cfr. schema che segue).

    Agrifactoring non aveva nessun bene di valore apprezzabile, ma solo crediti. Il debitore principale era la Fedit. Quindi solo i beni della Fedit potevano soddisfare i creditori di Agrifactoring e di Fedit.

    A tal fine era indispensabile che entrambi i concordati ricevessero l'approvazione dei creditori, e delle banche estere creditrici, in particolare, e del Tribunale di Roma.

    Alla fine del 1991 fu elaborata, ad iniziativa apparente della Banca Nnazionale del lavoro, una proposta tecnica per consentire l'approvazione del concordato Agrifactoring e, nello stesso tempo, fu dato mandato dal professor Capaldo allo studio Casella di Milano di dar corso concreto al suo progetto.

    Era infatti prossima una scadenza fondamentale per le sorti di Fedit e di Agrifactoring.

    A distanza di qualche giorno l'una dall'altra erano state fissate, nel mese di gennaio 1992, le due udienze, dinanzi al tribunale fallimentare e, più concretamente, dinanzi allo stesso giudice Greco che era delegato a seguire entrambe le procedure, nel corso delle quali i creditori avrebbero votato per esprimere il loro consenso o meno al concordato.

    Ebbene, con atto deli data 20 febbraio 1992, denominato tecnicamente postergazione, le tre banche principali creditrici di Agrifactoring rinunciarono ad essere soddisfatte dei loro crediti mediante divisione paritaria del ricavato del concordato, in favore delle banche estere.

    Le banche italiane azioniste di Agrifactoring,N cui si unirono successivamente le altre banche italiane creditrici della Federconsorzi, conferirono ai creditori stranieri il diritto di rivalersi con priorità sul ricavato del concordato Fedit e, quindi, concessero loro di poter contare sul rientro totale dei loro crediti verso Agrifactoring, attraverso quella parte del ricavato delle vendite dei beni Fedit che si stimava sarebbe spettato ad Agrifactoring, previsto in tale quantità da assicurare il pagamento totale dei creditori esteri resi privilegiati.

    Per effetto della loro rinuncia, le banche italiane poterono soddisfare i loro crediti solo su quanto rimasto, dopo aver pagato i creditori stranieri.

    Senza la postergazionedi essa, le tre banche creditrici di Agrifactoring avevanoavrebbero nutrito la ragionevole l’aspettativa di ottenere almeno il 40 per cento di 429 miliardi e cioè 171,6 miliardi.

    Si trattava di una promessa di soddisfacimento totale che comportava per esse il cospicuo sacrificio della perdita di capitali e crediti.

    Le banche estere, che non trovavano l'ascolto desiderato né presso il Governo italiano, né presso la Banca d'Italia né presso l'ABI, si indussero ad accettare la proposta che presentava indubbi vantaggi e votarono favorevolmente in entrambe le procedure, pur mantenendo una posizione di vigilanza armata.

    Fu così che si rese possibile l'approvazione dei due progetti di concordato da parte delle maggioranza dei creditori, senza opposizioni significative ed imbarazzanti. Tuttavia era una aspettativa di pagamento che aveva bisogno, per inverarsi, della conclusione positiva di entrambe le procedure e della vendita in tempi rapidi dei beni Fedit.

    A tanto provvedeva lo schema generale del progetto del professor Capaldo elaborato dall'avvocato Casella. (cfr. infra)

    Nel maggio 1992 fu ufficializzata la proposta di acquisto di tutti i beni della Fedit a nome di una costituenda società per la somma di lire 2.150 miliardi.

    L'omologazione del concordato Agrifactoring avvenne senza difficoltà nel luglio 1992.

    In virtù e per effetto del beneficio ricevuto nella procedura Agrifactoring, le banche straniere non si opposero alla vendita in massa dei beni Fedit alla SGR.

    Sul versante dei crediti vantati da Agrifactoring, si verificò invece una sconcertante anomalia.

    La società vantava nei confronti della Fedit 826 miliardi di crediti. Essi furono fatti valere tutti nella procedura Fedit come crediti ordinari, chirografari nel linguaggio giuridico.

    Invece essi, quasi per la totalità, secondo una prospettazione fatta valere giudizialmente dalla stessa Agrifactoring, sarebbero stati in realtà assistiti da privilegio. Si trattò di un errore ?

    Non è possibile dare un risposta certa all'interrogativo.

    Infatti il Tribunale fallimentare di Roma, con sentenza definitiva, ha escluso la rilevanza pratica della questione, per motivi tecnici propri della procedura di concordato e non ha deciso sul merito.

     

     

    Schema dei rapporti Agrifactoring-Fedit-Cap


    BANCHE ESTERE Clienti 189 md.

    BNL

    Bnl (Holding)


    Efibanca Agricoltori 386 md.

    230


    244 Controllate 294 md.


    346 Altri 805 md.

    (crediti)

    al 30/11/91

    900

    Agrifactoring Fedit Cap

    Capitale 10 md. Capitale 4,5 ml. 2220 md. (crediti)

    20%



    50%

     

    BANCHE TOT FORNITORI PASSIVO TOTALE

    3011 837 5088: 4410chirografari

    3011+ 275 privilegiati

    837 403 in prededuzione

    -------

    3848 su tot 4410

     

    9. Una risposta al commissariamento: il progetto So.con.agri.

    In risposta al commissariamento della Fedit ed al tentativo di lanciare una Fedit 2, pochi giorni dopo la presentazione della richiesta di ammissione al concordato preventivo, Coldiretti e Confagricoltura concretizzarono un loro progetto alternativo che si tradusse nella promozione di un'altra società che fosse sotto il loro totale controllo.

    Il 9 luglio 1991, infatti, i consorzi di Ravenna, Benevento e Treviso/Belluno, acquisirono il capitale di una società, la New Door, e costituirono la So.con.agri. srl Aderirono alla società 37 consorzi agrari, di cui 21 in gestione ordinaria, 6 commissariati, 3 in amministrazione controllata e 7 in liquidazione coatta. Le funzioni di presidente provvisorio furono affidate al dottor Libero Iannella del consorzio di Benevento.

    Quanto alla presidenza definitiva si era fatto il nome di un personaggio di prestigio del mondo agricolo, il senatore Alfredo Diana.

    Il tentativo di clonazione della Fedit con la stessa impostazione e con le stesse referenze era sicuramente anacronistico e velleitaria l'idea di realizzare l'attività di coordinamento e sostegno dei consorzi agrari con una società con un capitale sociale di trecento milioni, che erano tanti rispetto al capitale della Fedit, che era di solo 4,65 milioni, ma pochissimi rispetto ai fini annunciati.

    La So.con.agri. incarnava, pertanto, un messaggio politico di vitalità della Coldiretti piuttosto che un vero progetto operativo.

    Insieme con il progetto So.con.agri. fu elaborato un progetto finanziario denominato Fiordaliso, con il compito di rastrellare capitali tra gli agricoltori, oltre che dalle banche e da altri privati.

    Le due società, So.con.agri. e Fiordaliso, essendo complementari tra loro dovevano essere presiedute dalla stessa persona.

    Riferisce l'onorevole Lobianco alla Commissione, nel corso dell'audizione del 1° febbraio 2000: "Per quanto riguarda il progetto So.con.agri., noi riunimmo i nostri presidenti dei consorzi agrari e quelli della Confagricoltura per poterli assistere, perché in quella situazione si parlava di Agrisviluppo, e non c'era più coordinamento.

    Allora si pensò di fare una società in cui entrassero i consorzi agrari disposti al coordinamento per poterli assistere, sia nelle vicende del concordato, sia successivamente nei rapporti con i commissari per continuare l'azione di assistenza. Questo progetto So.con.agri. è andato molto lento; ultimamente ho letto che la società è stata sciolta".

    Il progetto So.con.agri non si è mai attuato.

    Esso costituisce testimonianza della dura opposizione delle associazioni di categoria alle idee del ministro Goria e della loro persistente e perseverante volontà monopolistica.

     

     

     

    Capitolo Ottavo

     

    Il cosiddetto pPiano Capaldo

    1. I temi esplorati dalla Commissione

    La Commissione ha sottoposto ad approfondita analisi la vicenda, acquisendo una notevole documentazione ed ascoltandone i principali protagonisti.

    In particolare, è stato indagato il tema del prezzo pagato, e, quindi, la sua congruità, le modalità di pagamento e le ragioni per le quali esso fu offerto ed accettato.

    All’esame della questione si è proceduto iscrivendola in una più ampia prospettiva ricostruttiva, finalizzata a tentare di accertare se si trattò di un’operazione, speculativa o non speculativa, posta in essere da soggetti economici per finalità esclusivamente economiche, o se essa ebbe invece altre finalità.

    A tal fine, sembra essenziale l’esame del contesto in cui nacque il cosiddetto Piano Capaldo.

    1. I fattiPremessa.

    La complessità della vicenda relativa al cosiddetto ""Piano Capaldo"" rende opportuno esporre preliminarmente in che cosa essa si concretizzò.

    In data 2 agosto 1993, dinanzi al notaio prof.essor Gennaro Mariconda, il Ccommissario Ggovernativo della Federconsorzi, avvocato Stefano D’Ercole,

    In nota :La Federconsorzi sottoscrisse l'atto nella qualità di liquidatore del proprio concordato.

    La nomina della stessa Federconsorzi a liquidatore del concordato fu fortemente criticata in dottrina per plurime ragioni giuridiche che si possono riassumere nell'esigenza di garantire la funzione pubblicistica della liquidazione prevenendo conflitti di interessi che ebbero puntualmente a manifestarsi..

    e l'avvocato Alberto Giordano nella qualità di procuratore del professor Pellegrino Capaldo, presidente della società S.G.RR .(Società Gestione per il Realizzo) spaspa, sottoscrissero un negozio giuridico denominato "Aatto-q Quadro" con il quale tutti i beni della società in concordato preventivo furono trasferiti alla S.G.R. spaspa.

    La SGR spa fu costituita con un capitale di 10 miliardi di lire in data 23 aprile 1993, dopo un lunga gestazione, durata oltre un anno, da venticinque banche e due società non bancarie, tutte creditrici della Federconsorzi, con lo scopo statutario di rilevare tutte le attività della Fedit.

    La stipulazione dell’atto-quadro"Atto" concretizzò un disegno complesso ed articolato, che prese il nome da colui che l’ideò:, il prof.essor Pellegrino Capaldo.

    La cessione, autorizzata con provvedimento del 23 marzo 1993 del Tribunale fallimentare di Roma, presieduto dal dottor Ivo Greco, avvenne al prezzo nominale di 2.150 miliardi, notevolmente inferiore , perché pari al 54,58% per cento del valore di stima dei beni, 3.939 miliardi , in forza del quale il concordato preventivo era stato omologato.

    La questione del prezzo pagato, congiuntamente con altre, di minore rilevanza, divenne oggetto di un procedimento penale promosso dalla magistratura di Perugia nei confronti dei sottoscrittori del negozio giuridico e del presidente del Tribunale che l’aveva autorizzato.

    In nota : Sulle vicende giudiziarie relative alla Federconsorzi ed ai Consorzi Agrari si rinvia al capitolo undicesimo

    La richiesta d'ammissione alla procedura di concordato preventivo fu presentata, come si è visto, nel luglio del 1991. Essa segnò l'epilogo dell'intervento governativo, che non aveva raggiunto nessuno degli obiettivi che si riprometteva, e cioè la liquidazione sotto controllo ministeriale dei beni della Federconsorzi e la trasformazione dell'unità di raccordo operativo del sistema dei consorzi agrari - la nuova Fedit - in una struttura societaria pluralistica a base azionaria.

    Il ministro Goria aveva esaurito, in breve tempo, capacità d’iniziativa politica e si limitò, da allora in poi, a non contrastare le iniziative esterne e le determinazioni della procedura, rimanendo del tutto estraneo, e con lui i commissari governativi, ad eccezione del dott.or Locatelli, nei limiti illustrati, alle successive vicende.

    In nota :cfr.retro cap.sesto

    Le questioni aperte, tuttavia, urgevano. Esisteva, in primo luogo, il grave problema della sorte occupazionale dei dipendenti della Federconsorzi. I consorzi agrari si trovavano in grandi difficoltà:

    alcuni erano ormai in liquidazione; molti si trovavano in regime commissariale e dovevano continuare ad operare; solo alcuni non sembravano richiedere interventi tutori.

    Era mancato improvvisamente l’organo centrale; si era interrotto il sistema mediato degli acquisti; era venuto meno il flusso di finanziamenti diretti ed indiretti. Il ruolo ed il potere della Coldiretti avevano subito un colpo, ad opera di un Esecutivo espressione di quella classe politica ininterrottamente al Governo a cui essa era stata molto vicina.

    In nota:

    Il già avviato processo d'abbandono del collateralismo della Coldiretti ebbe una forte accelerazione, fino alla proclamazione dell'autonomia.

    L’organizzazione di categoria, per il tramite del suo presidente, l' on.orevole Lo bianco, tentò, come si è detto nel precedente capitolo, di rilanciare un sistema ispirato alla stessa architettura preesistente, attraverso un progetto denominato So.con.agri., che aveva un significato più politico che concretamente operativo.

    Si prevedeva, infatti, la creazione di una società costituita da consorzi agrari che, nelle intenzioni dei costituenti, avrebbe dovuto prendere il posto della Fedit, - sotto il perdurante controllo della Coldiretti. In realtà, non esistevano assolutamente i mezzi economici necessari e le condizioni politiche.

    Si trattava, quindi, di niente di più di un messaggio di vitalità, lanciato al mondo agricolo, di un segnale di ripresa di un’azione salvifica sul piano imprenditoriale, dopo il clamoroso fallimento, dovuto all'opposizione di volta in volta del Partito socialista, del ministro Goria e del presidente del Consiglio Andreotti, dei tentativi di risolvere la crisi sul piano politico.

    Nei consorzi agrari rimanevano forti il ruolo e l’influenza della Coldiretti e della consorella Confagricoltura. Permaneva, per le organizzazioni agricole, ed in particolare per la Coldiretti, un'altra primaria esigenza: mantenere posizioni nell'apparato produttivo e nelle strutture operative che componevano la grande costellazione federconsortile, impedendone la dispersione e l'appropriazione da parte di privati ovvero di organizzazioni concorrenti.

    Poiché molti beni immobili - soprattutto gli essenziali magazzini - dei consorzi erano stati trasferiti nel corso degli anni alla Fedit, per pagare i debiti accumulati, appariva evidente l'effetto devastante che sarebbe derivato dall'eventuale vendita non controllata di essi, in attuazione del concordato.

    Ma tra i beni della Federconsorzi c'erano importanti partecipazioni bancarie ed un gran patrimonio immobiliare che si offrivano al mercato. Forte poteva essere l'interesse speculativo da parte di qualche operatore idoneo a stimolare ardite ipotesi di acquisizioni.

    In nota; Per tutte si rinvia all’intervista di Fiorio Fiorini,al settimanale l’Espresso intitolato ritratto di un affarista da giovane ed alle dichiarazioni raccolte dal P.M. di Perugia ……

    Preoccupante era poi la posizione che avevano assunto le banche estere creditrici che rivendicavano la garanzia della Banca nazionale del lavoro, per i debiti contratti presso di loro da Agrifactoring s.p.a., e quella dello Stato Iitaliano, per i debiti della Fedit. Allarmavano le istituzioni, ed in primo luogo la Banca d'Italia, le minacce di ritorsione finanziaria, in un momento di grande e persistente debolezza del sistema economico e politico italiano e di necessità d’accesso ai capitali esteri per i grandi enti pubblici.

    Tuttavia nessun proposito si tradusse in proposta concreta, ad eccezione di una che fu elaborata negli ambienti della finanza cattolica da tecnici della finanziaria Akros del dottor Roveraro che ne rivendicò, in seguito, orgogliosamente, la paternità.

    Il progetto, sinteticamente denominato "Fiordaliso" riscosse l'immediata approvazione della Coldiretti e della Confagricoltura.

    Esso si basava sulla costituzione di due società.

    Una sarebbe stata costituita dai creditori della Fedit, mediante il conferimento dei loro crediti valutati al 40 per cento e, quindi, svalutati del 60 per cento.

    La stessa, acquisendo il patrimonio della Fedit, avrebbe garantito il pagamento degli altri creditori e avrebbe avuto, pertanto, funzioni esclusivamente liquidatorie.

    La seconda società, si sarebbe costituita accorpando i consorzi agrari in bonis e sarebbe stata destinata a sostituire la Fedit come holding, esercitando funzioni distributive e di produzione.

    La maggioranza del capitale della società holding doveva essere assicurata ai consorzi agrari.

    Erano interessati i consorzi del Veneto, dell’Emilia e della Lombardia.

    Punti irrinunciabili e decisivi erano che i promotori fossero persone e soggetti di indiscussa autorevolezza e che le istituzioni e le finanziarie private mettessero a disposizione i capitali necessari.

    Il dott.or Roveraro, che si era rivolto non al ministro Goria, ma al presidente del Consiglio Andreotti per ottenerne l'approvazione e l'appoggio,ne fu indirizzato da questi al professor Capaldo.

    Tenuto conto che, in seguito, della proposta del dottor i Roveraro non si parlò più e che il riferimento al manager di "indiscussa autorevolezza", destinato ad attuarlo, contenuto nel piano Roveraro, sembra attagliarsi perfettamente alla figura del professor Capaldo, appare evidente come, nella complessa situazione dianzi delineata nacque, come adattamento ed evoluzione del progetto Roveraro, il cosiddetto "Piano Capaldo".

    3. Il ruolo del professor prof.Capaldo

    Eminente studioso, noto banchiere e già consulente della Fedit, il professor Pellegrino Capaldo era, all’epoca dei fatti, presidente del Banco di Santo Spirito e stava conducendo l'operazione che, attraverso la fusione di tre banche (il Banco di Roma, la Cassa di risparmio di Roma, il Banco di Santo Spirito), portò alla nascita della Banca di Roma e, quindi, di un grande polo bancario meridionale.

    Il professor Capaldo conosceva perfettamente la realtà della Fedit ed ideò, in sintesi, in distonia dal ministro Goria circa l’esigenza del commissariamento,

    In nota : amplius ultra

    la costituzione di una società da parte dei maggiori creditori della Federazione per rilevarne tutti beni, cederli e rivalersi con il ricavato.

    Operazione senz’altro innovativa, la cui attuazione non si prospettava per nulla agevole:

    occorreva coagulare il consenso di numerose banche italiane e dei maggiori creditori privati; superare le problematiche giuridiche ed economiche connesse con le dimensioni e l’eterogeneità del patrimonio della Fedit; se non convertire in adesione, quanto meno moderare l’atteggiamento oltranzistico delle banche estere; avere l’appoggio del ministro Goria ed infine la ragionevole aspettativa che il concordato sarebbe stato omologato.

    La straordinarietà dell’impegno del professor Capaldo, a parere di alcuni, non potrebbe conciliarsi solo con una chiave di lettura d’esclusiva soddisfazione creditizia, ma si iscriverebbe in qualche modo in un'ottica politica, ed in particolare di quel composito mondo legato ai cattolici ed alla Democrazia cristiana. Ciò che appare certo è che il professore, ispirato dagli interessi di un nutrito numero di soggetti bancari e di alcuni grandi creditori privati, non si riprometteva, e non avrebbe effettivamente ricevuto, alcun vantaggio economico personale.

    Il crollo della Fedit ed il mancato o ridotto recupero del credito danneggiava il sistema delle banche e, tra queste, ma di certo non di più di altre, le banche in fase di fusione nella Banca di Roma; in ogni caso non ne era posta in particolare dubbio la patrimonializzazione e, quindi la loro stessa sopravvivenza.

    In buona sostanza, pertanto, avuto riguardo agli esiti cui è pervenuto il primo gruppo di lavoro, con riferimento al professor Pellegrino Capaldo, la Commissione ha potuto definire e qualificare, sin dall’inizio, il ruolo svolto sia in veste di consulente della Federconsorzi, sia in qualità di ideatore e fondatore della SGR. Sulla base degli elementi raccolti, infatti, è emerso che il professor Capaldo si interessò alle vicende della Federconsorzi nell’autunno del 1988, su richiesta dell’onorevole Lobianco. Dopo averne esaminato la situazione economico-finanziaria, egli suggerì alcuni interventi per riequilibrare una gestione che appariva già pesantemente in perdita. Tali provvedimenti, tuttavia, non furono adottati, anche sulla base di valutazioni concernenti il conseguente impatto occupazionale.

    A seguito della nomina del nuovo direttore generale della Federconsorzi, dottor Silvio Pellizzoni, nel 1989, la collaborazione del professore Capaldo è andata diradandosi sino ad esaurirsi completamente nel 1990. Egli si riaccostò alle vicende della Fedit dopo l’ammissione al concordato preventivo, avvenuta nel febbraio del 1992, allorché, con la collaborazione dell’avvocato Mario Casella, mise a punto un progetto per la costituzione di una società aperta a tutti i creditori, allo scopo di acquistare la massa dei beni ammessi a concordato e provvedere al loro realizzo con procedure rapide e competitive. Tale progetto contemplava il rimborso integrale dei piccoli creditori, sino a 20 milioni di lire, oltre a particolari forme di tutela per i lavoratori.

    La proposta fu accettata dalla pressoché totalità dei creditori, soprattutto istituti di credito, e portò alla costituzione della SGR che, nell’agosto del 1993, sulla base di ciò che fu definito "atto-quadro", rilevò in blocco l’intero patrimonio mobiliare ed immobiliare della Fedit, contro un corrispettivo di 2.150 miliardi di lire.

    In merito a tale operazione, la Commissione ha posto particolare attenzione, indirizzando specifiche analisi per chiarire il controverso aspetto della congruità del prezzo pattuito. Sono state infatti approfondite l’azione di dismissione e le procedure seguite dalla SGR per la liquidazione del patrimonio della Federconsorzi, attraverso una puntuale indagine, svolta dal secondo gruppo di lavoro che si avvalso della collaborazione della Guardia di Finanza per l’esecuzione di specifici ed articolati accertamenti su tutto il territorio nazionale.

    Gli esiti di tale attività di acquisizione conoscitiva sono stati sottoposti al plenum della Commissione nella seduta del 22 novembre 2000. Al riguardo, è stato accertato che nulla di significativo è emerso circa l’ipotesi che il complesso delle transazioni sia stato svolto dalla SGR allo scopo di soddisfare interessi particolari nell’ambito di un pre-organizzato quadro speculativo, con dismissioni a prezzi inferiori a quelli di stima e/o mercato. Sia con riferimento agli immobili che alle partecipazioni, tra l’altro, è emerso che nessun socio od amministratore della SGR ha effettuato acquisti. Inoltre, è stato accertato che la SGR ha stimolato una forte competitività tra gli offerenti, soprattutto nei casi relativi alle cessioni di maggior rilievo, in conformità a canoni di economicità propri di ogni impresa, enunciati ab initio.

    La SGR (Società Gestione per il Realizzo) s.p.a.Spa fu costituita in data 23 aprile 1993, dopo un lunga gestazione durata oltre un anno.

    Già nella fase antecedente la costituzione, però, a nome di "una costituenda società" pendendone il nome, l'avvocato Casella di Milano aveva chiesto, in data 27 maggio 1992, al Tribunale fallimentare di Roma di acquistare, in blocco, per 2.150 miliardi tutti i beni della Fedit.

    Il Tribunale, presieduto dal dottor Ivo Greco, omologato il concordato, con successivo provvedimento del 23 marzo 1993, autorizzò il trasferimento di tutto il patrimonio della Fedit, alla S.G.R., per la somma offerta.

    Il passaggio fu disciplinato con uno strumento giuridico denominato atto-quadro, sottoscritto dalle parti , Federconsorzi quale esecutrice del concordato e S.G.R. il 2 agosto 1993.

    3.12. . Il La genesi del piano secondo il professor.la ricostruzione del professor Capaldo

     

    La Commissione ha approfonditamente analizzato le ragioni, le finalità ed i contenuti dell’operazione S.G.R. spa

    E’ sembrato opportuno esporre prima di tutto la prospettazione dell’indiscusso ideatore di essa e cioè del professor Pellegrino Capaldo.

    Nel corso della sua audizione, svoltasi nelle sedute del 20 aprile e del 4 maggio 1999, il professor Capaldo ha ricostruito come segue la sua iniziativa in termini volontaristici, fondata su motivazioni occupazionali e creditizie:

    :

    "…(…).So che il ministro Goria, avvalendosi della collaborazione dell’ABI, effettuò diversi tentativi per trovare una soluzione del problema, tuttavia, mi risulta che, nel corso dell’estate 1991, non furono prese iniziative di particolare rilievo. C’è da dire, però, che la situazione era in particolare fibrillazione, basti pensare che i lavoratori della Federconsorzi ne avevano occupato la sede, i piccoli creditori erano in uno stato di particolare tensione ed anche i creditori maggiori manifestavano la loro preoccupazione in quanto appariva evidente che un’operazione di risanamento, per una struttura di quelle dimensioni, difficilmente avrebbe potuto essere attivata e regolata attraverso le normali procedure concorsuali.

    Faccio questa affermazione perché, nel frattempo, si aveva notizia, ad esempio, di professionisti che emettevano parcelle per decine di miliardi e quindi si aveva proprio la sensazione che la situazione fosse al di fuori di ogni controllo. (…)…Ripeto, c’era una preoccupazione diffusa da parte di tutti, lavoratori, creditori piccoli e grandi. In questo quadro, maturò in me l’idea di studiare una qualche iniziativa in grado di rimuovere, almeno in parte, queste condizioni di generale insoddisfazione (.…)….

    Il progetto che ideò fu il seguente:

    "( Naturalmente, nell’elaborare un progetto non potei far altro che partire dalla constatazione che la Federconsorzi nel frattempo era stata ammessa alla procedura di concordato preventivo; gli spazi per esercitare la fantasia erano pertanto piuttosto limitati.…). In quelle condizioni, la sola cosa da fare era prevedere un meccanismo che consentisse di procedere allo smobilizzo dei cespiti in maniera rapida ed efficace. Eravamo di fronte ad una situazione di ammissione al concordato preventivo e tutto il problema si risolveva nel vendere i beni al meglio, ossia in tempi rapidi e in modo efficiente.

    Prospettai una soluzione di questo tipo: costituire una società capace di rilevare in blocco i beni dalla Federconsorzi, per poi procedere ad una loro liquidazione nel modo più razionale e trasparente possibile. Nell’immaginarla ritenni che dovesse trattarsi di una società alla quale partecipassero tutti i creditori della Federconsorzi in proporzione ai rispettivi crediti, per non alterare i rapporti tra i diversi creditori; una società che, costituita soltanto dai creditori e in rapporto ai rispettivi crediti, acquistasse i beni, li pagasse un prezzo ritenuto congruo e quindi procedesse rapidamente alla loro alienazione.

    Era questa l’idea guida dell’operazione. Nel frattempo pensai anche che, impostando una procedura per lo smobilizzo dei cespiti molto più rapida ed efficiente, vi potessero essere degli spazi per considerare le esigenze dei lavoratori e dei piccolissimi creditori. In sostanza ritenni che i vantaggi che detta iniziativa avrebbe consentito di realizzare in termini di efficienza avrebbero potuto essere distribuiti tra i piccoli creditori e i lavoratori. In quest’ottica, il progetto prevedeva che la società acquirente avrebbe acquistato anche i crediti inferiori a 20 milioni pagandoli il cento per cento del loro importo. Non solo, detta società avrebbe messo a disposizione della Federconsorzi anche l’importo di 20 miliardi che avrebbe potuto consentire un’incentivazione all’esodo di circa 200 persone in ragione di 100 milioni ciascuna. Ed effettivamente poi le cose andarono proprio così".

    Secondo il Pprof.essor Capaldo il piano non aveva connotazione politica ovvero intento speculativo: la società per lo smobilizzo, privatizzando le dismissioni, si riprometteva di monetizzare il patrimonio della Fedit consentendo ai creditori, soci e non soci, il recupero del massimo possibile in tempi brevi ed in eguale entità. Di ciò si tratterà diffusamente in tema di prezzo.

    A grandi linee questo era il disegno: una società alla quale potevano partecipare tutti e solo i creditori della Fedit in proporzione ai rispettivi crediti, quindi una società non aperta ad altri soggetti e che non consentiva ad un creditore di partecipare in una misura proporzionalmente superiore al proprio credito. Esposi la mia idea ai rappresentanti di alcuni grandi creditori - i piccoli creditori avevano tutto da guadagnare da una tale situazione e quindi non era necessario che mi rivolgessi a loro - e, una volta ottenuto l’assenso, decidemmo insieme di incaricare della questione un esperto di questioni fallimentari e di procedure concorsuali in genere. Ci rivolgemmo ad un professionista milanese, l’avvocato Mario Casella, che seguì poi tutta la pratica".I profili tecnico-giuridici e le finalità del piano furono elaborati dallo studio legale del prof.essor Mario Casella di Milano ed in particolare dall'avvocato Maugeri.

    In nota Cfr dichirazioni rese dinanzi al Gup di Perugia

    I due avvocati sono stati audiascoltati dalla Commissione SGR sono stati ricostruiti alla Commissione, nella seduta del 22 giugno 1999.

    Appare opportuno ricordarne alcune dichiarazioni: ., dall'avvocato Casella e dall'avvocato Maugeri, che ne curarono la concretizzazione giuridica:"

    (Maugeri) "(...) Lo studio è iniziato - ha affermato l’avvocato Maugeri - (…) alla fine del 1991.

    (…) L'obiettivo del conseguimento dei beni della Federconsorzi; (…) ci era stato segnalato dal professor Capaldo (…)".

    L'avvocato Maugeri, ha, poi, delineato le ragioni e le finalità dell’operazione affermando:

    "(…) Quello delle banche principali creditrici era stato individuato come un intervento che avrebbe consentito di razionalizzare e soprattutto di ottimizzare i realizzi dell'attivo della Federconsorzi. (…) Un grosso elemento di preoccupazione era rappresentato sia dall'eccessivo dilatarsi dei tempi necessari per la liquidazione della Federconsorzi, sia dalle spese che si sarebbero dovute affrontare (…). Inoltre, si riteneva che le banche fossero i soggetti che, con più facilità, avrebbero potuto procurare acquirenti di determinate attività, partecipazioni o complessi immobiliari. In tal senso, quindi, l'iniziativa che poi fu presa venne interpretata come l'intervento di un sistema bancario che, essendo molto esposto nei confronti della Federconsorzi (le banche italiane avevano crediti per circa 1.900 miliardi), si era voluto in qualche modo sostituire agli organi della procedura nell'eseguire la liquidazione.

    Pertanto, almeno secondo quanto ci fu prospettato, si trattava di un'operazione che non mirava ad un utile derivante dall'acquisto dei beni e da una loro rivendita a un prezzo superiore, bensì di un intervento considerato imprescindibile se si voleva evitare di impantanarsi in una liquidazione che secondo le previsioni sarebbe dovuta andare avanti per decine di anni e con spese enormi".

    Emerge con chiarezza che, dal punto di vista giuridico e strutturale, il nucleo centrale, fortemente innovativo, del progetto, consisteva in una sorta di "privatizzazione" della procedura concorsuale di dismissione e realizzo dei beni.

    Rinviando l’approfondimento sui temi della congruità del prezzo e della garanzie"" per i creditori, il sistema dei controlli sui ricavi e sui riparti sarebbe stato di natura societaria . Il piano segnava anche sul piano economico, una rilevante, ed oggettiva novità: il sistema bancario era chiamato ad affrontare le difficoltà creategli dalla mala gestio di una grande impresa non bancaria, senza nessuna forma di intervento governativo e senza nessun dispendio di daenaro pubblico.

    Alle banche era richiesto di partecipare ad una operazione del tutto inusitata di autosoddisfacimento che, nella sostanza, corrispondeva a quella già loro proposta, senza successo, dal ministro Goria, che però l’ancorava indissolubilmente al rilancio della Fedit.

    In quel momento però la Banca nazionale del lavoro e, quindi il Tesoro, l'ABI e la Banca d'Italia avevano un problema forse ancor più importante di quello costituito delle perdite e dal loro recupero: la questione Agrifactoring.

    Occorreva, come detto, affrontare il problema delle banche estere - per non compromettere l'affidabilità internazionale del sistema bancario italiano e, quindi, l’erogazione di ulteriori crediti in un momento di difficoltà economiche - e mantenere un’elevata valutazione delle principali banche ed in particolare della Banca nazionale del lavoro.

    I problemi accennati e più ampliamente già trattati , trovarono soddisfazione attraverso l'istituto della post-tergazione dei crediti, che esigeva innanzitutto il consenso proprio del Banco di S. Spirito, che condivideva con la Banca nazionale del lavoro il ruolo di azionista e di creditore di Agrifactoring. Nel descritto contesto la Banca nazionale del lavoro, che aveva negato il suo appoggio al ministro Goria, il quale le chiedeva di concorrere a finanziare la nuova Fedit, entrò nell'operazione SGR.

    Il 14 ed il 22 maggio 1992 si tennero, presso il Banco di Santo Spirito in Roma, due riunioni dei maggiori creditori italiani ed esteri per l’esame del piano, nel frattempo definito dallo studio Casella attraverso varie soluzioni tecniche, sottoposte, di volta in volta, al prof.essor Capaldo. Durante la discussione, quest’ultimo illustrò i vantaggi del suo progetto ed i criteri che avevano condotto alla determinazione del prezzo per il rilievo di tutte le attività della Federconsorzi.

    Furono esaminate in particolar modo la situazione Agrifactoring e i suoi riflessi sul concordato della Federconsorzi e le ragioni delle differenti percentuali di recupero dei crediti nella proposta di concordato per cessione dei beni e nel Piano Capaldo.

    Il Piano fu approvato da parte della maggioranza delle banche italiane creditrici della Fedit. Le banche estere non l’approvarono, né mostrarono di volervi aderire ma, tuttavia, non si opposero. Esse furono forse soddisfatte dalla posizione privilegiata loro concessa nella procedura Agrifactoring, che garantiva loro un soddisfacente rientro dalle esposizioni.

    L’autorizzazione all’esecuzione dell’operazione, che doveva impegnare gli istituti di credito in un’impresa del tutto nuova, venne chiesta alla Banca d'Italia il 14 maggio 1992 dal Banco di Santo Spirito , nella qualità di banca promotrice, prospettando un acquisto dell'attivo ad un prezzo pari al 50-/60%% del valore stimato dal commissario giudiziale, senza far riferimento all’ammontare delle passività ed al rapporto tra passività e percentuale di realizzo.

    A nome di una costituenda società, poi denominata S.G.R., il 27 maggio 1992, con una lettera indirizzata al commissario giudiziale prof.essor Picardi, il prof.essor Casella poté così, offrire di acquistare tutti i beni della Federconsorzi , al prezzo globale di 2.150 miliardi, da pagarsi in 18 mesi. La struttura dell’operazione proposta non subì sostanziali modificazioni e il prezzo offerto fu accettato.

    Il Piano Capaldo divenne, pertanto, di dominio pubblico. E’ necessario rilevare che da nessuna parte politica, sociale, imprenditoriale si levarono opposizioni o reclami.

     

     

    3.2 l’atteggiamento delle banche estere

    Come detto, nessuna delle banche estere creditrici aderì al piano Capaldo, pur reclamando di essere pagate. Può darsi che, come ha affermato il prof.essor Casella:, davanti a questa Commissione, " i i rappresentanti delle banche estere creditrici (…) declinarono l'offerta di partecipare all'acquisto delle attività Federconsorzi, soprattutto in considerazione dell’impossibilità di conoscere con esattezza le necessità finanziarie che l'operazione comportava e di avere un'affidabile previsione dei futuri realizzi."

    La banche estere avevano come interlocutori non il Governo italiano, che aveva disatteso le –loro del tutto ingiustificate aspettative; non la Federconsorzi o la B.N.L.anca Nnazionale del lavoro, ma quasi tutto il sistema bancario italiano con il quale continuavano ad avere rapporti di affari.

    E’ possibile che, come dichiarato dal loro rappresentante dott.or Rosa, fossero impedite da limiti ordinamentali.

    E’ tuttavia altresì ipotizzabile, anche se la Commissione non ha raccolto significativi elementi di conforto, l’esistenza di un accordo che previde la loro soddisfazione nel quadro del concordato Agrifactoring , nell’ambito del quale sacrificarono invece i loro interessi le banche italiane.

    A detta dell’avvocato Maugeri non fu facile persuadere le banche:

    "(…).., ricordo anche che riscontrammo delle grosse difficoltà nel convincere i creditori -  per l'esattezza le banche  - a fare parte di questa iniziativa, tanto è vero che tutti si tiravano indietro, ed anche quelle banche che per la loro collocazione all'interno del sistema non ritenevano di poter dire di no alla partecipazione, trovavano comunque tutti i pretesti per cercare di limitare la loro partecipazione all'interno della SGR (…).

    (…) Quello che posso dire è che vi era una vera e propria corsa a limitare la propria partecipazione alla SGR (…)"".

    Il ragionamento svolto dall’avvocato Maugeri potrebbe ma condurre, per completezza, ad un’opposta conclusione. Se le banche, dopo il trauma subito con il commissariamento, fecero grande esercizio di prudenza, evidentemente s’indussero ad aderire all’iniziativa nella certezza di non andare incontro ad ulteriori perdite e nell'auspicata prospettiva di conseguire profitti.

    E’ opinione della Commissione che, per essere accettata dai creditori, l’operazione doveva presentarsi più conveniente, dal punto di vista economico e finanziario, ma anche dei tempi, rispetto all’ordinaria distribuzione del riparto concordatario.

    Il prezzo d’acquisto di 2.150 miliardi, evidentemente, confortato da presumibili ragionevoli aspettative in termini di tempi di realizzo, risultò tale da vincere ogni possibile resistenza.

    Nella documentazione acquisita dalla Commissione presso alcune banche si sono, infine , evidenziati motivazioni diverse. Va tuttavia avvertito che non si trattava delle maggiori creditrici della Federconsorzi.

    Per completezza, sono di seguito riportate alcune notizie relative a tali casi.

    Fu sicuramente determinata anche dalla prospettiva di esplicite "plusvalenze" la decisione della Banca popolare di Verona - Banco San Geminiano e San Prospero.

    Si legge, infatti nel verbale della seduta del Consiglio di amministrazione del 23 febbraio 1993:

    "(..Dopo aver fornito ulteriori dettagli sulle fasi del complesso programma e sulle modalità di attuazione, .) iIl Direttore Generale indica i vantaggi conseguibili, con l’adesione alla società, nella possibilità di percepire dividendi, per effetto delle plusvalenze probabilmente realizzabili e dei minori oneri di liquidazione, e di acquisire il relativo credito di imposta; inoltre egli evidenzia l’obiettivo interesse della Banca a favorire l’avvio dell’operazione, in quanto garanzia di rimborso di una quota del credito in misura ed in tempi determinati".

    Di particolare interesse, è, poi, il contenuto del verbale del Consiglio di amministrazione del 15 febbraio 1993, della La Banca popolare di Cremona. ,.

    come si ricava dal verbale del Consiglio di amministrazione del 15 febbraio 1993, riteneva che, non partecipando all’iniziativa, avrebbe ricevuto il pagamento del solo 32 per cento dei suoi crediti, pari alla percentuale di riparto che si prospettava certa per i creditori chirografari, in caso di accoglimento dell’offerta della SGR:

    "(Il Direttore Generale fa altresì presente che la condizione di adesione del 65 per cento è condizione vincolante al perfezionamento della proposta e che…) L. l’obiettivo del piano Capaldo, come ribadito dalla Banca d’Italia interpellata in merito, consiste nella più efficace tutela delle ragioni creditorie delle banche interessate altrimenti destinate a subire le dispersioni connesse ai lunghi tempi di realizzo e agli oneri di un concordato di eccezionale complessità e durata. L’iniziativa si propone, come detto, il realizzo delle attività concordatarie, per un valore corrispondente orientativamente al 50-60 per cento dell’attivo stimato dal commissario giudiziale e, se accettata, comporterà il pagamento dei creditori chirografari nella misura del 32 per cento circa.

    Il Direttore Generale considerato che non partecipando all’iniziativa, qualora la stessa venisse accettata dagli organi della procedura, il nostro Istituto rientrerebbe tra i creditori che verranno pagati al 32 per cento e delle ulteriori partecipazioni, esprime parere favorevole alla adesione alla proposta a condizione che partecipi almeno il 65 per cento dei creditori chirografari.

    Il Consiglio, dopo approfondito scambio di idee, delibera di aderire alla proposta come indicato dal Direttore Generale dando delega allo stesso per il perfezionamento dei relativi incombenti".".

    Il maggior creditore, il Banco di Napoli, si poneva con chiarezza le possibili alternative, privilegiando l’opzione Capaldo.

    Si legge, infatti, nella relazione al Consiglio di amministrazione dell’Ispettorato Crediti del dicembre 1992:

    "Si ritiene che sussista l’interesse del Banco a partecipare alla costituenda società, giusta anche quanto ha formato oggetto della relazione allegata alla suddetta delibera 11/5/92; in proposito si richiama in particolare l’obiettivo della iniziativa consistente nella più efficace tutela delle ragioni creditorie delle Banche interessate, altrimenti destinate a subire le dispersioni connesse ai lunghi tempi di realizzo e agli oneri di una procedura concordataria di eccezionale complessità e durata.

    La lettera di intenti del professor Casella è stata formulata per conto dei maggiori creditori della Fedit, fra i quali un ruolo di primo piano è stato assunto dalla Banca di Roma, come è stato ampiamente riferito dagli organi di stampa.

    A seguito di un ulteriore incontro avuto di recente con il Commissario Giudiziale e con il Presidente della Sezione fallimentare del Tribunale di Roma, il professor Casella ha formulato invito ai maggiori creditori della Fedit a far conoscere le proprie decisioni in ordine alla partecipazione alla costituenda società. In proposito si riferisce che da notizie informalmente ricevute si è appreso che sarebbero stati interpellati undici Istituti di credito più FIAT ed ENI, per una creditoria globale di Lmd. 1.325. La percentuale d’inserimento del Banco è del 17,3 per cento.

    Nello stesso tempo, il Commissario Giudiziale, in adempimento del formale obbligo a lui derivante dalla sentenza omologativa del concordato, ha predisposto un suo piano di vendite graduali dei beni della Fedit, ed è logico ritenere che questo piano si ponga in termini per così dire concorrenziali con quello patrocinato dal professor Casella; sicché si deve ipotizzare che gli organi della procedura (Tribunale, Giudice Delegato, Comitato dei Creditori e il medesimo Commissario Giudiziale) dovranno necessariamente raffrontare e scegliere fra le due prospettive: da una lato, l’opportunità e la convenienza per i creditori di realizzare in un termine alquanto breve (18 mesi) il prezzoo di 2.150 miliardi, corrispondente a circa il 55 per cento del valore dei beni ceduti, stabilito (come anzidetto) in 3.973 miliardi, e che consentirebbe di distribuire ai chirografari una percentuale tra il 30 per cento e il 35 per cento; dall’altro, la possibilità di realizzare con la teorica possibilità peraltro di distribuire ai chirografari una percentuale fra il 60 per cento e il 70 per cento, salvo sorprese sempre ipotizzabili."

    Ovviamente, data la differenza non irrisoria delle possibili percentuali, non è agevole stabilire quale soluzione sceglierà il Tribunale. E, d’altra parte, qualora si optasse per la vendita in blocco, non si deve affatto escludere l’eventualità che il Tribunale possa comunque indire, con regolare bando, una gara tra l’offerta formulata dall'avvocato Casella ed altre ipotetiche offerte di terzi".

    La Cassa di Risparmio di Reggio Emilia, come verbalizzato nella seduta del Consiglio di amministrazione del 12 febbraio 1993, decideva di aderire perché rassicurata dall’assoluta inesistenza di rischi e contando sulla prospettiva, sempre esclusa dal prof.essor Capaldo, di non equivoco contenuto speculativo, dell’acquisto dei beni immobili da parte delle stesse banche socie della nuova società:

    perché:

    "Secondo l’avvocato Maugeri l’operazione, una volta avviata, finirebbe in tal modo per "autofinanziarsi" in gran parte, riducendo ai minimi termini le esigenze di ulteriori esborsi per ricapitalizzare la società.

    Tenuto conto:

    - che il complesso dell’attivo Federconsorzi (beni mobili, immobili - anche di gran pregio -, crediti e partecipazioni) è stato valutato dagli organi della procedura oltre 4.000 miliardi;

    - che esiste già un concreto interessamento da parte delle medesime Banche partecipanti alla nuova società per l’acquisto di gran parte dei beni immobili e delle partecipazioni, con conseguente previsione di tempi relativamente rapidi per il realizzo degli stessi;

    - che, al fine di contenere gli oneri fiscali, è già stato previsto che il rilievo delle attività da parte della nuova società possa avvenire anche mediante più atti ed in più tempi, eventualmente mediante rilascio di parte dei cespiti ed alle diverse prospettive di realizzo;

    l’operazione si prospetta come vantaggiosa per i creditori che aderiranno, consentendo un recupero in tempi più rapidi ed in miglior percentuale dei propri ingenti crediti".

    Dunque, si valutò che il pPiano Capaldo avrebbe assicurato una: "più efficace tutela delle ragioni creditorie delle Banche interessate, altrimenti destinate a subire le dispersioni connesse ai lunghi tempi di realizzo e agli oneri di una procedura concordataria di eccezionale complessità e durata", ma si tenne altresì nel debito conto che .

    Concorse il timore di subire una lesione della par condicio: "non partecipando (…) il nostro Istituto rientrerebbe tra i creditori che verranno pagati al 32 per cento".

    Allettante era la prospettiva di: "percepire dividendi, per effetto delle plusvalenze probabilmente realizzabili e dei minori oneri di liquidazione, e di acquisire il relativo credito di imposta".

    Decisiva appariva la prospettiva, che doveva rivelarsi ben fondata, dell’inesistenza di rischi perché "l’operazione si sarebbe autofinanziata. , una volta avviata, finirebbe in tal modo per "autofinanziarsi" in gran parte,

    riducendo ai minimi termini le esigenze di ulteriori esborsi per ricapitalizzare la società".

    Si smentisce infine l’assunto che i soci della SGR non fossero assolutamente mossi dal fine di acquisire in proprio in tutto od in parte i beni della Federconsorzi - fine che, in effetti, non si è poi realizzata -, esisteva, infatti un "concreto interessamento da parte delle medesime Banche partecipanti alla nuova società per l’acquisto di gran parte dei beni immobili e delle partecipazioni".

    47. Possibili ulteriori e finalità del piano

    47.1 Il riassetto dei consorzi agrariLa rete dei consorzi agrari

    E’ altresì ipotizzabile che il suddetto Piano non avesse solo il fine, dichiarato, di liquidare il patrimonio della Fedit, ma perseguisse anche un obiettivo strategico: rilanciare il progetto di una nuova società per azioni con funzioni di coordinamento operativo dei consorzi, assicurando, quindi, al sistema una sostanziale continuità.

    Se si accettasse questa ipotesi, appare evidente che il progetto non poteva realizzarsi senza l’appoggio delle associazioni che continuavano a dominare i consorzi, la Coldiretti e la Confagricoltura, l'apporto finanziario dei soci della stessa SGR ed, eventualmente, di d’altri operatori economici, il sostegno del Governo e di gruppi politici.

    L’elaborazione tecnica del Piano venne iva affidata, come si è già illustrato, allo studio Casella di Milano. La Commissione ha acquisito gli scritti, trasmessi dal professor Casella al professor Capaldo ed al ragionier Geronzi, contenenti i risultati delle progressive e successive sue eelaborazioni.

    Con nota del 2 marzo 1992, indirizzata, come riservata personale, l'avvocato Casella ssottoponeva al ragionier Geronzi due ipotesi operative che fanno chiaramente comprendere come gli fosse stato richiesto di affrontare e risolvere, in chiave di conservazione del sistema, le problematiche derivanti dalla crisi della Federconsorzi, della Agrifactoring e dei consorzi agrari.

    Esordiva, infatti l’avvocato Casella affermando che:

    "lL'avvenuta approvazione da parte dei creditori della proposta di concordato preventivo Fedit (...) apre il problema della individuazione e della scelta delle soluzioni che possano tutelare al contempo le aspettative del ceto creditorio e l'operatività del sistema dei consorzi agrari (…)" e proseguiva proponendo due ipotesi.

    La prima prevedeva il "conferimento da parte di maggiori creditori di Federconsorzi ed Agrifactoring dei crediti medesimi in una nuova società di capitali che utilizzi i crediti stessi per l’acquisto dalle due procedure di concordato preventivo dei beni e dei diritti di Fedit e di Agrifactoring (…)".

    La seconda immaginava "l’assunzione da parte dei maggiori creditori della Federconsorzi e della Agrifactoring di attività e passività dei due concordati preventivi" "previa costituzione di una nuova società da parte dei maggiori creditori.

    L'avvocato Casella si preoccupava della sistemazione delle posizioni delle banche estere "di cui mi viene sottolineata la delicatezza" e prevedeva il meccanismo di acquisto dei crediti che si sarebbe poi tradotto nell’offerta definitiva.

    E’ interessante notare che, nello stesso scritto, l’avvocato Casella poneva ben in evidenza come "la nuova società necessiterebbe di un capitale relativamente contenuto dovendo solo far fronte (come visto sopra anche ratealmente e quindi potendo utilizzare i proventi dei primi realizzi dei beni acquistati per assunzione) al pagamento dei creditori privilegiati e prededucibili (in totale almeno per quanto riguarda la Federconsorzi, meno del 10 per cento dell’indebitamento complessivo").

    L'avvocato Casella nonnon mancava, inoltre, di sottolineare che:

    "La nuova società (…) si troverebbe ad essere la maggiore creditrice dei Consorzi Agrari e quindi potrebbe esercitare un voto determinante nella eventuale proposta di concordato da parte dei Cap e (...) proporsi quale assuntore, con le stesse modalità eventualmente da adattarsi caso per caso anche di eventuali concordati Cap".(cfr cap. )

    Ma l’impostazione definitiva del Piano, adeguato ed affinato, da sottoporre ai potenziali soci ed in particolare alle banche non mutò nella sostanza.

    Infatti in una successiva bozza dello scritto, datata aprile 1992, da inviarsi al commissario giudiziale professor Picardi, per ufficializzare la proposta di acquisto in massa dei beni della Fedit, trasmessa con fax riservato personale il 22 aprile 1992 dall'avvocato Casella al professor Capaldo, si legge:

    "(…) Il programma predisposto si ripropone altresì di concorrere al riassetto ed alla riorganizzazione del sistema dei Consorzi Agrari Provinciali, in modo da conservare e rivitalizzare strumenti idonei di consulenza e cooperazione a favore degli agricoltori ed in una prospettiva di solidarietà e di salvaguardia di pubblici interessi, in sintonia con gli orientamenti manifestatisi in sede governativa e ministeriale".

    Il riferimento al progetto del ministro Goria di rilancio della Fedit sotto forma di Fedit 2 è evidente.

    L'avvocato Maugeri dello studio Casella, nel corso dell'audizione del 22 giugno 1999, pur senza annettere alla questione particolare rilievo, , ha tentato di accreditare, presso la Commissione, una versione fuorviante del progetto affermando:

    "(…) L’aspetto di una generale riorganizzazione del sistema di finanziamento all’agricoltura era un qualcosa che serviva anche a presentare questo programma, così come sicuramente serviva a presentarlo l’esigenza di mantenere i livelli occupazionali.

    (…) In altre parole si trattava di discorsi visti come una probabile conseguenza favorevole di questa soluzione, ma non erano l’oggetto della soluzione e restavano al di fuori dell’operazione.

    Rrispondendo alla domanda:

    "Il programma predisposto dal vostro studio si riproponeva, attraverso la SGR, di concorrere all’eventuale riassetto del sistema dei consorzi agrari provinciali?" -affermava: (…) "Nella fase di maggiore attività dello studio (1992-1993) direi quasi in nessun modo, nel senso che queste esigenze ci venivano rappresentate come uno scenario generale dell’operazione che prevedeva lo sviluppo delle iniziative dai contenuti analoghi a quelli della Federconsorzi.

    Sostanzialmente, però, non ce ne siamo mai occupati e fatti carico".

    E’ agevole osservare che le finalità di sistemazione dell’intero comparto colpito dal commissariamento e dalla crisi della Fedit, potrebbero essere soltanto un quadro di riferimento per chi aveva un ruolo puramente tecnico, essendo impegnato nella ricerca della soluzione giuridica più vantaggiosa da dare al problema della cessione di una così rilevante e variegata massa di beni.

    Va pure registrato un ulteriore dato. ,

    L’assunto dell'avvocato Casella si scontra, inoltre, con il dato testuale e con la decisiva circostanza che lLaa prospettiva dell’intervento sulla rete dei consorzi comparivea nel progetto sottoposto ai futuri soci, nel corso delle già citate riunioni svoltesi nella sede del Banco di Santo Spirito.

    L essa fu oggetto di specifiche valutazioni.

    In merito si scontrarono opinioni opposte.

    La questione era tanto impegnativa che soci essenziali come la Fiat e la Banca nazionale del lavoro giunsero a condizionare la propria partecipazione al progetto all’eliminazione del riferimento alla rete dei consorzi nel testo dell’offerta che doveva essere inviata al commissario giudiziale. Si legge, infatti nel verbale del Comitato esecutivo della Banca nazionale del lavoro del 28 maggio 1992:

    "L’Avv. De Palma precisa che in tali incontri (presso la sede del Banco di Santo Spririto n.d.r.) sono emerse perplessità di ordine finanziario e giuridico e di opportunità, soprattutto nei confronti delle posizioni riguardanti le Banche estere e l’Agrifactoring. Sin dalla prima riunione hanno manifestato la loro adesione, oltre al Gruppo Banca di Roma, la Cariplo, il Banco di Sicilia, la Cassa di Risparmio di Macerata il Banco di Napoli e il Credito Italiano. Ma in quella stessa sede emerse anche un’obiezione di fondo, sollevata dalla FIAT e dalla nostra Banca, sull’eventualità, prevista nell’originaria stesura del progetto, che l’iniziativa dovesse "concorrere al riassetto ed alla riorganizzazione dei Consorzi Agrari Provinciali".

    L’obiezione è stata accolta nonostante un orientamento inizialmente diverso espresso dal rappresentante dell’ENI. Conseguentemente tale indicazione è stata eliminata dal testo della lettera da inviare agli Organi della procedura.".

    Risulta, pertanto, plausibile l’ipotesi che il progetto sottoposto ai potenziali soci potesse avere tra le finalità anche il riassetto dei consorzi e che questa incontrò il sostegno di tutti ed in particolare dell’Eni e l’avversione solo della Fiat e della Banca nazionale del lavoro.

     

    47.2. Il rilancio del progetto Agrisviluppo

    Si è già esposto che, a seguito della crisi della Fedit, erano stati elaborati due progetti di rilancio, il primo dei quali, concretizzatosi nella costituzione della società Agrisviluppo e patrocinato dal ministro Goria, era fallito, ed il secondo, patrocinato dalla Coldiretti, era entrato in quiescenza.

    Subito dopo la presentazione della offerta di acquisto da parte della SGR, nel giugno 1992, il commissario governativo Mario Piovano, nominato in sostituzione dei commissari Locatelli, Gambino e Cigliana, presentò al Tribunale di Roma istanza per essere autorizzato ad eseguire la riorganizzazione delle attività commerciali federconsortili.

    Su parere favorevole del commissario giudiziale, il giudice delegato dottor Greco autorizzò il 15 luglio 1992 la Federconsorzi a "riorganizzare per il tramite di Agrisviluppo la propria rete commerciale".

    La ripresa dell'iniziativa fu annunciata, significativamente, dal ministro Fontana, al termine di una riunione con i sindacati, i rappresentanti della Coldiretti, della Confagricoltura e della Confcoltivatori, e con il ministro del lavoro Cristofori.

    All'epoca, la decisione sull'omologazione del concordato non era ancora stata presa.

    Il ministro Fontana, parlando il 28 luglio 1992 al convegno Ismea in corso alla Fiera di Verona, come riportato dal mensile Terra e vita, dichiarò che Agrisviluppo, "di gestione privatistica", sarebbe "stata aperta a tutti i soggetti della filiera, compresa l'industria di produzione di mezzi e servizi". Il Ministro aggiunse che la Fedit sarebbe stata soppressa.

    Il 29 settembre 1992 la ragione sociale di Agrisviluppo fu modificata da Fedit- Agrisviluppo in Agrisviluppo Italia.

    Nella sentenza di omologa del concordato preventivo, depositata il 5 ottobre 1992, si dava atto (punto D.7) dell'autorizzazione concessa alla Federconsorzi al riavvio delle "attività di distribuzione con graduale recupero della rete commerciale".

    Il 17 novembre 1992 presso il Ministero del lavoro (ministro del lavoro Cristofori, ministro dell'agricoltura Diana) fu sottoscritta un'intesa che prevedeva l'intervento ministeriale per "non privare la rete dei consorzi agrari territoriali di servizi efficienti di secondo livello" e fu previsto il trasferimento da Federconsorzi a Agrisviluppo Italia di 50 dipendenti.

    In data 4 dicembre 1992, il commissario governativo Piovano, dando atto che l'attività della Federconsorzi, mantenuta viva dopo il commissariamento, si concretizzava esclusivamente nel servizio di stoccaggio per conto dell'AIMAima e nel servizio di commercializzazione di mais ibridi, chiedeva l'autorizzazione al Tribunale a trasferire, previo passaggio di dipendenti Federconsorzi, tale attività alla Agrisviluppo Italia e successivamente a capitalizzare o a vendere Agrisviluppo.

    Il commissario giudiziale, il 12 dicembre 1992, esprimeva parere favorevole al graduale trasferimento ad Agrisviluppo delle residue attività di commercializzazione della Federconsorzi ed al passaggio di 14-15 dipendenti da Fedit ad Agrisviluppo, rinviando alla fase della cessione dei beni l'ipotesi di cessione anche del pacchetto azionario di Agrisviluppo, che era detenuto totalmente dalla Federconsorzi.

    Sulla società Agrisviluppo il 29 settembre 1992 fu dato dal giudice delegato Greco mandato di eseguire una consulenza tecnica al professor Gianfranco Zanda, che depositò il suo elaborato il 15 dicembre 1992. Al professor Zanda fu chiesto di individuare i criteri per la determinazione del prezzo di vendita della società; determinare il valore della rete commerciale che faceva capo alla Fedit Agrisviluppo S.p.a.; indicare le iniziative da adottarsi per la migliore valorizzazione della società.

    L'incarico pare singolareappare: la società Agrisviluppo era, infatti, del tutto inattiva e non aveva nulla iente, salvo il capitale sociale versato; la "rete commerciale" non esisteva; le attività commerciali -  ben modeste ed in realtà statiche - venivano esercitate da Fedit. Il consulente non poteva che dare atto che "attualmente - 15 dicembre 1992 - la società non svolge alcuna attività operativa" e che, di fatto, la rete commerciale non esisteva per nulla. Non v’erano stati che accordi transattivi e cioè parziali rinunce da parte della Fedit ai crediti vantati nei confronti di 14 consorzi agrari, motivati dalla prospettiva di favorirne il riavviamento commerciale.

    Il professor Zanda faceva pertanto riferimento ad uno studio-ipotesi di riorganizzazione delle attività commerciali Federconsorzi, datato luglio 1992, e concludeva il suo scritto, caratterizzato da un notevole sforzo di elaborazione ipotetica, con affermazioni prive di ogni rilievo pratico.

    L'anno successivo, ancor prima della firma dell'atto-quadro, nel corso di un incontro svoltosi al Ministero dell'agricoltura nel marzo 1993 - era titolare del dicastero Alfredo Diana - si annunciò che la Banca di Roma avrebbe collaborato finanziariamente per il rilancio della rete dei consorzi, concorrendovi la finanziaria pubblica del Ministero dell'agricoltura, la RIBS.

    L’onorevole Alfredo Diana subentrò il 28 marzo 1993 al dimissionario on.orevole Dimessosi Fontana;, raggiunto da avviso di garanzia, gli subentrò il 23ministro del tesoro era all’epoca il professor Barucci, che aveva presieduto il Credito italiano prima del commissariamento della Fedit.

    Va rammentato che era stato il Credito Italiano l'unica banca a voler finanziare la Fedit, prevedendo l'erogazione di 250 miliardi che dovevano consentire il consolidamento della debitoria.

    Il ministro Diana, nel corso di una conferenza stampa il 15 aprile 1993, fece esplicito riferimento alla Banca di Roma come volano finanziario di Agrisviluppo.

    Quattro giorni dopo, il Governo emanò il decreto-legge 19 aprile 1993 n. 112 "Gestione di ammasso dei prodotti agricoli e campagne di commercializzazione del grano per gli anni 1962/1963 e 1963/64", che prevedeva la sostituzione con titoli di Stato, con godimento 1° gennaio 1993, dei titoli di credito detenuti dalla Banca d’Italia in relazione alle campagne di ammasso obbligatorio, ma anche il ripianamento dei disavanzi derivanti dalle gestioni dell’ammasso obbligatorio con la spesa di 1.035 miliardi per il periodo 1993-2000.

    Il 27 aprile 1993, fu costituita la SGR Società Gestione per il Realizzo s.p.a..

    Il decreto-legge fu respinto dalla Camera dei deputati nella seduta del 10 giugno 1993 ma fu seguito da identici decreti n.  565 del 30 dicembre 1993, n.  142 del 28 febbraio 1994, n.  264 del 29 aprile 1994, n.  423 del 30 giugno 1994, tutti decaduti.

    Il giorno 11 maggio 1993 fu nominato l'avvocato Stefano D’Ercole quale nuovo commissario governativo.

    Il 20 luglio 1993, il Tribunale autorizzò la sottoscrizione dell’atto-quadro di cessione che fu rogato dal notaio Mariconda il 2 agosto 1993. Parallelamente fu elaborato e defintodefinito il nuovo piano Agrisviluppo.

    4.3 Il progetto Agrisviluppo ed S.G.R.

    Il nuovo progetto impegnava direttamente la SGR che, con la firma dell’atto-quadro, sarebbe entrata in possesso di tutte le partecipazioni della Fedit e, quindi anche ed interamente, della società Agrisviluppo.

    E’ verosimile che del piano fu artefice il dottor Paolo Bambara, che avrebbe dovuto diventare direttore generale della SGR, ma che non assunse mai tale incarico, perché colpito da provvedimento restrittivo della libertà personale, emesso dalla magistratura di Roma per una vicenda per la quale è stato, tuttavia, successivamente assolto con sentenza definitiva. (cfr. cap.************ )

    Più elementi inducono ad evidenziare il ruolo del dottor Bambara: le competenze tecniche; la coerenza del piano con il progetto di trasformazione della Fedit in una società per azioni vagheggiato da Pellizzoni, di cui egli era il principale collaboratore; infine il contenuto di una nota riservata del 30 agosto 1993, trasmessa al professor Capaldo, nella quale il dottor Bambara affermava che il nuovo sistema informatico della Federconsorzi, affidato alla società Agritalia informatica, era stato concepito in funzione delle esigenze della Agrisviluppo, e, quindi, di un progetto operativo ben diverso e ben lontano da un contenuto quello esclusivamente liquidatorio., che, nell’ambito della procedura di concordato preventivo in corso, la doveva riguardare.

    Il dottor Bambara è stato ascoltato da questa Commissione il 3 febbraio 2000 ed ha reso dichiarazioni su come il progetto Agrisviluppo fosse nelle prospettive della società SGR e come su di esso interloquissero tutti i soggetti della procedura fallimentare.

    Alla domanda su chi gli fece l’offerta di passare ad SGR, ha infatti risposto: "Bisogna ricordare chi è stato il primo perché le cose si sono accavallate. Comunque tutto è avvenuto nei miei ricordi nella tarda primavera del 1993. Il primo a parlarmi, tra l'altro facendosene anche merito, è stato il commissario governativo dell'epoca, il dottor Piovano il quale mi disse di avere parlato con il professor Capaldo che incarnava un po' l'idea SGR in quel momento - ancora la società non era costituita - e che aveva fatto il mio nome per questa posizione. Poi il chiarimento ufficiale mi è stato dato dallo stesso professor Capaldo nel corso di un incontro personale e apposito. Successivamente anche il giudice delegato, il dottor Greco, e il nuovo commissario governativo, arrivato intorno al mese di maggio o di giugno del 1993, il professor D'Ercole, mi hanno confermato quest'ipotesi".

    Richiesto specificamente sulla "missione"di Agrisviluppo ha dichiarato:

    "Agrisviluppo era una società il cui oggetto sociale non era di acquisire i beni della Federconsorzi, bensì di rifondare un sistema federconsortile diverso, anche se ne sposava l'idea originaria, da quello precedente. Agrisviluppo è nata subito dopo il concordato quando già i primi commissari, nominati non come liquidatori ma come commissari per il rilancio della Federconsorzi, avevano tentato, con una società esterna suggerita dal ministro Goria, di rifondare il sistema. Agrisviluppo è nata in quel periodo e l'oggetto sociale era quello di tutelare e sviluppare la rete di vendita della Federconsorzi, cioè i consorzi agrari, sostituendosi ad essa.

    Successivamente Agrisviluppo ha avuto delle maturazioni e, sotto la guida del dottor Piovano, commissario governativo, è stata ratificata dal tribunale come una società adibita a questo scopo. Tanto è vero che la sentenza di omologa del concordato ne descrive i contenuti, ne approva l'esistenza, ma chiarisce che la Federconsorzi, essendo in concordato, non poteva essere capitalizzata e messa sul mercato. Questa è la storia di Agrisviluppo. È chiaro che per fare funzionare tale realtà occorreva un'organizzazione, un sistema di controllo, un sistema informativo. Agritalia, cui era stato ceduto il service informatico della Federconsorzi, aveva costruito o si apprestava a costruire anche il sistema informativo per la gestione di Agrisviluppo. Agrisviluppo è una delle società promesse in cessione alla SGR.

    (…) Agrisviluppo avrebbe senz'altro associato tutte le attività commerciali ex-Federconsorzi, sia pure con un'ottica diversa in quanto avrebbe agito solo da intermediario commerciale evitando di occuparsi degli acquisti e delle vendite come accadeva per la Federconsorzi. Si trattava di un'attività molto più semplice (…) nei progetti che immaginavamo io e la mia struttura addetta, c'era anche l'ipotesi di renderla cessionaria dei crediti di Federconsorzi verso i consorzi agrari.

    (…) Pensavo (ee prima della costituzione di SGR, o meglio della firma dell’atto-quadro, ero abbastanza coscientemente speranzoso che questo si verificasse) che tramite SGR si potesse trovare una strada più concreta e più operativa per il rilancio del mondo federconsortile (…).. . A questo proposito, faccio l'esempio di Agrisviluppo che, come ho appena detto, passava in SGR perché era una delle controllate della Federconsorzi; allora intravedevo la possibilità – e ne parlai con il professor Capaldo – di investire in Agrisviluppo tramite questa iniziativa. Il professor Capaldo, in linea di principio, non era del tutto in disaccordo su questo argomento. Questo mi incentivò a dire di sì. Poi purtroppo nello statuto di SGR - – e questo è il motivo per cui me ne allontanai - – si dimenticò, o meglio si perse, perché i soci non furono d’accordo (ho chiesto spiegazioni e questa è la risposta che mi è stata data), l'aspetto della gestione dello sviluppo, limitando l’oggetto sociale di SGR alla pura liquidazione. Comunque, il primo motivo per cui dissi di sì a questa prospettiva è quello che ho testé indicato.

    (…) Nelle trattative che sono intercorse tra gli organi della procedura, i commissari governativi e SGR, questo argomento non è stato trascurato, tant'è che, se non sbaglio, questo aspetto della tutela del sistema e del rilancio delle società controllate e di Agrisviluppo è riportato nel secondo provvedimento del giudice delegato del luglio 1993, che approva definitivamente l’atto-quadro (ma forse questo concetto era già richiamato nel provvedimento del marzo 1993). Quindi nelle trattative, nel negoziato che è stato fatto, certamente questo discorso è stato affrontato".

    Secondo il dottor Bambara vi sarebbe una connessione tra il Piano Capaldo, la SGR ed il progetto Agrisviluppo. Quest'ultimo era fallito, in una prima fase, per l’opposizione delle organizzazioni professionali, ed in particolare della Coldiretti, ad una prospettiva di gestione che ne limitava fortissimamente il ruolo. Ma il progetto appariva, invece, realizzabile, se diversamente gestito.

    Le affermazioni del dottor Bambara circa la presunta impraticabilità del progetto Agrisviluppo a causa dei limiti statutari di SGR, tendono a contenerlo nei termini di una semplice idea, cui non avrebbe fatto seguito alcun tentativo di realizzazione.

    Va, però, osservato perché, che è sicuramente vero che lo statuto della SGR impediva attività dirette diverse da quella liquidatoria, ma nulla escludeva che società partecipate da SGR, invece di essere cedute a terzi, fossero rivitalizzante dagli stessi soci di SGR.

    Ed è quanto si legge nel verbale del 9 settembre 1993 del Consiglio di amministrazione di SGR:

    "(...) Il problema Agrisviluppo merita di essere valutato con particolare attenzione in considerazione del fatto che tale società potrebbe essere utilizzata per la ricostruzione di una rete di sviluppo e di rilancio dei Cap al servizio dei produttori agricoli; SGR però secondo il vigente statuto non può gestire partecipazioni in via permanente ma solo a fini liquidatori (…). Attese peraltro le potenzialità insite in un progetto quale quello prospettato per Agrisviluppo, l’acquisizione della partecipazione potrebbe interessare gli stessi soci di SGR".

    Qualche giorno dopo il dottor Bambara – non mancava di sottolineare agli amministratori di SGR un ulteriore vantaggio della dell’iniziativa Agrisviluppo: "Il piano di recupero dei crediti verso i consorzi agrari (pari a 3.479 miliardi) potrà essere definito, studiato nell’ambito del piano Agrisviluppo".

    Il Consiglio di amministrazione di SGR tornava sul tema Agrisviluppo il giorno 11 novembre 1993 e dopo aver discusso se fosse più opportuno "un impegno diretto di SGR nella fase di rilancio di Agrisviluppo e solo successivamente la vendita della stessa ai Soci SGR o al mercato o l 'immediata vendita della Società ai Soci SGR", deliberava di offrire ai soci della SGR: azioni Agrisviluppo in proporzione alle loro partecipazioni nella stessa SGR ed esaminava esaminava il seguente piano operativo:

    "Il Presidente ricorda che, nell'adunanza del 9 settembre scorso, si affrontò il problema della sorte da riservare alla partecipazione nell'Agrisviluppo Italia S.p.a. e si convenne, al riguardo, sull'opportunità di utilizzare la suddetta società per la ricostituzione di una rete per lo sviluppo e il rilancio dei Cap. Nell'occasione, inoltre, si prospettò l'opportunità di offrire prioritariamente ai soci SGR il pacchetto azionario in questione, non potendo la SGR, per statuto, gestire partecipazioni in via permanente.

    Ciò premesso, il Presidente informa che la questione è stata approfondita e si è giunti ad elaborare il progetto organico contenuto nei due documenti allegati in atti del Consiglio al n.16/93.

    Prima di passare all'esame del piano, il Presidente osserva che, in realtà, il rilancio di Agrisviluppo potrebbe essere perseguito attraverso due diverse vie:

    una prima prevederebbe un impegno diretto di SGR nella fase di rilancio di Agrisviluppo e solo successivamente la vendita della stessa ai Soci SGR o al mercato.

    Tale soluzione renderebbe più agevole la riorganizzazione della Società e, probabilmente, anche la definizione dei rapporti creditori con i Cap;

    la seconda via prevederebbe invece l'immediata vendita della Società, preferibilmente, come detto, ai Soci SGR. Incomberebbe quindi al nuovo azionariato il riordinamento di Agrisviluppo.

    Nel corso della successiva discussione vengono vagliati tutti gli aspetti, positivi e negativi, delle due ipotesi e si registra, in particolare, l'intervento del Consigliere avvocato De Palma, il quale sottolinea come, a suo avviso, tenuto anche conto di quanto previsto dallo Statuto di SGR, sia necessario tenere ben distinte le attività di gestione o di liquidazione e, quindi, si debba adottare la seconda delle soluzioni prospettate.

    A questo punto viene invitato a illustrare il prianmo operativo Agrisviluppo illustrato dal direttore generale, il dottor Antonio Rossetti:

    ", il quale riferisce quanto segue.

    L'attivazione della Società Agrisviluppo si inserisce nel contesto di un progetto che ha come obiettivo la promozione e lo sviluppo di un sistema di servizi per l'agricoltura attraverso la riconversione e l'utilizzo della rete dei consorzi agrari su basi economiche ed imprenditoriali (.

    Agrisviluppo, già costituita per tali scopi, è in grado di realizzare, con rapidità ed in modo economico, da una parte un piano operativo autonomo, dall'altro l'avvio e lo sviluppo del processo di trasformazione del sistema agricolo.

    A tal fine ha già stipulato accordi pluriennali in esclusiva con la maggior parte dei Consorzi in gestione ordinaria, per intermediare il 40 per cento del loro fatturato (anno 1992: L.2.500 mld. circa), pari a circa 1.000 mld. di giro d'affari…)….. Il piano operativo allegato è basato sull'attivazione di tali accordi per:

    -

    - intermediazione commerciale sullo scambio di mezzi tecnici utili all'agricoltura (fertilizzanti, sementi, macchine, ecc.)

    - servizi di tipo organizzativo/gestionale, fornendo assistenza alla rete dei consorzi agrari al fine di favorirne il mantenimento e lo sviluppo.

    E' basato, inoltre:

    - sull'utilizzo immediato del know-how necessario e su un organico iniziale di 50 unità circa, da individuarsi fra le migliori professionalità tecniche e commerciali della Federconsorzi.

    Il relativo piano economico finanziario è fondato su ipotesi realistiche e prudenti e prevede di remunerare adeguatamente il capitale proprio nell'arco di tre anni.

    La copertura del fabbisogno finanziario richiede, a regime, un capitale proprio di 70 miliardi di lire, riferibile per 25 miliardi alle attività di intermediazione e commercializzazione e per il resto all'acquisizione graduale delle attività produttive e dei marchi, di partecipate ex Fedit. (…)..Il dottor Rossetti aggiunge, infine, che Agrisviluppo per la natura stessa della sua attività rivolta ai Consorzi, potrebbe tutelare i creditori (SGR) attraverso la gestione diretta dei crediti per loro conto, con un miglior recupero in termini di valore e di garanzia (circa il 90 per cento della massa creditoria nominale è concentrata nei consorzi in liquidazione o in crisi).

    Segue un'ampia discussione al termine della quale il Consiglio di amministrazione all'unanimità delibera:

    - di offrire ai socie S.G.R: azioni Agrisviluppo in proporzione alle loro partecipazioni nella stessa SGR

    - di estendere l'offerta anche a coloro che - a seguito della "riapertura dei termini" - diventassero soci della SGR nel prossimo futuro;

    di consentire che le azioni non acquistate dagli aventi diritto vengano acquistate da altri soci SGR;

    - di determinare il prezzo di ciascuna azione in lire 10.000 pari al suo valore nominale, subordinatamente al conforme risultato di una stima, da affidare ad una società di consulenza;

    - di richiedere agli acquirenti l'impegno a sottoscrivere pro quota aumenti di capitale fino a 70 miliardi.

    Il Consiglio delega al Presidente la nomina del perito che dovrà stimare il prezzo delle azioni Agrisviluppo".

    Da quanto riportato appare evidente il carattere del progetto, ma non se ne evince la portata strategica, che l’esame del testo integrale parrebbe delineare. In esso si legge, inoltre, che la società Agrisviluppo aveva una missione di gran lunga più rilevante di ogni altra: governare la trasformazione dell’intero sistema dei consorzi agrari.

    Ad Agrisviluppo si intendeva affidare una complessa ed articolata "missione": intermediazione commerciale; commercializzazione dei prodotti agricoli; gestione dei servizi di assuntoria per conto dell’Aima; riorganizzazione e gestione della rete dei consorzi; sviluppo delle attività industriali indirette.

    La finalità di riorganizzazione delle rete si sarebbe dovuta realizzare attraverso la costituzione di alcune società di gestione (Sogest) di ordinaria natura commerciale - non più cooperativistica - che avrebbero rilevato le attività operative dei consorzi.

    Quanto alle attività industriali, si menzionavano espressamente quelle gestite dalla SIAPA, dalla SIS (antiparassitari, fitofarmaci, sementi), della SITPA, della MOMO (soia, ortofrutticoli), della CERZOO (ricerca) e, dunque, attività di rilevanza strategica. Il presunto disegno di una nuova Federconsorzi nella forma di una holding commerciale ed industriale apparirebbe completo; va osservato che, in un tale assetto, il ruolo economico e l’autonomia finanziaria dei consorzi sarebbero risultati limitati.

    Si tratterebbe, quindi, di un riassetto complessivo di una larga parte del settore agro-alimentare italiano. Non pare, altresì, senza significato che esso ebbe luce dopo che, nel giugno 1993, il governo Ciampi abolì il divieto assoluto - che durava da quasi cinquanta anni - per le banche di partecipare al capitale delle imprese, prevedendo un limite del 15 per cento: le banche, che registravano un aumento notevole delle loro sofferenze, quindi, avrebbero potuto trasformare in capitale di rischio - azioni - una parte dei crediti.

    Va detto che, anche ipotizzando che tutte le banche socie di SGR avessero aderito all’iniziativa, il loro apporto non si sarebbe mai potuto sostituire integralmente a quello dei privati investitori, la cui partecipazione era prevista dal piano e che era indispensabile per assicurare capitali e gestibilità.

    L’identità di soggetti economici eventualmente interessati, di cui si prevedeva l’accesso alla partecipazione azionaria, non è neppure congetturabile anche se, proprio in quel periodo, non mancava l’interesse di grandi gruppi per l’agroalimentare.

    Come di seguito si esporrà, il progetto, malgrado l’impegno dei promotori, non ebbe successo ed il disegno politico che vi era sotteso fallì.

    Il deliberato del cConsiglio di amministrazione di SGR fu attuato.

    In esecuzione del deliberato unanime degli amministratori, il professor Capaldo inviò ai soci di SGR

    una lettera contenente l’invito a partecipare all’iniziativa, di cui è stata trasmessa La a questa Ccommissione è pervenuta, infatti, mediante una fortunata ricerca, ad acquisire presso la banca Ca.ri.ma. di Macerata, copia di una lettera contenente l’invito a partecipare all’iniziativa, "(…) per un rapido avviamento dell'operatività della società Agrisviluppo Italia spa, finalizzato precipuamente a rilevare ed esercitare residue attività ancora svolte dalla Federconsorzi" inviata dal professor Capaldo ai soci di SGR.

    copia - ancorché priva del documento che vi era in origine allegato - dalla sola Ca.Ri.Ma. di Macerata.

    La Ca.ri.ma., che era l’istituto di credito proporzionalmente più esposto con la Fedit, deliberava di accogliere la proposta con delibera del Consiglio di Aamministrazione del 18 dicembre 1993: "Il Consiglio di amministrazione, valutata la portata e gli obiettivi del piano in questione, nonché gli effetti che la sua attuazione potrà avere sulla gestione della posizione della Federconsorzi e sul recupero dei crediti vantati verso la stessa e verso i consorzi agrari provinciali, tenuto conto altresì delle linee strategiche complessive nel settore delle partecipazioni, su conforme proposta del Direttore generale,

    Delibera

    Subordinatamente all'autorizzazione dell'Organo di vigilanza, se necessaria, di acquistare la quota del 6,45 per cento del capitale azionario della Agrisviluppo Italia spa, pari a L. 19.350.000, impegnandosi altresì alla sottoscrizione dei successivi graduali aumenti di capitale fino all'importo massimo di L. 4.515.000.000.

    Per quanto concerne le quote non sottoscritte da altri aderenti alla SGR, il Consiglio di amministrazione si riserva di valutare successivamente l'opportunità di ampliare la partecipazione della Ca.ri.ma.".

    Otto soci di SGR, risposero negativamente e tredici non dettero nessuna risposta.

    La Fiat New Holland sottopose la sua partecipazione alla condizione che Agrisviluppo non commercializzasse macchine agricole.

    Adesione incondizionata al progetto fu data solo da Ca.ri.ma., Banca di Roma e Sicilcassa.

    E’ stato possibile alla Commissione acquisire le motivazione esplicite e chiare di uno dei soci che respinse il progetto, :ella Banca San Paolo di Torino.

    Nel verbale del Consiglio di amministrazione del 24 gennaio 1994 si legge: "(…) In particolare, detta società dovrebbe esercitare opera di intermediazione commerciale in relazione ad alcune delle attività svolte dai consorzi agrari Provinciali, oltre ad operare direttamente nel settore della commercializzazione dei prodotti agricoli e della consulenza tecnica a servizio degli stessi.

    La proposta prevede che l'intero pacchetto azionario della "Agrisviluppo" venga rilevato al valore nominale dai soci della "SGR" in misura proporzionale alle proprie quote di partecipazione. Al fine di consentire un rapido avvio operativo, è sin d'ora previsto un aumento iniziale del capitale sociale che passerebbe da L. 300 milioni a L. 25 miliardi per raggiungere nell'arco di 2/3 anni, L.70 miliardi, livello definitivo di capitalizzazione prevista.

    L'esborso complessivo per il "San Paolo" dovrebbe pertanto aggiungersi su L.6,7 miliardi, oltre alla possibilità di sottoscrivere eventuali azioni inoptate.

    Relativamente all'iniziativa proposta, il dal dottor (…) Capuano evidenzia che sembrano notevoli le analogie con la vecchia "Federconsorzi" della quale l'Agrisviluppo Italia pare costituire un tentativo di riedizione.

    Inoltre ancorché il progetto presenti sulla carta un'apprezzabile validità sotto il profilo tecnico-operativo, le specifiche competenze manageriali richieste dal tipo di attività risultano totalmente estranee rispetto all'attività bancaria.

    Il Direttore Generale conclude la propria esposizione facendo presente che da contatti intercorsi con alcuni dei maggiori soci sembra emergere un orientamento negativo al progetto come sopra descritto, peraltro con disponibilità ad un riesame in caso di allargamento della compagine sociale ad imprenditori del settore (…)".

    Al temine dell'esposizione, preso atto di quanto comunicato relativamente all'argomento in oggetto, IL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE SI DICHIARA NON FAVOREVOLE al rilievo da parte del "San Paolo" di una partecipazione nella Agrisviluppo Italia s.p.a. (società integralmente detenuta dalla SGR) sulla base delle motivazioni esposte in premessa"..

     

     

    4.4 Ulteriori sviluppi del progetto Agrisviluppo

    Nonostante il sostanziale fallimento dell’iniziativa, ed il trascorrere del tempo che doveva vedere impegnata SGR esclusivamente nell’attività di dismissione del patrimonio, circa un anno dopo la stipulazione dell’atto-quadro, il 2 giugno 1994al Consiglio di amministrazione di SGR del, 2 giugno 1994 il direttore generale Rossetti non mancava di riferireche: al Consiglio di amministrazione di SGR: "(…) E’ stato peraltro manifestato interesse da parte delle organizzazioni professionali agricole e di alcuni consorzi in gestione ordinaria adda acquisire partecipazioni in Agrisviluppo".

    Si esplicitava quell'interesse delle organizzazioni professionali agricole che concorse, accompagnò e sostenne, a giudizio della Commissione, il Piano Capaldo.

    L’anno successivo, il progetto Agrisviluppo conservava ancora per SGR un interesse ancora vivissimo.

    La società si orientava a percorrere, questa volta esplicitamente, la via del concorso finanziario indiretto dello Stato al rilancio della rete federconsortile, che l’avrebbe anche avvantaggiata sotto il profilo della esigibilità dei crediti nei confronti dei consorzi.

    In una nota del 30 gennaio 1995, la SGR faceva esplicito riferimento alla società Agrisviluppo come ad una società acquistata dalla Fedit, insieme con le altre partecipazioni, "con il compito indicato di rivitalizzare la rete distributiva della Fedit".

    Il 7 febbraio 1995, il professor Carbonetti, nuovo presidente della SGR, indirizzava al ministro delle risorse agricole Lucchetti una nota in cui si delineava legge:

    "ho il pregio di accludere un appunto che delinea un progetto per la sistemazione dei debiti dello Stato verso i consorzi aAgrari Pprovinciali e la Federconsorzi (e, quindi, in luogo di quest'ultima, verso la SGR., costituita dai maggiori creditori della Federconsorzi per agevolare la liquidazione dei suoi beni)

    In essa si legge che "(…) - è stata a suo tempo costituita - ed è attualmente controllata da S.G.R - una società, la Agrisviluppo, con il compito di rivitalizzare la rete distributiva ex Federconsorzi; in mancanza di nuove prospettive, Agrisviluppo dovrebbe essere posta in liquidazione;

    - una società con compiti analoghi, la Soconagri, è stata costituita ad iniziativa delle Organizzazioni professionali;

    - SGR è subentrata alla Federconsorzi nella proprietà di un grande numero di immobili funzionali all'attività dei Cap ed a questi affittati; in mancanza di nuove prospettive, SGR non potrebbe che procedere alla loro vendita sul mercato.

    Tutto ciò premesso, il presente progetto si articola nel modo che segue.

    Il Governo emana un decreto legge che prevede - oltre alla sistemazione del debito verso la Banca d'Italia (…), secondo i meccanismi già previsti - la immediata (e pertanto non condizionata al formale esaurimento dei controlli della Corte dei Conti, ciò che richiederebbe tempi lunghissimi) sistemazione del debito verso SGR e i Cap mediante emissione di titoli di Stato (…). infruttiferi per un ammontare nominale pari al debito al 31 dicembre 1994, da rimborsarsi in 9 rate di eguale ammontare, ciascuna quindi pari a 174 miliardi, a partire dal secondo anno successivo all'emissione.

    Il valore attuale dei titoli cosi emessi ( - attualizzato …)al tasso del 12,50 per cento - è pari a lire 808 miliardi (.…). Di conseguenza, il debito finora maturato verrebbe pagato sostanzialmente in misura di poco superiore alla metà (e precisamente al 51,6 per cento) (…).

    Un consorzio di banche acquista i titoli come sopra emessi al loro valore attuale, sicché ad SGR ed ai Cap giunge liquidità rispettivamente per lire 369 e 439 miliardi.

    I Cap sono obbligati dal decreto legge ad utilizzare tale liquidità esclusivamente per loro risanamento finanziario (…)., e pertanto:

    - i Cap in liquidazione coatta amministrativa per prospettare ai creditori soluzioni concordatarie;

    - i Cap in bonis per pagare i creditori e solo per l'eventuale eccedenza (ipotesi questa presumibilmente non realistica) per partecipare alle iniziative al servizio dell'agricoltura di cui appresso.

    La SGR è obbligata dal decreto legge ad utilizzare tale liquidità esclusivamente per finanziare iniziative al servizio dell'agricoltura, e precisamente:

    - per costituire e dotare di sufficienti capitali una società immobiliare, la quale rileverà dalla SGR stessa, ai prezzi già determinati al suo tempo con perizia disposta dal Tribunale di Roma, gli immobili funzionali all'attività dei Cap;

    - per dotare di ulteriori capitali Agrisviluppo la quale, eventualmente integrata con So.con.agri., svolgerà il ruolo di centro di coordinamento e razionalizzazione della rete distributiva al servizio dell'agricoltura (.…).

    Si ha motivo di credere che, nella nuova impostazione, il decreto legge non dovrebbe più incontrare ostacoli in Parlamento.

    Si ribadisce che la praticabilità della soluzione proposta è subordinata ad una immediata adozione del decreto legge.".

    Il Ministro non assunse, per quanto noto, alcuna iniziativa. Non se ne fece nullaIl denaro pubblico non andò alla SGR. ed Iil progetto Agrisviluppo sembra essere stato così definitivamente abbandonato. Successivamentesi dissolse definitivamente anche perché, nel frattempo, sulla SGR sarebbe intervenuta l’indagine penale da parte della Procura di Perugia ed in particolare avrebbero inciso i sequestri dei beni della Federconsorzi disposti dal giudice per le indagini preliminariGip.e

     

     

    Capitolo Nono

     

    La sgr; l'acquisizione e la dismissione del patrimonio della federconsorzi

    1. Il valore del patrimonio della Federconsorzi

    Il tema della congruità del prezzo, pagato dalla società SGR per acquisire il patrimonio della Fedit, implica la necessaria determinazione del valore reale dei beni offerti ai creditori dalla società insolvente per soddisfare i loro crediti.

    Nell'affrontare la questione, la Commissione ha compiuto una scelta metodologica, rinunciando a commissionare e a discutere nuove stime, per le ragioni di seguito enunciate.

    Innanzitutto, qualsiasi nuova stima non avrebbe mai potuto sottrarsi, per sua natura, come tutte le stime, all'opinabilità e non avrebbe, quindi, assicurato risultati indiscutibili.

    In secondo luogo, il decennio trascorso dal momento in cui tutte le stime disponibili furono eseguite, avrebbe reso ancora più opinabili valutazioni eseguite ora per allora, in un contesto del tutto mutato.

    Da ultimo, i risultati delle vendite e delle cessioni e, quindi, i valori di realizzo, avrebbero pesato sulle valutazioni; queste avrebbero teso inevitabilmente a non discostarsene.

    Non è sembrato, per contro, possibile integralmente accedere ad una impostazione radicalmente opposta, assumendo che il vero valore del patrimonio della Fedit si individua nell’entità del realizzato.

    Ciò perché i valori del realizzo sono inscindibilmente collegati con le modalità ed i tempi dello stesso e sembrano essere stati condizionati anche dal sequestro penale che ha interessato una parte dei beni.

    Non si può, inoltre, affermare che il valore del patrimonio ceduto alla SGR è pari all'entità di quanto da quest'ultima realizzato per ulteriori due ragioni.

    La prima, logica, è costituita dal fatto che il realizzo di SGR non coincide - e non poteva coincidere - con il patrimonio che le fu ceduto.

    Tra l’altro, tacendo ogni considerazione economico-aziendale, con atto di transazione del 31 luglio 1998, la SGR rinunciò al trasferimento in suo favore dei crediti che la Federconsorzi aveva verso il MAF, e verso alcuni consorzi agrari, il cui attuale valore nominale è pari a ben 1.700 miliardi. In particolare i crediti nei confronti dello Stato hanno un valore nominale di circa 1.000 miliardi.

    La seconda, di ordine oggettivo, consiste nella circostanza che due tra gli amministratori della SGR, il commissario governativo dell'epoca ed il giudice delegato al concordato preventivo, sono chiamati dalla Procura della Repubblica di Perugia a rispondere di aver ceduto i beni della Fedit ad SGR ad un prezzo vile, tale da procurare ad essa un profitto ingiusto.

    La Commissione ha ritenuto, quindi, ai fini della propria indagine e delle proprie determinazioni, di prendere le mosse dai valori sui quali insorse la questione:

    Il tribunale fallimentare di Roma fece stimare i beni ad un nutrito numero di specialisti. In data 9 dicembre 1991, il dottor Enrico De Santis depositò una relazione che le raccoglieva e sintetizzava tutte. Le risultanze furono le seguenti. Secondo i periti del Tribunale - tutti ispiratisi dichiaratamente a criteri di grande prudenza - il valore realizzabile dal patrimonio della Federconsorzi era di 4.800 miliardi. In particolare i valori di realizzo, espressi in miliardi, dei principali cespiti furono indicati come segue:

    Crediti

    2.325

    Partecipazioni

    1.435

    Immobili

    921

    Impianti

    20

    Magazzino

    68

    E’ opportuno però rammentare che i commissari governativi erano pervenuti, in tempo di poco anteriore, a stimare il patrimonio della Fedit prima 4.121 e, da ultimo, 3.693 miliardi. Il commissario giudiziale, facendo a sua volta esercizio di massima prudenza, ritenne, depositando la sua relazione definitiva in data 21 gennaio 1992, di rettificare notevolmente l’entità del realizzo complessivo presunto riducendolo di circa 900 miliardi e quantificandolo in 3.939 miliardi, cifra intermedia tra le due esposte stime dei commissari governativi.

    La differenza considerevole attesta l’intrinseca opinabilità e difficoltà delle valutazioni; risulta altresì evidente che il valore più basso stimato era pur sempre prossimo a 4.000 miliardi.

    La riduzione del commissario giudiziale interessò il valore di tutti i cespiti ed in particolare dei crediti e delle partecipazioni; i risultati furono i seguenti:

    Immobili

    785/737

    Partecipazioni

    1.141

    Crediti

    1.888

    Magazzino

    68

    Altro

    55

    Quattro mesi dopo, il 27 maggio 1992, la costituenda società, la SGR, offrì globalmente 2.150 miliardi di lire.

    2. La formazione dell’offerta

    Il prezzo offerto dalla SGR per l’acquisto in massa dei beni della Fedit fu fissato in 2.150 miliardi, a fronte di una stima di 3.939. Il Tribunale fallimentare di Roma accolse l’offerta.

    Nel caso di un normale acquisto anche in massa di beni, nell’ambito di una procedura concordataria, sarebbe un’ultronea interferenza chiedere all’acquirente le ragioni per le quali abbia deciso di offrire un certo prezzo. Chi acquista esegue una stima soggettiva dei valori in gioco ed ove non punti alla conservazione dei beni per il proprio uso, effettua un investimento di capitali, confidando legittimamente in un profitto.

    Spetta ai creditori ed ai giudici vagliare l’offerta e decidere per il meglio, al fine di soddisfare gli interessi di tutti i creditori.

    Ne consegue che la verifica di eventuale anomalie non passa e non ha ragione di passare attraverso un approfondimento delle ragioni dell’entità dell’offerta ma esclusivamente delle ragioni della sua accettazione.

    Quello che deve essere congruo, infatti, non è il prezzo offerto ma quello di cessione.

    Nella vicenda Fedit, invece, molto si è discusso delle modalità di formazione del prezzo offerto per un duplice ordine di ragioni.

    La prima: la società offerente ed acquirente era formata da soci che erano tutti nello stesso tempo creditori ed anzi i maggiori creditori della Fedit che acquistavano, quindi, i beni per soddisfarsi direttamente con il ricavato, senza nessun apporto di organi esecutivi concorsuali.

    La seconda: il professor Capaldo non si è limitato ad affermare che dell'accoglimento dell’offerta non poteva rispondere che il Tribunale il quale, pur potendo respingerla, l’aveva accolta, e non chi si era limitato a farla, ma, nel proclamare di non aver perseguito alcun lucro, ha voluto confrontarsi nel merito, escludendo l’adeguatezza delle stime eseguite dai periti ufficiali e rivendicando alle proprie valutazioni la qualità di una vera e propria stima alternativa, nell’interesse della massa di creditori.

    L’avvocato Casella ha dichiarato in merito a questa Commissione: "(…) Riguardandomi un appunto del maggio 1992 ho costatato che si era preso come dato di partenza la valutazione del commissario giudiziale e cioè 3.939 miliardi. Quindi, venne fatta una quantificazione del tutto "spannometrica", per quel che mi risulta, del possibile realizzo che si collocava tra il 50 e il 60 per cento dei valori accertati dagli organi della procedura. Allora, attribuire un valore del 50 per cento avrebbe portato a 1.970 miliardi, del 60 per cento a 2.364 miliardi, del 55 per cento (che è una via di mezzo tra il 50 e il 60 per cento) a 2.167 miliardi, cifra che è stata poi arrotondata a 2.150. Questa è la genesi di tale valutazione".

    A sua volta il professor Capaldo, nel ricostruire per la Commissione il percorso logico-estimativo della formazione del prezzo, ha presentato l’offerta di 2.150 miliardi come una corretta e realistica stima del valore di realizzo del complesso dei beni: "(…) Le stime che più rilevano ai nostri fini sono due: quella effettuata dai periti nominati dal tribunale, pari a 4.800 miliardi, e quella contenuta nella richiesta di concordato preventivo, fatta dal commissario giudiziale, pari a 3.939 miliardi. E’ chiaro che la nostra offerta di 2.150 miliardi partiva da quest’ultima stima.

    Ad un rapido esame appariva evidentissima l’inattendibilità tecnica di quelle stime (…). La prima stima conteneva vistosissimi errori di carattere tecnico poiché non era stata fatta come deve essere una stima in questo contesto, in funzione e sulla base della prospettazione dei valori di realizzo e dei valori di recupero (…) ma era stata fatta secondo quella che tecnicamente si definisce la "logica di funzionamento" di un’impresa, tant’è che vi sono delle valutazioni di cespiti che si spingono fino alla lira (…). Vi era quindi questo vizio di fondo che pesa enormemente. (…) Ve ne è poi una seconda. Il commissario giudiziale, con una valutazione di 3.939 miliardi contro i 4.800, ha capito che quei valori erano esagerati. Tuttavia si è limitato genericamente ad operare un abbattimento; non ha percepito, a mio parere, l’errore metodologico che era alla radice. Ha capito che si trattava di valori abbastanza generosi, per non dire incongrui, ed ha operato qua e là degli abbattimenti riducendo le cifre di circa un 15 per cento (…).

    Quindi siamo partiti da una cifra di 3.939 miliardi, che concettualmente conferma in un certo senso la stima precedente, abbattendo i valori, ma non a sufficienza (…).

    A nostro parere, e mi riferisco ai tecnici di varie banche e di altri creditori che parteciparono alla società, appariva chiaro come questi valori dovessero essere ulteriormente e mediamente abbattuti di un altro 25 per cento; al massimo si poteva attribuire a questo compendio di beni un valore di 3.000 miliardi. Ora dalla cifra di 3.000 miliardi, che resta pur sempre una stima, anche se dal nostro punto di vista più corretta, occorreva passare ad un prezzo (…). Esisteva quindi un problema di attualizzazione: si pagava quasi subito e si sarebbe incassato a distanza di 4 o 5 anni (…). C’erano poi i costi dello smobilizzo perché, bene o male, bisognava mantenere in piedi una struttura per poter vendere questi beni, e quindi arriviamo a quella cifra di 2.150 miliardi, che parte proprio dall’assunto che l’operazione non dovesse avere finalità speculative (…)".

    3. il prezzo offerto e la questione della percentuale di soddisfacimento dei crediti

    La Commissione ha svolto particolari approfondimenti in merito alle prospettazioni del professor Capaldo. Se la somma offerta da SGR si dovesse contrapporre alla stima ufficiale, come un diversa previsione di realizzo nell’interesse della massa e se, quindi, essa non si dovesse considerare una offerta ma una sorta di controstima; inoltre, se la controstima di SGR dovesse ritenersi corretta, la conseguenza sarebbe un puntuale approfondimento della misura di cui si presumeva l’effettivo realizzo (da destinare ai creditori chirografari), in conformità alla soglia minima del 40 per cento previsto dalla legge fallimentare.

    In prima approssimazione, detratti da 2.150 miliardi gli 836 necessari per pagare i crediti pre-dedotti e privilegiati, parrebbe che non rimanevano che 1.314 miliardi per pagare i 4.072 miliardi di crediti ordinari. Operando un facile calcolo, si otterrebbe, infatti, una misura del 32,27 per cento.

    Ma le cose cambiano ove si consideri il fatto che i suddetti 2.150 miliardi si sono aggiunti alle somme entrate nel patrimonio Fedit nel semestre intercorrente tra il maggio (data del commissariamento) ed il novembre 1991 (data di riferimento della consistenza patrimoniale assunta a base dell’offerta SGR) durante il quale vi è stata la sospensione di tutte le uscite ma la continuità negli incassi di pagamenti e dei crediti. La somma totale sulla quale operare il calcolo percentuale muta e, di conseguenza, si modifica in apprezzabile rialzo la citata misura del 32,27 per cento. Al riguardo, nessuno dei chirografari ha lamentato il mancato pagamento del 40 per cento dei propri crediti, né alle Commissione sono pervenute segnalazioni o reclami.

    3.1 Prezzo offerto e stima analitica dei beni

    Secondo quanto affermato dal professor Capaldo, la SGR, allora costituenda, si limitò ad eseguire una riduzione percentuale, in funzione del realizzo, dei valori del patrimonio determinati dal commissario giudiziale, non procedendo, all’apparenza, ad un analitica valutazione dei singoli beni.

    Dal verbale del Comitato esecutivo della Banca San Paolo di Torino del 25 maggio 1992, si evince tuttavia quanto segue: "Esame della proposta della presidenza della Banca di Roma. (…) In ordine all'attivo è utile ricordare che i Commissari Governativi, al momento del commissariamento, avevano valutato le relative poste in L. 3.680 miliardi, gli esperti della procedura in L. 4.800 miliardi, mentre il Commissario Giudiziale ha quantificato la suddetta cifra in L. 3.940 miliardi.

    La nuova costituenda società invece valuta l'attivo:

    Immobili L. 571 miliardi

    a fronte di 785

    Partecipazioni: 894 miliardi

    1.140

    Crediti: L. 642 miliardi

    1.890

    Magazzino: L. 31 miliardi

    70

    Altre poste all'attivo: L. 29 miliardi

    55

    per un totale di L. 2.167 miliardi, come meglio evidenziato nelle tabelle all'uopo predisposte.

    (…) L'azione di realizzo sinora posta in essere, di cui la cessione della Polenghi Lombardo rappresenta un primo significativo passaggio, ha mostrato tuttavia difficoltà nel procedere allo smobilizzo dei cespiti e alla realizzazione dei valori, tanto da indurre a serissime perplessità sull'esito finale e sulle aliquote di rimborso della liquidazione.

    Da questa considerazione è emersa l'idea di approntare un intervento articolato, proposto dalla Banca di Roma, che si basa sulla costituzione di una spa (…) che acquisterebbe l'attivo della Federconsorzi per L. 2.150 miliardi, pari a poco meno del 55 per cento dell'attivo stimato dal Commissario (…).

    Il professor Capaldo e l'avvocato Casella, nella stessa riunione, hanno precisato:

    la valutazione fatta dal commissario della Federconsorzi si può considerare molto ottimistica ed i riscontri lo hanno già dimostrato.

    I tempi di realizzo da parte della società dovrebbero essere più veloci ed a costi inferiori di quelli della procedura (…).

    Il prezzo d'acquisto dell'attivo per una cifra abbattuta rispetto alle stime commissariali dovrebbe consentire di realizzare i beni almeno agli stessi prezzi, senza escludere la possibilità di realizzare plusvalenze (…)".

    Sembrerebbe, dunque, che i promotori di SGR motivarono ai potenziali soci com’erano pervenuti alla valutazione globale: sommando i valori autonomamente stimati dei singoli cespiti. La determinazione di SGR di non rendere pubblica una logica metodologia può destare qualche perplessità. Non veniva infatti prospettata la somma che, acquistando alla cifra di 2.150 miliardi, si sarebbe potuta effettivamente realizzare.

    3.2 La stima dei crediti

    La disponibilità delle stime delle diverse categorie di beni della Fedit, fatta da SGR, consente di evidenziare come i maggiori scostamenti riguardassero il ricavo presunto dai crediti.

    A fronte di una stima di realizzo ufficiale di 1.890 miliardi, la SGR riteneva di poter incassare solo 642 miliardi; vale a dire oltre il 60 per cento in meno.

    Sommando tutte le altre voci, la divaricazione si riduce molto sensibilmente a circa un 25 per cento: ad un totale di 2.150 miliardi si contrappone un totale di 1.525.

    Per quanto riguarda il credito nei confronti del MAF, va qui sinteticamente chiarito che esso non veniva pagato da anni e che ogni tentativo politico di farlo pagare era, fino ad allora, fallito.

    Il credito sarebbe stato esigibile solo se il debitore Stato avesse deciso di pagare.

    La situazione contabile dei crediti nei confronti dei consorzi non era chiarissima tanto che gli organi della procedura non furono mai in grado di garantirne il cosiddetto nomen verum e cioè la certezza della loro esistenza.

    Ma se fossero stati certi, e se lo Stato avesse pagato i suoi debiti nei confronti dei consorzi e della Fedit, cosa tuttora, dopo otto anni, ancora virtuale, la loro entità era tale che il pagamento del debito pubblico avrebbe consentito un realizzo in percentuale di gran lunga superiore a quella indicata da SGR, che sarebbe stata conseguentemente costretta a presentare un’offerta adeguata.

    Non sono da trascurare, comunque, le seguenti circostanze: subito dopo che l’offerta di SGR fu accettata, vi fu, come si è visto, un fiorire di decreti-legge i quali attestavano una diversa e decisa volontà del Governo di pagare (mai attuata). Inoltre, come si è parimenti già sottolineato, fino all’anno 1995 la SGR tentò di ottenere il pagamento dei crediti nei confronti dello Stato anche in funzione del rilancio dell’iniziativa Agrisviluppo (pagamento mai ottenuto).

    3.3 I temi della congruità e dell’opportunità dell'offerta

    Il Tribunale fallimentare non giudicò l’offerta come una controstima, ma bensì quale offerta proveniente da un’ancora costituenda società.

    E’ evidente che le valutazioni esplicite od implicite dell'offerente, in ogni caso, non potevano, come ovvio, avere influenza alcuna sulle decisioni del Tribunale fallimentare di Roma. Le difficoltà della procedura connesse con una vendita frazionata non potevano, ontologicamente, avere particolare rilievo, anche se quello della Federconsorzi, pur non essendo il primo concordato complesso che si presentava al Tribunale fallimentare di Roma, era di certo di gran lunga il più grande e rilevante della storia italiana. L’evoluzione della situazione economica e, quindi, del valore di mercato dei beni, non era prevedibile, tenuto conto che l’operazione di dismissione sarebbe durata anni.

    Non fu prevista la cessione immediata, ma una cessione differita nel tempo dei beni. L’offerta non proveniva da una società operativa che avesse interesse ad acquisire per sé immobili, partecipazioni magazzino e crediti, ma da una società il cui unico scopo era quello di rivendere al meglio ciò che acquistava.

    I beni apparivano pertanto cedibili tutti e cedibili in breve, nell’arco di tempo previsto per il pagamento integrale delle rate e cioè il dicembre 1995.

    Infatti la SGR contava proprio sul ricavo delle cessioni per pagare le rate senza ricorre ad alcuna forma di indebitamento.

    L'affare appariva conveniente per i soci di SGR i quali speravano di attingere gran parte delle risorse necessarie dalla vendita del patrimonio della Fedit, con modalità simili ad un leverage buy out. Questi non erano però normali operatori economici, ma tutti creditori della SGR, ed in massima parte banche. Nella qualità di creditori chirografari, essi avrebbero recuperato tanto più quanto maggiore fosse stato il ricavo dalla cessione del patrimonio.

    Si può ipotizzare che i creditori erano convinti che non si poteva ottenere di più, ma non risulta che qualcuno dei soci-creditori si preoccupò di fare proprie stime; tutti si affidarono a quelle della procedura. I soci affrontarono, dunque, una impresa sconosciuta, assumendosene i rischi. L’operazione consentiva, comunque, di sistemare la "questione banche estere"; permetteva al patrimonio della Federconsorzi di conservare la sua organicità e, quindi, poteva rendere possibile il rilancio del ruolo della holding nella nuova veste Agrisviluppo; rendeva infine possibile realizzare apprezzabili "plusvalenze" se, come si è già evidenziato, lo Stato avesse pagato i suoi debiti.

    In conclusione, l’operazione non può dirsi senza rischi, ma semmai con il vantaggio di comportare un basso fabbisogno finanziario.

    4. La costituzione della società SGR. L'atto-quadro: i contenuti; i beni trasferiti e le modalità di trasferimento.

    La società SGR spa (Società Gestione per il Realizzo spa) fu costituita a Roma il 27 aprile 1993 per atto del notaio Gennaro Mariconda. A presiederla fu designato il professor Pellegrino Capaldo. Il primo Consiglio di amministrazione fu composto dai dottori Giovanni Peluso, Luigi Maranzana, Federico Ronza, Sergio Amato e Francesco Carbonetti.

    Lo scopo della società era, secondo lo statuto: "l'acquisizione sotto qualsiasi forma, a fini esclusivamente liquidatori, di attività mobiliari ed immobiliari già di pertinenza della Federconsorzi in concordato preventivo e di altre procedure concorsuali connesse." Il capitale era di 10 miliardi di lire, elevabili a 30. I soci erano venticinque banche e due società non bancarie.

    In data 2 agosto 1993, dinanzi allo stesso notaio, professor Mariconda, l'avvocato Alberto Giordano (procuratore di Pellegrino Capaldo) in rappresentanza della SGR poteva stipulare il negozio giuridico che le trasferiva tutti i beni della Federconsorzi.

    Il Tribunale fallimentare di Roma, il 20 luglio 1993, aveva autorizzato la Fedit nella qualità di liquidatore del concordato, a sottoscrivere l'atto.

    Esso prevedeva il trasferimento alla SGR di tutte le attività della Fedit - beni mobili, immobili, partecipazioni, crediti - individuate facendo riferimento a quelle indicate nella relazione particolareggiata del commissario giudiziale Picardi del 21 gennaio 1992.

    Per i crediti "tenuto conto dell’estrema difficoltà per il commissario giudiziale di redigere un affidabile inventario analitico, in considerazione del cospicuo numero delle posizioni creditorie", si stabiliva che "la Fedit consegnerà alla SGR tutti i titoli in suo possesso e tutta la documentazione necessaria o utile per il realizzo dei crediti".

    Il corrispettivo, fissato in lire 2.150 miliardi, doveva essere decurtato: delle somme incassate da Fedit per le alienazioni intervenute nel frattempo; dell’ammontare dei crediti nel frattempo estinti; del valore dei beni non trasferibili per qualsiasi causa. Il meccanismo di detrazione favoriva notevolmente la SGR che, mentre acquistava il tutto per un prezzo di stima, veniva autorizzata a detrarre dal dovuto valori effettivi e non proporzionali. Le modalità del pagamento del prezzo erano le seguenti:

    Di conseguenza, l'entità del prezzo attualizzato era in realtà inferiore a 2.150 miliardi, che si ridussero a 1.850 miliardi (beninteso a fronte di minori trasferimenti) per effetto del sopra ricordato meccanismo di detrazione dal prezzo globale di quanto incassato da Fedit prima del trasferimento effettivo.

    In effetti, alla data del 31 dicembre 1999, la SGR ha versato alla procedura in totale 1.800 miliardi.

    L'atto-quadro prevedeva, all'articolo 9, una clausola arbitrale: tutte le controversie che fossero insorte tra le parti venivano rimesse alla composizione arbitrale e, in caso di mancata composizione, alla valutazione ed alla decisione di un collegio arbitrale.

    Esso disciplinava, inoltre le modalità del trasferimento del patrimonio con anomale modalità. Nulla veniva, infatti, trasferito immediatamente alla SGR.

    La Federconsorzi s’impegnava ad eseguire successivi trasferimenti parziali dei beni in favore di chi avesse indicato la SGR.

    Si stabiliva infatti che: "I singoli atti attuativi del trasferimento avverranno, nel rispetto delle modalità di carattere giuridico e tributario proprie di ciascuna categoria di beni, secondo la disponibilità della documentazione occorrente e con gli strumenti contrattuali, ad efficacia reale od obbligatoria, e con qualsivoglia legittimo strumento attuativo di volta in volta indicati dalla società.

    La società (SGR) si riserva la facoltà di indicare per le attività della Federconsorzi a propria scelta soggetti diversi da se stessa a favore dei quali effettuare il relativo atto di trasferimento, ovvero di richiedere - essendo Federconsorzi fin d'ora impegnata ad aderire a tale richiesta - mandati irrevocabili per la vendita con obbligo di rendiconto".

    Il concordato con cessione in massa si trasformava così, operativamente, in un anomalo concordato con cessioni frazionate nell’interesse e per conto, ma non in favore, di un’acquirente che aveva anticipato un prezzo globale.

    5. La vicenda del trasferimento dei crediti della Federconsorzi

    Tra le attività della Federconsorzi, costituenti oggetto dell'atto-quadro, rientravano i crediti nei confronti dei consorzi agrari e del MAF. I crediti della Federconsorzi nei confronti dei consorzi agrari provinciali traevano in massima parte origine, per oltre 678 miliardi, dall'emissione da parte dei consorzi di cambiali all'ordine della Federconsorzi e da quest'ultima scontate presso il sistema bancario.

    Alla scadenza, gli effetti non erano stati pagati dai consorzi agrari emittenti e, pertanto, le banche portatrici delle cambiali avevano maturato un credito diretto nei confronti dei consorzi, e in via di regresso, nei confronti della Federconsorzi.

    Nel patrimonio della Fedit c'era inoltre una posta di cui si è già evidenziata l’importanza: i crediti vantati nei confronti del Ministero dell'agricoltura acquistati, per cessione, dagli originari titolari, i consorzi agrari. L'origine dei crediti era costituta dalle spese sostenute dai consorzi per la gestione degli ammassi obbligatori, mai pagate dallo Stato.

    Al tempo in cui la Fedit li aveva acquistati, eseguendo in tal modo un’operazione di finanziamento dei consorzi, essi assommavano complessivamente a 400 miliardi. Il loro valore nominale, per effetto degli interessi, era continuamente aumentato. Poiché si trattava di crediti certi ma di fatto inesigibili, perché lo Stato non aveva mai stanziato nel proprio bilancio i fondi necessari, essi furono oggetto di una stima i cui risultati furono recepiti sia dal commissario giudiziale sia dal Tribunale fallimentare. Il valore di presumibile realizzo fu determinato in 314,2 miliardi.

    Si tratterebbe di una valutazione davvero incongrua perché assimilava i crediti verso lo Stato a quelli verso un comune debitore a rischio. Non era, infatti, possibile una terza opzione rispetto alla chiara alternativa: o non valevano niente perché lo Stato non li avrebbe mai pagati o valevano esattamente il loro valore nominale che, al luglio 1995, era asceso a ben 716 miliardi. Ebbene la Fedit si era impegnata a cedere alla società SGR tutti i crediti vantati nei confronti dello Stato, perché nell’articolo 1 dell’atto-quadro si faceva esplicito rinvio, per l’individuazione delle attività cedende, a tutte quelle elencate da pag. 68 a pag. 115 della relazione del 21 gennaio 1992 del commissario giudiziale Picardi.

    In quest’ultima, da pag. 95 a pag. 98, erano esposti i crediti verso il MAF, derivanti da cessioni dei Cap, per un valore nominale - all’epoca - di lire 430.445 milioni e di stima (pag. 97) pari a 314.225 milioni. In proposito giova rammentare che la Fedit, con atto di citazione del 10 agosto 1992, e, quindi nel corso del secondo anno di gestione commissariale, aveva convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, il MAF per ottenerne la condanna al pagamento dei crediti direttamente vantati per lire 463 miliardi nonché degli interessi. Il MAF riconobbe il debito, ma dichiarò non disponibile la somma.

    La cessione dei crediti MAF non suscitò contrasti, rilevi ed osservazioni, fino all’anno 1995, quando si pose la questione dell’attuazione della promessa. La SGR chiedeva il trasferimento dei crediti verso il MAF, al valore contrattuale di 51 miliardi. L’ammontare nominale dei crediti ceduti era nel frattempo notevolmente lievitato, per effetto degli interessi, pari all’11,40 per cento su base annua, fino a raggiungere l’entità di ben 716,2 miliardi.

    Nel frattempo era giunto al Dicastero dell'agricoltura, per la prima volta nella storia repubblicana, un ministro non democristiano, l'onorevole Adriana Poli Bortone, che aveva nominato, con decreto del 14 novembre 1994, come nuovo commissario governativo della Fedit, l'avvocato dello Stato Francesco Lettera.

    L’avvocato Lettera rifiutava l’esecuzione della richiesta della SGR e proponeva di cederli al valore nominale, ponendo varie questioni.

    Contestava la validità della cessione originariamente eseguita dai consorzi perché mai formalmente approvata dal MAF e sottolineava che, trattandosi di crediti derivanti dalla gestione ammassi, non avrebbero potuto essere esposti correttamente nell'attivo del bilancio Fedit e compresi nella massa fallimentare, ma menzionati "sotto la riga" e cioè fuori bilancio, ed in forma del tutto separata.

    Ne conseguiva che, a suo parere, i crediti in trattazione dovevano ritenersi esclusi dall'atto-quadro.

    I giudici, con provvedimento del 5 luglio 1995, declinavano la loro competenza sull’attuazione dell’atto-quadro.

    La SGR, con nota del 28 luglio 1995 a firma del professor Carbonetti, contestava le determinazioni dell’avvocato Lettera e dichiarava di aver diritto, in caso di inadempimento della Fedit, al riconoscimento del controvalore nominale dei crediti: 792 miliardi.

    Il commissario giudiziale si pronunciava il 2 agosto 1995 per la rimessione della questione ad un collegio arbitrale o al giudice conciliatore.

    Nel contempo l’avvocato Lettera sollevava dinanzi al Tribunale il problema della nullità dell’atto-quadro, denunciando la natura "leonina" della pattuizione contenuta in esso.

    A sostegno delle sue tesi, l'avvocato Lettera invocava un parere redatto nel maggio 1995 dal professor Sergio Scotti Camuzzi, componente della Commissione ministeriale d'indagine sulla Federconsorzi.

    Sosteneva infatti il professor Camuzzi che "di fronte all'abnormità ed iniquità" dell'atto-quadro "cade nella responsabilità del commissario governativo Federconsorzi (in tale sua qualità e in quello di liquidatore del concordato) e per quanto di competenza del ministro (…) di fare il possibile per porre in essere gli opportuni e legittimi rimedi".

    Egli suggeriva la possibile impugnazione dell'atto-quadro, per nullità dello stesso, ed evidenziava che tra i cespiti non ancora ceduti si trovavano i crediti verso il MAF che le parti avevano valutato inesigibili, ma che potevano diventare esigibili in base ai decreti-legge mai convertiti e quindi in virtù di un evento straordinario ed imprevedibile che avrebbe consentito la risoluzione del contratto (atto-quadro) per eccessiva onerosità sopravvenuta. Tra il commissario governativo ed i giudici fallimentari si determinava un fortissimo contrasto risolto d’autorità dal Tribunale che, in data 2 dicembre 1995, revocò alla Federconsorzi, e di conseguenza all’avvocato Lettera, commissario governativo che la rappresentava, l'incarico di liquidatore giudiziale. L'incarico di liquidatore giudiziale fu conferito all'avvocato Antonino Cautadella.

    6. I sequestri preventivi disposti dalla magistratura di Perugia

    Con decreto del 22 marzo 1996, il giudice per le indagini preliminari di Perugia, nell'ambito del procedimento a carico del presidente del tribunale fallimentare Greco, del professor Capaldo ed altri dispose il sequestro preventivo:

    - dei crediti della Federconsorzi promessi in cessione, attraverso l'atto-quadro, alla SGR, tra i quali in particolare i crediti verso il Ministero dell'agricoltura per le gestioni ammasso cereali, cedutile dai Cap per l’ammontare di 716.198.553.645;

    - delle azioni della Banca nazionale dell'agricoltura, cedute dalla Federconsorzi alla SGR, e delle azioni delle società Indipendenza anonima immobiliare spa, SAGRIM - Società agraria immobiliare spa, e SAIIM - Società agricola immobiliare interconsorziale del Mezzogiorno spa, tutte già cedute dalla Federconsorzi alla SGR.

    Il giudice nominò custode giudiziale di tutti i beni l'avvocato Lettera, nella qualità di commissario governativo che, in tal modo, rientrò nella disponibilità di cui l'aveva spogliato il Tribunale fallimentare di Roma.

    Il sequestro preventivo superò il vaglio del Tribunale per la libertà e della Corte di Cassazione. Il Gip affermava tra l’altro che: "Il valore della cessione (2.150 miliardi) è talmente inferiore alle stime pur prudenziali circa il valore del patrimonio Fedit da far ipotizzare, allo stato, che a tale risultato, estraneo agli interessi della Fedit, della Pubblica Amministrazione e degli stessi creditori complessivamente considerati, si sia voluto giungere attraverso una serie di passaggi programmati (…) In assenza di un inventario dei beni e dei crediti nessun altro eventuale offerente era in grado di valutare la congruità del prezzo per poter eventualmente avanzare proprie offerte; (…) alla vendita si addivenne senza procedere ad aste al fine di ottenere un prezzo maggiore di quello offerto da SGR (…)".

    Con successivo decreto del 24 aprile 1996, lo stesso Gip disponeva il sequestro di titoli cambiari per l'importo complessivo di lire 784.859.318.575 rinvenuti casualmente dall'avvocato Lettera in una cassaforte della Federconsorzi e nominava custode dei titoli lo stesso avvocato Lettera.

    In conseguenza del disposto sequestro preventivo e della successiva transazione sulla validità ed efficacia dell’atto-quadro, il trasferimento dei crediti pubblici alla SGR non fu più attuato.

    7. Le controversie sull'atto-quadro

    Fin dal 1994, un gruppo di dipendenti della società SIAPA, di proprietà della Fedit ceduta alla SGR, instaurava un giudizio civile contro la SGR, chiedendo che fosse dichiarata la nullità degli atti esecutivi della vendita in blocco dei beni da Fedit a SGR ed in particolare di quello riguardante la SIAPA.

    Non si ebbero in merito iniziative del commissario governativo e liquidatore giudiziale, avvocato D'Ercole, che aveva sottoscritto l'atto-quadro.

    L’anno dopo, il Tribunale, a seguito delle vicende descritte nel paragrafo precedente, chiedeva un parere pro veritate al professor Pietro Schlesinger che, in data 24 ottobre 1995, lo depositava. Il noto giurista affermava che l’atto era affetto da nullità parziale, limitatamente alla clausola che prevedeva il trasferimento delle attività della Fedit non considerate nella relazione particolareggiata del commissario giudiziale, alla quale l'atto faceva riferimento per individuare i beni trasferiti.

    Due anni dopo, nel corso del 1997, due soggetti privati, il signor Italo La Rocca, affittuario di un appartamento della Fedit ceduto a SGR, e la Eridania spa, debitrice della Fedit, citavano in giudizio, dinanzi al Tribunale civile di Roma, la SGR, contestando la validità e l'efficacia dell'atto-quadro. Si costituiva in entrambi i giudizi il liquidatore giudiziale.

    Il giudice fallimentare tornava a riflettere sulla validità ed efficacia dell'atto-quadro, non ritenendo dissipati tutti i dubbi dal parere del professor Schlesinger, sia sotto il profilo dell'unitarietà dell'oggetto della cessione, sia sotto quello della sua determinabilità, sia perché, infine, la Federconsorzi si era obbligata in proprio e non quale liquidatrice dei suoi stessi beni. Chiedeva ed otteneva il liquidatore pro tempore, professor Cautadella, un nuovo parere dai professori De Nova e Gabrielli che, in data 22 dicembre 1997, concludevano il loro lavoro affermando che l'atto-quadro doveva ritenersi solo un memorandum non vincolante.

    Il nuovo liquidatore giudiziale, avvocato Antonio Caiafa, subentrato il 17 settembre 1997 al professor Cautadella, dimessosi, chiedeva al giudice fallimentare di essere autorizzato ad instaurare un procedimento arbitrale per l'accertamento dell’inefficacia e della invalidità dell'atto. Esprimeva parere favorevole il nuovo commissario giudiziale, professor Pasquale Musco.

    A quella data, la situazione di esecuzione della cessione dei beni era la seguente: la SGR aveva pagato lire 1.506.611.000.000 ed aveva ricevuto beni stimati per lire 3.104.560.000.000; la SGR doveva in tutto ancora lire 105.354.000 e doveva ricevere beni per lire 792.285.000.000 che comprendevano i crediti verso il Ministero, che avevano raggiunto un valore nominale di 995.690.000.000. Il giudice delegato autorizzava il ricorso al giudizio arbitrale con decreto dell’11 marzo 1998.

    Con successivo decreto del 30 giugno 1998, il giudice delegato, dato atto che le due parti non avevano raggiunto un’intesa sulla designazione dell'arbitro e che nel frattempo pendevano altri due giudizi civili promossi da privati per far dichiarare l’invalidità e l'inefficacia dell'atto, autorizzava il liquidatore Caiafa a tentare una transazione con la SGR.

    Il suddetto commissario giudiziale professor Musco osservava che: "L'esito della strategia di realizzo ha sconfessato le previsioni e le aspettative, dovendosi prendere atto dopo cinque anni di un insuccesso dell’operazione di vendita in blocco.

    Il programma liquidatorio che prevedeva il pagamento di almeno il 40% dei creditori chirografari entro 18/24 mesi dalla stipula dell'atto-quadro non ha trovato concreta attuazione.

    Il venir meno dei presupposti di segno positivo ha vanificato le aspettative della liquidazione e del ceto creditorio".

    In data 30 luglio 1998, il Tribunale fallimentare autorizzava la transazione con la quale, il giorno dopo, la SGR rinunciava definitivamente ai crediti MAF.

    Il negozio rogato dal notaio Mariconda è stato sottoscritto, per la parte pubblica, dall'avvocato Antonio Caiafa e, per la SGR, dal professor Francesco Carbonetti.

    8. La transazione; natura, validità ed efficacia dell’atto-quadro

    Stipulando l'accordo, le parti transigevano tutte le controversie riguardanti l'atto-quadro, la sua validità, la sua efficacia, la sua esecuzione ed applicazione, definendo tutte le connesse reciproche pretese, e rinunciavano ad ogni azione di nullità, annullabilità ed efficacia o comunque volta a rendere non vincolante e non efficace l'atto-quadro e gli atti esecutivi. Riconoscevano, inoltre, che l'atto-quadro aveva trovato parziale esecuzione e che tutti i negozi compiuti su sua attuazione dovevano intendersi vincolanti ed efficaci tra le parti. Concordavano infine di non dare esecuzione ulteriore all'atto-quadro.

    Pertanto, la liquidazione giudiziale dei beni Federconsorzi era liberata dall'obbligo di trasferimento a favore di SGR di ulteriori cespiti, compresi nel patrimonio della Federconsorzi non ancora ceduti, e la SGR dall'obbligo di versare il saldo del prezzo. Le parti rinunciavano ad ogni risarcimento.

    In buona sostanza, ha avuto pieno riconoscimento la validità e l'efficacia di tutti i negozi giuridici fino ad allora compiuti in attuazione dell'atto-quadro ed è stata esclusa ogni ulteriore esecuzione. Per l'effetto, la SGR ha rinunciato ad ottenere il trasferimento integrale dei beni della Fedit e quest'ultima al saldo del prezzo, non ancora versato.

    Sono pertanto rimasti nella disponibilità della liquidazione giudiziale alcuni immobili, dei quadri, due autovetture Lancia, venticinque partecipazioni, ed infine e soprattutto, i crediti verso il Ministero delle politiche agricole e forestali, ed un parte dei crediti verso i consorzi agrari. La transazione ha posto fine alla controversia ma non sembra che, dal punto di vista giuridico, la questione della natura, validità ed efficacia dell'atto-quadro possa ritenersi completamente risolta.

    Per completezza di indagine, si riporta la sintesi delle posizioni emerse nel corso dei lavori della Commissione.

    Da un lato, alcuni studiosi hanno posto l’accento sul fatto che occorra chiedersi, innanzitutto, che cosa significa l'espressione "atto-quadro". La denominazione utilizzata per identificare il negozio è, infatti, assente nel linguaggio del legislatore italiano. Essa è tuttavia nota derivando dalle esperienze giuridiche tedesca e francese, dove con i termini, rispettivamente, di Rahmenvertrag e di contrat cadre, si allude al "contratto cornice" che svolge una funzione normativa. Il nomen "atto-quadro" sembrerebbe indicare l’intento delle parti di tracciare un quadro, appunto, di sintesi delle intese raggiunte.

    L'assunto trova conforto nell’affermazione, contenuta nel negozio, secondo cui "il presente atto non costituisce né immediatamente né mediatamente atto traslativo delle attività del patrimonio Federconsorzi ma esclusivamente contratto-quadro dal quale far risultare l’accordo raggiunto e le modalità della sua attuazione".

    L’atto-quadro potrebbe essere qualificato come una puntuazione o, secondo altra terminologia, una minuta contrattuale. La puntuazione o minuta di contratto indica i casi in cui le parti fissano, a fini esclusivamente probatori, le clausole sulle quali è stato raggiunto il consenso. Da una tale qualificazione giuridica deriverebbe un profilo di inefficacia e/o invalidità degli atti posti in essere sul presupposto giuridico della vincolatività dell’atto-quadro. L’inefficacia potrebbe certamente predicarsi quanto agli atti di alienazione posti in essere da SGR nella qualità di mandataria diretta di Federconsorzi.

    Se, infatti, si accedesse all’idea che l’atto-quadro altro non è se non un documento riepilogativo, privo di efficacia dispositiva, si dovrebbe escludere che esso abbia in qualche modo prodotto l’effetto di conferire a SGR la qualità di mandataria con potere rappresentativo. Dopo la sottoscrizione dell’atto-quadro, comunque, tra Federconsorzi e SGR non vi fu nessun ulteriore atto che attribuì a quest’ultima la titolarità dei beni di Federconsorzi, o che conferì a SGR il potere di compiere negozi sul patrimonio di Federconsorzi. Sarebbe, quindi, possibile far valere l’inefficacia degli atti posti in essere da SGR in nome (oltre che per conto) di Federconsorzi. Secondo alcuni studiosi, di tali atti d’alienazione, di conseguenza, si potrebbe ipotizzare l’invalidità, ai sensi del disposto dell’articolo 1398 del codice civile.

    Il contenuto dell'atto richiama, comunque, un’opzione di preliminare unilaterale, essendo rimesso alla volontà della SGR il potere di determinare l’insorgenza, in capo alla sola Federconsorzi, dell’obbligo di trasferire le proprie attività. Ma il contratto preliminare non costituisce affatto espressione di una volontà meno intensa di quella coessenziale a qualsiasi atto negoziale.

    Esso è, infatti, un negozio giuridico che, seppur prodromico e preparatorio rispetto ad un'ulteriore manifestazione di volontà negoziale, ha sin dall’inizio natura di atto negoziale perfetto e come tale necessita di tutti i caratteri coessenziali a tale qualità, primo fra tutti, quello della serietà e della definitività della manifestazione di volere in esso contenuta. Tale non potrebbe però considerarsi quella contenuta nell’atto-quadro dove, pur facendosi riferimento ad un futuro trasferimento, non è previsto un termine per l’adempimento dell’obbligo a stipulare. Pertanto, il fatto che nell’atto-quadro non è stato determinato o, comunque, reso determinabile il termine di adempimento è sembrato ad alcuni costituire un’ulteriore conferma dell’effettiva natura giuridica di esso.

    L'atto-quadro, inoltre, potrebbe presentare profili di invalidità per violazione del disposto dell’articolo 1346 del codice civile che postula, ad substantiam actus, che l’oggetto del contratto abbia, oltre ai requisiti di possibilità e di liceità, quelli della determinatezza o della determinabilità. Più precisamente, la carenza di determinatezza ovvero di determinabilità dell’oggetto dell’atto-quadro si coglierebbe sia nella scarsa conducenza e precisione dello strumento di rinvio (ossia, la formulazione contenuta all’articolo 1 dove si fa riferimento "a tutte le attività che sono state richiamate nella Relazione Particolareggiata del Commissario Giudiziale (…) nonché nella sentenza di omologazione del Concordato Preventivo) sia nell’inadeguatezza della relativa fonte determinativa (ossia, la Relazione Particolareggiata e la sentenza di omologazione suddette), documenti privi di indicazioni chiare, estremamente articolati e composti di ulteriori determinazioni interne operanti mediante ulteriori forme di rinvio.

    Secondo altro autorevole parere, agli atti della Commissione, la controversia circa la natura giuridica e la validità dell’atto non si risolve mercè lo scolastico raffronto tra contenuto del medesimo e schemi legislativi, ma indagando la meritevolezza degli interessi perseguiti e la liceità della causa. Riguardato in tale ottica, l’atto realizzerebbe una funzione di scambio, tutelata dall’ordinamento giuridico. La validità dell’atto, inoltre, non parrebbe dubitabile sotto il profilo della causa e degli interessi perseguiti dalle parti. Con riferimento all’oggetto, esso risulterebbe determinato per relationem, costituito da un’universitas jurium che, già isolata nella procedura di concordato, le parti circoscrivono alle diverse categorie di attività patrimoniali. Essendo gli atti esecutivi del tutto strumentali, non sarebbe rilevante che l’atto non ne indichi lo specifico oggetto. L’atto si qualificherebbe, in buona sostanza, come negozio di diritto privato che postula un giudizio di convenienza di ambedue le parti.

    Un ulteriore tema di rilievo è costituto dallo stabilire se le disposizioni contenute nell'atto-quadro, indipendentemente dallo loro validità ed efficacia, fossero illecite, operando una verifica sull’attitudine dell’assetto di interessi realizzato a corrispondere alle esigenze poste dallo specifico contesto concorsuale.

    Sul decisivo punto la questione è negativa. Va tuttavia osservato che il liquidatore (ovvero la Federconsorzi) fu privato di ogni potere gestionale. Non solo non aveva il potere di vendere uno per uno i suoi beni, ma assunse l'obbligo di concedere mandato a vendere i beni, avendo la SGR la facoltà di richiedere - essendo Federconsorzi fin da ora impegnata ad aderire a tale eventuale richiesta - mandati irrevocabili per la vendita. La Federconsorzi, lungi dal governare l’attività di liquidazione, attraverso la stipulazione dell’atto-quadro, se ne è spogliata per investirne SGR.

    Quest'ultima ha conseguito il potere di accedere alla medesima posizione nella quale sarebbe venuta a trovarsi se fosse stata direttamente investita delle funzioni liquidatorie. Ed invero all’atto-quadro non è seguito alcun trasferimento da parte di Federconsorzi della titolarità del patrimonio contemplato nella Relazione Particolareggiata in favore di SGR, ma, al contrario, è accaduto che quest’ultima ha operato quale mandataria di Federconsorzi, nel trasferire a terzi i singoli cespiti appartenti al patrimonio di Federconsorzi stessa.

    L’atto-quadro è rimasto inattuato sotto il profilo dell’esecuzione dell’obbligo a trasferire la titolarità dei beni costituenti il patrimonio di Federconsorzi ed ha trovato attuazione solo ed esclusivamente in relazione alle opzioni di mandato irrevocabile in esso contemplate, recanti esclusivamente un’effetto dismissivo delle attività liquidatorie da parte di Federconsorzi in favore di SGR.

    Lumeggiato in tale ottica, pertanto l’atto-quadro presenta spunti di perplessità che però non sembrano idonei a far discendere un giudizio di invalidità.

    Taluno ha evidenziato che, nonostante la diversa valutazione operata dal Tribunale fallimentare, l’atto violerebbe il principio di ordine pubblico della par condicio, in quanto avrebbe attuato una sorta di liquidazione dell’insolvenza concepita a vantaggio di una società cui non hanno aderito tutti i creditori, come impone la lettera dell’articolo 160, comma 2, della legge fallimentare. Inoltre, avendo esso investito delle funzioni liquidatorie la SGR, così sottraendole ai suoi organi tipici per affidarle ad un privato, avrebbe violato le direttive inderogabilmente poste dall’articolo 185 della legge fallimentare. Esso stabilisce la necessità che lo svolgimento della procedura di concordato sia assoggettata a controllo da parte del commissario giudiziale, il quale ne sorveglia l’adempimento, secondo le modalità stabilite nella sentenza di omologazione, a tutela della trasparenza e della correttezza delle operazioni volte a soddisfare i creditori.

    Come altrove già osservato, alla luce di quanto esposto, la Commissione non è in grado di offrire un’univoca e risolutiva risposta. Il dibattito è stato ampio ed i pareri contrastanti. Di certo, è interessante rilevare che il giudice Norelli, in sede di audizione, ha dichiarato che l’efficacia non è stata mai disattesa se non quando la si è voluta strumentalizzare, al fine di ottenere la transazione per la restituzione dei citati crediti MAF.

    Alla transazione aderì la SGR, senza indugi, continuando a ritenere quei crediti virtuali, come in effetti erano e come sono tuttora, a distanza di vari anni. Ne consegue il convincimento che trattasi, in conclusione, di un atto atipico, ma legittimamente consentito dalla normativa civilistica. Per completezza, occorre rammentare che la Commissione non ha raccolto elementi a sostegno dell’ipotesi di dolo del giudice delegato e presidente del collegio che omologò il concordato. Al riguardo, si pronuncerà la magistratura nelle sedi proprie. Non risulta, inoltre, che sia mai stata chiesta, né proposta, la revocazione della sentenza di omologazione del concordato, ai sensi dell’articolo 395, sesto comma, del codice di procedura civile.

    9. conclusioni

    Da quanto sopra esposto, sembra potersi sostenere anzitutto che il Piano Capaldo non si riprometteva solo un recupero di crediti, ma sottendeva un’operazione innovativa di peculiari valenze strategiche. La crisi delle relazioni bancarie internazionali fu brillantemente affrontata e superata. Il rilancio ed il riassetto del sistema federconsortile sono stati, invece, perseguiti senza successo. Il Piano, come si ribadirà poco avanti, non avrebbe poi effettivamente rivelato finalità speculative, ma piuttosto funzionali al coagulo dei consensi e delle partecipazioni dei soci della società SGR ed in particolare delle banche, per le quali il debito della Federconsorzi era di grande importanza. Il sistema bancario era, infatti, nel 1992 creditore nei confronti della Federconsorzi di circa 3.000 miliardi; ma le sofferenze complessive ammontavano a ben 37.926 miliardi ed i crediti nei confronti dell’Iri e della Montedison a ben 100.000 miliardi.

    Il problema dei crediti a rischio insolvenza aveva, quindi, una ben maggiore ampiezza ed esigeva scelte strategiche di politica economica e creditizia.

    Il profilo dell’eventuale profitto economico dell’operazione SGR ha formato oggetto di approfondimenti. La Commissione ha verificato le dismissioni immobiliari eseguite dalla SGR, non rilevando particolari anomalie e non riscontrando la realizzazione di profitti. Al riguardo, si evidenzia:

    Inoltre, sulla base degli approfondimenti svolti su immobili e partecipazioni:

    In materia di cessione di partecipazioni, gli approfondimenti eseguiti in punto di procedure e risultati hanno consentito di verificare che esse sono state predisposte ed attuate:

    Al riguardo, sono stati disaggregati i valori mobiliari ceduti ed esaminati i dati percentuali delle quote, del valore convenzionale di trasferimento e di quello di realizzo e sono stati svolti approfondimenti, verificando:

    Infine, va osservato che il direttore generale della SGR, il dottor Rossetti, in una nota del 12 ottobre 1998, indirizzata agli avvocati Zaganelli e Vassalli, ha dichiarato: "La dimensione del divario fra stima (del valore dei beni della Fedit n.d.r.) e realtà (valore reale e prezzo pagato da SGR n.d.r.) pertanto dipenderebbe sostanzialmente dal valore attribuibile ai crediti degli ammassi.(…) Solo un ipotetico incasso del credito degli ammassi avrebbe potuto produrre un risultato positivo di dimensione proporzionali al valore effettivo di quanto incassato. La transazione (…) ha avuto non solo l’effetto di porre termine ad un contenzioso lungo, difficile e costoso ma anche di sanare qualunque ipotizzabile squilibrio di prezzo pagato da SGR ed il valore di beni delle Fedit".

    La Commissione ha, pertanto, indagato anche la questione dei crediti verso i consorzi e verso il MAF, rinunciati solo a seguito di un atto di transazione. Era stato infatti ipotizzato che, aggiungendo alla somma che SGR ha riferito di poter realizzare, il valore di tali crediti, avrebbe potuto in astratto farsi discendere un profitto ingente per la SGR. Ma, allo stato, dopo circa otto anni, quei crediti rimangono solo e soltanto virtuali. Infine la SGR risulta ancora titolare di crediti verso consorzi in liquidazione coatta per 1.052 miliardi. Può considerarsi lo sforzo di alcuni consorzi per uscire dalla liquidazione coatta mediante concordato (i consorzi interessati, come comunicato dal MAF, sono almeno sei), talché le aspettative di realizzo della SGR nei loro confronti non apparirebbero necessariamente uguali a zero, ma anche in questo caso, allo stato, tali sforzi non hanno sortito alcun determinante effetto concreto.

    La SGR ha presentato dati di bilancio (che la Commissione non ha ovviamente ritenuto di verificare sistematicamente per le citate ragioni di economia di tempo) in forza dei quali la società si avvia a chiudere la sua attività in pareggio ovvero in un lieve e non significativo utile.

     

     

     

    Capitolo Decimo

     

    La procedura concordataria

     

    1. Le fasi principali della procedura del concordato preventivo con cessione dei beni

    La Commissione ha preso in esame la procedura concorsuale per ricostruire i fatti e comprendere quanto avvenuto, offrendo al Parlamento un’opportuna chiave di lettura dei profili giuridici e delle vicende giudiziarie.

    Appare opportuno rammentare preliminarmente le scansioni fondamentali dell’iter giudiziario.

    La richiesta d’ammissione alla procedura di concordato preventivo fu presentata presso la cancelleria del Tribunale fallimentare di Roma in data 3 luglio 1991.

    Il Tribunale, presieduto dal dottor Ivo Greco, con decreto in data 18/22 luglio 1991 ammise la Federconsorzi alla procedura, nominando commissario giudiziale il professor Nicola Picardi.

    Con sentenza pronunciata il 23 luglio 1992 e depositata il 5 ottobre 1992, il Tribunale omologò il concordato preventivo, attribuendo alla stessa Federconsorzi le funzione di liquidatore del proprio concordato.

    Con successivo decreto del 23 marzo 1993, il Tribunale autorizzò la vendita dei beni Fedit alla costituenda società SGR.

    Con ulteriore decreto del 20 luglio 1993, il Tribunale autorizzò la Federconsorzi, nella veste di liquidatore, a sottoscrivere, con la costituita società SGR, un negozio giuridico denominato atto-quadro che aveva per oggetto il trasferimento dei beni.

    Il 27 luglio 1993 il ministro dell'agricoltura pro tempore, onorevole Alfredo Diana, autorizzò il commissario governativo, avvocato Stefano D'Ercole, a sottoscrivere l'atto-quadro, che venne stipulato in data 2 agosto 1993.

    La procedura di concordato preventivo prevede due fasi.

    La prima, di natura sommaria, tende ad accertare la sussistenza delle condizioni d’ammissibilità della procedura stessa.

    Da un lato la legge fallimentare esige che esistano condizioni formali e sostanziali immediatamente rilevabili, quali la regolare iscrizione dell’impresa insolvente da almeno un biennio nel prescritto registro; una regolare tenuta della contabilità per la stessa durata; l’assenza di fallimenti o di concordati negli ultimi cinque anni; l’immunità da condanne per delitti di bancarotta o d’analoga rilevanza.

    Dall’altro lato occorre che sussista la fondamentale condizione che la valutazione di tutti i beni, esistenti nel patrimonio del debitore insolvente alla data della proposta di concordato ed offerti in cessione ai creditori, faccia fondatamente ritenere che i creditori privilegiati possano essere soddisfatti integralmente e quelli ordinari in misura non inferiore al 40 per cento.

    Essa si conclude con un decreto d’ammissione o di rigetto.

    La Federconsorzi fu ammessa alla procedura con decreto pronunciato 15 giorni dopo la presentazione del ricorso.

    La seconda fase comporta, invece, un riesame delle condizioni formali di legittimazione, tra le quali, in particolare, della regolarità della contabilità, ed un penetrante ed articolato controllo di merito.

    Quest’ultimo, ha per oggetto la convenienza del concordato per i creditori, in alternativa al fallimento, l'effettiva sufficienza dei beni a garantire il pagamento dei debiti nella misura richiesta dalla legge ed infine, la sussistenza delle condizioni che, in relazione alle cause del dissesto, rendono il debitore insolvente meritevole del concordato.

    Il Tribunale di Roma, ritenne sussistere tutti i requisiti di legge ed omologò (approvò) il concordato con sentenza pronunciata il 23 luglio 1992 e depositata il 5 ottobre 1992.

    I giudici dichiararono che sussistevano le condizioni di regolarità della contabilità, di meritevolezza e che il valore dei beni della Federconsorzi garantiva che dalla loro vendita, in massa o singolarmente, si sarebbe ricavato tanto da poter soddisfare i creditori chirografari nella misura del 74 per cento e, quindi in una percentuale ben superiore a quella minima del 40 per cento fissata dalla legge.

    Affidò, inusitatamente, alla stessa Federconsorzi e, quindi, al commissario governativo che la rappresentava, il compito di eseguire il concordato e cioè le dismissioni, sia pur sotto il controllo del commissario giudiziale.

    2. L’ammissione alla procedura concordataria

    Sono emersi elementi che inducono la Commissione a dubitare dell’ammissibilità del concordato.

    Ed invero, il procedimento concordatario si apre con il deposito della domanda, a firma esclusiva del debitore, o del legale rappresentante della società previa approvazione dei soci o dell'Assemblea straordinaria, che deve esporre le cause del dissesto e le ragioni di convenienza della proposta per i creditori.

    Unitamente alla domanda devono essere depositate le scritture contabili, uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dell’ammontare di ciascun credito.

    La domanda può essere migliorata, nelle sue condizioni economiche, anche nel corso del procedimento e sino all’esame da parte dell’adunanza dei creditori.

    La delibazione da parte del tribunale deve essere preceduta dal parere del pubblico ministero e dalla convocazione del debitore in camera di consiglio.

    Il giudice può assumere informazioni da terzi e chiedere chiarimenti al proponente, oltre a disporre mezzi istruttori e consulenze d'ufficio nei limiti previsti dal codice di rito.

    La pronuncia va espressa in forma di decreto con cui il Tribunale o ammette il debitore alla procedura di concordato preventivo, dando le disposizioni di cui all’articolo 163 della legge fallimentare, oppure dichiara l'inammissibilità della domanda per l'insussistenza delle condizioni personali o patrimoniali di cui all’articolo 160 della legge fallimentare.

    In quest'ultimo caso il tribunale dichiara di ufficio il fallimento del debitore, con separata sentenza, previo accertamento dei relativi presupposti oggettivi e soggettivi.

    Non trova invece applicazione la disciplina della revocatoria fallimentare e ciò perché il debitore conserva l’amministrazione dei beni e prosegue l'esercizio dell’impresa, sotto la vigilanza del commissario giudiziale e la direzione del giudice delegato.

    Il concordato è approvato se riporta il voto favorevole della maggioranza dei creditori che esprimono effettivamente il loro voto, sempre che rappresentino ameno due terzi dei creditori ammessi.

    Se non si raggiungono le prescritte maggioranze ovvero se il commissario accerta che il debitore ha occultato o dissimulato parte dell’attivo, ovvero ha compiuto atti in frode o atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione del giudice, o che, comunque, la procedura non può essere utilmente continuata, il tribunale, dopo aver nuovamente convocato il debitore, ne dichiara il fallimento.

    Se sono raggiunte le prescritte maggioranze si apre il giudizio di omologazione, in cui possono contraddire i creditori dissenzienti e qualunque interessato, al cui esito il tribunale si pronuncia sul merito e sulla legittimità della proposta.

    Nel caso di concordato con cessione dei beni, sono nominati uno o più liquidatori, che dispongono dei beni ceduti in piena autonomia, ed il comitato dei creditori, con funzioni di consulenza e controllo.

    Orbene, i commissari governativi richiesero ed ottennero dal Ministro dell’agricoltura l’autorizzazione a proporre a tutti i creditori un concordato preventivo con cessione dei beni.

    Il ricorso era già stato predisposto prima della nota autorizzativa del Ministro, datata 3 luglio 1991, e fu depositato nella cancelleria della sezione fallimentare del Tribunale di Roma alle ore 9 del 4 luglio 1991, senza previa autorizzazione dell’Assemblea straordinaria dei soci, ai sensi del combinato disposto degli articoli 161, ultimo capoverso, e 152 della legge fallimentare, per espressa volontà ministeriale, che prevedeva la convocazione dell’Assemblea solo per la ratifica dell’iniziativa.

    Tuttavia il Tribunale fallimentare non riteneva, in contrasto con l'orientamento prevalente dei giudici di merito che i proponenti mancassero di legittimazione e che il ricorso fosse irricevibile.

    Con decreto steso in calce al ricorso, lo stesso giorno del deposito, delegava il presidente Ivo Greco per l’audizione delle parti e per la necessaria istruttoria.

    Va, in proposito, rilevato che il presidente Greco, come si è accertato ascoltando i magistrati della sezione fallimentare, assunse la funzione di giudice delegato in applicazione di una prassi consolidata della sezione che non aveva deroghe ed era conosciuta da tutti.

    Il giudice delegato, dunque, convocava la ricorrente per l’audizione in camera di consiglio, fissata per il giorno 11 luglio 1991 alle ore 11, e richiedeva il parere al pubblico ministero.

    Quest'ultimo, in data 8 luglio 1991, esprimeva un "parere favorevole, allo stato" e restituiva gli atti al tribunale.

    Il giudice delegato richiedeva alla ricorrente, con nota del 9 luglio 1991, chiarimenti sulla situazione economico-finanziaria della società, ritenuti rilevanti ai fini del giudizio sulla meritevolezza, e procedeva all’audizione dei commissari governativi in data 11 luglio 1991, acquisendo una memoria scritta sui punti da chiarire.

    Contestualmente, i commissari depositavano copia del verbale di Assemblea straordinaria della Federconsorzi, tenutasi in forma totalitaria il 9 luglio 1991, che aveva approvato, ratificandola, con i voti favorevoli di 70 dei 74 soci, la proposizione della domanda di concordato preventivo.

    Passando all'esame del ricorso presentato, in esso si ravvisavano le cause che avevano determinato l’insolvenza nelle sfavorevoli condizioni del mercato internazionale dei prodotti agricoli e nella mancanza di un capitale proprio adeguato alla importanza delle attività gestite e si evidenziava la rilevante esposizione dell'impresa nei confronti del sistema bancario.

    Si individuava nel commissariamento il momento decisivo per il manifestarsi della illiquidità irreversibile; si spiegava la sterile ricerca del consenso dei creditori ad una liquidazione volontaria. Si affermava inoltre la sussistenza delle condizioni giuridiche ed economiche per giungere ad un favorevole concordato, più conveniente per i creditori, attesa la possibilità di conservare la rete di vendita e l’attività di commercializzazione mediante il trasferimento della stessa, a titolo oneroso, ad una società esterna capitalizzata da terzi.

    Si proponeva, quindi, il concordato con cessione dei beni, senza precisare la percentuale offerta ai creditori chirografari ma esponendo attività per lire 4.121.974 milioni a fronte di 293.443 milioni di debiti privilegiati e lire 4.752.312 milioni di debiti chirografari.

    Ebbene, il ricorso nel suo complesso appare rispettoso del contenuto formale imposto dagli articoli l60, comma secondo, n. 2, e 161, comma secondo, della legge fallimentare ma, manchevole della documentazione richiesta dal terzo comma dell'articolo 161.

    Mancavano, infatti, sia le scritture contabili (con la sola eccezione del bilancio al 31 dicembre 1990 e delle ultime 1540 pagine del libro giornale del 1991) sia lo stato analitico ed estimativo delle attività.

    Va osservato che, secondo la costante giurisprudenza, l’omesso deposito delle scritture contabili avrebbe dovuto determinare una pronuncia di inammissibilità della procedura per insussistenza della essenziale condizione costituita dalla regolare contabilità. Trattasi d'omissione inescusabile, che non sembra tollerare equipollenti, in quanto presupposto del giudizio di meritevolezza sull'imprenditore, che impedisce la verifica della regolarità formale della contabilità, propedeutica alla regolarità sostanziale. La Federconsorzi ricorrente non giustificava in alcun modo l'omissione, né nel corpo del ricorso, né nel verbale di deposito, eseguito dai tre commissari governativi nonché dal direttore centrale, dottor Paolo Bambara, e dal responsabile della contabilità generale, signor Fiorenzo Ilari.

    Per meglio comprendere e valutare l’importanza dell’omesso deposito dei libri contabili, oltre che dal punto di vista formale, anche dal punto di vista sostanziale (possibilità di ricostruzione dell’attività economico-patrimoniale della società), è opportuno ricordare quali sono i libri sociali obbligatori secondo la normativa civilistica (articoli 2214-242l e 2516 del codice civile):

    1) libro giornale

    2) libro degli inventari

    3) libro dei soci

    4) libro delle adunanze e delle deliberazioni delle Assemblee

    5) libro delle adunanze e delle deliberazioni del Consiglio di amministrazione

    6) libro delle adunanze e delle deliberazioni del Collegio sindacale

    7) registro dei beni ammortizzabili.

    Sono poi da ritenersi obbligatori, secondo il disposto del secondo comma dell’articolo 2214 del codice civile e dell’articolo l4 del dPR 29 settembre 1973, n. 600, i registri prescritti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto (libro delle fatture emesse e libro degli acquisti) e le scritture ausiliarie per categorie omogenee degli elementi reddituali (partitari) e di magazzino.

    Va osservato che il rispetto della normazione oggettiva sulla dotazione di libri e scritture contabili è condizione di ammissione alla procedura di concordato preventivo, secondo il disposto dell’articolo 160, comma primo, n. 1, della legge fallimentare, così che la mancanza di uno o più dei libri obbligatori fa venire meno la regolarità contabile dell’impresa.

    L'omissione ingiustificata del deposito dei soli libri obbligatori, secondo la normativa civilistica, nella cancelleria del tribunale al momento della presentazione della domanda, impedisce la ricevibilità della stessa.

    Dal decreto d'ammissione, pronunciato il 22 luglio 1991 dal Tribunale di Roma, si apprende, tuttavia, che le scritture contabili non erano state depositate in cancelleria perché i "voluminosi registri non avevano trovato posto nei locali di questo tribunale".

    L’asserto, non appare, però, del tutto convincente.

    Se, infatti, effettivamente, il libro giornale era di consistenza tale da creare problemi di spazio, tutti gli altri libri sociali obbligatori avevano dimensioni ordinarie. Quindi tutti i libri, prescritti dalla normativa del codice civile, con la sola eccezione del libro giornale, erano facilmente trasportabili. Trattandosi di libri di modesta consistenza, soprattutto se limitati al periodo da riguardare utilmente (biennio precedente alla proposta di concordato), non più ingombranti, in ogni caso, di quelli di qualsiasi altra società che avesse proposto un concordato preventivo, potevano essere conservati nella cancelleria della sezione fallimentare.

    Così esaurito il tema della ricevibilità del ricorso, va analizzato, in ordine logico, quello successivo dell'ammissibilità dello stesso.

    Il mancato deposito della gran parte dei libri obbligatori e delle scritture contabili, non poteva, infatti, impedire e non impedì la materiale verifica dei libri e delle scritture contabili da parte del tribunale.

    Nel decreto sopra citato si afferma che "in data 16 luglio il Giudice su delega del Collegio - si portava in via Curtatone, sede degli uffici della Federconsorzi, allo scopo di controllare la regolarità formale delle scritture contabili" riscontrando che "il libro giornale e quello degli inventari risultano regolarmente bollati e vidimati ai sensi dell’articolo 2215 del codice civile e che le registrazioni furono tutte eseguite successivamente alla data di vidimazione.

    L’indagine per campione eseguita sulle scritture ha inoltre consentito di constatare che la tenuta dei libri è stata, per il biennio antecedente al ricorso, conforme alle prescrizioni di cui all’articolo 2219 del codice civile.

    E’ stato soltanto riscontrato un ritardo di circa un mese nella registrazione delle operazioni; ma, tenuto conto della estrema complessità delle operazioni contabili e, in genere, della tendenza dell’impresa ad avvalersi, anche agli effetti civilistici, della normativa fiscale che consente all’imprenditore di eseguire le registrazioni entro 60 giorni dalle singole operazioni, si ritiene che questo ritardo non rappresenti una irregolarità tale da compromettere il riscontro obiettivo e sostanziale della gestione dell’impresa".

    Nessun ulteriore accenno è fatto nel decreto agli altri libri obbligatori né risulta essere stato compilato verbale dell’esame compiuto dal giudice delegato nella sede della Federconsorzi.

    L'accesso del presidente Greco, insieme con l’avvocato Ghia (difensore domiciliatario della Federconsorzi nella procedura di concordato preventivo) alla sede della Federconsorzi il giorno 16 luglio 1991 alle ore 11, fu anche annotata dal dottor Giorgio Cigliana, uno dei tre commissari governativi in carica, nella sua agenda.

    Ebbene, in base alla normativa, la domanda di concordato è inammissibile se non sia possibile, per difetti contenutistici o per il mancato rispetto dei canoni civilistici sulla rappresentazione dei fatti contabili, evincere dall’insieme della contabilità le cause del dissesto e la reale situazione patrimoniale dell’impresa. I libri contabili regolarmente tenuti dal punto di vista formale presentano, infatti, un duplice rilievo probatorio nella procedura di concordato preventivo: diretto, relativamente ai fatti documentati; indiretto, relativamente all’andamento dell’azienda.

    I libri previsti dal codice civile sono sufficienti ai fini di un positivo giudizio sulla regolarità contabile per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo.

    Occorre, però, che gli stessi siano tenuti nel rispetto dei principi di cronologicità della registrazione, di progressività della numerazione dei fogli, della preventiva bollatura da parte dei pubblici uffici, della assenza di cancellature ed abrasioni ed infine secondo la fondamentale regola della competenza economica, per cui tutti i fatti relativi ad un determinato esercizio contabile vanno registrati nel libro competente per annualità (articoli da 2215 a 2219 del codice civile).

    Si ritiene, ai fini della regolarità contabile, che per la registrazione nelle scritture cronologiche e nelle scritture ausiliarie di magazzino, si possa far riferimento al termine di sessanta giorni, decorrente dal verificarsi del fatto contabile o dal ricevimento del documento di terzi, come previsto dall'articolo 22, comma secondo, del dPR 29 settembre 1973, n. 600.

    Orbene, le scritture della Federconsorzi non erano, secondo la Commissione, idonee alla ricostruzione della effettiva situazione patrimoniale dell’impresa.

    Va considerato che, per quanto riguarda le registrazioni dei movimenti di gestione sul libro giornale, il riscontrato ritardo di circa un mese appare verificarsi in meno della metà delle registrazioni, mentre la maggioranza dei movimenti risulta iscritta con ritardi variabili da due-tre mesi sino a due anni.

    Si segnala in particolare il volume 123 del giornale 1989 (conservato presso il deposito di Castelnuovo di Porto) che reca iscritti in data 21 dicembre 1989 per quasi ottocento pagine (da 180 a 966) movimenti contabili e finanziari relativi al novembre ed al dicembre dell’anno precedente (1988) mentre il volume 56 del giornale 1990 reca iscritti, solo in data 31 dicembre 1990, per tutte le 1500 pagine, movimenti contabili e finanziari degli anni 1988, 1989 e 1990.

    Le ultime pagine del libro giornale 1991 ed il bilancio al 31 dicembre 1990, redatto in forma semplice e non consolidato, nonché senza la nota integrativa e tutte le altre analitiche indicazioni previste dal decreto legislativo 9 aprile 1991, n.127, con decorrenza dall’esercizio 1993, non possono, infatti, ritenersi sufficienti a rappresentare l’andamento gestionale dell’impresa.

    Basta considerare la difformità tra il bilancio depositato dagli amministratori, chiuso formalmente in pareggio, e la conclamata insolvenza dedotta dai commissari governativi nella domanda di ammissione al concordato preventivo.

    Inoltre un esame a campione condotto dalla Commissione, ha consentito di accertare gli enormi ritardi sistematici nelle registrazioni, evidenziandosi in particolare il concentrarsi di movimenti di vecchia data proprio negli ultimi giorni di ciascun esercizio.

    Appare quindi sorprendente che la verifica condotta dal giudice delegato, attestante la regolare bollatura e vidimazione successiva dei libri, non abbia condotto alla scoperta di registrazioni di movimenti anteriori di oltre un anno rispetto alla data corrente.

    A ciò va aggiunto che nessuna specifica menzione è fatta, nel decreto di ammissione della Federconsorzi al concordato preventivo, ai libri sociali diversi dal libro giornale e dal libro degli inventari.

    Di tali libri (libro soci, libro delle deliberazioni dell’Assemblea, libro delle deliberazioni del Consiglio di amministrazione, libro delle deliberazioni del Collegio sindacale e registro dei beni ammortizzabili) non vi è traccia alcuna (con la sola eccezione del libro del Collegio sindacale) neppure nel verbale di vidimazione della ultima pagina redatto ai sensi dell’articolo 170 della legge fallimentare, in data 23 luglio 1991 con l’ausilio del cancelliere.

    Quanto sopra esposto sembra integrare una serie di irregolarità formali e gestionali tali da inficiare il requisito della regolarità contabile.

    Lo stravolgimento del principio della competenza economica rendeva impossibile una corretta ricostruzione dell’andamento aziendale.

    Peraltro deve evidenziarsi che ancora oggi non sembra esservi traccia, sia presso i depositi di Castelnuovo di Porto e di via dei Piceni, che presso le sedi della liquidazione e della gestione commissariale, del fondamentale libro dei soci della Federconsorzi.

    Sembra, dunque, alla Commissione che la domanda di concordato dovesse essere dichiarata irricevibile ed inammissibile allo stato degli atti.

    L’imprimatur giudiziario della domanda della Federconsorzi, appare, inoltre, essere intervenuto, nella prima fase di delibazione dell’ammissibilità, in tempi eccezionalmente rapidi.

    Va ricordato, infine, che mentre nella vicenda Federconsorzi sembra esservi un atteggiamento benevolo del Tribunale, la prassi dello stesso era invece restrittiva: nel triennio 1990-1992, fu concessa l’omologazione solo a 13 proposte di concordato preventivo su 60 depositate, con una percentuale favorevole di poco superiore al 20 per cento.

    3. La valutazione della cosiddetta meritevolezza

    Nella valutazione della sussistenza o meno delle condizioni soggettive richieste dalla legge fallimentare per l'ammissione alla procedura, e cioè di quella che il linguaggio giuridico sintetizza come "meritevolezza", l’interpretazione del Tribunale si presta a commento sul piano giuridico e sul piano storico-fattuale.

    L’articolo 181 n. 4 della legge fallimentare stabilisce che condizione essenziale per l’omologazione del concordato preventivo è una positiva valutazione da parte del Tribunale che il debitore sia "meritevole" del beneficio, "in relazione alla sua condotta e alle cause che hanno provocato il dissesto".

    Secondo la previsione di legge, dunque, il debitore dev'essere ritenuto meritevole del concordato essenzialmente in relazione alle cause che hanno provocato il dissesto e non all’eventuale tentativo di limitare i danni.

    Non può essere meritevole del concordato preventivo l'imprenditore che abbia cagionato o aggravato il dissesto con comportamenti dolosi, o caratterizzati da colpa grave.

    Non sono concessi benefici all'imprenditore resosi responsabile di fatti lesivi della garanzia creditoria.

    Collegando espressamente la valutazione di meritevolezza alle cause del dissesto, la legge fallimentare ha inteso riferirsi alla ricostruzione delle vicende dell’impresa, imponendone una valutazione complessiva e globale.

    Nel caso di società insolvente la valutazione non può avere per oggetto che il duplice parametro della condotta dei suoi amministratori e delle cause del dissesto prescindendo dalla imputabilità soggettiva della mala gestio ai portatori dell’istanza di concordato.

    Basta considerare che se fosse sufficiente cambiare gli amministratori per ridare all'impresa una qualificazione positiva non vi sarebbero mai, con tale facile escamotage, società immeritevoli del concordato.

    Il Tribunale di Roma dichiarò che la Fedit era meritevole del concordato preventivo così argomentando: "il collegio ritiene che il comportamento dei commissari, proteso verso la salvaguardia dei diritti dei creditori, costituisca l’elemento decisivo per far ritenere sussistente il requisito della meritevolezza" e, quindi, individuò la meritevolezza della impresa Federconsorzi nell’operato dei commissari governativi.

    Si concretò così un giudizio positivo sulla meritevolezza che già si poteva rinvenire in un appunto del commissario Cigliana, di data 14 maggio 1992, anteriore di ben due mesi alla data di delibazione dell’omologa del concordato "c'è iatus tra i vecchi amministratori ed i commissari".

    La Commissione non ha ignorato l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale di merito e di legittimità, diverso da quello esposto, che tende a valorizzare una positiva gestione immediatamente precedente il concordato, consentendo ad una società rinnovatasi di godere del beneficio concordatario e di non essere penalizzata da una mala gestio precedente.

    Si richiede, tuttavia, un effettivo e concreto sforzo degli ultimi amministratori in favore del ceto creditorio.

    Ma, l’impegno dei commissari governativi fu finalizzato solo al tentativo di liquidazione volontaria della Fedit, non durò che 48 giorni, sfociò nella richiesta di concordato preventivo e non sembra essersi tradotto in alcun beneficio per il ceto creditorio, salvo che questo non debba ravvisarsi, tautologicamente, nella richiesta stessa di concordato.

    La condotta degli amministratori della Fedit che ne avevano cagionato il dissesto, come risultava da tutti gli atti della procedura, dalla relazione del commissario giudiziale, dalla impostazione dei commissari governativi, dalle consulenze raccolte dal Tribunale, lo rendeva impossibile.

    Faceva osservare il commissario giudiziale Picardi nella sua relazione già citata, che: "Le ultime cause del dissesto sopra illustrato sono certamente in correlazione con il comportamento e con le scelte degli amministratori che erano in carica prima del commissariamento da parte del Ministero dell’Agricoltura e Foreste". E aggiungeva: "(…)Dall’analisi delle cause dei dissesto (…) si desume, (…) che nel momento del commissariamento della Federconsorzi, le prospettive di un riequilibrio gestionale erano illusorie.

    Per tali vennero immediatamente percepite dai Commissari governativi, che correttamente, individuarono nella liquidazione l’unica soluzione possibile.

    Fallito il tentativo di una liquidazione volontaria, il ricorso ad una procedura concorsuale, di tipo liquidatorio, era inevitabile".

    4. La verifica della regolarità contabile

    La condizione d'ammissione del concordato costituita dall'esistenza di una regolare contabilità, va verificata, come si è ampiamente visto, all’atto dell’ammissione alla procedura.

    Essa va rivalutata e, quindi, riconfermata od esclusa al momento dell'omologazione, a norma dell’articolo 181 della legge fallimentare.

    Il giudizio non ha più connotazione di sommarietà e, secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione, deve riguardare non solo la regolarità formale ma anche e soprattutto la "idoneità alla chiara ricostruzione delle vicende economiche dell’impresa".

    Orbene, va osservato che il Tribunale di Roma, prima dell'omologa, non sembra aver assunto una autonoma iniziativa di disporre un accertamento sulla regolarità formale e sostanziale della contabilità e dei bilanci per gli anni 1988, 1989 e 1990 e, quindi, sulla consistenza patrimoniale e le condizioni economiche, finanziarie e reddituali dell’impresa.

    L’incarico di esaminare i bilanci degli esercizi 1988, 1989 e 1990, fu conferito infatti, dai commissari governativi ad un collegio composto dall'avvocato Lucio Ghia, dalla professoressa Maria Martellini e dal professor Mario Sica.

    Al riguardo occorre considerare che l'avvocato Ghia era il professionista che assisteva la Federconsorzi nella procedura di omologa e che il professor Sica, come ha dichiarato il dottor Pellizzoni, "(…) ebbe un incarico quando fu richiesta la preparazione della domanda di concordato preventivo".

    L’incarico fu conferito in data 15 novembre 1991 e fu assolto il successivo 20 novembre.

    In soli cinque giorni furono esaminati tre bilanci.

    Nella relazione a firma dei tre tecnici si legge l’avvertenza che l’esame era stato condotto, esclusivamente, sui tre bilanci e su una nota del dottor Bambara del 3 maggio 1991 e che non si era proceduto all’esame del "dettaglio contabile e dei corrispondenti supporti documentali".

    Sembra di comprendere che, in altri termini, non era stata eseguita nessuna verifica e non era stato fatto nessun approfondimento.

    Ha, in proposito, dichiarato alla Commissione, nel corso dell'audizione del 21 dicembre 2000, la professoressa Martellini: "(…) Il lavoro fu fatto in tempi molto brevi e fu abbastanza superficiale".

    Il Collegio peritale concludeva affermando che: "Con maggiori riserve per quanto concerne l’esercizio 1988 (…) può in definitiva concludersi che bilanci relativi al triennio 1988/1990 offrono un accettabile quadro informativo circa lo stato e l’evoluzione dell’assetto patrimoniale, finanziario e d economico della Federconsorzi; essi peraltro lasciano intravedere le improprietà ed inefficienze di imputazione che pur avendo avuto origine in un passato più o meno remoto generano ancora sensibili ripercussioni sulle risultanze contabili prese in esame".

    Segnalava, inoltre, che la comprensione dell’evoluzione delle poste dei tre bilanci e nell’interno d'ogni bilancio era possibile solo avendo conoscenze tecniche adeguate e concludevano che era necessario compiere molteplici approfondimenti per determinare le ragioni (e, quindi, l’attendibilità) dell’evoluzione, positiva e negativa delle poste.

    Si trattava, dunque, di un giudizio articolato, che, anche a trascurare le avvertenze d’insufficiente approfondimento, che pur il documento si preoccupava di affermare e ribadire, conteneva rilevanti rilievi negativi sull’intelligibilità e sulla chiarezza dei bilanci.

    Ne derivano, alla Commissione, gravi e fondati dubbi sull’ammissibilità ed omologabilità del concordato.

    A tanto va aggiunto che la professoressa Martellini, nell'audizione davanti alla Commissione, ha affermato - rispondendo alla domanda se, secondo le norme dettate dal codice civile e secondo la corretta tecnica di rappresentazione contabile, il bilancio del 1990 si sarebbe potuto chiudere in pareggio - che "(…) in base ad una impressione e non su base documentale, ritengo di no. Le ingenti svalutazioni portate nel 1991 e 1992 non sono maturate nel 1991 o 1992 ma emerse attraverso un perfezionamento della contabilizzazione, per cui é infine risultato evidente ciò che andava corretto. Questi fenomeni negativi sono sempre il risultato di una accumulazione di fatti che, se emergono tutti insieme, lo fanno in modo clamoroso (…).

    Devo rispondere che i bilanci non rappresentavano in modo veritiero e completo la realtà patrimoniale, economica e finanziaria di Federconsorzi, questo è fuori dubbio. In tutta coscienza mi sono sempre chiesta come mai su questi bilanci non si fosse mai fermata l'attenzione di alcuno. L'evidenza è evidenza".

    Incalzata dalla Commissione sull'argomento della falsità dei bilanci, ha inoltre affermato: "(…) Con le mie parole ho dichiarato che questi bilanci non rappresentavano la verità. Questa é una forma letteraria per rispondere al Presidente. Non voglio usare l'espressione "il bilancio è falso" non ritenendo di avere la competenza per concludere ciò. (…) In realtà, quel che a me sembra interessi sapere é se, per quanto ho appreso dal mio lavoro, abbia trovato quei bilanci idonei a dare il quadro della realtà economico-finanziaria della Federconsorzi. Dico di no".

    Ciò conferma l’identica conclusione alla quale era pervenuto il professor Flavio Dezzani, per incarico del Ministro Goria.

    A prescindere dalla relazione del commissario giudiziale, l’unico documento tecnico di cui disponeva il Tribunale all’atto dell’omologa, decisa il 5 luglio 1992, era quello redatto da tre tecnici officiati come si è esposto.

    Il commissario giudiziale, professor Picardi, chiese espressamente al giudice delegato, con istanza del 23 febbraio 1992, di disporre un accertamento tecnico contabile. Il dottor Greco non accolse la richiesta ma autorizzò, in data 5 maggio 1992, i commissari governativi a conferire nuovamente all’avvocato Lucio Ghia, alla professoressa Maria Martellini ed al professor Mario Sica, l’incarico di compiere accertamenti sulle cause del dissesto, dando loro mandato di esaminare i bilanci della Federconsorzi dal 1986 al 1990.

    Su richiesta del professor Picardi, il collegio degli esperti fu integrato con un esperto designato dalla procedura. La scelta del dottor Greco cadde sul professor Francesco Carbonetti che vantava una docenza universitaria ma sembrava esperto, in particolare, di questioni bancarie.

    Il professor Carbonetti era stato, inoltre, un consulente della Federconsorzi ai tempi della gestione Pellizzoni, e da tre anni era presidente della banca Fideuram, creditrice della Fedit.

    La seconda relazione degli esperti fu depositata solo in data 16 marzo 1993, a concordato già omologato, ma significativamente essa non mancava di distinguere "sotto il duplice profilo della loro chiarezza e verità", i bilanci relativi agli esercizi 1986-1988 dagli ultimi due che pur determinando "riserve relative al congruo apprezzamento di talune poste, in particolare di quelle attinenti ai crediti e alle immobilizzazioni finanziarie" non mancavano di apparire sufficientemente chiari.

    Si deve, a questo punto, ricordare che, secondo i consulenti del pubblico ministero di Roma, la contabilità della Fedit era tenuta in maniera:

    Secondo quanto accertato da questa Commissione, a quanto già evidenziato nel paragrafo precedente va aggiunto che la Federconsorzi tenne in maniera irregolare ed incompleta parte delle scritture richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa: almeno fino al 1989, i piani dei conti furono insufficienti ed incomprensibili nelle voci.

    Essa si avvalse di un impianto contabile inidoneo a consentire un controllo effettivo della gestione. Gli accadimenti economici venivano, sovente, rilevati contabilmente in maniera confusa senza specifici riferimenti documentali suscettibili di riscontro.

    Per tali anomalie, le scritture contabili, sono da considerare, per una parte rilevante, inattendibili.

    I bilanci dal 1982 al 1991 appaiono irregolari e non rappresentativi della realtà economica e patrimoniale dell'impresa. I crediti venivano sopravvalutati.

    Le perdite, eccedenti notevolmente il capitale sociale ed anche l’intero patrimonio della società, venivano occultate.

    I risultati d'esercizio non erano veridici.

    I bilanci dal 1982 al 1988, si chiusero in utile perché si omise di procedere ad accantonamenti di fondi rischi nell’ordine di circa 100 miliardi l’anno.

    Il pareggio del bilancio 1989 fu l'effetto della cancellazione dal passivo e della iscrizione nel conto economico di una corrispondente sopravvenienza attiva costituita da "Debiti prescritti" per lire 159,7 in realtà inesistenti.

    Negli anni 1989 e 1990, il pareggio del bilancio fu l'effetto dell'utilizzo di fondi che non costituiscono veri e propri componenti positivi di reddito, ma solo partite contabili.

    Se si considera poi che, nei due esercizi in parola, risultano utilizzati anche i cosiddetti "debiti prescritti" per lire 159.733 milioni per l’anno 1989 e lire 221.430 milioni per l’anno 1990, si coglie l'esatta portata delle consistenti perdite riferite ai precedenti esercizi.

    Sembra, quindi, alla Commissione che, sulla base degli elementi percepibili ed ancor più di più di quelli che sarebbero potuti emergere da un adeguato approfondimento tecnico, il concordato non avrebbe dovuto essere omologato perché non ne sussisteva una condizione fondamentale.

    5. La determinazione della percentuale di realizzo

    Desta perplessità il fatto che il Tribunale non valutò per nulla se il concordato fosse per i creditori più o meno conveniente del fallimento.

    E’, tuttavia, un ultimo profilo a presentare le connotazioni di maggiore rilievo.

    Esso concerne la copertura del fabbisogno concordatario e cioè la previsione di incasso sufficiente per pagare ai creditori non privilegiati almeno il 40 per cento dei loro crediti.

    Tale percentuale del 40 per cento rappresentava, infatti, il limite non valicabile, al di sotto del quale non c’era che il fallimento.

    La giurisprudenza della Corte di Cassazione impone che, in sede di omologazione, il Tribunale valuti la sufficienza dei beni offerti ad assicurare il pagamento dei creditori con un livello di attenzione tale da raggiungere la "quasi certezza".

    Occorre dunque la sicurezza, nei limiti in cui la natura previsionale del giudizio lo consente, che nella fase dell’esecuzione la proposta trovi piena attuazione e non tradisca le legittime aspettative dei creditori.

    Ciò è di decisiva importanza per l'impossibilità, sancita dalla legge, di risolvere il concordato quando i creditori non possano ottenere la percentuale promessa.

    Gli organi giudiziari sono tenuti a compiere ogni sforzo per contenere l’alea dell’esatto adempimento nel concordato per "cessio bonorum", assicurandosi che le prospettive di realizzo dell’attivo siano effettivamente congrue rispetto all’entità delle passività da soddisfare.

    A tal fine il Tribunale di Roma si avvalse di una nutritissima ed onerosa schiera di consulenti per quasi ogni aspetto del patrimonio della Federconsorzi, i quali avevano tutti il compito di stabilire quanto si poteva ricavare dalla vendita dell’asset analizzato.

    Dopo avere ampiamente illustrato il metodo seguito e le scelte estremamente prudenziali adottate, il Tribunale determinò nella sentenza in 3.939 miliardi di lire le effettive possibilità di realizzo dell’attivo.

    Quanto al passivo, il Collegio, indicò l’esistenza di crediti in prededuzione per 374 miliardi, di crediti privilegiati per 462 miliardi e di crediti chirografari per 4.072 miliardi di lire.

    La percentuale del 40 per cento di questi ultimi era pari a 1.628 miliardi.

    Il fabbisogno concordatario minimo era quindi pari a complessivi 2.464 miliardi (1.628 miliardi di crediti chirografari, più 374 miliardi di crediti da prededursi, più 462 miliardi di crediti privilegiati).

    L’esubero di ben 1.475 miliardi emergente dal confronto tra attivo disponibile e fabbisogno passivo (valore attivo 3.939 miliardi - 2.464 miliardi fabbisogno = 1.475 miliardi) consentiva al Tribunale di affermare perentoriamente e fondatamente che "i beni ceduti sono sufficienti per il pagamento dei creditori chirografari almeno nella misura del 40 per cento, oltre il pagamento totale delle spese in prededuzione e dei crediti privilegiati".

    La previsione di realizzo appariva, pertanto, tale da porre al riparo da qualunque negativa eventualità. Se si potevano ricavare 3.939 miliardi dalla vendita in massa o singola dei beni, c’era un margine di sicurezza contro l’eventualità di minori incassi di ben 1.475 miliardi, tale da garantire che comunque la somma di 2.464 miliardi, necessaria per pagare il 40 per cento ai creditori ordinari, sarebbe stata incassata.

    Non mancava il Tribunale di prendere in esame nella sentenza le modalità con le quali si sarebbero potuti rendere liquidi e cioè vendere i beni cominciando "in ordine logico, per il suo carattere risolutivo globale, dalla proposta di vendita in massa di tutti i beni già formulata da un professionista per conto di una costituenda società al prezzo di £ 2.150 miliardi".

    E, pur affermando di non potere in sede di omologazione "adottare decisioni al riguardo, ma solo considerare la proposta come un’ipotesi di liquidazione da coltivare in prosieguo", ne valutava positivamente l’ammissibilità e favorevolmente la convenienza, osservando come "in genere la vendita in massa consenta di realizzare l’attivo in tempi brevi e con una forte riduzione dell’alea propria della liquidazione protratta".

    Non poteva, comunque, sottrarsi dal trattare il vero problema, il prezzo offerto: "la congruità del prezzo offerto rappresenta il più importante aspetto della questione" e si domandava, senza rispondersi, del tutto retoricamente "fino a che punto la celerità della monetizzazione possa giustificare un divario fra il prezzo offerto e il valore presunto dei beni" facendo ben intendere quale sarebbe stata la decisione finale con l’affermazione "allo stato, debba prevedersi l’ipotesi di vendita in massa come prima via da sperimentare".

    6. Le dismissioni

    Singolare è sembrata alla Commissione, nell’ottica della tutela degli interessi di tutti i creditori che è la sola che può e deve ispirare le scelte del giudice delegato, la determinazione con la quale il magistrato Greco respinse molte delle richieste dei primi tre commissari governativi di vendere parti del patrimonio, nel periodo intercorrente tra la presentazione della richiesta di concordato e la sua omologazione anche quando si presentavano occasioni, che andarono così perdute, d’immediati incassi per il ceto creditorio.

    Il dottor Greco addusse, a sostegno del suo operato, l'autorità di un pronuncia della Corte di Cassazione risalente nel tempo e rimasta isolata, su un tema, peraltro, non del tutto pertinente, e, quindi, l’esistenza di ostacoli di natura giuridica alle cessioni parziali.

    Se il dottor Greco si fosse sempre conformato agli orientamenti tradizionali, non ne stupirebbe l’invocazione di una giurisprudenza conservatrice.

    Poiché è, invece, difficile trovare nei repertori della giurisprudenza fallimentare decisioni, su ogni altro aspetto della procedura, più innovative di quelle adottate dal Tribunale di Roma e dal giudice Greco nella vicenda Federconsorzi, tanto che la sentenza che omologò il concordato fu pubblicata in tutte le riviste specializzate, appare difficile non ricavarne motivi di perplessità.

    Tanto più che in realtà non esisteva nessun divieto giuridico, testuale o sistematico, di vendere beni della Fedit prima della sentenza d’omologa del concordato.

    L’orientamento interpretativo al quale il dottor Greco si richiamò, appare inoltre in contraddizione con la scelta, compiuta nella fase successiva all’omologazione, di assegnare assoluta preminenza all'obiettivo della rapidità del realizzo dei beni, accogliendo l'offerta della SGR che prevedeva un prezzo tanto inferiore rispetto al valore di stima dei beni.

    La procedura rinunciò a dismissioni parziali - che avrebbero consentito incassi forse più congrui ma dilazionati e che sicuramente non avrebbero, per ragioni di mercato, permesso di cedere tutto - per vendere l’intero patrimonio, in blocco e subito, quasi a metà prezzo.

    La questione determinò un contrasto acceso tra i commissari governativi ed il giudice Greco.

    Vi fu disappunto anche nel ministro Goria, tanto da indurlo, secondo quanto si legge nell’agenda del commissario governativo Cigliana relativa al 1991, a parlare addirittura con il presidente del Consiglio Andreotti, di un eventuale "cambio dalla procedura" e cioè del passaggio alla liquidazione coatta amministrativa.

    I commissari, secondo la stessa fonte, il 21 novembre 1991, si recarono dal dottor Greco "minacciando" proprio il ricorso alla liquidazione coatta amministrativa ed ottenendone l’impegno ad autorizzare un finanziamento di venti miliardi in favore della Fedital, che ne impedì la dichiarazione di fallimento e ne consentì la vendita al gruppo Cragnotti.

    7. I pareri del professor Carbonetti

    Il professor Carbonetti fu autore, su richiesta della procedura, di tre pareri tecnici, che recano le date del 18 maggio, del 30 giugno e del 22 luglio 1992.

    Il primo parere riguarda le modalità dell’ipotizzata vendita delle partecipazioni nella Banca di Credito Agrario di Ferrara.

    Nel secondo, anteriore alla decisione sull’omologa di quasi un mese, ma successivo alla presentazione dell’offerta da parte dell'avvocato Casella, il professor Carbonetti procedeva a comparare il valore dei principali cespiti - determinato, nel bilancio redatto dai commissari governativi al 31 dicembre 1991, in 2.845 miliardi -, con i 2.150 miliardi dell’offerta SGR.

    In realtà, ai fini del realizzo, i commissari avevano valutato i cespiti 3.693 miliardi e non 2.845!

    Ma l'unico valore che rilevava non poteva essere che quello stabilito dal commissario giudiziale recependo le valutazioni dei periti, operando tutti nella prospettiva esclusiva della determinazione del valore di realizzo.

    Ed ecco che, in un terzo parere, del 22 luglio 1992, e, quindi depositato il giorno prima che il Tribunale deliberasse sull’omologazione, il professor Carbonetti scriveva: "(…) Mi si chiede ora di porre a confronto i suddetti valori (l’offerta Casella n.d.r.) con la stima a suo tempo effettuata dal Commissario Giudiziale il quale, a conclusione di un elaborato procedimento, indica in 3.939 miliardi il valore dell’attivo.

    Al riguardo, va pregiudizialmente osservato che un confronto analitico è possibile solo tra le valutazioni del Commissario Giudiziale e quelle espresse nel bilancio di esercizio, dato che il "progetto Capaldo" indica soltanto una cifra globale, senza fornire ragguagli circa le stime dei singoli cespiti (…).

    Come si diceva all’inizio, un confronto analitico fra la valutazione del Commissario Giudiziale e il prezzo indicato nel Piano Capaldo non può essere compiuto. Non si è in grado, quindi, di sapere a quali poste siano da attribuire le differenze valutative; può peraltro congetturarsi che il comparto principalmente responsabile del divario sia quello dei crediti, essendo appunto il cespite il cui realizzo è più caratterizzato da incertezze.

    Quel che preme sottolineare è che, ad avviso dello scrivente, sarebbe sbagliato un approccio alla questione che intendesse ricercare quale tra i due sia il valore "giusto".

    Il valore di 3.500 (in realtà 3.939 n.d.r.) miliardi indicato dal Commissario Giudiziale è il frutto di un’elaborazione condotta con il più alto grado di diligenza professionale.

    Il valore di 2.150 miliardi è quello di un’offerta negoziale, che consente un’immediata chiusura della procedura, eliminando i costi, le incertezze e soprattutto le lungaggini della liquidazione; tale offerta è inoltre accompagnata dalla incondizionata possibilità per qualunque creditore che ritenesse il prezzo inadeguato di partecipare ai rischi e ai vantaggi dell’operazione.

    C’è infine da considerare, per valutare la convenienza della soluzione in esame, le modificazioni del contesto economico intervenute dopo la realizzazione della valutazione del Commissario Giudiziale e, in parte, anche dopo la presentazione del "progetto Capaldo". Si tratta:

    Si osserva innanzitutto che, poiché con la decisione sull’omologa il Tribunale non avrebbe dovuto decidere anche sull’accoglimento o meno della proposta del professor Capaldo, un eventuale parere sul rapporto tra offerta e stime sarebbe stato logico e comprensibile solo dopo l’omologazione e non prima di essa.

    Un parere del genere, per la sua importanza, avrebbe dovuto essere affidato ad un collegio di periti ed a tempo debito. Desta sgomento la scomparsa del parere, come quella degli altri due, dagli atti della procedura.

    L’entità della cifra offerta aveva suscitato sorpresa, come accade sempre in presenza di accentuate divaricazioni tra stime ed offerte (anche se, come già si è detto, alla pubblicazione del Piano Capaldo non si accompagnò alcuna altra proposta maggiore).

    Il suddetto parere, lungi dal non aver alcun rilievo nelle determinazioni del Tribunale, come il dottor Greco e il professor Carbonetti sostengono, offrì un contributo argomentativo, di cui si può cogliere l’eco in alcune pagine della sentenza d’omologa.

    8. L'autorizzazione alla vendita del patrimonio alla SGR

    8.1 La possibilita' del ricorso ad un'asta

    Con ordinanza del 23 marzo 1993, il Tribunale di Roma (collegio: Greco-Celotti-De Vitis) autorizzò la vendita del patrimonio della Fedit alla SGR.

    L’analisi delle motivazioni suscita notevoli perplessità.

    La prima questione che il Tribunale doveva affrontare era costituita dalla decisione da prendere sul disporre o non disporre un’asta, per la vendita in massa dei beni, come previsto, sia pur in forma eventuale, nella sentenza d’omologazione del concordato e come preteso dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.

    L’asta avrebbe potuto non avere successo, per assenza di partecipanti; in tal caso si sarebbe potuto ragionevolmente abbandonare una tale modalità di vendita.

    Ma l’effettuazione dell’asta avrebbe comportato la possibilità che la SGR non se la aggiudicasse; che il prezzo fosse fissato nella misura stimata ai fini dell’omologazione; che il prezzo offerto da uno dei partecipanti potesse essere comunque maggiore di quello offerto da SGR.

    Per motivare la decisione di non procedere all’asta, contraddicendo se stesso, il Tribunale ne sostenne la sopravvenuta inutilità assumendo che, dopo la sentenza di omologa, non vi erano stati segnali d’interesse da parte di altri, diversi dalla costituenda nuova società.

    La giustificazione è stata ribadita dal dottor Greco e dagli altri giudici fallimentari nel corso delle loro audizioni davanti alla Commissione.

    Non essendosi quindi manifestati possibili concorrenti non sarebbe stato utile, ad avviso dei giudici fallimentari, neppure bandire l’asta.

    Ad avviso della Commissione, il successo o l’insuccesso di un’asta non possono essere giudicati se non dopo l’esperimento della stessa. L’argomentazione del Tribunale si risolve in una petizione di principio perché dà per scontato ciò che non lo era per nulla. Inoltre, al lettore della sentenza di omologa, interessato all’acquisto dei beni Fedit che non si fosse persuaso che la vendita in favore di SGR in realtà era stata già decisa, non restava che attendere che venisse bandita l’asta e che ne fosse fissato il prezzo.

    Non avrebbe avuto, infatti, nessuna convenienza a manifestare una volontà d’acquisto per non rivelare le sue intenzioni entrando in collisione con gran parte del sistema bancario. Nulla, poi, escludeva che, a seguito di un’adeguata pubblicizzazione sul mercato internazionale del bando d’asta che avrebbe dovuto contenere una precisa indicazione dei beni e del relativo prezzo, altri soggetti economici, italiani od esteri, potessero essere stimolati a concorrere.

    8.2 La valutazione della congruità e dell’opportunità dell'offerta

    Dubbi si possono avanzare sulle ragioni elencate dal Tribunale, nel corpo del citato provvedimento per accogliere un’offerta sensibilmente minore del valore stimato dei beni.

    Il Tribunale aveva omologato il concordato preventivo, stimandone un valore di realizzo destinato a soddisfare le aspettative dei creditori nella misura di 3.939 miliardi.

    Richiesto del dovuto parere sull’accoglimento della richiesta di acquisto di SGR per 2.150 miliardi, il commissario giudiziale, professor Picardi, il 22 febbraio 1993, e cioè solo un mese prima, scriveva: "(…) Le prime dismissioni hanno evidenziato una plusvalenza tendenziale di oltre il 20 per cento".

    L’affermazione è di grande importanza. Essa, infatti, indica le possibili prospettive del realizzo, superiori alle stime. Ne risulterebbe, inoltre, smentito l’argomento emerso nelle riunioni tra i futuri soci per avvalorare il forte abbattimento dei valori di presumibile realizzo dei beni, costituito dall’esito delle prime vendite.

    In tale riunioni, non pare che il professor Capaldo potesse riferirsi ad altro che alla sola vendita della Fedital, società di cui conosceva il valore reale, e che era a così alto rischio di fallimento, da costituire un caso a se stante.

    Proseguiva il professor Picardi: "(…) il prezzo di acquisto di tutte le attività della Federconsorzi è fissato nella proposta del professor Casella in 2.150 miliardi; la notevole differenza dovrebbe in linea generale far propendere per una forma di liquidazione tradizionale (…) una valutazione basata solo su questo dato sarebbe tuttavia riduttiva. Non a caso il comitato dei creditori ha formulato un parere non univoco con l'astensione di due membri, in quanto promotori della SGR, altri due membri hanno espresso parere favorevole, seppur condizionato; un altro membro parere sostanzialmente contrario.

    (…) La fase recessiva non dovrebbe comportare necessariamente un deprezzamento generalizzato dei beni ceduti ai creditori (...) da un recente studio della "Gabetti Agency" risulta che il settore immobiliare nel '93 sarà contrassegnato da un allungamento dei tempi dei trasferimenti immobiliari (…) accompagnato da un aumento, in valori assoluti, dei prezzi; (…) un crollo dei prezzi non viene ritenuto ipotizzabile dalla Gabetti. (...) Gli immobili Fedit appaiono particolarmente idonei a soddisfare le esigenze degli enti, istituti o investitori stranieri.

    (…) Il protrarsi della liquidazione è destinato a ripercuotersi in modo senza dubbio negativo sulle partecipazioni industriali e commerciali (…).

    La proposta di acquisto in massa comporta indubbiamente una riduzione dei tempi della procedura (…) stimata in tre anni (…) e dei costi complessivi di gestione, stimata in 73,9 miliardi".

    Il professor Picardi pose, quindi, in luce, elementi favorevoli e contrari all’accoglimento della proposta.

    I primi sembrano, in verità, di gran lunga più rilevanti dei secondi, perchè costituiti, in sintesi, dalla riduzione dei tempi e dei costi della procedura e dalla minore presumile perdita di valore delle partecipazioni.

    Stupisce, tuttavia, che il professor Picardi non abbia risposto con chiarezza e decisione all’unico e fondamentale quesito che l’offerta dell'avvocato Casella proponeva: esperendo la normale procedura di vendita frazionata dei beni e tenuto conto, quindi, dei tempi che ciò avrebbe richiesto, dei costi della procedura e della presumile svalutazione, riteneva che si sarebbe realizzata una somma che, ai valori del 1993, sarebbe risultata maggiore o minore di quella offerta dalla SGR?

    Nella formulazione dell’interrogativo si è presa in considerazione la riduzione del valore dei beni; non è infrequente, però, con riferimento agli immobili, il fenomeno opposto. Il protrarsi della durata della procedura concorsuale può far sì che - in conformità della previsione della Gabetti Agency - il prezzo degli immobili si potesse rivalutare.

    La durata della procedura, infine, non era sicuramente prevedibile ma, per dare una risposta favorevole all’accoglimento della proposta del professor Capaldo, il commissario giudiziale avrebbe dovuto ipotizzare, con elevato grado di probabilità, che il trascorrere del tempo e gli oneri conseguenti avrebbero portato ad incassare un importo tanto inferiore a quanto offerto da SGR da rendere preferibile un realizzo più rapido nell’interesse di creditori.

    8.3 Una voce discorde nel comitato dei creditori

    Per completezza di indagine, si osserva che all'accoglimento del Piano Capaldo si oppose uno dei componenti del comitato dei creditori, rassegnando considerazioni che indicano come i reali contenuti economici della proposta fossero intelligibili fin dalla sua presentazione.

    Si riporta, di seguito, la dichiarazione del 17 febbraio 1993 dell’avvocato Angelo Pettinari, rappresentante di un creditore minore della Fedit e facente parte del Comitato dei creditori: "Sulla precedente proposta contenuta nella lettera 28.12.92 (...) il Comitato si è già espresso in data 12.01.93 all’unanimità in senso sostanzialmente negativo.

    Nel parere emesso in quella data il Comitato aveva, tra l’altro, rilevato:

    1. che il prezzo offerto di Lire 2.150 md era ingiustificatamente sproporzionato in difetto rispetto al valore dei beni stimato in lire 3.939 nella sentenza di omologazione;
    2. che tale prezzo era da considerare inaccettabile in assenza di motivate circostanziate sopravvenute situazioni idonee a giustificare un così significativo abbattimento di valore, tenuto anche conto del breve periodo di tempo intercorso tra la data di effettuazione delle numerose ed articolate perizie ritenute cautelative dagli stessi organi della procedura;
    3. che la convenienza della proposta non appariva "di tutta evidenza sotto l’aspetto dell’attualizzazione del credito atteso che i pagamenti verrebbero diluiti nell’arco di un periodo di tempo di diciotto mesi (la cui data di decorrenza iniziale non risulta per di più determinabile)";
    4. che il prezzo offerto avrebbe consentito di assicurare a favore dei creditori chirografari un riparto in percentuale "non superiore al 32 per cento" senza quindi realizzare "neanche le minimali aspettative di riparto (40 per cento) che sono alla base del provvedimento di ammissione alla procedura di concordato preventivo e che hanno trovato puntuale conferma nella stessa sentenza di omologazione laddove la percentuale di recupero a favore dei creditori chirografari è stimata pari ad oltre il 74 per cento;
    5. che le modalità di esecuzione dell’operazione proposta si sarebbero risolte nella violazione del principio della par condicio creditorum.

    (…) In base a tali rilievi il Comitato concludeva che, pur considerando rispondente all’interesse dei creditori l’ipotesi di una vendita in massa, non riteneva di poter rassegnare un parere definitivo senza che preventivamente venissero rimossi gli evidenziati "aspetti di perplessità giuridica ed effettuali".

    Non pare che l’ultima proposta di cui alla lettera del professor Casella del 28.01.93 abbia rimosso nessuno di tali aspetti di perplessità.

    In particolare:

    1) il prezzo oggi offerto non solo continua ad essere quello già stimato incongruo di lire 2.150 miliardi, ma appare addirittura ridotto.

    Esso infatti viene espressamente offerto per "l’acquisto in blocco di tutte le attività della Federconsorzi" (…) con la precisazione che per le attività "nel frattempo cedute a terzi o comunque realizzate dagli Organi della Procedura, il relativo prezzo dovrà essere portato in decurtazione dall’importo come sopra complessivamente offerto da N.S. quale corrispettivo per il rilievo di tutte le attività". Per l'effetto (…) il prezzo di lire 2.150 miliardi dovrebbe essere decurtato di una somma non inferiore a lire 205,890 miliardi.

    (…) La proposta del 28.01.93 comporterà per la procedura non un introito di lire 2.150 ma, verosimilmente, di circa lire 1.800 miliardi;

    2) Nella proposta del 28.01.93 non viene rappresentata alcuna motivata circostanziata, sopravvenuta situazione tale da giustificare l’enorme abbattimento di valore dei cespiti rispetto a quanto valutato dai Commissari Governativi, da tutti i periti, dal commissario Giudiziale e a quanto recepito nella sentenza di omologazione del concordato preventivo.

    E’ opportuno richiamare che le uniche motivate, circostanziate, sopravvenute situazioni rispetto alle valutazioni dei cespiti, sono quelle rilevate dalla sentenza di omologazione che, in relazione alle dismissioni effettuate, afferma "Le anzidette vendite hanno consentito, peraltro, nonostante la situazione difficile in cui sono state effettuate, il realizzo di lire 205.890 milioni rispetto ai 169.001 milioni preventivati dal Commissario Giudiziale con una plusvalenza del 21,8 per cento. Tale plusvalenza ha finito col dimostrare come, nonostante la situazione di estrema difficoltà in cui si trovavano i beni venduti, le vendite hanno consentito un recupero di valore patrimoniali anche superiori alle previsioni;

    3) da quanto indicato dal Commissario Giudiziale (…) non c’è motivo di ritenere che nel prevedibile lasso di tempo necessario alla formalizzazione (…) la liquidazione concordataria non sia in grado di corrispondere ai creditori chirografari, anche solo a seguito di riparti parziali, una percentuale maggiore al 32 per cento (…);

    1. il prezzo offerto, decurtato di quanto sino ad oggi incassato dalla Procedura successivamente alla data del 21.01.92, non consentirà di assegnare ai creditori chirografi una percentuale superiore al 25 per cento;
    2. rimangono immutate perplessità rispetto alla violazione del principio della par condicio creditorum.

    (…) I diritti del creditore e la legittima aspettativa che questi ha di vedersi rimborsare il proprio credito nella misura più grande possibile nel rispetto della par condicio, vengono garantiti dalle norme che regolano lo svolgimento della procedura concorsuale. Tali diritti non possono essere d’imperio trasformati nella facoltà per il creditore di scegliere, alternativamente, di accontentarsi di una percentuale enormemente inferiore rispetto a quanto legittimamente si aspetta dalla Procedura oppure divenire socio di una società commerciale sulla cui gestione - a ragione della esiguità della sua partecipazione - non potrà mai verosimilmente influire".

    8.4. La decisione del tribunale sulla vendita in massa dei beni

    Il Tribunale non ha tenuto conto dei rilievi ed ha accettato la proposta del professor Capaldo ritenendo conveniente per i creditori la soluzione della vendita immediata in massa al prezzo offerto.

    Ciò risulta sostenuto con numerosi argomenti. Il Tribunale invocava l’estrema incertezza in campo politico ed economico; la progressiva recessione; la mancanza di liquidità; la debolezza della moneta; la tendenza ad eseguire investimenti all’estero; il consistente ed imprevisto peggioramento della situazione economica; l’azzardo nelle previsioni di realizzo del patrimonio in tempi lunghi; il pericolo di impoverimento nel tempo del patrimonio; l’onerosità delle spese di mantenimento.

    Orbene, prescindendo dalla fondatezza delle valutazioni sulla situazione economica italiana nell’anno 1993, va osservato che nessuno dei ritenuti profili del rischio liquidatorio era sopravvenuto inopinatamente.

    A giudizio della Commissione, non si trattava di azzardare previsioni di realizzo in tempi lunghi ma, come si è già esposto, di stimare, in base ad elementi probabilistici, se il realizzo in tempi lunghi sarebbe stato più o meno conveniente dell’offerta SGR.

    Le argomentazioni del Tribunale sembrano ignorare che il patrimonio della Fedit, non essendo costituito che in minima parte da aziende, e non richiedendo pertanto investimenti diversi dal prezzo d’acquisto, poteva avere un mercato non particolarmente influenzabile dalla negativa congiuntura.

    Del tutto trascurata è la maggiore convenienza all’acquisto da parte di operatori economici esteri, in dipendenza della svalutazione della lira.

    Agli argomenti sopra esposti, il Tribunale aggiungeva che le società controllate avevano bisogno di capitalizzazione ed erano tutte a rischio di fallimento; il loro personale rappresentava un costo mensile rilevante, pari a circa 500 milioni; le società quotate in borsa e le partecipazioni bancarie risentivano fortemente della recessione economica; il mercato immobiliare era in "blocco pressoché totale"; i crediti erano di difficile, se non impossibile, realizzo; gli oneri della procedura erano molto elevati.

    Le stesse difficoltà che si sarebbero poste alla procedura, nella prospettazione del Tribunale, si dovevano porre anche ad SGR.

    Si può obiettare che la proposta della SGR - come argomentato dallo stesso Tribunale - aveva maggiori possibilità operative in quanto i soci della SGR avrebbero potuto attendere tempi migliori e soprattutto ricapitalizzare le imprese partecipate in crisi, consentendone la vendita a prezzo più favorevole.

    Sennonché i soci della SGR altri non erano che i creditori della Fedit; non si capisce perché mai avrebbero potuto aspettare come soci SGR e non come creditori.

    I maggiori creditori - si ribadisce - erano le banche italiane, che non avevano nessuna urgenza di rientrare dalle loro esposizioni; i crediti Fedit erano stati tutti passati nella categoria delle sofferenze, fin dall’atto del commissariamento.

    La capitalizzazione delle imprese in crisi poteva, inoltre, essere effettuata dalla procedura attingendo dal ricavato di vendite parziali; già si era fatto ricorso alla capitalizzazione nel caso della vendita della Fedital al gruppo Cragnotti.

    Infine, una rapida vendita obbedisce all’esigenza di far ottenere ai creditori il massimo possibile nel più breve tempo possibile; ma una vendita rapida è cosa diversa da una svendita.

    8.5. Vantaggi e svantaggi, per i creditori, della vendita in massa dei beni

    Le procedure concorsuali hanno un minimo comune denominatore: in caso di crisi del debitore, garantire pari trattamento a tutti i creditori nelle stesse condizioni.

    I creditori della Fedit avevano crediti per un ammontare complessivo di 5.088 miliardi di lire.

    Piccoli crediti, anche per meno di 20 milioni di lire, erano vantati da numerosissimi creditori privati.

    Si trattava di creditori non privilegiati che, in caso di concordato preventivo ordinario e/o di fallimento, poiché i beni Fedit avevano sì un valore nominale superiore al passivo, ma un valore di stima minore di quello dei debiti, potevano aspirare ad un pagamento in percentuali variabili, ma in ogni caso parziale.

    Tali creditori non venivano affatto danneggiati dalla accettazione dell'offerta di SGR che, con 24 miliardi, pagava tutti al 100 per cento e, quindi, circa il 26 per cento in più delle previsioni.

    Era per loro un ottimo risultato, superiore ad ogni possibile aspettativa.

    Un simile epilogo era stato, per la verità, sollecitato già dal ministro Goria nell'invocare l'intervento delle banche, ed aveva lo scopo di rendere più agevole e snella la procedura, tacitando una moltitudine di possibili contraddittori molesti, e di qualificare positivamente l'operazione.

    Detratti i crediti in prededuzione - 403 miliardi - ed i crediti privilegiati - 275 miliardi - residuavano tutti gli altri creditori, per 4.410 miliardi, costituti in massima parte da Agrifactoring per 900 miliardi e dalle banche per 2.900 miliardi circa.

    Nel patrimonio della Fedit, che la SGR acquistava, c'erano, infatti, i crediti verso lo Stato, di cui si è già detto.

    9. Il ruolo del giudice delegato Greco

    La scelta di richiedere l’ammissione della Federconsorzi alla procedura di concordato preventivo fu politica, discutibile ma non infondata e non finalizzata, di per sé, a nessun altro scopo. L’analoga richiesta, riguardante la controllata società Agrifactoring, ebbe natura di scelta tecnica. Per la Fedit sarebbe stata possibile la liquidazione coatta in alternativa ad una richiesta di fallimento.

    Per l’Agrifactoring l'unica alternativa, al concordato era il fallimento. In entrambi i casi vi furono forzature delle procedure per realizzare una soluzione globale.

    In particolare, quanto ad Agrifactoring, fu superata disinvoltamente la mancanza delle condizioni di meritevolezza per l'ammissione al beneficio.

    Si sostenne, contro l'evidenza, che la crisi del principale debitore, la Fedit, era stata imprevedibile da parte di amministratori, come il presidente Scotti, che amministravano entrambe.

    Fino all'ultimo, Agrifactoring fu utilizzata come serbatoio di flussi finanziari per la Fedit.

    Al centro delle vicenda, si pone quindi la figura del magistrato, presidente del tribunale e giudice delegato in entrambe le procedure, Fedit ed Agrifactoring, il dottor Ivo Greco, ascoltato dalla Commissione il 16 novembre 2000.

    Tuttavia le principali determinazioni non furono del solo dottor Greco.

    Esse furono assunte collegialmente e concordemente dai giudici fallimentari componenti del Collegio giudicante della procedura e, quindi, anche dal dottor Paolo Celotti, dalla dottoressa Fiammetta De Vitis e, solo nell'ultima fase, dal dottor Fausto Severini.

    Tutti i suddetti magistrati, nei cui confronti la Procura della Repubblica di Perugia non ha elevato alcuna accusa, hanno rivendicato la piena responsabilità e l’unanimità delle decisioni collegiali, escludendo di aver subito prevaricazioni da parte del presidente della sezione dottor Greco.

    Essi hanno affermato, inoltre, che alla discussione delle questioni più rilevanti come quella della cessione dei beni ad SGR furono chiamati a concorrere tutti i magistrati della sezione, confermando circostanze, già in verità riferite al pubblico ministero di Perugia, nel marzo 1998, dalla dottoressa De Vitis.

    Il ruolo del giudice Greco, delegato alla procedura e nello stesso tempo presidente delle sezione fallimentare, era preminente. Ciò non esclude, a giudizio della Commissione, salvo fatti specifici, che le scelte decisive furono collegiali e, si ribadisce, unanimi.

    L’operazione aveva l'approvazione della Banca d'Italia e del Governo.

    Il clima della vicenda era tale che, ad anni di distanza, se ne coglie l'eco nelle parole del pubblico ministero chiamato ad esprimere il parere del suo ufficio, che fu favorevole, il dottor Catalani. Questi nel corso dell’audizione del 26 maggio 1999, ha infatti fatto riferimento ad una "(…) decisione unanime dell'apparato (uso un termine particolare) di portare a concordato la Federconsorzi".

    La scelta sulla quale la Commissione ha raccolto elementi di perplessità fu comunque compiuta da tutto il Tribunale. Può ipotizzarsi che, di fronte alla più grande procedura concordataria della storia d'Italia, il Tribunale s’indusse a quella scelta "politica" di fondo in favore di SGR, per le motivazioni offerte in sede di audizioni e riguardanti le pressanti tensioni sociali connesse alle pesanti e certe ricadute occupazionali nel settore.

    L’avvocato Maugeri ha riferito: "(…) sia il Tribunale, nella persona del presidente Greco, sia il commissario giudiziale del concordato preventivo, professor Picardi, chiesero più volte un aumento del prezzo, sottolineando la differenza tra il valore attribuito, o meglio il prezzo offerto dalla SGR e la stima dei beni eseguita dal commissario giudiziale che aveva quantificato in 3.939 miliardi l’attivo della Federconsorzi; l’offerta era quindi notevolmente inferiore (2.150 miliardi)".

    La rigidità dell'offerta, riferita dell'avvocato Maugeri, più volte citata, e la sua presentazione pubblica, almeno un paio di mesi prima dell'omologa, concorrono a convincere che, in realtà, l’omologazione del concordato era ritenuta certa.

     

    Capitolo Undicesimo

     

    I riflessi giudiziari della procedura concordataria Federconsorzi

    1. Il procedimento promosso dalla Procura della Repubblica di Perugia per la vendita in massa dei beni della Federconsorzi e per la vendita della Fedital

    1.1 La vicenda della vendita in massa dei beni della Federconsorzi

    Nell'ambito di un procedimento aperto il 2 marzo 1996, la Procura della Repubblica di Perugia, all'epoca competente per i reati commessi dai magistrati di Roma, ha esercitato l'azione penale per l'acquisto di beni Fedit da parte della società SGR, contro il dottor Ivo Greco, magistrato, il professor Pellegrino Capaldo, il professor Francesco Carbonetti, l'avvocato Stefano D’Ercole, e il ragionier Cesare Geronzi (procedimento penale n. 474/96 R.G.N.R.).

    L’accusa è di concorso nell'aver "distratto e dissipato l’attivo patrimoniale Fedit, valutato prudenzialmente 4800 miliardi da un collegio peritale nominato dallo stesso Tribunale fallimentare di Roma e circa 4000 miliardi dal commissario giudiziale, promuovendone e consentendone la vendita al prezzo apparente di 2150 miliardi (prezzo effettivo inferiore a 2000 miliardi per effetto di rateizzazioni fino a un anno e mezzo e per effetto di interessi sui ricavi delle cessioni di beni a terzi, anteriori alla scadenza delle rate) senza alcun apparente supporto di carattere tecnico e senza alcuna motivazione sostanziale, così intenzionalmente procurando un ingiusto vantaggio patrimoniale di rilevante gravità, quantificabile in circa 3000 miliardi, ai creditori soci di SGR e un correlativo ingiusto danno di rilevante gravità agli altri creditori e a Fedit."

    Al dottor Greco, nella veste di presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Roma e di giudice delegato nel concordato preventivo Fedit, è imputato, in particolare, di aver diretto la procedura secondo le aspettative del professor Capaldo e secondo gli interessi dei soli creditori soci della SGR.

    Al professor Capaldo ed al ragionier Geronzi, quali promotori di una cordata di creditori Fedit, è rimproverato l’acquisto, a nome e da parte della SGR, dell’attivo del patrimonio Fedit al 30 novembre 1991 per il prezzo nominale di 2150 miliardi; al professor Carbonetti, quale consulente del concordato preventivo Fedit, amministratore di SGR dalla sua costituzione e successivamente presidente della stessa, di aver rilasciato pareri al dottor Greco circa la congruità del prezzo offerto dall’acquirente; al professor D’Ercole, quale commissario governativo Fedit, di aver sottoscritto l’atto-quadro che riguardava il trasferimento dei beni della Fedit e di aver dato esecuzione allo stesso.

    Al dottor Greco è inoltre attribuito di avere, quale presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Roma e giudice delegato nel concordato preventivo Fedit, occultato una istanza presentata in data 27 maggio 1992 dai commissari governativi Fedit, volta ad avere conferma della non necessità di procedere alla messa in liquidazione della società, omettendo di protocollare l’istanza stessa ed acquisirla agli atti della procedura, nonché, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, d'aver rifiutato di provvedere sulla stessa e di avere occultato i pareri redatti dal professor Carbonetti.

    In data 25 novembre 2000 il Giudice per l’udienza preliminare ha disposto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati ad eccezione del ragionier Geronzi di cui ha dichiarato l’estraneità ai fatti.

    Tutti gli imputati, ad eccezione dell’avvocato D’Ercole, per il quale non è stato possibile procedere all'audizione per ragioni di tempo, sono stati ampiamente ascoltati dalla Commissione.

    La Commissione ha acquisito l'intero fascicolo processuale, nonché la trascrizione integrale dell'udienza preliminare e ad essi si fa rinvio per quanto riguarda le tesi sia dell'accusa che delle difese.

    1.2 La vicenda della vendita della Fedital

    Nell'ambito dello stesso procedimento, una seconda operazione è stata oggetto dell'attenzione della Procura di Perugia: la vendita, durante la procedura concordataria , della Fedital-Polenghi Lombardo.

    Gli imputati erano il dottor Ivo Greco ed il dottor Sergio Cragnotti per aver "in concorso tra loro, Greco Ivo quale giudice delegato del Tribunale di Roma nel Concordato Preventivo Fedit e il Cragnotti quale titolare della società CRAGNOTTI & PARTNERS, distratto attività dal patrimonio Fedit in regime di concordato preventivo dal luglio ‘91, procurando alla società Cragnotti & Partners un vantaggio patrimoniale di rilevante gravità con correlativo danno per il concordato preventivo Fedit: accedendo alle condizioni di vendita formulate dal dottor Cragnotti, tra le quali anche un rifinanziamento di 20 miliardi di lire di Fedital da parte di Fedit; disponendo condizioni e tempi di svolgimento dell’asta volti a favorire la Cragnotti & Partners, risultata poi unica offerente; procedendo all’aggiudicazione nonostante la segnalata, da parte della Swiss Bank Corporation incaricata di prestare assistenza tecnica nella cessione, impossibilità per gli eventuali concorrenti di presentare offerte in considerazione dei termini fissati (secondo esperimento di vendita fissato a cavallo delle festività natalizie); consentendo la possibilità di conferire a società di revisione incarico, da parte della sola Cragnotti & Partners e in assenza di controllo della controparte e della procedura, per la certificazione dello stato patrimoniale di Fedital, stabilendo la decurtabilità del prezzo di aggiudicazione in conseguenza degli esiti della revisione contabile; dando incarico alla KPMG di effettuare tale revisione sulla base dei principi applicabili per la redazione di un bilancio di esercizio invece che dei criteri in vista della cessione di azienda, così da sottostimare il valore dei marchi (tra i quali il marchio POLENGHI) e non considerare il fondo oneri futuri (previsto in vista di una ristrutturazione diFedital) e gli sconti fiscali sugli esercizi successivi; aggiudicando alla Cragnotti & Partners la partecipazione Fedital (valore 130 miliardi, di cui 20 derivanti dall’autorizzato rifinanziamento) a prezzo esiguo (offerta 55 miliardi, decurtata dopo l’aggiudicazione a 46,5 in conseguenza della certificazione KPMG): prezzo reale pagato, scontati i 20 miliardi rifinanziati, 26,5 miliardi a fronte di un valore di almeno 110 miliardi; In Roma, dicembre ‘91/ gennaio ‘92".

    Sulla non irrilevante vicenda la Commissione non ha potuto, per ragioni di tempo, avendo privilegiato altri accertamenti , compiere specifiche indagini.

    La questione presenta, comunque, specifiche connotazioni, che non appaiono suscettibili di favorire la ricostruzione di un quadro d'insieme, e del tutto disgiunta dalla vicenda della cessione dell’intero patrimonio alla SGR.

    Si tratta di un supposto illecito specifico di cui si dà conto riferendo che il Giudice per l’udienza preliminare con sentenza del 25 novembre 2000 ha prosciolto gli imputati dall’addebito con la formula "il fatto non sussiste".

    2. Il procedimento riguardante la cosiddetta "truffa dei vitelli"

    L’Ufficio del pubblico ministero di Perugia ha promosso, in data 1° giugno 1999, azione penale nei confronti di 24 persone per una frode connessa con l’allevamento di animali, in danno del consorzio agrario provinciale di Perugia, in liquidazione coatta amministrativa e dichiarato insolvente in data 12 ottobre 1996, e della Federconsorzi (procedimento n. 975/93 N.R.).

    La vicenda penale richiede autonoma menzione per molteplici ragioni. Alla rilevante entità della frode si accompagna, infatti, la rappresentazione della permeabilità della struttura di vigilanza interna della Federconsorzi e l’inaffidabilità della contabilità.

    Essa investe ancora una volta l’ex presidente del Tribunale fallimentare di Roma ed apre uno sconcertante scenario.

    Non emergono tuttavia elementi decisivi per la ricostruzione globale della vicenda Fedit.

    La Commissione non ha, pertanto, ritenuto opportuno procedere ad approfondimenti.

    La questione non è stata ancora sottoposta al vaglio del giudice per l'udienza preliminare.

    Il principale imputato si identifica in Costantino Franceschini, amministratore della società Ceas s.r.l. e procuratore della Caso s.r.l., entrambe aventi per oggetto l'allevamento del bestiame.

    Tra gli imputati compaiono il dottor Paolo Bambara, ex direttore generale della Federconsorzi; il dottor Giorgio Cigliana, già commissario governativo della Federconsorzi; il dottor Ivo Greco, già presidente del tribunale fallimentare di Roma; l'avvocato Stefano D'Ercole, già commissario governativo Fedit; il dottor Gianluca Brancadoro, già subcommissario governativo Fedit, e l'avvocato Ludovico Pazzaglia, subcommissario giudiziale.

    Gli imprenditori - o presunti tali - privati sono accusati di associazione per delinquere.

    La vicenda si può sintetizzare in una fittizia attività di compravendita e di allevamento di fittizio bestiame, posta in essere dal 1985 al 1993, da Franceschini ed altri con la complicità del corrotto responsabile del consorzio di Perugia.

    Operavano due società, la Ceas e la Caso, che apparivano come due società separate ma in realtà erano controllate dalla stessa persona, e cioè da Franceschini.

    La Ceas vendeva bestiame al consorzio agrario di Perugia per contanti e la società Caso provvedeva al riacquisto dello stesso a mezzo cambiali, simulando di procedere all’allevamento e alla stabulazione dello stesso.

    Ciò comportava, con la complicità del direttore del consorzio di Perugia, dottor Sartori, una sempre maggiore esposizione del consorzio stesso.

    Il bestiame era di asserita provenienza francese mentre in realtà non esisteva affatto o, ove esisteva, proveniva dall’Italia.

    Il profitto consisteva nel ricevere pagamenti in contanti dal consorzio di Perugia per il presunto allevamento e nell’assumere impegni soltanto cartacei.

    Le irregolarità cominciarono ad emergere fin dal tempo della gestione Pellizzoni ma il funzionario Fedit, dottor Peretti, che era responsabile del settore, non subì alcuna conseguenza. Fu infatti allontanato per iniziativa del dottor Pellizzoni, ma il rapporto di lavoro fu risolto consensualmente e gli vennero liquidati 736 milioni di competenze.

    Scrive il pubblico ministero di Perugia : "L'allora presidente della Fedit Scotti riferisce che l'ipotesi della risoluzione consensuale gli venne perorata dal funzionario della segreteria o dal gabinetto della Presidenza della Repubblica, circostanza questa confermata anche da altro funzionario Fedit, Frosina Domenico, il quale riferisce di aver appreso dallo stesso Peretti che si era rivolto al segretario generale del Quirinale spendendo l'amicizia personale con il Presidente della Repubblica".

    Eppure la Fedit affrontava l'impegno finanziario di un concatenarsi di cessioni da un soggetto all’altro, senza alcuna garanzia sul buon esito dell’operazione.

    La Ceas forniva formalmente bestiame alla Fedit, che pagava in contanti, rivendendolo al consorzio di Perugia che pagava non in contanti, ma con cambiali agrarie a scadenza di sei mesi.

    Il consorzio di Perugia trasferiva il bestiame agli allevatori.

    Questi ultimi vendevano nuovamente il bestiame alla Ceas. Successivamente, una volta completato il ciclo d’ingrasso, la Ceas vendeva per la seconda volta il bestiame alla Fedit cominciando un nuovo ciclo.

    Non esistendo il bestiame, i cicli si ripetevano e tutto ciò consentiva grande profitto alla Ceas e si risolveva in un grave danno per la Fedit malgrado quest'ultima cedesse ad Agrifactoring i titoli degli allevatori.

    Intervenuto il commissariamento della Federconsorzi, l'attività zootecnica proseguì.

    Fu il commissario Cigliana a chiedere al giudice Greco la prosecuzione dell'attività zootecnica, sulla base di un parere rilasciato dal perito agronomo Gerardo Bilotta di Avellino.

    Costui, in tale prima fase, svolse attività di consulente di parte e successivamente fu nominato perito di ufficio sulla stessa vicenda dal presidente Greco.

    Ne sono scaturite imputazioni elevate a carico di pubblici ufficiali.

    Infatti al dottor Cigliana, quale commissario governativo; al dottor Bambara, quale direttore generale della Fedit; all'avvocato Ludovico Pazzaglia, come subcommissario giudiziale; al dottor Ivo Greco, quale giudice delegato al concordato preventivo; ai signori Cupo e Bilotta, quali periti liquidatori, e al signor Costantino Franceschini è ascritto di aver concorso in bancarotta fraudolenta perché facevano proseguire l'attività zootecnica della Fedit in concordato preventivo, così distraendo ulteriori risorse finanziarie della Fedit, in base a motivazioni ritenute pretestuose, supportate da una perizia redatta da Cupo e Bilotta, nominati dal tribunale fallimentare di Roma per accertare l’esistenza fisica del bestiame e stimarne il valore.

    I due si rendevano, secondo l'accusa, responsabili di un falso elaborato, attestando l’esistenza di bestiame che in realtà non esisteva.

    Agli stessi imputati è attribuito anche un ulteriore profilo di bancarotta fraudolenta in concorso con l'avvocato Stefano D'Ercole, quale commissario governativo, e con il dottor Gianluca Brancadoro, quale subcommissario, con i signori Rossi ed Arganini, quali controllori per conto della procedura, per aver distratto risorse finanziarie nella liquidazione del patrimonio zootecnico della Fedit con un danno di circa 100 miliardi.

    1. Processi riguardanti la Federconsorzi

    3.1 Il processo relativo alle restituzioni in favore del Credito Italiano

    I responsabili amministrativi della Fedit, alla data del commissariamento, dottori Silvio Pellizzoni, Paolo Bambara, Paolo Lorenti, Giancarlo Dodi, Guido Botti, Fiorenzo Ilari, Franco Franzero ed i responsabili della filiale di Roma del Credito Italiano, Rosario Corso e Emilio Simon, furono chiamati a rispondere dinanzi alla sesta sezione penale del Tribunale di Roma dell'accusa di bancarotta fraudolenta preferenziale.

    L'addebito era il seguente: avere gli amministratori della Fedit, d'intesa con i funzionari della banca, eseguito a favore di quest'ultima, lo stesso giorno del commissariamento, un pagamento di ben 39.324 milioni, con il fine di favorirla, privilegiandola rispetto agli altri creditori.

    Il pagamento fu effettuato: quanto a lire 29.324 milioni mediante la consegna, previa girata, di 2.500 cambiali agrarie a firma di agricoltori e produttori agricoli; quanto a lire 10 miliardi mediante cambiali di pari importo emesse dai consorzi agrari.

    Il processo si è concluso con l’assoluzione, passata in giudicato e, quindi, definitiva, di tutti gli imputati, con sentenza del Tribunale di Roma del 16 giugno 1998 con la quale si è escluso che sussistesse uno stato di insolvenza della Federconsorzi e che, comunque, esso fosse percepibile da Credito Italiano.

    3.2 risultanze della ricognizione eseguita presso gli uffici giudiziari

     

    Allo scopo di accertare se la gestione di consorzi agrari avesse dato luogo in tempi recenti a fatti di rilievo penale, la Commissione ha eseguito un ricognizione presso tutti gli uffici giudiziari italiani.

    Dai dati pervenuti, risulta che sono stati instaurati, e solo in un caso definiti, sette procedimenti concernenti specificamente illeciti gestionali.

    l numero di essi, non apparirebbe particolarmente elevato se i consorzi non fossero società cooperative soggette alla vigilanza pubblica di cui si è trattato nel capitolo terzo.

    Infatti, tenuto conto del numero complessivo dei consorzi, il tasso di illiceità giudiziariamente rilevato non sembra accettabile e rafforza il convincimento già raggiunto dalla Commissione sulla inadeguatezza dei controlli.

     

     

     

     

     

    Capitolo Dodicesimo

    I consorzi agrari

    1. Il mandato del Parlamento. L'impostazione della Commissione

    La legge istitutiva ha assegnato a questa Commissione il compito di verificare la situazione economica e finanziaria dei consorzi agrarie e le ragioni, le modalità ed i tempi del ricorso alle procedure di liquidazione o commissariamento dei consorzi agrari in stato di liquidazione coatta amministrativa o di commissariamento.

    L'elevato numero dei consorzi, la complessità dei temi d'indagine, la lunghezza del periodo oggetto dell'esame, che va dal 1982 ad oggi, avrebbero richiesto tempi ben più lunghi di quelli concessi dal Parlamento alla Commissione.

    Non è stato, quindi, possibile procedere all'audizione di nessuno dei responsabili dei consorzi; si è, tuttavia, provveduto a raccogliere le indicazioni, le valutazioni e le osservazioni dei legali rappresentanti di tutti i consorzi agrari (in bonis, in stato di commissariamento e di liquidazione coatta amministrativa) in forma scritta. A questi ultimi la Commissione ha chiesto informazioni sulle condizioni economico-finanziarie ed operative dei consorzi dal 1982 ad oggi, sull'epoca d’insorgenza e sulle cause della crisi, sulle determinazioni adottate dagli amministratori per fronteggiarla e sulle conseguenze del commissariamento della Federconsorzi sui consorzi agrari.

    Pervenute le risposte a tali richieste ed acquisita copiosa documentazione, la Commissione, avvalendosi di adeguate competenze tecniche, ha potuto così procedere a valutare le condizioni economiche e finanziarie di ciascuno dei consorzi, delineandone i profili comuni essenziali, le scelte gestionali più significative assunte dagli amministratori ed infine l'adeguatezza dei controlli esercitati dai Collegi sindacali e dal Ministero dell'agricoltura. Si fa presente che tutti i dati acquisiti sono aggiornati al 31 dicembre 2000 e che non si è potuto tener conto, per motivi di tempo, delle variazioni intervenute dopo tale data.

    Per la maggior parte dei consorzi in dissesto è stata redatta una scheda analitica che consente la ricostruzione delle vicende giuridiche, economiche e finanziarie degli stessi.

    Al contenuto di ciascuna scheda, riportata nell’allegato n. 6 della presente relazione, la Commissione fa rinvio per la risposta al quesito sulle ragioni, sulle modalità e sui tempi dei provvedimenti amministrativi di commissariamento e di collocazione in liquidazione coatta.

    L'esigenza di procedere all'esame con speditezza e da più punti di vista, ha consigliato la suddivisione dei consorzi nei seguenti tre gruppi, composti applicando criteri di rappresentatività di condizione giuridica e di distribuzione sul territorio.

    A) Primo gruppo

    Alessandria, Aosta, Asti, Bergamo, Bologna, Bolzano, Brescia, Como-Sondrio, Cremona, Cuneo, Ferrara, Forlì-Cesena-Rimini, Friuli, Imperia, Mantova, Modena, Novara, Padova, Parma, Pavia, Piacenza, Ravenna, Reggio-Emilia, Rovigo, Treviso-Belluno.

    B) Secondo gruppo

    Ancona, Arezzo, Ascoli-Piceno, Firenze, Grosseto, L'Aquila, Latina, Livorno, Lucca-Massa Carrara, Macerata, Milano-Lodi, Perugia, Pesaro-Urbino, Pescara-Chieti, Pisa, Pistoia, Rieti-Terni, Siena, Teramo, Trieste, Varese, Venezia, Vercelli, Verona-Vicenza, Viterbo.

    C) Terzo gruppo

    Agrigento, Bari-Brindisi, Benevento, Cagliari-Oristano, Caltanissetta, Campobasso-Isernia, Caserta, Catania-Messina, Catanzaro, Cosenza, Enna, Foggia, Lecce, Nuoro, Palermo, Potenza, Ragusa-Siracusa, Reggio Calabria, Roma-Frosinone, Salerno-Napoli-Avellino, Sassari, Taranto, Torino, Trapani.

    2. I risultati dell'analisi condotta sul primo gruppo di consorzi

    2.1 I consorzi commissariati ed in liquidazione coatta amministrativa

    Alla data del 31 dicembre 1991, dei consorzi appartenenti al primo gruppo risultavano in liquidazione coatta amministrativa con esercizio provvisorio quelli di Asti, Alessandria, Como-Sondrio, Bergamo, Modena, Ferrara, Imperia-Genova-Savona-La Spezia, Novara, Pavia, Reggio Emilia, Rovigo-Belluno.

    Il consorzio di Cuneo era commissariato.

    Tutti i consorzi, sopra elencati, erano in condizione di manifesta crisi già prima dell'anno 1982, perché la gestione aziendale non si svolgeva più in condizioni di economicità. Lo squilibrio economico e finanziario aumentò sempre di più perché non fu posto in essere alcun intervento correttivo.

    Le cause dei dissesti furono plurime.

    In primo luogo la stessa struttura organizzativa ed economico-finanziaria federconsortile, atteso che l'assoggettamento commerciale alla Fedit ed alle società satelliti non consentiva margini adeguati di utili. L'accesso a forniture alternative rimase sempre modesto.

    Concorsero lo squilibrio finanziario tra capitale proprio investito e capitale mutuato da terzi; l’inadeguatezza degli organismi dirigenti; l’eccessivo onere degli apparati amministrativi e delle strutture.

    La gestione fu caratterizzata dall’alto costo degli oneri finanziari; dalla negatività degli indici di liquidità corrente, dall'onerosità dei debiti e, infine, dal sempre più basso rapporto tra numero dei dipendenti e ricavi.

    I consorzi in esame divennero una sorta di filiali della Federconsorzi perdendo la loro autonomia ed il loro ruolo propulsivo dello sviluppo agricolo.

    Di conseguenza il commissariamento ed il successivo concordato preventivo della Federconsorzi furono devastanti per la gestione commerciale e finanziaria dei consorzi considerati.

     

    2.2 I consorzi in bonis

    Alla data del 31 dicembre 1991, dei consorzi del primo gruppo risultavano in bonis quelli di Rimini, Friuli-Venezia Giulia, Parma, Piacenza, Ravenna, Treviso-Belluno, Bologna, Bolzano, Brescia, Cremona, Forlì-Cesena.

    La permanenza in bonis di tali consorzi fu dovuta alla loro capacità imprenditoriale.

    I Consigli di amministrazione e le Direzioni si ispirarono a criteri manageriali nell’attività commerciale e negli investimenti. Essi non si avvalsero delle sole forniture di Federconsorzi, ma praticarono una politica di rapporti diretti con altri fornitori; inoltre, fornendo servizi e merci a costi concorrenziali, riuscirono non solo a mantenere ma anche ad aumentare le proprie quote di mercato.

    Gli Organi statutari furono attenti nell’ottimizzare l’organizzazione centrale e periferica, controllando costantemente i costi di struttura e di distribuzione ed eseguendo opportuni investimenti nell’automazione e nell’informatizzazione: ciò consentì di conseguire una redditività tale da mantenere l'equilibrio economico.

    Dai bilanci d'esercizio degli anni 1982-1991 emerge che essi erano patrimonialmente solidi. Dopo il commissariamento della Federconsorzi fu così possibile, per tali consorzi, mantenere un rapporto fiduciario non solo con i principali fornitori, ma, anche, con la maggior parte degli istituti di credito con i quali operavano e di conservare gli affidamenti.

    3. I risultati dell'analisi condotta sul secondo gruppo di consorzi

    3.1 I consorzi commissariati e in liquidazione coatta amministrativa

    Al momento dell'analisi da parte della Commissione, dei consorzi agrari appartenenti al secondo gruppo risultano in liquidazione coatta amministrativa quelli di Arezzo, Chieti-Pescara, Firenze, Grosseto, L’Aquila, Livorno, Lucca-Massa Carrara, Macerata, Perugia, Pisa, Pistoia, Rieti-Terni, Teramo, Trieste, Varese, Vercelli, Viterbo.

    I consorzi di Chieti-Pescara, Grosseto, Livorno, Pisa e Varese alla data del 17 maggio 1991 erano già in liquidazione coatta amministrativa, mentre il consorzio di Perugia è stato posto in liquidazione coatta amministrativa in data successiva al 17 maggio 1991 ma prima del 4 luglio 1991.

    I consorzi di Arezzo, L’Aquila, Lucca-Massa Carrara, Pistoia, Rieti-Terni, sono stati posti in liquidazione coatta amministrativa dopo il 4 luglio 1991 e prima del 5 ottobre 1992.

    I consorzi di Firenze, Macerata, Teramo, Vercelli, Trieste e Viterbo (questi ultimi due alla data di omologazione del concordato preventivo Fedit erano già in gestione commissariale) sono stati posti in liquidazione coatta amministrativa dopo il 5 ottobre 1992.

    L'unico consorzio in gestione commissariale, era quello di Venezia, in bonis fino al 21 giugno 1991. Il consorzio permane tuttora in gestione commissariale. Dal bilancio 1998 emerge un utile netto di esercizio (Lit.32.820.392) dopo due esercizi (1996 e 1997) in pareggio ed i precedenti (dal 1991 al 1995) in perdita. Il commissario governativo confida che "(…) la Gestione Commissariale potrà (…) contribuire (…) ad una definitiva sistemazione dell’impresa (…)".

    Anche per tali consorzi, come per quelli del primo gruppo, le ragioni del dissesto maturarono in anni precedenti a 1982.

    La capillare presenza sul territorio costituì, infatti, un punto di forza della organizzazione dei consorzi agrari, sino a quando la concentrazione del mercato non la rese un onere insostenibile.

    La solidità patrimoniale consentì ad imprese sottocapitalizzate, come i consorzi, di reperire le necessarie risorse finanziarie per far fronte alle necessità della gestione corrente, ma non fu sufficiente a sostenere l'impegno necessario all’ammodernamento delle strutture industriali e commerciali e all’avvio di una razionalizzazione della rete distributiva.

    Negli anni ’60 e ’70, grazie soprattutto all’attività di ammasso volontario delle produzioni cerealicole per conto dello Stato, i consorzi prosperarono e si svilupparono, espandendosi nelle attività commerciali di distribuzione di mezzi tecnici ed effettuando forti investimenti nella struttura operativa. A tale slancio espansionistico, peraltro, non corrispose un immediato adeguamento alla crisi che caratterizzò, dalla fine degli anni ‘70, il comparto agricolo.

    La cessazione degli ammassi obbligatori, la sempre maggiore concorrenza che caratterizzò l’attività commerciale, l’incapacità di far fronte ai mutamenti del sistema economico, nonché strutture organizzative inadeguate, avviarono il sistema consortile verso una grave crisi.

    Essa era già, da tempo, conclamata e non poté che aggravarsi con il commissariamento della Federconsorzi.

    Quest’ultima scontava e copriva, abitualmente, presso il sistema bancario, gli effetti cambiari commerciali e finanziari rilasciati dai consorzi agrari: il protesto degli effetti emessi dai consorzi a favore della Federconsorzi; l’impossibilità di far fronte alle scadenze e l’incalzare delle azioni legali promosse dagli istituti di credito, concorsero a determinare l'epilogo.

    La crisi non giunse imprevedibilmente. I bilanci dei consorzi risalenti denunciavano, almeno fin dall’esercizio 1982, gestioni anomale e risultati negativi od insufficienti. L'indebitamento complessivo era troppo elevato rispetto ai ricavi.

    Nel 1982, risultavano infatti, in "perdita" cinque consorzi; dodici consorzi risultavano in pareggio ma, di questi, quattro lo erano solo per effetto di consistenti rivalutazioni economiche su cespiti immobiliari.

    Nel 1991 risultavano in "perdita" quattordici consorzi e solo tre ancora in "pareggio".

    Due fattori determinarono l’indebitamento aziendale. In primo luogo, la necessità di finanziare le perdite di competenza, comprese le rivalutazioni economiche effettuate. Di poi, la ricerca d’ulteriori fonti di finanziamento, anche per far fronte alle maggiori necessità di capitali d’impiego derivanti dall’incremento dei fatturati.

    I mezzi dei terzi costituivano l’unica fonte di finanziamento con conseguenti oneri finanziari insostenibili in rapporto alla redditività.

    La dipendenza finanziaria ebbe un "effetto leva" sull’incremento degli oneri finanziari anche a causa delle modalità di pagamento delle merci che erano acquistate prevalentemente presso la Fedit. Queste venivano infatti pagate mediante rilascio di cambiali agrarie a sei mesi a tassi di top-rate bancario. Poiché allo scadere delle cambiali i consorzi non erano in grado di procedere integralmente al pagamento, le stesse erano rinnovate mediante il rilascio di effetti ordinari, con conseguenze deleterie dovute alla capitalizzazione degli interessi, per far fronte ai quali, si ricorreva, parimenti, all’emissione di ulteriori cambiali.

    I consorzi ricorrevano alla Federconsorzi sia per gli approvvigionamenti della maggior parte delle merci, con inevitabili conseguenze sul "costo del venduto" sia per ottenere finanziamenti sotto forma di sconto di effetti.

    A ciò va aggiunto che le dilazioni con le quali i clienti dei consorzi pagavano le forniture erano, in media, più lunghe di quelle concesse dalla Federconsorzi.

    Il perverso meccanismo si protrasse per anni senza che ci si preoccupasse, ad ogni livello, di adottare provvedimenti idonei a fronteggiare e, possibilmente ad invertire, la costante ed ingravescente negatività dei risultati economici (indebitamento complessivo, rapporto oneri-proventi finanziari, antieconomicità del "costo del venduto", rimanenze di magazzino eccedenti, ecc.), che furono sistematicamente occultati.

    Le perdite reali degli esercizi vennero, infatti, compensate od attenuate mediante continue ed artificiose rivalutazioni economiche dei cespiti immobiliari, avvalendosi, con quanto meno dubbia legittimità, della possibilità di derogare ai criteri di valutazione stabiliti dall’articolo 2425 del codice civile.

    La negatività dei risultati di esercizio non ne venne, tuttavia, scalfita, né risultò meno tecnicamente percepibile.

    Inoltre, sopravvenienze attive particolarmente consistenti negli anni 1989 e 1990, furono dovute alla "remissione parziale di debiti verso Federconsorzi", vale a dire alla rinuncia - per altro illegittima - della Federconsorzi ad una parte dei suoi crediti.

    Il dissesto fu dovuto, altresì, al mancato contenimento dei costi del personale: il rapporto percentuale tra il valore dei "costi del personale" ed il "fatturato" è del 7,6 per cento per i consorzi in liquidazione coatta amministrativa e del 6,9 per cento per quelli in bonis.

    Pressoché nulla fu tentato per ristrutturare le reti distributive e per adeguare opportunamente i sistemi informatici aziendali, in funzione della evoluzione del mercato.

    I Consigli di amministrazione non assolsero i loro compiti con la diligenza pretesa dalla legge ed i Collegi sindacali vennero gravemente meno ai loro doveri di vigilanza.

    In proposito è esemplare quanto ritenne di scrivere nella relazione a corredo del bilancio 1986, il Consiglio di amministrazione del consorzio di Chieti-Pescara: "(…) la perdita di Lit. 9.028.664.226 va accantonata nel conto "Perdite da ammortizzare" e verrà coperta con i proventi degli esercizi futuri unitamente all’importo di Lit. 19.787.919.796 già esistente".

    L'enormità dell'affermazione, passata al positivo vaglio del Collegio sindacale, dell’Assemblea dei soci e del Ministero dell'agricoltura, esime da commenti e fornisce, secondo la Commissione, l'esatta misura della qualità dei controlli interni ed esterni.

    3.2 I consorzi in bonis

    Al momento dell'analisi da parte della Commissione, i consorzi agrari del secondo gruppo in bonis risultano essere quelli di Ancona, Ascoli-Piceno, Latina, Milano-Lodi, Pesaro-Urbino, Siena e Verona-Vicenza.

    I consorzi di Latina e Pesaro-Urbino furono sottoposti ad amministrazione controllata rispettivamente dal 20 luglio 1991 al 20 luglio 1993 e dal 19 giugno 1991 al 8 giugno 1993.

    Gli amministratori privilegiarono l'autonomia gestionale e praticarono il controllo dei costi; essi si orientarono sia a costituire solidità patrimoniale mediante incrementi delle immobilizzazioni sia a sostenere consistenti investimenti di adeguamento, ampliamento e ristrutturazione finalizzati a mantenere efficienti le strutture di servizio.

    Così operarono in particolare i consorzi di Ancona, Ascoli-Piceno, Siena, e Milano-Lodi.

    Importante fu l’impegno ad ampliare i propri impianti migliorando in tal modo anche la fidelizzazione degli agricoltori tramite il conferimento dei prodotti (consorzi di Siena, Ancona e Ascoli-Piceno).

    Analoga importanza rivestì la politica di dismissione di agenzie e di immobili non più interessanti per il prosieguo delle attività aziendali, in particolare quando alle dismissioni fecero seguito altrettanti investimenti (consorzi di Siena, Ancona e Ascoli-Piceno).

    Opportune scelte di fondo compiute dagli amministratori consentirono ai consorzi sopra elencati di far fronte alla crisi della Federconsorzi.

    Fu, infatti, praticata maggiore attenzione alla erogazione e gestione del credito ai produttori agricoli; furono utilizzati proficuamente i finanziamenti ottenuti dal sistema bancario; furono attuate la dismissione di partecipazioni in società ritenute non più necessarie, la razionalizzazione e la riduzione del personale e la riorganizzazione aziendale.

    La riduzione di liquidità fu ben affrontata anche da quei consorzi che erano creditori di Federconsorzi (Ascoli-Piceno e Milano-Lodi).

    Va evidenziato che i consorzi agrari di Latina e Pesaro-Urbino, ottennero nel giugno-luglio del 1991, e cioè dopo il commissariamento della Federconsorzi, l'ammissione per due anni ai benefici della procedura di amministrazione controllata, alla scadenza dei quali ritornarono in bonis.

    Ciò fu possibile grazie ad un progetto concreto e risoluto di risanamento economico-finanziario che consentì di procedere a soddisfare tutti i debiti scaduti e di continuare l’esercizio della gestione societaria in piena autonomia finanziaria ed economicità di gestione, interrompendo il ciclo perverso oneri finanziari-perdite d’esercizio.

    4. I risultati dell'analisi condotta sul terzo gruppo di consorzi

    Alla data del 17 maggio 1991 la condizione giuridica dei consorzi rientranti in tale gruppo era la seguente:

    In bonis: Caserta, Cagliari-Oristano, Campobasso-Isernia, Ragusa-Siracusa, Potenza-Matera, Enna, Benevento, Lecce, Nuoro, Trapani, Foggia, Taranto, Salerno-Napoli-Avellino, Roma-Frosinone, Bari-Brindisi

    Cosenza

    14.2.91

    Catanzaro

    14.2.91

    Agrigento

    1.4.91

    Caltanissetta

    19.6.61

    Reggio Calabria

    14.2.91

    Palermo

    1950

    Torino

    11.12.90

    Catania-Messina

    27.2.87

    Sassari

    7.8.86

    Al momento dell'analisi da parte della Commissione la condizione è, invece, la seguente:

     

    Bari-Brindisi

    12.9.91

    Benevento

    17.9.96

    Caltanissetta

    5.2.92

    Campobasso-Isernia

    12.11.96

    Caserta

    23.6.93

    Catania-Messina

    27.2.87

    Catanzaro

    8.8.91

    Cosenza

    19.9.91

    Enna

    5.9.91

    Foggia

    20.8.94

    Lecce

    23.12.91

    Nuoro

    8.2.94

    Palermo

    7.8.91

    Ragusa-Siracusa

    7.8.91

    Reggio Calabria

    9.8.91

    Roma-Frosinone

    24.1.92

    Salerno-Napoli-Avellino

    8.7.94

    Taranto

    16.1.92

    Torino

    5.7.91

    Trapani

    7.8.91

    Solo tre consorzi sono in bonis e tra questi, quello di Cagliari, già in liquidazione coatta amministrativa è riuscito a tornare in bonis il 5 ottobre 1999.

    Tutti i consorzi in bonis e commissariati al 17 maggio 1991, tranne quello di Agrigento, sono stati poi posti in liquidazione coatta amministrativa.

    I tempi dei provvedimenti di commissariamento e di liquidazione evidenziano la stretta correlazione con la crisi della Federconsorzi.

    Per il gruppo di consorzi in esame si è proceduto ad un esame della evoluzione delle loro condizioni economiche nel periodo 1982-1991, delineando, mediante specifiche tabelle i profili comuni dell’insorgenza della crisi.

    4.1 I rapporti dei consorzi con la federconsorzi risultanti dalle informative acquisite

    Le informative trasmesse alla Commissione hanno efficacemente posto in luce una forte dipendenza dei consorzi agrari dalla Federconsorzi e le ragioni della stessa.

    Le merci che la Fedit forniva ai consorzi erano nella misura di circa il 90 per cento costituite da prodotti delle imprese controllate e partecipate: concimi, sementi, fitofarmaci.

    La quota residua era costituita da merci delle grandi case produttrici, quali la Fiat e l'Enichem che la Fedit acquistava e rivendeva in proprio.

    Ha scritto in proposito il commissario liquidatore del consorzio agrario di Nuoro in tema di disponibilità di mezzi finanziari e delle connesse conseguenze: "La scarsa consistenza patrimoniale di molti consorzi e la conseguente impossibilità del reperimento di mezzi finanziari, li hanno costretti ad utilizzare quasi esclusivamente i canali di approvvigionamento della Federconsorzi.

    Sul piano finanziario era prassi che le forniture venissero dilazionate e cambializzate a favore della Federconsorzi e che queste cambiali alla scadenza venissero ripetutamente rinnovate con aggravio di interessi e dilatando a dismisura l’ indebitamento".

    Le modalità ed il prezzo delle forniture di merci sono state poste al centro della riflessione del commissario liquidatore del consorzio di Lecce: "Le merci - ha scritto - venivano fornite sulla base di programmi prestabiliti ed in conto acquisto; pertanto alla valuta concordata si doveva procedere al pagamento indipendentemente dall’avvenuta vendita della merce.

    Negli ultimi tempi, da parte della Federconsorzi veniva applicato un saggio di interesse superiore di 3/4 punti al "prime rate", mediante rilascio di cambiali all’ordine.

    I prezzi di acquisto consentivano un esiguo margine di utile rispetto al prezzo di vendita che comunque doveva essere conforme al mercato, mentre, per i fertilizzanti, il cui prezzo di vendita era amministrato (cioè stabilito dal CIP) il margine di utile si riduceva a tal punto da divenire irrisorio.

    Solo il massiccio aumento dei volumi di vendita avrebbe potuto in qualche modo riequilibrare il bilancio attesi i rilevanti costi fissi di struttura".

    Il commissario liquidatore di Trapani ha evidenziato sul piano generale che: "(…) Non possono essere trascurati i condizionamenti che derivano dalla gestione della politica di vendita attuata dalla Federazione che in buona sostanza, quale fornitore prioritario determinava ad un tempo i costi di acquisto delle materie prime ed indirettamente i margini operativi, atteso che i prezzi di vendita erano quelli di mercato per quanto riguarda i prodotti dell’agricoltura e quelli di listino per quanto riguarda le macchine e le attrezzature. La notevole dipendenza del consorzio da Federconsorzi, ha comportato l’ ingente indebitamento che, alla data della messa in liquidazione, era quasi esclusivamente verso Federconsorzi medesima. L’indebitamento scaturiva dai corrispettivi per le forniture.Queste venivano in parte pagate in contanti o con rimessa di cambiali dalla clientela, per le quali il consorzio era fideiussore, e in parte con finanziamenti agrari diretti dalla stessa Federconsorzi, dietro rilascio di cambiali. Queste ultime, alla scadenza, in mancanza di provviste sufficienti, venivano parzialmente rinnovate. Il cumulo delle somme non pagate e riportate, ha prodotto, negli anni, l’indebitamento finale, tenuto anche conto che sono state così finanziate le perdite di gestione".

    Il commissario liquidatore del consorzio di Caltanissetta ha posto in luce come "(…) l’indebitamento nei confronti della Federconsorzi sia stato probabilmente causato negli ultimi anni 50 da una politica commerciale errata, soprattutto nel settore macchine e che tale iniziale indebitamento nei confronti della Federconsorzi sia stato progressivamente ingigantito dai meccanismi di addebito degli interessi extralegali con capitalizzazione semestrale".

    Il commissario liquidatore del consorzio di Enna ha fatto notare che: "(…) il Cap ricorreva alla Fedit anche se i tassi di interesse dalla stessa praticati erano di 3-4 punti percentuali superiori a quelli delle banche locali".

    5. Le problematiche generali dei consorzi. Osservazioni conclusive

    Nel corso del decennio 1980-1990, la condizione economica e finanziaria dei consorzi andò, in generale, progressivamente peggiorando.

    Va considerato che l’entità dei debiti accumulati complessivamente dai consorzi agrari era, nel 1980, pari a 1.538 miliardi ed aumentò progressivamente raggiungendo già nel 1982 lire 2.086 miliardi.

    Nel 1987 il debito complessivo stimato era pari ad oltre 4.000 miliardi.

    Alla fine dell’anno 1990, dei 74 consorzi, solo 30 avevano un patrimonio positivo.

    Le cause dell’indebitamento e della crisi generalizzata dei consorzi agrari (e dell'intero sistema federconsortile) sono state individuate dalla Commissione, sulla base degli elementi raccolti, in problematiche strutturali e gestionali.

    E' risultata in larga parte confermata la lucida, inascoltata diagnosi, risalente agli anni Settanta, che l'allora presidente della Federconsorzi, dottor Nino Costa, affidò ad una memoria scritta inviata alla Commissione parlamentare di indagine sui limiti alla concorrenza.

    Il dottor Costa individuò la causa principale del progressivo dissesto dei consorzi agrari nell'onerosa e parassitaria intermediazione economica svolta dalla Federconsorzi nei rapporti con i fornitori, con i quali stipulava contratti d’esclusiva, ottenendo vantaggi che tratteneva per sé e non riversava sui consorzi.

    Questi ultimi, al contrario, erano costretti ad acquistare a prezzi che non assicuravano, all'atto della rivendita, margini adeguati di remuneratività.

    I contenuti dei rapporti economici tra la Federconsorzi ed i consorzi agrari non mutarono negli anni successivi.

    Le sfavorevoli condizioni imposte dal fornitore Federconsorzi ridussero fortemente i margini di ricavo e di redditività.

    I maggiori oneri non erano trasferibili, se non in parte, sui clienti finali, sia trattandosi sovente di prodotti a prezzi amministrati sia per ragioni di concorrenza.

    In ogni caso il maggior prezzo incideva negativamente sugli agricoltori e sulle aziende che il complesso sistema federconsortile avrebbe dovuto invece, istituzionalmente, avvantaggiare.

    I consorzi che seppero emanciparsi dalla sudditanza delle forniture, rivendicando la loro autonomia ma, nello stesso tempo, ponendosi a latere del sistema, attingendo anche a forniture esterne, riuscirono a conservare il loro equilibrio economico e finanziario.

    A ciò va aggiunto che il capitale sociale dei consorzi era del tutto inadeguato in rapporto alle attività: ciò costrinse i consorzi al ricorso sistematico al credito sia nei confronti della Federconsorzi sia nei confronti delle banche.

    Va considerato che il costo del danaro era particolarmente elevato: infatti il tasso ufficiale di sconto più alto, nel periodo dal 1936 al 1992, si registrò negli anni 1981 (19 per cento) e 1982 (18 per cento).

    Negli stessi anni, l’indebitamento dei consorzi produsse interessi passivi al tasso medio del 27 per cento.

    Altre cause del diffuso dissesto furono le seguenti: la capillare presenza sul territorio divenne negli anni Ottanta un onere insostenibile; le giacenze di merci erano abnormi, con bassissima rotazione, spesso incontrollabili, in assenza di adeguati strumenti informatici; il rapporto con gli agenti "in conto deposito", comportava oneri passivi sproporzionati; infine l'entità numerica del personale era pari mediamente al doppio di quello che le esigenze reali avrebbero consigliato. Inoltre venivano utilizzate strutture eccessive per dimensioni e costi, rispetto alle attività e venivano eseguite nuove immobilizzazioni senza adeguate valutazioni economiche sulla redditività delle stesse e sulla incidenza degli oneri finanziari.

    Non va dimenticato che i direttori di tutti i consorzi provenivano dalla Federconsorzi che ne teneva l' "albo" e ne poteva, quindi, indirettamente guidare le scelte e che la Federconsorzi condizionava la politica commerciale dei consorzi scegliendo i prodotti da fornire, le attrezzature e le marche da commercializzare, e, infine, stabilendo unilateralmente le modalità di finanziamento degli acquisti, le condizioni e i costi.

    La Federconsorzi, inoltre, garantiva i consorzi presso le banche.

    In sintesi, a ragioni strutturali di crisi, si aggiunsero, nella maggior parte dei casi, gestioni inadeguate che subirono la dipendenza dalla Federconsorzi e, nello stesso tempo, se ne alimentarono, ottenendo e facendo uso d’ingenti risorse finanziarie a fini di mera sopravvivenza.

    La Commissione, non ha potuto ulteriormente approfondire il tema delle ragioni di tali scelte, alle quali non sembrano, tuttavia, estranee le esigenze di conservazione del controllo del sistema da parte delle due associazioni di categoria.

    Le reali condizioni nelle quali si trovavano i consorzi erano note ai soci, agli amministratori ed ai sindaci.

    Questi ultimi, in particolare, posti dalla legge speciale a presidio della veridicità dei bilanci, vennero costantemente meno ai loro doveri di vigilanza, nulla osservando non solo su macroscopiche anomalie ma, anche, sistematicaticamente, sull'uso improprio di artifici tecnici che mascheravano la reale entità delle perdite, come quello della diffusa rivalutazione del patrimonio immobiliare.

    Ciononostante, la reale condizione dei consorzi era percepibile dalla Federconsorzi, che ne era ben consapevole, dagli istituti di credito che li finanziavano e dall' allora Ministero dell'agricoltura.

    Appare, quindi, evidente, come i provvedimenti di commissariamento e di liquidazione coatta furono nella maggior parte dei casi tardivi.

    Risulta, inoltre, chiaro che la politica creditizia delle banche, che beneficiavano degli elevati volumi di lavoro che i rapporti con i consorzi comportavano, confidava nella garanzia esplicita od implicita della Fedit e, quindi, sul tema non può che rinviarsi alle osservazioni già rassegnate.

    I bilanci dei consorzi non ne rappresentavano, con chiarezza ed attendibilità, le condizioni economiche e finanziarie ed i risultati degli esercizi, sia a causa del già evidenziato ricorso, di dubbia ortodossia, alla rivalutazione degli immobili sia per l’omessa deliberazione ed appostazione di riserve adeguate alla rilevante entità dei rischi d’insolvenza dei crediti concessi, di ammontare miliardario.

    Nella maggior parte di casi mancava anche un adeguato progetto economico e finanziario. Le spese di gestione erano solitamente esorbitanti ed insostenibili.

    I controlli interni dei Collegi sindacali erano, in generale, nulli. Parimenti quelli esterni: non risulta che furono eseguite ispezioni ministeriali fino al commissariamento della Federconsorzi; le prime ispezioni sembrano risalire al 1993.

    Tutti gli elementi raccolti sulle connotazioni economiche, finanziarie e gestionali e sullo status giuridico delle imprese consorzi agrari inducono la Commissione ad un’ulteriore riflessione.

    Le ragioni più profonde della crisi del sistema dei consorzi erano connesse alla stessa architettura del sistema federconsortile, valido ed utile solo nel contesto di una politica economica agricola dirigistica ed assistita ed invece in forte difficoltà di fronte alle esigenze di una economia di libero mercato.

    Le difficoltà furono acuite in maniera decisiva sia dai privilegi, nella realizzazione di profitti, accordati negli anni Cinquanta e Sessanta alla Federconsorzi nell’ambito delle funzioni pubblicistiche di ammasso alimentate con i fondi dello Stato, sia dalla politica commerciale della Federconsorzi.

    Questa perse gradualmente la caratteristica di struttura al servizio delle unità produttive diffuse sul territorio, costituite da quelli che ne erano suoi soci esclusivi, i consorzi agrari.

    La Federconsorzi divenne una grande impresa sul piano economico e finanziario mentre i consorzi non si sviluppavano ed evolvevano ma, al contrario, si affidavano sempre di più al sostegno assistenziale della Fedit, finendo per travolgerla.

     

    Capitolo Tredicesimo

     

    Sintesi delle conclusioni raggiunte dalla commissione

    1. La crisi dei consorzi agrari. Cause e responsabilità del dissesto della Federconsorzi

      1. la crisi

    Cause molteplici concorsero al dissesto della Federconsorzi.

    La Federconsorzi ed i consorzi agrari costituivano un sistema integrato, che aveva un assetto formalmente e giuridicamente privatistico, ma sostanzialmente a forte connotazione pubblicistica.

    Statuti di apparente ispirazione cooperativistica, limitavano fortemente, se non annullavano, l'autonomia operativa e gestionale delle unità di base costituite dai consorzi agrari.

    Tutti i consorzi facevano, obbligatoriamente, capo alla Federconsorzi per l'acquisto dei beni da rivendere ai soci.

    La Fedit si era costituita una complessa ed articolata rete di società che le consentivano una parziale e non sempre vantaggiosa autarchia.

    Nell’attingere al mercato esterno, non agiva come una centrale di acquisto, nell'interesse esclusivo dei soci, ma operava come una vera e propria intermediaria commerciale.

    Il prezzo dei prodotti non si formava, tuttavia, attraverso il confronto sul mercato.

    I consorzi non ricevevano, pertanto, le merci ai prezzi più convenienti e, pur potendo contare sulla domanda dei loro soci e dei loro clienti, non avevano, strutturalmente, la possibilità di garantire agli agricoltori le condizioni più vantaggiose e, a se stessi, adeguati margini di remuneratività.

    La Federconsorzi, invece, poteva contare su un vero e proprio profitto parassitario che le derivava dal ruolo di diretta venditrice e distributrice dei prodotti agrari.

    Per lunghi anni, fino al 1970 circa, si registrarono crisi dei singoli consorzi ma non dell'intero sistema.

    Ciò fu dovuto ai riflessi positivi della gestione degli ammassi obbligatori, risalente agli anni precedenti, dichiaratamente pubblicistica, che i consorzi assolvevano nell'interesse dello Stato, ed alla quale, la loro struttura e, complessivamente, l'organizzazione Federconsorzi-consorzi era effettivamente funzionale.

    Da tale fonte e dai profitti d’intermediazione, la Federconsorzi trasse utili tanto rilevanti da diventare impropriamente, appartenendo essa ai soci-consorzi, di fatto, una vera e proprio holding agroalimentare ed industriale e da poter acquisire uno dei maggiori patrimoni immobiliari italiani.

    Nei primi anni '80, la situazione economica e finanziaria dei consorzi, che avevano anche un irrisorio limite di capitale fissato per legge e che, quindi, non potevano neppure tentare l'autofinanziamento e dovevano necessariamente ricorrere al credito bancario, si fece più grave.

    Le due associazioni di categoria erano consapevoli che la loro forza politica si basava proprio su quell’assetto sistemico che produceva l’indebitamento dei consorzi. Questi ultimi operavano, infatti, in forma assistenziale e protezionistica nei confronti degli operatori agricoli assicurando crediti e forniture indipendentemente dalle condizioni economiche e dalle prospettive di reale sviluppo delle imprese, piccole e grandi, che ne beneficiavano.

    Non va dimenticata l'importanza fondamentale del credito agrario in un’agricoltura di dimensioni inferiori a quelle di tutto il resto d'Europa. Per imprimere una svolta positiva alle gestioni non sarebbe bastato, pertanto, amministrare con la migliore diligenza e la massima capacità, che pure mancavano, e razionalizzare la rete a valle su cui si articolava ogni consorzio chiudendo i punti vendita passivi ed improduttivi, e non avrebbe giovato significativamente allargare i bacini di utenza. Era questo che assicurava alle due organizzazioni il governo assoluto sui consorzi e sulla Federconsorzi.

    Il ruolo economico e politico dei consorzi che, nel mondo agricolo, assicuravano potere e largo consenso elettorale, esigeva che essi, nonostante continuassero ad accumulare perdite, fossero mantenuti il più possibile vitali.

    Pertanto la dirigenza interna impegnò fino all’epilogo la Federconsorzi in una dissennata politica di sostegno dei consorzi agrari, di chiara connotazione assistenziale che si tentò di giustificare in nome del solidarismo tra le componenti del sistema.

    E’ sufficiente ricordare che i due presidenti che si succedettero nel periodo considerato 1982-1991 furono il senatore Ferdinando Truzzi ed il ragioniere Luigi Scotti, entrambi espressi dalla Coltivatori diretti, come, del resto, tutti i presidenti del passato, dall’onorevole Bonomi in poi.

    Ciò determinò che, progressivamente, senza che i consorzi migliorassero il loro andamento, prima venisse eroso l'attivo d’esercizio e poi, accresciuto, fino a dimensioni insostenibili, l’indebitamento con il sistema bancario nazionale ed internazionale.

    Modificare il meccanismo, allargando la base e prevedendo l'ingresso di nuovi capitali e di forze nuove nel sistema, radicalmente riformandolo, adeguandolo alle esigenze della moderna agricoltura ed aprendolo al mercato, avrebbe comportato la necessità di un nuovo assetto normativo, ma avrebbe anche segnato inevitabilmente la fine del monopolio delle due associazioni di categoria.

    L'apertura a sinistra, realizzata nel Paese nel 1963 con il governo Moro, nel mondo federconsortile era ancora respinta, alla fine degli anni Ottanta, dalla Coldiretti, malgrado le spinte che con la presidenza Wallner erano venute dalla Confagricoltura e le sollecitazioni del ministro Mannino, che apparteneva alla sinistra democristiana, alla quale pur si era avvicinato l'onorevole Lobianco.

    All’interno della Federconsorzi, vale ribadirlo, non avevano autonomia ed indipendenza reali né il Consiglio di amministrazione né la struttura dirigenziale, neppure con l’assunzione, nel 1989, per la prima volta, di un manager esterno quale il dottor Silvio Pellizzoni.

    L’avvento del nuovo direttore generale rappresentò un impossibile tentativo di trapiantare una gestione manageriale in un organismo che era funzionale alla sua tradizionale, obsoleta cultura di gestione.

    Il dottor Pellizzoni ed i suoi collaboratori si trovarono di fronte ai limiti oggettivi del sistema ed all'impossibilità di elaborare strategie realmente innovative.

    Egli era tributario del consenso non del presidente Scotti, non del Consiglio di amministrazione, che si limitava a ratificare e prendere atto di ogni decisione, ma del presidente della Coldiretti, onorevole Arcangelo Lobianco.

    La sua breve gestione si caratterizzò, così, per la realizzazione di studi, mirati piuttosto a preparare un futuro di cui non esistevano le condizioni, che ad intervenire efficacemente e tempestivamente sul problematico presente.

    L’azione finalizzata a razionalizzare la contabilità ed a rendere intelligibili i dati economici e finanziari, dovette far i conti con le reali condizioni dell'impresa.

    Fu fatta la scelta di rendere pubblica una verità parziale ed incompleta ricorrendo ad artifici per occultare i reali risultati negativi di esercizio e per travestire le alterazioni più gravi.

    Ciò finì per mettere a nudo le difficoltà dell’impresa senza giovare al suo rilancio.

    1.2 Le responsabilità

    Come già esposto, le responsabilità sono da imputarsi principalmente alle associazioni di categoria ed in particolare alla Coldiretti ed ai suoi dirigenti, ancor prima e di più che a tutti gli amministratori e sindaci della Federconsorzi.

    Di fronte all'evidente crisi del sistema, i referenti politici, che di esso si erano largamente alimentati, la aggravarono nel tentativo di salvare la situazione con iniziative sostanzialmente dilatorie. Mentre tutto ciò avveniva, i Ministri dell'agricoltura ed i Governi che si succedettero omisero di adottare le misure efficaci e le determinazioni politiche necessarie per impedire il tracollo economico del sistema e per porre risolutamente il problema del riassetto.

    Ciò perché tutti gli uomini politici che si succedettero alla guida del Ministero dell'agricoltura furono espressi dalla Coldiretti o ne furono fortissimamente condizionati.

    Ciò avvenne anche perché le vicende reali della Fedit furono sempre avvolte da un rigoroso riserbo e sottratte quindi alla conoscenza diffusa, alla valutazione critica della cultura economica ed al dibattito politico informato.

    Inadeguata fu la vigilanza amministrativa affidata ai funzionari del Ministero dell'agricoltura. Il commissariamento e la fine della Fedit furono la logica conseguenza di scelte scorrette, che neppure l'erogazione di provvidenze pubbliche avrebbe potuto evitare, ma solo differire nel tempo, e non il frutto di un'inesistente congiura, adombrata dall'onorevole Arcangelo Lobianco, per eludere le sue responsabilità politiche.

    La decisione del ministro Goria del 17 maggio 1991 fu occasionata dalla sottoposizione al Ministro, per la presa d’atto, del bilancio 1990 (artificiosamente chiuso in pareggio ed in realtà in grave perdita) e motivata, dal punto di vista giuridico e sul piano economico e finanziario, da una situazione di gravissimo, oggettivo e reale squilibrio che si protraeva da tempo.

    1.3 Il dissesto

    Il risultato di tutti gli approfondimenti tecnici esperiti e di cui si è riferito nel corso della relazione, che hanno tenuto conto di incontrovertibili indicatori, è unanime: la Fedit era destinata a sicuro ed irreversibile tracollo, indipendentemente dal commissariamento, che non fece che accelerarlo.

    La ragione fondamentale della crisi fu il peso insostenibile degli interessi che l'indebitamento bancario comportava.

    Tale indebitamento non era connesso ad investimenti, ma serviva esclusivamente a sostenere il sistema e, quindi, non poteva essere affrontato, superato e ridotto seriamente se non riformando il sistema.

    In mancanza di un intervento strutturale, il tracollo era irreversibile.

    Se il Ministro non avesse adottato il provvedimento, ne sarebbe derivato un sicuro aumento dell’indebitamento che avrebbe nuociuto ulteriormente agli interessi del ceto creditorio.

    A poco sarebbero giovati interventi di sostegno dello Stato - che peraltro, vale ricordarlo, all'epoca era impegnato in una politica economica che andava in direzione opposta - ed il pagamento dei debiti dovuti per la gestione degli ammassi.

    Senza radicali interventi strutturali, miliardi pubblici sarebbero stati in breve sterilmente bruciati in interessi a favore esclusivamente del sistema bancario e senza alcun beneficio per il mondo agricolo.

    Il problema si sarebbe ripresentato dopo poco.

    Sul piano politico, la decisione del commissariamento, che fu anche una presa d'atto del fallimento del sistema e di chi lo sosteneva, fu assunta dall'onorevole Goria d’intesa con il presidente del consiglio Andreotti e con l'approvazione implicita del segretario della Democrazia cristiana Forlani.

    In essa si sostanziava un progetto di radicale cambiamento del sistema nella forma del lancio, attraverso una impropria via amministrativa, senza il vaglio ed il concorso del Parlamento, di una nuovo organismo, una nuova Fedit, che ne conservava alcune delle funzioni, aprendosi alla partecipazione di nuovi soggetti pubblici e privati e ponendo fine, di fatto, al dominio incontrastato delle associazioni di categoria.

    Il ministro Goria impegnò il rilancio della sua carriera politica nella demolizione del vecchio sistema e nella costruzione di una nuova struttura.

    Fu appoggiato, nella prima fase, da quella parte della Democrazia cristiana interessata a ridurre il rilevante potere dell'onorevole Lobianco.

    Fallì del tutto, nella seconda, per l’intrinseca debolezza della proposta che non prevedeva l’impegno dello Stato, si affidava ad un ulteriore intervento finanziario bancario, non previamente concertato, e non risolveva le complesse questioni creditizie aperte dalla crisi.

    Il commissariamento fu deciso ed attuato senza un'adeguata preparazione tecnica e senza l'acquisizione del consenso del ceto bancario all’ipotizzata liquidazione volontaria della vecchia ed alla costruzione della nuova Federconsorzi.

    Fu questo un errore del Ministro che determinò l'insuccesso del progetto di rifondazione, che non riuscì a raccogliere le indispensabili risorse finanziarie, anche per la difficile situazione di disorientamento in cui si trovava il sistema bancario italiano nel suo complesso.

    2.1. Condizioni di ammissione della Federconsorzi al concordato preventivo; presupposti per la vendita in massa dei beni; congruità del prezzo offerto e pagato da SGR

    2.1 Il concordato preventivo

    Fallita l'ipotesi di liquidazione volontaria e di creazione di una struttura a base azionaria che della Federconsorzi avrebbe conservato solo il nome, e che si sarebbe dovuta collocare nel mercato agroalimentare, anche con funzioni di centrale d'acquisto per conto dei consorzi agrari, le soluzioni possibili erano astrattamente quattro: la liquidazione coatta amministrativa; l’applicazione della cosiddetta "legge Prodi"; il fallimento; il concordato preventivo.

    Ritenuta non applicabile la legge Prodi, la liquidazione coatta che sarebbe stata il coerente epilogo del commissariamento e verso la quale, in un primo tempo, sembrava decisamente orientato, fu esclusa dal Ministro perché avrebbe dato alla sua azione politica e a quella del Governo il significato di un’iniziativa distruttiva del sistema e di un attacco politico a ciò che esso rappresentava.

    Per le stesse ragioni, l’onorevole Goria escluse una richiesta di fallimento e ricorse alla procedura di concordato preventivo che, lasciando spazi d’intervento, trasferiva sull’autorità giudiziaria il peso della vicenda.

    2.2 La questione dell’insolvenza

    Il ricorso di un'impresa al concordato preventivo, con cessione dei beni, presuppone che essa sia in stato d'insolvenza, vale a dire d’incapacità ad adempiere regolarmente le proprie obbligazioni.

    Per l'effetto devastante del commissariamento sul credito corrente, che fu totalmente sospeso, la dissestata Federconsorzi divenne insolvente.

    Ciò avvenne perché la Federconsorzi, nulla direttamente producendo, e tutto dovendo acquistare e pagare a breve, con incassi invece differiti, non poteva contare sulla reperibilità di flussi economici immediati alternativi ed era tributaria assoluta del credito d'esercizio.

     

    2.3 Le condizioni d’ammissione alla procedura di concordato preventivo

    Per quanto riguarda le condizioni di ammissione alla procedura concordataria, in primo luogo, occorre che sia prevedibile che dalla cessione di beni si possa ricavare tanto da soddisfare i creditori non privilegiati nella misura almeno del 40 per cento dei loro crediti.

    Sotto questo aspetto la Federconsorzi disponeva di un imponente patrimonio, che si articolava in partecipazioni, immobili, crediti e beni strumentali che ben potevano far ritenere che il loro realizzo avrebbe consentito di prevenire il fallimento.

    E' necessario, poi, che la contabilità sia in regola e trasparente e che l'impresa sia meritevole del beneficio di non fallire, nonostante l'insolvenza.

    Il dissesto della Fedit fu il risultato di scelte di gestione, ed in particolare di politica creditizia a favore dei soci dell’impresa, dei suoi amministratori, di diritto e di fatto, succedutisi nell’ultimo decennio ed in particolare nell’ultimo quinquennio, e non di operazioni sfortunate o di sfavorevoli congiunture. Da ultimo, nel corso della gestione Pellizzoni, fu sempre più chiaro agli amministratori l’avvicinarsi dello stato di decozione e di illiquidità che coincise con il tempo del commissariamento.

    Essi tuttavia non assunsero mai determinazioni operative idonee ad evitare il dissesto e non mutarono l’indirizzo strategico.

    La contabilità della Federconsorzi si era da poco avviata verso una disciplina d'intelligibile rappresentazione dei reali accadimenti economici e finanziari e di conformità alle regole civilistiche.

    Il percorso che doveva condurre alla fedeltà legale era ancora molto lungo e reso ancor più complesso dal tentativo di sanare le irregolarità senza farle trasparire.

    L'informazione che la contabilità ed i bilanci consentivano non rifletteva le reali condizioni di dissesto in cui l'impresa si trovava.

    Sul punto, il giudizio di tutti gli esperti ai quali, in ambito civile e penale, è stata sottoposta la questione è pressochè unanime. Il brevissimo periodo di gestione, limitato a meno di due mesi da parte dei primi tre commissari governativi, durante il quale nulla fu fatto, se non tentare una cessione volontaria dei beni, non poteva annullare anni di malgoverno.

    Per quanto si è potuto appurare, esisteva il presupposto della adeguatezza dei mezzi ma non le altre condizioni richieste per l'accesso al concordato.

    2.4 Le prospettive di realizzo

    Il Tribunale di Roma ritenne di omologare il concordato.

    Le prospettive per i creditori non apparivano, in termini di recupero percentuale dei crediti, per nulla scoraggianti: sulla base delle stime del realizzo, pari a 3.939 milioni era preventivabile un recupero del 74 per cento circa del loro avere.

    Occorreva però che il concordato giungesse all'epilogo naturale e ciò si sarebbe verificato mediante la cessione di tutti i beni.

    Lo smobilizzo avrebbe richiesto tempi non quantificabili ma, sicuramente, non brevi.

    Ciò rendeva assai meno brillanti le prospettive di concreto riparto del ricavato.

    Sulla base di quanto costituisce la norma per le procedure concorsuali era, inoltre, ben fondato il rischio che il trascorrere degli anni non giovasse al realizzo, deprimendone i risultati, ancorché non potesse escludersi che la vendita dei beni immobili, per effetto di una loro possibile rivalutazione nel tempo, potesse garantire risultati migliori di quelli preventivati.

    Fu, in questo quadro, che il Tribunale di Roma si pronunciò sulla offerta, avanzata dalla cordata promossa dal professor Capaldo, di acquistare in massa i beni.

    2.5 Il Piano Capaldo

    L'iniziativa del professor Capaldo mirava, dichiaratamente, a rendere più agevole e veloce il realizzo, ma perseguiva anche la finalità strategica di ricomporre la turbativa creata dal caso Agrifactoring sul mercato internazionale del credito ed appariva perseguire il rilancio ed il controllo della rete dei consorzi.

    L'offerta d'acquisto in massa al prezzo di lire 2.150 miliardi fu presentata prima che il concordato fosse omologato e non fu mai modificata.

    Essa proveniva da una società costituenda, che prese il nome di Società Gestione per il Realizzo che aveva una particolarità: ne erano soci i maggiori creditori, quelli superiori a 20 milioni di lire, per la massima parte costituiti da banche, della Fedit.

    Non si trattava, dunque, di un qualsiasi soggetto economico, ma di un ente esponenziale di titolari di interessi creditori i quali, pur potendo trovare normale soddisfazione nella liquidazione concordataria, ritennero di cercarla aderendo ad un'inusitata iniziativa considerata, evidentemente, più rapida e conveniente.

    L’offerta, nonostante fosse tanto lontana dalle stime di realizzo, ebbe larga approvazione a tutti i livelli decisionali. Sembrò la soluzione di ogni problema di gestione di quello che era il più grande concordato preventivo della storia d'Italia. Il prezzo offerto sollevò osservazioni, ma nulla di più e non furono avanzate proposte alternative.

    La presentazione del Piano Capaldo, prima dell’omologa, nonostante la sua pubblicizzazione, può tuttavia aver indotto a ritenere che la procedura fosse stata orientata ad eseguire il trasferimento di tutto il patrimonio residuo alla SGR, con tutti i rischi che un’operazione del genere poteva comportare.

    2.6 La congruità del prezzo

    In forza delle valutazioni dei numerosi periti che stimarono i diversi cespiti del patrimonio e della stima complessiva del commissario giudiziale, il Tribunale fallimentare di Roma determinò il valore dei beni della Fedit in 3.939 miliardi.

    La cifra avrebbe superato di molto i 4.000 miliardi se i crediti vantati dalla Federconsorzi nei confronti dello Stato fossero stati computati al loro valore nominale, come ha fatto, con ampia rivalutazione, la recente legge n. 410 del 1999, che ha innovato la disciplina dei consorzi agrari, per i medesimi crediti della stessa natura rimasti nella titolarità dei consorzi.

    Il prezzo pubblicamente offerto dalla futura SGR per l'acquisto dei beni fu determinato, chiaro e mai cambiato: 2.150 miliardi, pari al 54% del valore di stima (laddove costituisce un dato di comune esperienza che il rapporto tra valori stimati ed effettivi realizzi conseguiti con il concordato preventivo si attesta attorno al 40 per cento ed attraverso il fallimento attorno al 20 per cento). L’offerta, se accolta, avrebbe consentito:

    Circa i chirografari, alla luce degli approfondimenti operati dalla Commissione, è da ritenere che abbia assicurato il soddisfacimento del 40 per cento, non essendo pervenute alla Commissione, né per quel che risulta al giudice fallimentare, doglianze di sorta.

    Alla luce di quanto esposto nel capitolo nono, nell’azione di dismissione della SGR e nelle relative procedure, la Commissione ha anzitutto escluso, ex post, l’esistenza di sintomatologie atte a configurare le ipotesi:

    verificando quindi che la liquidazione dei beni è stata condotta con professionalità e correttezza.

    Pur stimolando al massimo la competitività tra gli offerenti, l’operazione si concluderà in sostanziale pareggio o, al massimo, in modesto utile: ciò consente di sostenere che il prezzo pagato dalla SGR per rilevare l’intero patrimonio Fedit è da ritenersi congruo, sulla base di oggettivi e consolidati elementi di mercato.

    Concludendo sull’argomento, infine, l’operazione SGR, ove si consideri organicamente:

    potrebbe approssimare una metodologia suscettibile di approfondimenti al fine di trarre spunti per ammodernare l’ormai obsoleta vigente disciplina delle procedure concorsuali.

    2.7 L’atto-quadro

    Come detto, l’offerta di acquisto in massa dei beni della Fedit al prezzo di 2150 miliardi, avanzata dal professor Capaldo, fu accetta dal Tribunale. Si costituì la società SGR e fu stipulato un contratto denominato "atto-quadro".

    L’accordo fu sottoscritto dalla società acquirente e dalla Fedit, quale liquidatrice del proprio concordato. Esso ebbe per oggetto tutto il patrimonio della società insolvente, identificato nei beni che lo componevano non in quel momento ma al tempo, risalente a molti mesi prima, in cui essi erano stati elencati nella relazione redatta dal commissario giudiziale che li aveva stimati.

    Poiché l’offerta si riferiva, invece, all’intero patrimonio ed erano intervenute nel frattempo delle cessioni, si stabilì che il prezzo ricavato da queste dovesse essere detratto dal prezzo complessivo.

    La cifra di lire 2150 miliardi era pertanto, contrattualmente, solo nominale e si riduceva a 1800 miliardi circa.

    Fu convenuto il pagamento in tre rate: una prima, pari al 15 per cento entro dieci giorni dall’atto; una seconda, pari al 42,5 per cento, entro 12 mesi ed una terza, per il residuo 42,5 per cento, entro 18 mesi.

    La prima rata, come previsto dai promotori di SGR, fu "autoliquidante" nel senso che fu pagata integralmente con quanto la SGR rinvenne nelle casse della stessa Fedit.

    La rateizzazione non prevedeva, inoltre, interessi e, quindi, comportava un introito effettivo sicuramente minore. Il meccanismo contrattuale prevedeva, infine, non il passaggio immediato dei beni ad SGR ma l’impegno della Fedit a trasferire, di volta in volta, parti del patrimonio ad SGR o a chi quest’ultima indicasse. In tal modo, la prospettiva di rapida definizione della procedura che la cessione globale doveva assicurare, giustificando in parte il sacrificio dell'aspettativa di maggior realizzo, fu ritardata dalla struttura stessa dell'operazione, che tendeva ad autofinanziarsi.

    La SGR scelse ed il Tribunale avallò un percorso innovativo. L'esecuzione del concordato, attraverso le vendite frazionate, fu affidata alla Federconsorzi, chiamata di volta in volta ad eseguire i singoli trasferimenti.

    Sulla natura giuridica e sulla validità dell’atto-quadro molto si è disquisito e particolarmente attenta è stata l’attenzione posta dalla Commissione.

    Tuttavia, nulla di asseverato è emerso circa la possibilità di dare una risposta univoca e risolutiva sull’atto-quadro che resta, comunque, un atto atipico. Tra l’altro, in merito alla sua inefficacia, i giudici fallimentari non hanno ritenuto di insistere. Al riguardo, è interessante notare come il giudice delegato Norelli abbia dichiarato che l’efficacia dell’atto non è stata mai disattesa se non per strumentalizzarla allo scopo di ottenere la transazione per la restituzione dei crediti MAF. A tale transazione aderì la SGR, senza indugi, continuando a ritenere quei crediti meramente virtuali, come in effetti erano e sono tuttora.

     

    2.8 Esborsi effettivi della società SGR

    Sulla base di quanto comunicato alla Commissione in data 27 dicembre 2001 dall’attuale liquidatore giudiziale, professor Gabrielli, è stato possibile quantificare i costi effettivamente sostenuti dalla società SGR per acquistare i beni della Federconsorzi.

    Va avvertito che alle cifre di seguito esposte vanno aggiunti i costi di gestione.

    La SGR ha pagato con risorse proprie esclusivamente lire 878 miliardi e 168 milioni: 628 miliardi e 443 milioni sono stati pagati alla liquidazione direttamente da terzi acquirenti di beni venduti; 294 miliardi sono stati detratti dal prezzo perché corrispondenti al valore dei beni venduti direttamente dalla Fedit prima dell’atto di cessione ad SGR; 321 miliardi e 263 milioni di crediti, di cui la SGR era divenuta titolare, sono stati incassati direttamente dalla liquidazione.

    Il valore dell’incasso dei cespiti trasferiti dalla società SGR alla liquidazione, sommato alla cifra versata con risorse proprie è pari a lire 1.827 miliardi e 874 milioni.

    2.9 I risultati dell’operazione per la società SGR

    La società SGR si avvia a chiudere la gestione in sostanziale pareggio ovvero con un modesto utile. Come dettagliatamente illustrato, la Commissione ha ritenuto di procedere a rilevamenti delle vendite immobiliari e mobiliari, non riscontrando documentali divaricazioni di valori ed anomalie nei prezzi né nelle procedure di dismissione adottate che hanno sempre teso a stimolare la massima competitività tra gli offerenti.

    Riguardo alle partecipazioni, tra l’altro, è significativo menzionare il fatto che, con riferimento ad un’importante cessione di natura bancaria, uno dei soci della SGR, fortemente interessato all’acquisto, è stato soccombente. Giova rilevare, inoltre, che nei casi più rilevanti, le procedure di vendita sono avvenute con l’ausilio di intermediari finanziari di assoluta serietà e prestigio, quale Mediobanca, ovvero attraverso gli strumenti messi a disposizione dal legislatore (OPA).

    3. Stato e risultati della procedura concordataria

    La Commissione ha ritenuto necessario completare la propria relazione riferendo, di seguito, lo stato e le problematiche della procedura concorsuale, tuttora in corso. Giova ricordare che l’ammissione alla procedura fu chiesta al Tribunale fallimentare di Roma nel luglio dell’anno 1991 e che, quindi, alla data della scadenza del mandato investigativo di questa Commissione, saranno trascorsi quasi dieci anni senza che la procedura si sia potuta chiudere.

     

    3.1 Giudici delegati. Commissari giudiziali. Liquidatori

    Al controllo dell’esecuzione della procedura si sono avvicendati, finora, quattro magistrati. Nella prima, decisiva fase il dottor Ivo Greco; di seguito il dottor Fausto Severini ed il dottor Carlo Piccininni. Da ultimo il dottor Emilio Norelli.

    Il commissario giudiziale in carica è il professor Pasquale Musco, nominato il 6 novembre 1997 dal Collegio giudicante, su proposta del giudice delegato dottor Norelli. Egli è stato preceduto dal professor Picardi.

    Nell’attuale fase della procedura, il ruolo del commissario giudiziale, come disciplinato dall’articolo 185 della legge fallimentare, è il seguente: "il Commissario giudiziale sorveglia l’adempimento del concordato secondo le modalità stabilite nella sentenza di omologazione e riferisce al giudice delegato ogni fatto dal quale possa derivare pregiudizio ai creditori".

    La liquidazione attiva compete invece ad un liquidatore, impropriamente chiamato commissario liquidatore, che secondo la prevalente dottrina e la prassi giudiziaria ha l’obbligo di rendiconto nei confronti sia del commissario giudiziale sia del giudice delegato.

    L’esecuzione della liquidazione del patrimonio è stata affidata dapprima alla stessa Federconsorzi, nella persona del suo commissario governativo.

    Successivamente, nel 1995, il Tribunale ha nominato un liquidatore estraneo alla società debitrice nella persona del professor Cautadella.

    Dimessosi quest’ultimo il 18 settembre 1997, gli è subentrato l'avvocato Caiafa.

    Il liquidatore dei beni della Federconsorzi è attualmente il professor Enrico Gabrielli nominato dal Tribunale fallimentare il 13 luglio 2000 in sostituzione dell'avvocato Caiafa, dimessosi dall’incarico in data 12 luglio 2000. Le dimissioni dell’avvocato Caiafa nascondono una vera e propria sostituzione, decisa dal Tribunale in forza di rilievi del commissario giudiziale dottor Musco. Il commissario giudiziale professor Musco ha ipotizzato la conclusione "sostanziale" delle operazioni di liquidazione entro due anni.

    La previsione del professor Musco si basa, infatti, sulla realizzazione della cartolarizzazione dei crediti della Federconsorzi nei confronti dello Stato che suscita notevoli perplessità, come si vedrà di seguito.

    E’ opinione della Commissione che la vicenda Federconsorzi attesti come non sia più differibile un intervento di radicale riforma ed ammodernamento della disciplina della crisi dell’impresa e delle strutture giudiziarie e private chiamate a governarle.

    3.2 Le passività

    Nella procedura di concordato preventivo non esiste, come in quella fallimentare, un provvedimento di definizione delle passività, uno "stato passivo" che, una volta deliberato, non sia più - salvo casi eccezionali - modificabile e, quindi, non può esservi un quadro definitivo delle passività.

    Non esiste neppure una fase d’accertamento preventivo di tutti i creditori che hanno diritto di partecipare alla procedura ed al riparto dell’attivo.

    L’elenco dei creditori del concordato è in continuo aggiornamento e modificazione.

    Non è, pertanto, possibile indicare l’entità definitiva delle passività accertate ed occorre, quindi, ritenere i dati certi con esclusivo riferimento al tempo del loro rilevamento.

    E’ tuttavia evidente che dopo tanti anni, la situazione debitoria deve ritenersi consolidata e che si possono escludersi significative variazioni.

    Facendo riferimento alla nota del liquidatore professor Gabrielli del 27 dicembre 2000, l’entità complessiva delle passività è pari a lire 4.261 miliardi e 469 milioni.

    Il dato va confrontato con l’entità delle passività stimate dal commissario giudiziale professor Picardi: 4.685 miliardi e 873 milioni. Una riduzione molto rilevante riguarda i debiti nei confronti dei fornitori, scesi da 837 a 632 miliardi, per effetto di semplici operazioni di riscontro.

    I reali impegni dovuti a garanzie concesse alle società controllate ed ai consorzi sono scesi da 364 a 119 miliardi, avendo adempiuto gli obbligati principali alle loro obbligazioni.

    È stato comunque motivo di riflessione che le stime di realizzo erano lontane di poco più di trecento miliardi dalla reale entità delle passività.

    I creditori assommano in tutto a ben 5.354. I conferenti all’ammasso volontario sono 3.954. Le banche sono 83, creditrici per 3.091 miliardi.

    Risultano distribuiti tra i creditori circa 1.656 miliardi. Il costo della procedura - a carico del ricavato in prededuzione - è di 416 miliardi.

    3.3 Il costo della procedura di liquidazione

    Secondo il commissario giudiziale professor Musco, ascoltato dalla Commissione nella seduta del 26 settembre 2000: "(…) il dato assoluto e globale relativo a tutto il costo della liquidazione dal 1991(…) necessita di una interpretazione. Infatti, nei costi della procedura sono inclusi anche i crediti prededucibili maturati nel corso della procedura.

    Per esempio, tutto il costo del personale - gli stipendi, le liquidazioni, eccetera - dalla data della domanda di ammissione alla procedura ha gravato negli anni successivi, diventando un costo prededucibile; cioè, non faceva più parte dello stato passivo, perché la liquidazione doveva pagarlo al di fuori del riparto e delle richieste dei creditori concorrenti.

    Quindi, in questo importo di 416 miliardi sono inclusi circa 180 miliardi di costi del personale.

    Le spese generali amministrative ricorrenti dalla metà del 1991 ammontano a 94 miliardi, quelle non ricorrenti a 18 miliardi.

    Le spese straordinarie ammontano a 49 miliardi. I finanziamenti alle società partecipate e controllate - in questo caso inclusi tra le spese ma poi recuperati - ammontano a 48 miliardi.

    Le spese di commercializzazione - si tratta della gestione, che la Federconsorzi ha continuato nel corso della procedura - sono state pari a 10 miliardi e 500 milioni.

    I compensi agli organi della procedura ammontano a 13.232 milioni.

    Devo qui precisare che (…) le spese generali amministrative ricorrenti includono anche le spese per i professionisti.

    Per ogni anno, si hanno importi diversi: nel 1991, il primo anno, 71 miliardi; 95 miliardi nel 1992; 117 miliardi nel 1993; 51 miliardi nel 1994; 21 miliardi nel 1995; 17 miliardi nel 1996; 8 miliardi nel 1997; 17 miliardi nel 1998; 12 miliardi nel 1999; 4.457 milioni fino a luglio 2000.

    (…) I liquidatori e commissari giudiziali; alla data del 13 luglio (…) hanno percepito 13.232 milioni".

    Sottraendo gli oneri per il personale alle spese generali, il costo reale della liquidazione diventa pari a 236 miliardi. Agli organi della procedura sono stati corrisposti, sinora, 13, 3 miliardi. Per le esigenze della liquidazione, opera tuttora una struttura composta, da ultimo, da otto persone, con un costo complessivo annuo di lire 421.888.796.

    3.4 Le anomalie della procedura post-commissariamento

    Tra gli oneri sopportati dalla gestione spicca l’anomalo pagamento degli emolumenti dei commissari governativi e dei subcommissari della Federconsorzi fino al 1995, vale a dire fino alla revoca dell’attribuzione delle funzioni di liquidatore alla stessa società insolvente, che avvenne con l’affidamento dell’incarico al professor Cautadella.

    Trattandosi di incarichi conferiti dal Ministero dell’Agricoltura essi avrebbero dovuto essere retribuiti dallo Stato.

    E’ interessante notare che il decreto ministeriale di nomina dell’avvocato D’Ercole stabiliva per lo stesso e per i coadiutori compensi mensili rispettivamente di 15 milioni di lire e di 5 milioni di lire.

    Ebbene gli emolumenti vennero posti a carico dell'attivo concordatario e, quindi, vennero pagati con il ricavato del realizzo dei beni della Federconsorzi a seguito di una decisione del Tribunale fallimentare che la motivò con l’argomento che l’attività di liquidazione assolta dai rappresentanti della Federconsorzi veniva svolta nell'interesse e a vantaggio dei creditori.

    Va rimarcato che, ancor prima del formale provvedimento del Tribunale, come ha ricordato il dottor Norelli, nel corso dell’audizione del 28 settembre 2000: "(…) Per un certo periodo, antecedente a questo decreto, mi risulta che furono pagati, con prelievo dalle casse di Federconsorzi, quindi dalle somme che dovevano essere vincolate alla liquidazione, i compensi per i commissari governativi all'epoca in carica, senza nessun provvedimento di autorizzazione da parte del tribunale o del giudice delegato".

    Nell’anno 2000 il Tribunale ha revocato, retroattivamente, il disposto pagamento. Ne consegue che le somme pagate dovrebbero essere restituite dai liquidatori che le hanno percepite ed il loro onere riversarsi sul Ministero delle politiche agricole.

    3.5 Il realizzo. L’estraneità alla procedura della gestione degli ammassi. I crediti nei confronti dello Stato

    La liquidazione ha incassato, a seguito di transazione, lire 10.300 milioni corrisposti dagli ex amministratori a titolo di risarcimento alla società dei danni derivanti dalla loro gestione (azione di responsabilità) e prevede di incassare 7.500 milioni dalle due associazioni Coldiretti e Confagricoltura a titolo di restituzione di somme a queste indebitamente corrisposte.

    La gestione degli ammassi è rimasta estranea al concordato. Il risultato economico della gestione svolta per conto dello Stato è ininfluente sui risultati della liquidazione. Gli utili di essa vanno riversati all’Erario e le perdite debbono essere rimborsate dall’Erario.

    L’accordo con la SGR prevedeva il trasferimento nella disponibilità di quest’ultima di tutti i beni della Federconsorzi, tra i quali erano compresi i crediti nei confronti dello Stato. Quando il Tribunale fallimentare, che l’aveva autorizzato, dubitò della validità e dell’efficacia dell’atto-quadro, e cioè del negozio giuridico in cui l’accordo si era tradotto, si pervenne, attraverso un iter già illustrato, ad una transazione con la SGR che prevedeva che rimanessero alla Federconsorzi e, quindi, alla procedura concorsuale, tutti i beni che non erano stati ancora trasferiti e, dunque, anche i crediti nei confronti dello Stato. Si trattava di un complesso di crediti del valore nominale complessivo di circa 1700 miliardi, di cui circa 1.000 miliardi di crediti nei confronti dello Stato.

    Gli altri sono costituiti da crediti nei confronti di consorzi agrari.

    Si è posto, pertanto, il problema della realizzazione dei crediti.

    Negli organi fallimentari è maturato il convincimento dell’opportunità di ricorrere allo strumento della cartolarizzazione per entrambe le categorie di crediti. "L'idea della cartolarizzazione - ha dichiarato il dottor Norelli - venne a me in occasione di un convegno di diritto fallimentare che si tenne a Trieste, al quale partecipai con il professor Gabrielli (…).

    L'alternativa è attendere comunque il pagamento da parte dello Stato, nella misura che la pubblica amministrazione riterrà, oppure porre in essere una diversa operazione di realizzo".

    Ha aggiunto il commissario giudiziale Musco: "vantiamo (…) crediti nei confronti di soggetti in liquidazione coatta, quindi dobbiamo seguire il corso di tali procedure, nonché crediti nei confronti del Ministero delle politiche agricole.

    Stiamo cercando di ottenere il riconoscimento di questi ultimi per sentenza; abbiamo iniziato in proposito un giudizio nei confronti del Ministero delle politiche agricole di accertamento e di condanna, ma ultimamente è stata ridotta la domanda al semplice accertamento."

    In proposito, giova rammentare che la Fedit, con atto di citazione del 10 agosto 1992 e, quindi, nel corso del secondo anno di gestione commissariale, aveva convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma il Ministero dell'agricoltura per ottenerne la condanna al pagamento dei crediti direttamente vantati, all’epoca pari a circa 463 miliardi.

    "C’è infattiha proseguito il dottor Musco - un indirizzo giurisprudenziale della Corte d’appello di Roma, poi fatto proprio da diverse giurisdizioni, che considera non azionabile il titolo esecutivo nei confronti dell’Erario, in considerazione del fatto che, secondo la vigente normativa, i debiti dello Stato possono essere ripianati solo se inclusi nel bilancio statale.

    Quindi, pur potendoci trovare un titolo esecutivo in mano - ammettendo che così sia - non potremmo eventualmente azionarlo e dovremmo quindi sempre aspettare che il Parlamento, attraverso la legge finanziaria o una legge specifica, finanzi il debito del Ministero delle politiche agricole nei confronti della liquidazione.

    Nel corso degli ultimi due anni abbiamo preso contatti con diversi funzionari dei Ministeri dell’agricoltura e del tesoro, poiché era stata ventilata l’ipotesi di una transazione. Anche dagli atti di causa presso il tribunale di Roma non emerge un atteggiamento di diniego (…). Emerge un atteggiamento dilatorio (…) Sostanzialmente ad ogni udienza l’Avvocatura ribadisce tale posizione, che riflette una volontà politica, ma che poi dovrà trovare riscontro in un provvedimento legislativo".

    Il progetto di cartolarizzazione sembra, aver preso corpo: il comitato dei creditori ha espresso parere favorevole; sono stati interessati operatori internazionali quali la Morgan Stanley, la Deutsche Bank e il gruppo Paribas.

    "Si sono poi anche fatti avanti - ha aggiunto il dottor Musco - numerosi altri operatori, anche italiani, associati ad operatori stranieri".

    Il rischio insito nella cartolarizzazione è, tuttavia, ben chiaro al commissario giudiziale: "(…) la cartolarizzazione potrebbe anche dare delle sorprese, in quanto la cessione del credito ad una cosiddetta società veicolo trova poi come corrispettivo il realizzo delle obbligazioni che questa colloca sul mercato (…) Non si poteva però correre il rischio di trovarsi poi "a scatola chiusa" con una collocazione molto modesta o con un ritorno delle obbligazioni emesse(…)Per cui è stata condizionata la cartolarizzazione ad un’offerta a fermo.

    (…) Si deve garantire che i titoli verranno collocati almeno ad un prezzo minimo concordato.

    (…) Se, come nei nostri intendimenti, si riesce a portare avanti la cartolarizzazione sulla base delle previsioni di realizzo, cedendo l’intero pacchetto dei crediti, ciò dovrà avvenire, in base agli accordi intercorsi, entro gennaio dell’anno prossimo.

    (…) Abbiamo indicato delle basi sotto le quali non si può andare. Il tetto massimo da non sforare è intorno ai 700 miliardi su una base calcolata di circa 1600 miliardi. Bisogna analizzare i crediti per capire se vi è una svendita o un realizzo".

    Il giudice delegato Norelli ha aggiunto sul punto: "(…) Il vantaggio e il risultato utile della cartolarizzazione dipendono ovviamente anche dalla valutazione dei crediti che fa la società di rating (…). Nella nostra ipotesi di cartolarizzazione, la banca, il pool di banche o le società finanziarie che parteciperebbero dovrebbero garantire una disponibilità pressoché immediata del corrispettivo della cessione dei crediti".

    Sul progetto di cartolarizzazione la Commissione, senza voler interferire con le decisioni che il Tribunale riterrà di adottare, non può esimersi dall’esprimere le sue perplessità.

    Sembra, infatti, che ancora una volta si riproponga la questione del valore reale dei crediti nei confronti dello Stato che non è risolvibile se non con una assunzione di responsabilità politica da parte del Governo e del Parlamento e non può continuare ad alimentare l’esigenza di trovare comunque delle soluzioni che, per quanto di apprezzabile ingegneria giuridica, sono suscettibili di ingenerare nuove problematiche.

    La cartolarizzazione si attua - sembra opportuno ricordarlo - attraverso la valutazione del credito da trasformare in obbligazioni-cartolarizzate da parte di un'istituzione preposta, una società di rating.

    Fanno seguito il collocamento del credito sul mercato finanziario attraverso le banche, o altri intermediari, e l'acquisto del debito e, dunque, delle obbligazioni, da parte dei risparmiatori.

    Appare evidente che il problema principale della cartolarizzazione è costituito dalla collocabilità sul mercato delle obbligazioni, legata all'aspettativa che esse possano trovare soddisfazione.

    Ed infatti, in un primo parere del 7 febbraio 2000, il commissario giudiziale professor Musco, nel premettere che la cartolarizzazione comporta la cessione pro soluto dei crediti ad una società abilitata (articolo 3 della legge n. 130 del 1999); l'accertamento delle effettive possibilità di realizzo dei crediti da parte della società veicolo; il finanziamento del corrispettivo della cessione dei crediti con il ricavato del collocamento; affermava che lo "snodo" più delicato era costituito dalla problematica collocabilità sul mercato dei titoli emessi dalla società veicolo per ricavarne il corrispettivo.

    Egli scriveva quindi: "per consentire che l'intero progetto assolva la funzione di smobilizzo che si intende ottenere è necessario che i titoli ricevuti con il processo di cartolarizzazione vengano collocati presso i creditori del concordato; significativamente presso quei creditori appartenenti al sistema bancario o ad esso assimilabile (…). L'acquisto (ndr dei titoli da parte del sistema bancario sarebbe) apparentemente a titolo oneroso (ciò perché il ricavato del riparto andrebbe a compensare la spesa!)".

    In un primo tempo si è pensato, dunque, di offrire i crediti ai creditori stessi e, soltanto in un secondo momento, si è scelto di rivolgersi al mercato.

    Appare evidente alla Commissione che l'offerta dei crediti alle sole banche creditrici avrebbe ripresentato problematiche analoghe a quelle connesse con il Piano Capaldo. Pertanto, più opportunamente ci si è orientati, in seguito, verso il mercato aperto.

    Scrive, infatti, il professor Gabrielli in data 18 maggio 2000 che "la progettata cartolarizzazione sembra in ogni caso suscitare interesse del mercato (…) si ha notizia di un'attività di rastrellamento dei crediti vantati verso la Federconsorzi sulla piazza finanziaria di Londra".

    Va considerato, in proposito, che la Morgan Stanley - la più importante banca del mondo - ha proposto alla liquidazione, il 20 luglio 2000, un acquisto "a fermo" dei crediti MAF, garantendo l'introito di almeno 500 miliardi.

    L'operazione proposta prevedeva che la liquidazione vendesse ad una nuova società, costituita ad hoc, i titoli; questa li avrebbe posti sul mercato mentre la Morgan-Stanley li avrebbe acquistati per almeno 500 miliardi, assicurando quindi almeno 500 miliardi di incassi.

    L'operazione non si è perfezionata ma va tenuta in attenta considerazione, sia perché attesta un effettivo interesse del mercato e, quindi, l'esistenza di una concreta aspettativa di realizzo dei crediti, sia perché l'offerta, proveniente dalla massima banca mondiale, delle cui capacità tecnico-estimative non può dubitarsi, consente di ritenere che il valore dei crediti è da considerarsi non solo reale (e non virtuale) ma anche non inferiore a 500 miliardi.

    Pur tuttavia, è evidente, che mentre nelle cartolarizzazioni ordinarie le società di rating sono chiamate ad apprezzare la capacità del debitore di pagare, nell’ipotesi prospettata il giudizio dovrebbe riguardare non la possibilità e la capacità di pagamento del debito, ma la volontà di pagare da parte dello Stato debitore.

    Ne deriva che potrebbe nuovamente ingenerarsi, da parte del mercato internazionale, una pressione sulle determinazioni dello Stato sull’uso delle risorse pubbliche.

    Mal si comprende perché lo Stato non debba decidere definitivamente di pagare o di non pagare, come ha già fatto per la parte di debito rimasto nella disponibilità dei consorzi, i suoi debiti.

    Ad ogni modo, l’ipotesi di cartolarizzazione, per quanto riferito alla Commissione prevederebbe introiti tra i 600 e i 900 miliardi.

    In tal caso i debiti potrebbero essere pagati nella misura del 58 per cento circa.

    4. Le conseguenze del dissesto della federconsorzi; i riflessi sui consorzi agrari

    Nel corso del decennio 1980-1990, la condizione economica e finanziaria dei consorzi andò, in generale, progressivamente peggiorando.

    Le cause dell’indebitamento e della crisi generalizzata dei consorzi agrari (e dell'intero sistema federconsortile) sono state individuate dalla Commissione, sulla base degli elementi raccolti, in problematiche strutturali e gestionali.

    Va ricordato che già negli anni Settanta, l'allora presidente della Federconsorzi, dottor Nino Costa, aveva individuato la causa principale del progressivo dissesto dei consorzi agrari nell'onerosa intermediazione economica svolta dalla Federconsorzi nei rapporti con i fornitori.

    I contenuti dei rapporti economici tra la Federconsorzi ed i consorzi agrari non mutarono negli anni successivi.

    Le sfavorevoli condizioni imposte dal fornitore Federconsorzi ridussero fortemente i margini di ricavo e di redditività.

    I consorzi che seppero emanciparsi dalla sudditanza delle forniture, rivendicando la loro autonomia ma, nello stesso tempo, ponendosi a latere del sistema, attingendo anche a forniture esterne, riuscirono a conservare il loro equilibrio economico e finanziario.

    Tutti gli altri non fecero che attingere sempre di più ed in molteplici forme al credito presso la Federconsorzi, che ne divenne l'insostituibile finanziatrice.

    A ciò va aggiunto che il capitale sociale dei consorzi era del tutto inadeguato in rapporto alle attività: ciò costrinse i consorzi al ricorso sistematico al credito non solo nei confronti della Federconsorzi ma anche nei confronti delle banche. Ma era, tuttavia ancora una volta la Federconsorzi a garantire i consorzi anche presso gli istituti di credito.

    Le ragioni più profonde della crisi del sistema dei consorzi erano, dunque, connesse alla stessa architettura del sistema federconsortile così che mentre la Federconsorzi diveniva una grande impresa sul piano economico e finanziario, i consorzi non si sviluppavano ed evolvevano.

    Al contrario essi si affidavano sempre di più al sostegno assistenziale della Fedit, che non lo fece mai mancare, finendo per travolgerla.

    Il commissariamento della Federconsorzi ed il concordato preventivo produssero, quindi, effetti devastanti sui consorzi agrari, in generale, e su quelli più deboli, in particolare, facendo venire meno l'abituale alimento finanziario.

    La sorte ne fu, in gran parte, definitivamente segnata.

    Alcuni, tuttavia, seppero reagire, ritrovando nella necessitata autonomia un nuovo slancio imprenditoriale.

    Per una più ampia trattazione del tema ed un'analisi delle conseguenze su ciascun consorzio, si rinvia al capitolo dodicesimo ed alle schede allegate alla presente relazione.

     

    Capitolo Quattordicesimo

     

    Fatti di rilievo emersi nel corso dell’inchiesta

    1. Le sovvenzioni dirette ed indirette alle associazioni di categoria

    L'analisi condotta dalla Commissione ha evidenziato nella gestione della Federconsorzi numerose di anomalie che vanno ad aggiungersi a quelle che già la Commissione ministeriale d'indagine Poli Bortone aveva posto in luce.

    Traendo le conclusioni su quanto accertato, è parso di trovarsi di fronte ad un organismo anomalo che applicava regole lontane da quelle di una corretta ed efficace amministrazione di una qualunque impresa.

    Solo ad una ispirazione autoreferenziale sembrano, infatti, potersi ascrivere i rapporti economici che la Fedit aveva con le organizzazioni professionali, che ne costituivano l'anima e l'ossatura politica e che se ne alimentavano.

    Dalla Fedit attingevano, da sempre, come ad un miracoloso pozzo inesauribile, risorse miliardarie sia la Coldiretti sia la Confagricoltura.

    Ad esse si aggiunse, solo negli ultimi anni, una terza organizzazione, la Confcooperative.

    Nel periodo compreso tra il 1986 ed il 17 maggio 1991, la Fedit versò alla Coldiretti, a titolo di contributo ordinario, la somma di lire 24.900.000.000.

    Ma la Coldiretti non otteneva solo liquidità.

    La Federconsorzi ne pagava direttamente le pubblicazioni, versando nello stesso

    periodo alla società R.E.D.A. (Ramo editoriale degli Agricoltori), complessivamente ben 19.524.000.000.

    Sommando i contributi ordinari a quelli straordinari ed al costo dei periodici nel periodo considerato, il totale degli esborsi in favore della Coldiretti ascende alla colossale cifra di lire 47.081.349.000.

    Non era da meno la Confagricoltura che, tra contributi e pagamento di fatture del R.E.D.A., beneficiava, nello stesso periodo, complessivamente di lire 25.993.470.633.

    La Confcooperative, ha ricevuto meno, ma pur sempre lire 4.600.000.000, tra contributi ordinari ed integrativi.

    Le contribuzioni, significativamente, vennero gestite in forma esclusiva e riservata fino al 1988 dalla segreteria particolare del direttore generale e, successivamente, quando Luigi Scotti da direttore generale divenne presidente, dalla segreteria particolare del Presidente della Fedit.

    I "contributi" alle associazioni non furono a lungo esposti in bilancio.

    Quando lo furono, ciò avvenne in modo che la cosa non fosse riconoscibile.

    Il presidente del collegio sindacale, dottor Cocco, riferì, significativamente, alla Commissione Poli-Bortone: "Io ho scoperto alla fine del mandato che queste erano somme che venivano inglobate in altro capitolo di bilancio, per cui sfuggivano ad un esame sul merito" (p. 9 del verbale).

    Poiché la Fedit era pur sempre una società soggetta alle regole del diritto civile, occorre chiedersi: a che titolo i contributi venivano erogati?

    Che cosa giustificava il pagamento delle pubblicazioni di associazioni del tutto estranee alla struttura della Fedit?

    Il pagamento delle pubblicazioni veniva considerato come un sostegno ad "(…) iniziative di carattere culturale nell'interesse" che concorreva "(…) al miglioramento della capacità professionale degli agricoltori (…)" diffondendo la cultura agricola "(…) tra le centinaia di migliaia di soci dei consorzi agrari provinciali suoi federati ed in generale tra i produttori agricoli italiani".

    Si potrebbe plaudire all’ispirazione pedagogica, se le pubblicazioni sostenute fossero state di università e centri di ricerca e divulgazione e non fossero state sempre e soltanto quelle della Coldiretti e della Confagricoltura.

    La fragilità della giustificazione del tutto formale è evidente.

    Essa diventa addirittura grottesca se si pensa che la Fedit pagava, a titolo di spese di rappresentanza, persino la pubblicazione della Agenda agricola Coldiretti (nel 1996 ben lire 95.150.000 per 55.000 copie) della cui capacità di promozione culturale è lecito dubitare.

    Per quanto riguarda i contributi, fu adottato un sistema formalmente più lineare ma non meno discutibile, sicuramente censurabile dal punto di vista dell’opportunità e della moralità della gestione, e di dubbia liceità penale.

    La Federconsorzi si era iscritta come socia alla Coldiretti ed alla Confagricoltura e da ultimo anche alla Confcooperative; non risulta che si fosse iscritta ad altri organismi.

    Gli statuti delle associazioni stabilivano che i rispettivi presidenti fissassero ogni anno l'ammontare delle quote di contribuzione a carico degli enti aderenti: erano pertanto gli stessi beneficiari a stabilire, a piacimento, il contributo annuale della Federconsorzi.

    Le erogazioni erano sostenute da delibere che richiamavano la missione della Federconsorzi in favore dell’intero mondo agricolo, ma che in realtà servivano ad assicurare sostegno concreto alle sole associazioni di categoria sopra indicate.

    La Coldiretti e la Confagricoltura non erano considerate due libere associazioni private ma due strutture, e per di più le sole, al servizio dell’agricoltura; ciò dipendeva dal fatto che gli amministratori della Fedit appartenevano tutti alla Coldiretti ed alla Confagricoltura e, che, quindi, deliberavano in realtà in proprio favore.

    Dietro le parole altisonanti non c'era in realtà nulla che potesse davvero motivare e giustificare l'impiego di somme così rilevanti per sostenere associazioni che dovevano invece sostenersi con i soldi dei propri soci e cioè delle imprese agricole e dei coltivatori diretti.

    La Federconsorzi era generosa non solo con le organizzazioni professionali, ma anche con i suoi dipendenti e collaboratori.

    Gli amministratori della Federconsorzi, fino al 1989, e cioè prima dell'avvento della gestione cosiddetta manageriale del dottor Pellizzoni, avevano grandissima considerazione dei loro collaboratori tanto da corrispondere loro premi di produttività ogni anno.

    Eppure quando il dottor Pellizzoni si insediò come direttore generale, non fece altro che rivolgersi per ogni questione a consulenti esterni, proprio per la mancanza di adeguata professionalità da parte di dipendenti tanto produttivi ed operosi.

    I consorzi boccheggiavano, ma i loro direttori sicuramente no.

    Fino al commissariamento, la Federconsorzi distribuì ai responsabili dei consorzi "premi di operosità", di cui v’è traccia fin dal 1980, che venivano stabiliti dal direttore generale.

    Evidentemente premeva piuttosto la fedeltà dei direttori che non la loro capacità gestionale.

    La generosità della Federconsorzi si estendeva davvero a tutti.

    Gli omaggi e le liberalità nel periodo 1986-17 maggio 1991 assommano a lire 7.263.645.002.

    Perfino nel 1989 e nel 1990, anni di conclamata difficoltà, il flusso non diminuì:1.567.737.637, nel 1989, 1.398.690.043, nel 1990.

    Non mancavano gli omaggi di prodotti Federconsorzi: dal 1988 al 1990, essi furono distribuiti per ben 1.101.498.109.

    La filantropia non mancava: ne beneficiavano però non i poveri ma alcuni privilegiati.

    Per i pacchi dono destinati ai figli dei dipendenti Coldiretti e Confagricoltura furono spesi, dal 1986 al 1989, in totale lire 898.680.000.

    Anche il profilo culturale non era trascurato.

    Non mancavano i viaggi di istruzione all'estero, che non sembrano aver tuttavia giovato, considerati i risultati, ad amministratori e sindaci della Fedit.

    Sicuramente non giovavano alle finanze della Fedit.

    Per viaggi in Spagna, in Israele, Brasile e Belgio, dal 1986 al 1989, risultano spesi ben 820.974.343.

     

    2. Gli immobili della Federconsorzi locati alla Coldiretti ed alla Confagricoltura

    La Federconsorzi disponeva di immobili di pregio storico ed architettonico, arricchiti da arredi di rilievo e persino da una collezione di opere d’arte.

    Essi furono in parte dati in locazione alle due associazioni di categoria che controllavano la società. Si tratta dei palazzi di via Yser numero 16, Rospigliosi e dei familiari e Della Valle.

    Il contratto relativo ai palazzi Rospigliosi e dei familiari fu rinnovato il 15 maggio 1991 cioè due giorni prima del commissariamento della Federconsorzi.

    I Palazzi Rospigliosi e dei familiari, ubicati in via 24 maggio numero 43, furono concessi in locazione alla Coldiretti per un canone annuo di lire 200 milioni.

    Secondo il consulente tecnico d’ufficio, il canone che si sarebbe dovuto richiedere per il valore di redditività degli immobili ammontava invece a 4 miliardi 155 milioni annui.

    Il palazzo di via Yser n. 16 fu locato, con contratto del 1° dicembre 1987, ad un canone di 38 milioni annui; il canone che si sarebbe dovuto richiedere, secondo il valore di redditività dell’immobile, ammontava ad 1 miliardo e 650 milioni.

    Il Palazzo Della Valle, in corso Vittorio Emanuele 101, fu locato per un canone di 150 milioni, mentre quello che si sarebbe dovuto richiedere ammontava a 970 milioni. Indipendentemente dall’entità del canone di locazione, va osservato che Coldiretti e Confagricoltura non pagavano con i propri soldi, ma con l’ammontare delle somme che la Fedit dava loro di anno in anno.

    Palazzo Rospigliosi fu venduto alla Germina Campus srl, società completamente controllata dalla Coldiretti, il 28 giugno 1995 per la somma di 71 miliardi. La Commissione ha svolto accertamenti sulle modalità del pagamento, verificando che la Coldiretti utilizzò crediti bancari ed affidamenti concessi sulla base di titoli di Stato in possesso della stessa Coldiretti.

    3. I fondi anomali

    Una partita contabile anomala, di rilevante entità, tanto da raggiungere nell'esercizio 1988 l'entità di 379 miliardi, fu esposta sotto la voce "Altri debiti e partite diverse ", nel bilanci della Federconsorzi fino all’esercizio 1990.

    La posta fu creata nell'esercizio 1966.

    La Commissione ha acquisito elementi che la inducono a ritenere che tali debiti miliardari non furono mai contratti dalla Federconsorzi e che, quindi, la posta era del tutto artificiosa.

    Sembra trattarsi di un fondo occulto, acceso e coltivato per finalità che non è stato possibile accertare, dagli amministratori della Federconsorzi che precedettero il dottor Pellizzoni.

    La creazione e l'entità della falsa appostazione contabile forniscono, di per sé, la misura dell'inattendibilità della contabilità della Federconsorzi.

    L'anomalia della posta fu evidenziata, criticamente, per la prima volta, nella relazione redatta nel 1989 dai professori Pavan e Cattaneo, incaricati dal direttore generale Pellizzoni di relazionare sullo stato generale delle scritture contabili della Fedit.

    Si legge infatti nell'elaborato che il bilancio evidenziava, sotto la voce "Altri Debiti": Debiti "consolidati" (il cui pagamento non è rivendicato dai titolari da molti anni) £. 379 mld (…) Potrebbe rivelarsi una riserva".

    Nei bilanci della Federconsorzi, dal 1982 al 1988, e nelle relazioni degli amministratori non si è rinvenuto nessun elemento utile a chiarire l'origine e la ragione dell'appostazione contabile.

    Nella relazione che corredava il bilancio 1989 - gestione Pellizzoni - gli amministratori della Fedit davano atto che l'entità della posta era stata ridotta a 220.193.000.000, essendo intervenuta una liberazione delle passività per 159.733.000.000 e che tale operazione contabile aveva consentito il pareggio del bilancio, ma non ne chiarivano la natura e l'origine.

    Nell'esercizio 1990 la posta veniva completamente azzerata con identiche motivazioni.

    Il dottor Pellizzoni ha, in proposito, dichiarato a questa Commissione il 20 luglio 1999: "Nelle analisi dei bilanci si scoprì, ad un certo punto, che nel passivo erano inseriti debiti vecchissimi, degli anni '50-'60.

    Ascoltammo i nostri consulenti i quali ci dissero che non potevamo cancellare i debiti, ma dovevamo verificare se fossero stati prescritti. Prendemmo la Coopers & Lybrand e analizzammo tutti i debiti. Nel bilancio del 1989 furono cancellati circa 150-200 miliardi.

    Risalivano agli anni '60, erano legati agli ammassi (…) Ne abbiamo parlato con gli ispettori del Ministero i quali affermarono che non dovevano essere cancellati. Se però dovevo certificare il bilancio, non potevo lasciarli lì; per toglierli dovevo seguire una procedura precisa.

    Tutti i fiscalisti ed i legali che ho consultato hanno suggerito di verificare ogni singolo debito, che, qualora avesse superato i 10 anni di prescrizione, avrebbe potuto essere cancellato".

    Secondo il dottor Pellizzoni si trattava, dunque, di debiti reali per i quali era maturata la prescrizione.

    Sul punto egli è stato smentito dal suo più stretto collaboratore, il dottor Bambara, responsabile finanziario della Fedit, al cui apporto i bilanci relativi agli anni 1989 e 1990 furono in larga parte dovuti.

    Richiesto in merito, il dottor Bambara ha, infatti, riferito alla Commissione il 3 febbraio 2000: "(…) Spiego l'origine delle contabilizzazioni che ho trovato(…). Dagli anni '70 fino all'80 circa esisteva una metodologia, approvata dagli organi finanziari dell'epoca, per quanto riguarda la contabilizzazione delle campagne agricole.

    (…) Siano esse di ammasso, siano esse di commercializzazione, esse hanno origine nel luglio di ogni anno e terminano, dal punto di vista commerciale, al giugno dell'anno successivo.

    I rendiconti poi avevano bisogno di chiusure, di altri tre o quattro mesi, per essere completati.

    Al 31 dicembre di ogni anno era in piedi l'attività di commercializzazione; non era conclusa.

    Quindi non vi era coincidenza tra la conclusione delle attività di commercializzazione e la conclusione dell'esercizio e, quindi, del bilancio.

    Bisognava, allora, operare sui ratei e sui risconti per quantificare il reddito tipico di queste attività.

    Ricavi e costi venivano analizzati e la metodologia, approvata dagli uffici finanziari (…) era la seguente: mentre i ricavi venivano considerati per cassa (i ricavi cioè che maturavano venivano inseriti nel bilancio mentre quelli che non maturavano venivano rinviati all'anno dopo), i costi, poiché le prestazioni erano state già effettuate in gran parte, venivano trattati in modo diverso.

    Non si registravano soltanto i costi per cassa ma si faceva anche una previsione - quello che oggi si chiama il rateo contabile - dei costi relativi alle prestazioni non ancora contabilizzate - lo sarebbero state l'anno dopo - e si inserivano in bilancio come costi".

    In particolare, il dottor Bambara ha ben posto in evidenza che non si trattava di debiti concreti maturati nei confronti di creditori reali, ma di accantonamenti, molto lontani nel tempo, per finalità costituite dalla copertura di costi degli ammassi la cui gestione era cessata da lunghissimo tempo ed il cui ammontare era stato trasformato in un "fondo" di cui appare evidente la non legittimità. "Mentre i ricavi andavano in conto economico, questi costi in parte andavano in conto economico per i costi realizzati, maturati e registrati nell'anno, in parte andavano in un accantonamento nel passivo, quello dei ratei, appunto tra le passività diverse. Quindi non erano nominative presumibilmente avrebbero potuto avere dei creditori ma, di fatto, erano dei ratei che venivano accantonati in attesa, l'anno dopo, di essere o cancellati o comunque interpretati quando si faceva la rendicontazione. L'anno successivo, quando si chiudevano le rendicontazioni, parte di questi costi non erano da addebitare a quelle attività.

    Allora la Federconsorzi ha deciso negli anni '70 di mantenere questi costi tra le "passività diverse", di trattarli come fondi-rischi per eventuali esigenze future e di lasciarle nella contabilità (…)

    (…) A mio modo di vedere non costituiva una riserva occulta bensì un fondo rischi. Qualcuno può chiamarla una riserva occulta, come del resto fa il Procuratore della Repubblica.

    Non è corretto parlare di riserve occulte dal momento che in realtà nella contabilità risultavano chiaramente.

    Se non fossero state così evidenti non le avremmo trovate".

    Si trattava, dunque, a seguire l'assunto del dottor Bambara di fondi accantonati per rischi e non di debiti già maturati.

    Riesce, pertanto, difficile alla Commissione comprendere come dei rischi e cioè dei debiti possibili, ma pur sempre esclusivamente virtuali, si siano potuti prescrivere!

    Sembra più verosimile che il direttore generale Pellizzoni, d’intesa con il direttore finanziario Bambara, invece di dare atto della scoperta di una posta del tutto artificiosa e di comunicare la verità a soci e creditori, ritenne opportuno annullarla ricorrendo ad un nuovo e diverso artificio contabile.

    Fu simulato, infatti, che si trattasse di vecchi debiti reali da considerarsi prescritti e da imputare a sopravvenienze attive.

    A ciò va aggiunto che il dottor De Santis, della società Cooper & Lybrand, in una nota alla Commissione, ha escluso l'assunto del dottor Pellizzoni secondo cui tale società eseguì una revisione contabile e, quindi, un controllo sulle esposte partite debitorie, e ha dichiarato che la Cooper & Lybrand si limitò ad effettuare una semplice "riconciliazione" dei partitari.

    Sulla questione, ha annotato, significativamente, nei suoi appunti rinvenuti presso la Federconsorzi il commissario governativo Giorgio Cigliana in data apparentemente prossima al 25 ottobre 1991: "I debiti fasulli (inizio 1980) fatti emergere per 380 miliardi nei bilanci 1988-1990 - furono annotati - (come prescritti). C'erano delle fasulle rettifiche dei crediti (oltre 100 miliardi) iscritte negli anni '80 e fatte riemergere negli anni '89-'90.

    Il tutto regolarizzando fiscalmente le partite!"

    Occorre quindi stabilire se le poste qualificate come spese precalcolate, possano davvero essere ritenute tali o se si tratti, invece, di "costi inesistenti".

    La Commissione, considerate le linee generali della gestione della Federconsorzi e, in particolare, l'indirizzo seguito per anni in tema di crediti, che non si può certo definire ispirato a prudenza; ritenuto che se si fosse trattato di poste prudenziali queste, una volta chiuse tutte le gestioni speciali degli ammassi, non avrebbero avuto alcuna ragione d'essere, e quindi, sarebbero dovute scomparire da decenni, ha maturato il convincimento che si tratti di costi del tutto inesistenti.

    Alla stessa conclusione giunsero, successivamente, i consulenti Carbonetti, Martellini e Sica che definirono la posta nata dal caricamento di "costi inesistenti che avevano presumibilmente l’obiettivo di ridurre l’imposizione fiscale e possibilmente creare riserve liberamente disponibili".

    La mera finalità di evasione fiscale, che nulla toglie alla illiceità dell'appostazione protrattasi per decenni, non appare però appagante.

    Inducono a ragionevoli sospetti in altra direzione gli accertati 21.000 milioni di decrementi negli accantonamenti effettuati nel periodo dal 1967 al 1976, che non appaiono compatibili con la postulata finalità di evasione ma piuttosto con l'esigenza di disporre di partite contabili idonee a giustificare formalmente ed ad occultare ogni tipo di uscita di flussi di cassa.

    In proposito, va sottolineato che si trattava di una posta di notevole entità, illegalmente costituita che influenzò negativamente i bilanci dal 1966 al 1988, e, quindi, anche quando le condizioni economiche e finanziarie si erano già degradate e le preoccupazioni degli amministratori erano piuttosto quelle di esporre risultati di bilancio non migliori di quelli reali.

    Si trattava, insomma, verosimilmente, di una "riserva occulta" di cui non è stato possibile accertare, per i limiti di tempo imposti a questa Commissione, uso e destinazione.

     

    4. Le cambiali anomale

    I titoli cambiari furono rinvenuti dal commissario governativo, avvocato Lettera, nella cassaforte della Fedit e sottoposti a sequestro preventivo da parte della magistratura di Perugia il 24 aprile 1996.

    Si trattava di 804 cambiali ordinarie per lire 177.245.833.471 e di 1.118 cambiali agrarie per lire 611.249.485.104 rilasciate all’ordine Fedit dai consorzi agrari.

    Le scadenze dei titoli erano le seguenti:

    Secondo la Fedit ed in particolare il direttore finanziario Bambara si trattava:

    - per lire 172,9 miliardi, di cambiali in garanzia a fronte di prestiti dodecennali e cioè di finanziamenti in favore dei Cap per consentire il pagamento dei debiti nei confronti di Fedit derivanti da operazioni commerciali; l’ammontare dei relativi crediti commerciali, corrispondenti alle cambiali, sarebbe stato esposto nell’attivo patrimoniale in apposito conto nei bilanci a partire dall’anno 1989;

    - per lire 413,6 miliardi, di cambiali in garanzia emesse dal 1984 al 1991, a fronte di finanziamenti speciali, rateizzazione del pagamento dello "scaduto" e cioè dell’ammontare dei crediti commerciali corrispondenti alle cambiali inserite nella voce "scaduto", o di beni con rilascio di titoli ordinari a garanzia;

    - per lire 201,6 miliardi, di cambiali agrarie inviate dai consorzi a pagamento dello "scaduto" commerciale.

    L’ammontare dei titoli veniva imputato a deconto del credito Fedit e quindi le cambiali venivano accettate pro soluto; in caso di mancato pagamento, le cambiali venivano trasformate in titoli "a garanzia" previo riaddebito del conto "scaduto" ed inserite in apposito portafoglio (titoli passati allo sconto e restituiti dal sistema bancario).

    La Fedit avrebbe congelato i titoli in cassaforte perché i consorzi, che li avevano emessi, non erano solvibili.

    I titoli erano pertanto privi di valore reale e non furono portati all’incasso per evitare i costi connessi.

    Si sarebbe trattato di titoli in garanzia, che se esposti nell’attivo del bilancio, ne avrebbero alterato i valori, ed esclusi dalle attività cedute alla SGR, ma costituenti garanzie dei crediti ceduti.

    L’enorme massa di titoli cambiari in garanzia sarebbe stata giustificata dall’attività istituzionale della Fedit di sostegno finanziario ai consorzi, a norma dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 1235 del 1948 e dello Statuto.

    In proposito, vanno richiamate tutte le osservazioni che individuano la causa principale della crisi della Fedit proprio nel credito concesso illegittimamente ed irresponsabilmente oltre ogni limite ai consorzi agrari.

    Va osservato che in ogni caso, così operando, la Fedit avrebbe sistematicamente:

    - occultato la difficoltà o l’impossibilità dei Cap di adempiere l’obbligo di pagare le forniture (rapporti di c/c commerciale), facendo risultare inferiore al reale lo scoperto di c/c mediante l’addebito a deconto, in favore dei Cap, dell’importo di cambiali ordinarie od agrarie, considerate come contante e riaddebitate solo alla scadenza in caso di mancato pagamento;

    - occultato i finanziamenti e gli oneri connessi addebitando i relativi oneri all’ordinario rapporto di conto corrente commerciale;

    - assunto consapevolmente il peso degli oneri dello sconto bancario e della fattorizzazione dei titoli, che, emessi da soggetti economici che non erano in grado di adempiere le obbligazioni già assunte, non erano in grado di soddisfare le nuove.

    Secondo il consulente tecnico officiato dalla magistratura di Perugia di accertare la reale natura, i titoli, invece: "sembrano costituire una parte di un più ampio compendio del quale non è dato ricavare con sufficiente attendibilità l'ammontare; (…) ad essi non sembra possa riconnettersi alcuna funzione di garanzia (a tal proposito si ricorda che nessuna delle persone sentite sul punto dai Cap indicati nel campione esaminato, ha affermato che il rispettivo consorzio avesse mai emesso effetti a scopo di garanzia (infatti per buona parte di essi sembra accertata la natura di vero e proprio credito (…). Appare inspiegabile lo storno da parte della Fedit dal conto di bilancio portafoglio a beneficio del conto crediti verso Cap".

    La Commissione non ha potuto approfondire la questione che rimane, pertanto, aperta.

    E’, motivo di grave sospetto, la circostanza che i titoli, in regime di grande segretezza, furono prima portati nella sede della SGR e poi nuovamente in quella della Federconsorzi.

    1. una nota contabile anomala

    La Commissione ha rinvenuto tra la documentazione della Federconsorzi un documento nel quale sembra contenuta la rendicontazione trimestrale, alla data del 30 marzo 1986, relativa all'attuazione delle provvidenze pubbliche per lo sviluppo della zootecnia e della meccanizzazione agricola.

    In esso risulta annotato che parte dei contributi, per ben lire 2.492.029.003, dovevano essere considerati extracontabilmente (ovvero in "nero"?).

    Il contenuto del documento è il seguente:

    Contributi sugli interessi – considerare extracontabilmente lire 2.492.029.003

    per rendiconti con date fino al 31.03.1986

    TOTALE lire 4.407.024.465

    Non è stato possibile eseguire approfondimenti per la già segnalata tirannia del tempo.

    L'annotazione sembra, tuttavia, illustrare con grande efficacia, l'inattendibilità delle scritture contabili ed in genere dei conti della Fedit.

     

    6. documenti significativi rinvenuti dalla Commissione

    La ricerca eseguita sulla documentazione della Federconsorzi custodita negli archivi di Castelnuovo di Porto, di entità misurabile in alcune decine di chilometri lineari, ed esaminata dalla Commissione in forma necessariamente limitata, al precipuo fine di ricostruire i profili fondamentali della gestione economica e finanziaria della Federconsorzi, ha fatto emergere, incidentalmente, elementi che sembra opportuno evidenziare.

    E' stato, infatti, possibile ricostruire le spese sostenute dalla Federconsorzi per la "pubblicità" negli anni 1990 e 1991 e, quindi, in tempi di crisi conclamata.

    Esse sembrano rilevanti sia per l'entità, sia perché riguardano anche manifestazioni politiche.

    Nell'anno 1990 l'entità complessiva della spesa fu pari a ben 8.419 milioni.

    Nell'anno 1991 essa fu pari a 3.979 milioni.

    Le spese pubblicitarie riguardano le seguenti manifestazioni politiche:

    Con le medesime modalità, la Commissione ha rinvenuto, in tempo prossimo alla chiusura dei lavori, documentazione che sembrerebbe indicare che la Federconsorzi eseguiva, da lungo tempo, pagamenti in favore di partiti politici, sindacati, associazioni professionali e di categoria, giornali ed uomini politici.

    Va immediatamente, avvertito che non si tratta che di un'ipotesi di lavoro, perché non è stato svolto alcun accertamento, volto a verificare l'autenticità degli scritti e la veridicità del loro contenuto.

    Pur tuttavia, trattandosi di documenti dattiloscritti e manoscritti, custoditi nell'archivio della Federconsorzi, è possibile formulare un'astratta ipotesi d'autenticità e veridicità.

    Essi potrebbero costituire ed indicare una traccia meritevole di approfondimento, idonea a far luce sugli aspetti "politici" della gestione della Federconsorzi.

    Da un primo, sommario esame della documentazione, sembra emergere, in sintesi, che la Federconsorzi corrispondeva da lungo tempo, e, in alcuni casi, fin dagli anni '50, somme di danaro ad associazioni di varia natura e ad enti vari.

    Si sono rinvenute convenzioni tra la Federconsorzi ed alcuni soggetti, con le quali la Federconsorzi s'impegnava a corrispondere un compenso per remunerare l'impegno di collaborare alla realizzazione dei suoi fini istituzionali, assunto dai contraenti.

    E' il caso dei sindacati Uil e Cisnal.

    Un'altra convenzione, fu stipulata con l'Unione tabacchicoltori italiani.

    Corrispondenza di analogo contenuto riguarda l'Ente nazionale di assistenza coltivatori e l'Associazione italiana coltivatori.

    Si è, altresì, rinvenuta documentazione relativa ad una contribuzione, formalmente deliberata, in favore della Confederazione cooperative italiane, negli anni Settanta.

    La Commissione non ha potuto verificare come ed in quali forme si concretizzassero le collaborazioni, se esse fossero effettive e soddisfacessero le finalità dichiarate, la coerenza con le finalità istituzionali dell'impresa e, infine, con quali fondi fossero alimentate.

    La Federconsorzi, inoltre, assicurava, come risulta dalla corrispondenza rinvenuta, un concreto "sostegno nello svolgimento del programma della politica dei redditi" a "La Voce Repubblicana" negli anni 1967 e 1968.

    Infine, una nota manoscritta apparentemente risalente all'anno 1972, contiene un elenco di presumibili beneficiari di somme, apparentemente erogate nei primi quattro mesi dell'anno, per un totale di lire 153.500 (milioni?). La Commissione non ha inteso riportare nella relazione il testo di tale nota, non avendo potuto compiere adeguati accertamenti atti ad accertare la provenienza di tale documento, che risulta apocrifo e privo di data.

    Si è, poi, rinvenuta una ricevuta, apparentemente rilasciata dal Partito Repubblicano Italiano, del 29 marzo 1972 per lire 15 milioni a firma del segretario organizzativo del partito.

    Interesse storico-politico, sembra, infine, rivestire un carteggio riservato, risalente agli anni Sessanta, che contiene elementi utili a ricostruire il ruolo dell'allora presidente della Federconsorzi e le prospettive della Federconsorzi all'epoca della formazione del primo Governo di centrosinistra.

    Anche su questo aspetto, la Commissione non ha avuto il tempo materiale di svolgere i dovuti approfondimenti, considerata anche l'epoca lontana di riferimento.

     

     

    APPENDICE

    Profili della gestione degli ammassi

    Premessa

    La gestione degli ammassi ha notevolmente caratterizzato gran parte della vita della Federconsorzi.

    La Commissione ha ritenuto pertanto opportuno un approfondimento sistematico.

    Per rendersi conto della necessità di far chiarezza su una materia da cui, pur non rientrando strettamente tra i temi dell’indagine, non appare possibile prescindere, basta ricordare l’importante questione del reale valore dei crediti miliardari, derivanti dalla gestione degli ammassi che la Federconsorzi vantava e vanta tuttora, nei confronti dello Stato.

    Si è pertanto proceduto a porre alcuni fermi, distinguendo tra le competenze dei consorzi e quelle della Federconsorzi, pervenendo a stabilire che, a distanza di moltissimi anni dall’ultima campagna di ammasso obbligatorio, alcune questioni sono tuttora aperte.

    La richiesta di una definitiva chiarezza sui costi a carico dello Stato della complessiva gestione degli ammassi non è stata ancora soddisfatta.

    E’ auspicio della Commissione che il Parlamento voglia approfondire il tema, con le modalità che riterrà opportune, chiudendo definitivamente la questione.

    1. Le gestioni di ammasso in senso stretto svolte dai consorzi agrari e le cosiddette gestioni delle "quote" svolte dalla federconsorzi

    Le gestioni relative alle campagne di ammasso del grano e degli altri prodotti cerealicoli sono state affidate esclusivamente ai consorzi agrari provinciali, che le hanno svolte per conto e nell’interesse dello Stato, sotto la vigilanza del Ministero dell’agricoltura e delle foreste e del Ministero del tesoro secondo un modello inquadrabile, sotto il profilo civilistico, nel "contratto di commissione" e, secondo quello della giurisdizione contabile, nella "gestione fuori bilancio".

    I consorzi si procuravano i fondi necessari al pagamento del prodotto conferito all’ammasso mediante ricorso al credito bancario.

    A tal fine essi emettevano cambiali, con scadenza non superiore a quattro mesi, che scontavano presso le banche sulla base di apposite convenzioni - il cui schema tipo era stato predisposto dal Ministero dell’agricoltura d’intesa con la Banca d’Italia - che ne disciplinavano nel dettaglio le condizioni (tasso di sconto e di risconto presso la Banca d’Italia, tasso di conto corrente, provvigioni, modalità di rinnovo delle cambiali etc.).

    Tuttavia, per effetto delle disposizioni recate dai decreti legislativi luogotenenziali nn. 38/1945 e 805/1945, che reintrodussero il regime del prezzo economico del pane e della pasta, la Federconsorzi venne ad inserirsi in maniera incisiva in tali gestioni, pur non essendone titolare.

    Ad essa, infatti, fu demandata la gestione di importanti transazioni finanziarie relative alle gestioni di ammasso e, dunque, ad attività che erano esplicate in via esclusiva dai consorzi agrari.

    In sintesi si stabilì (articolo 1, primo comma, lettera b) di entrambi i suddetti decreti legislativi) che alle spese, tecniche, amministrative e straordinarie, sostenute dai consorzi per lo svolgimento delle operazioni di ammasso si dovesse far fronte nel modo seguente.

    I ricavi delle vendite del prodotto affluivano, per il tramite delle gestioni di distribuzione, sullo stesso conto corrente bancario ove era stato accreditato il netto ricavo delle cambiali emesse per il finanziamento di ciascuna campagna.

    Da essi si doveva prelevare una "quota", vale a dire una parte del prezzo di vendita a quintale, determinata annualmente dal Presidente del Consiglio, sino alla campagna 1948/49 e, successivamente, dalla campagna 1949/50 alla campagna 1961/62, dal Comitato interministeriale prezzi.

    La gestione (secondo comma) di tale quota, unitamente a quella delle altre tre "quote" previste dalle stesse disposizioni e di cui si dirà in prosieguo, fu demandata alla Federconsorzi, che provvedeva, pertanto, ad incassarla, mediante trattenuta operata all’atto della vendita, per poi ripartirne il complessivo ammontare ai singoli consorzi in relazione alle spese da ciascuno sopportate (cosiddetta "quota ammassi").

    Tali spese sono state, poi, liquidate secondo due diversi sistemi, e cioè:

    - sino alla campagna 1948/49, a pie' di lista, in base ai rendiconti presentati dai consorzi (per queste campagne, la Federconsorzi si è limitata, pertanto, ad erogare acconti ai consorzi, previa autorizzazione del Ministero dell'agricoltura e foreste, prelevandoli dal fondo costituito con il gettito della suddetta quota);

    - dalla campagna 1949/50 (deliberazione del C.I.R. 24 maggio 1949), a misura, vale a dire mediante la predeterminazione di corrispettivi unitari e globali, in ragione di un quintale di prodotto conferito all’ammasso (cosiddetto forfait), predeterminati dal Comitato interministeriale prezzi, (previa intesa con la Federconsorzi, che, dunque, contrattava anche per conto dei consorzi) per ogni singolo adempimento (tecnico o amministrativo) da questi posto in essere;

    - per tali campagne, pertanto, solo alcune e limitate spese per le quali non erano stati fissati i cosiddetto forfaits, nonché quelle straordinarie, sono state esposte nei rendiconti; la maggior parte di esse è stata, invece, previamente e definitivamente saldata dalla Federconsorzi sulla base dei suddetti corrispettivi unitari, parimenti attingendo dal gettito della quota di che trattasi (cfr. infra).

    E’ questo un importante e delicato snodo nella vicenda delle gestioni di ammasso, poiché dalle suddette decisioni legislative (decreti legislativi luogotenenziali nn. 38/1945 e 805/1945) ed amministrative (delibera C.I.R. 24 maggio 1949) è derivata una notevole ingerenza della Federconsorzi nelle gestioni di ammasso e, dunque, nei confronti dei consorzi agrari.

    Ad essa era stata affidata, infatti, non soltanto la gestione di notevoli somme spettanti a questi ultimi, ma anche, di fatto, - per effetto della citata deliberazione del C.I.R. in data 24 maggio 1949 - il potere di determinare l’entità forfettaria dei rimborsi a questi dovuti per le spese sostenute, così venendole di fatto demandata, interamente, l’organizzazione e la gestione dei servizi necessari per l’espletamento delle campagne di ammasso.

    2. Le gestioni cosiddette di distribuzione e di importazione svolte dalla federconsorzi.

    Alle operazioni di cessione, distribuzione e vendita, del prodotto ammassato ai molini provvedeva la Federconsorzi e non i singoli consorzi.

    La Federconsorzi curava, pertanto, tutta la fase della presa in carico del prodotto presso i magazzini dei consorzi e della consegna ai molini.

    Si tratta delle cosiddette gestioni di distribuzione, denominate, in gergo, sino al 1949,"CE.FA.PA." - perché esse hanno riguardato, sino a quella data, anche la distribuzione della farina e della pasta - e "Franco Molino", dal 1949 al 1964.

    Alla stessa Federconsorzi, peraltro, nel primo dopoguerra furono affidate anche altre gestioni, anch’esse connesse, per il tramite delle gestioni di distribuzione, con quelle di ammasso.

    Prima fra tutte, per importanza, è quella dell’importazione dei cereali dall’estero (cosiddetta gestione "Cereali Esteri") disciplinata dal decreto legislativo 26 gennaio 1948 n. 169.

    Poi, quella della distribuzione di prodotti alimentari vari fornita dai Governi alleati (cosiddetta gestione "Alimentari d’Importazione", disciplinata dai decreti legislativi luogotenenziali nn. 370 del 28 maggio 1945 e 586 del 12 aprile 1946, nonché dal decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato n. 610 del 23 agosto 1946).

    Infine, quelle dell’importazione di prodotti agricoli ed alimentari nell’ambito dei programmi di assistenza e di cooperazione economica di cui agli accordi stipulati tra il Governo italiano e quello degli Stati Uniti d’America, rispettivamente, il 3 gennaio 1948 (cosiddetta gestione "U.S.F.A.P." – United States Foreign Aid Program) e il 28 giugno 1948 (cosiddetta gestione "E.R.P." – European Recovery Program), entrambe disciplinate dalla legge 22 dicembre 1957 n. 1294.

    Orbene, come già anticipato – a norma degli articoli 1, primo comma, lett. a), c) e d) dei succitati decreti legislativi luogotenenziali del 1945, dal ricavato della vendita del prodotto ammassato ed importato dovevano essere prelevate - oltre a quella già illustrata - ulteriori tre "quote".

    Esse erano destinate a coprire: le spese di distribuzione e di vendita ai molini (cosiddetta "quota distribuzione"); gli oneri derivanti da maggiorazioni al compenso standard corrisposto ai conferenti in rapporto a determinate caratteristiche del prodotto (cosiddette "quota caratteristiche"); l’onere per l’i.g.e. (cosiddetta "quota i.g.e.", che fu successivamente soppressa).

    Anche la gestione di tali quote fu affidata alla Federconsorzi.

    3. Le interconnessioni tra le varie gestioni e gli effetti che esse hanno determinato sull’attività di rendicontazione. cenni sul funzionamento complessivo del sistema.

    La descritta situazione ha determinato, come conseguenza, una complicatissima serie di rapporti di interdipendenza amministrativa e finanziaria tra le diverse gestioni che ha finito per aggrovigliare all’inverosimile la materia e per ritardare sia le operazioni di presentazione dei rendiconti, sia quelle del loro controllo da parte del Ministero e della Corte dei conti.

    Il funzionamento del sistema era, infatti, il seguente.

    I consorzi gestivano l’ammasso vero e proprio provvedendo alle operazioni tecniche (predisposizione dell’attrezzatura ricettiva per la conservazione del prodotto, ricezione e conservazione dello stesso) e finanziarie (operazioni relative al finanziamento della campagna secondo le modalità sopra illustrate, al rilascio del cosiddetto bollettino di conferimento per il pagamento del prodotto ai conferenti da parte delle banche finanziatrici).

    La Federconsorzi provvedeva, invece, alle operazioni di cessione ai molini (essenzialmente trasporti dall’uno all’altro magazzino di ammasso, e da questi ai molini) e di vendita agli assegnatari.

    Tali operazioni e le connesse transazioni finanziarie concretavano le gestioni cosiddette di distribuzione.

    Il ricavato della vendita del prodotto ammassato, affluiva per il tramite di tali gestioni e, quindi, per il tramite della Federconsorzi agli stessi conti correnti bancari, intestati ai consorzi, sui quali erano stati accreditati i finanziamenti necessari per pagare i produttori, a scomputo dello stesso.

    Il ricavato subiva, però, una decurtazione perché la Federconsorzi tratteneva preventivamente le "quote".

    La stessa Federconsorzi, successivamente, provvedeva a ripartire l’ammontare di quella concernente le spese sostenute dai consorzi (cosiddetta "quota ammassi") tra questi ultimi, ed a rimborsarsi con quella relativa ai trasporti (cosiddetta "quota distribuzione") le spese sostenute per il trasporto del prodotto ai molini o per il movimento da un magazzino all’altro.

    Tanto premesso, se si considera che lo stesso procedimento veniva seguito anche per la gestione Cereali Esteri di cui era invece diretta titolare la Federconsorzi, se si tiene altresì conto che, a partire dal 1949, veniva indistintamente prelevata dalla vendita del grano nazionale di ammasso e da quello di importazione un’unica quota per far fronte sia alle spese di gestione sostenute dai consorzi che a quelle di distribuzione sostenute dalla Federconsorzi, appaiono evidenti la complessità del sistema, l’elevata permeabilità alle frodi e le difficoltà di controllo.

    Ciò ha anche comportato, ai fini della rendicontazione finale, uno stretto rapporto di interdipendenza tra le gestioni delle "quote" condotte dalla Federconsorzi e quelle relative al vero e proprio approvvigionamento.

    La presentazione dei primi rendiconti era, infatti, necessariamente subordinata alla presentazione e all’approvazione dei secondi.

    Si è, inoltre, attivata una molteplicità di transazioni finanziarie, tra la Federconsorzi e i singoli consorzi e tra le diverse gestioni di cui era titolare la medesima Federconsorzi.

    Ciò ha dato luogo all’apertura, presso gli istituti bancari, di una molteplicità di conti correnti, strettamente connessi con il rendiconto della gestione alla quale inerivano, attraverso i quali le transazioni venivano effettuate.

    Nella prassi e nel gergo, le gestioni delle cosiddette "quote" hanno finito per confondersi, in parte, con quelle di distribuzione.

    Occorre, al riguardo, distinguere le campagne di ammasso e di importazione svoltesi sino al 1949, da quelle svoltesi successivamente a tale data.

    Per il primo periodo, la contabilità delle "quote" prelevate per il rimborso delle spese sostenute dai consorzi per le gestioni di ammasso (cosiddetta "quota ammassi") è stata tenuta distinta da quella relativa alle "quote" prelevate per la copertura delle spese di distribuzione sostenute dalla Federconsorzi (cosiddetta "quota distribuzione"): la prima ha dato luogo alla gestione conosciuta, in gergo, come gestione "quote unificate"; la seconda alla gestione cosiddetta CE.FA.PA.

    Per il secondo periodo, invece, è stata tenuta un’unica contabilità per entrambe le suddette "quote" e, cumulativamente, quindi, sia per quelle prelevate dalla vendita del grano nazionale che per quelle prelevate dalla vendita del grano estero.

    Tale gestione è stata definita ed è conosciuta in gergo come gestione "Franco Molino".

    In definitiva, nella materia di che trattasi, si incontrano, variamente intrecciate tra loro, sotto il profilo amministrativo e finanziario, cinque diverse gestioni:

    gestioni di ammasso vere e proprie (svolte dai consorzi): riguardano le operazioni di ammasso (totale sino alla campagna 1946/47 e per contingente per le campagne successive) di vari prodotti cerealicoli (v. infra);

    gestione Cereali Esteri (svolta dalla Federconsorzi): riguarda l’importazione di prodotti cerealicoli nelle campagne dal 1946/47 al 1961/62 (16 annate);

    - gestione CE.FA.PA. (svolta dalla Federconsorzi): attiene alla distribuzione ed alla vendita dei cereali ammassati da parte dei consorzi, al deposito, distribuzione e vendita dei cereali, nonché degli altri prodotti alimentari, importati dalla Federconsorzi attraverso le gestioni Cereali Esteri Alimentari di importazione, U.S.F.A.P. ed E.R.P. (di cui pure – come detto – essa era titolare), per le cinque campagne che vanno dal 1944/45 al 1948/49; essa riguarda, allo stesso tempo, la gestione della "quota distribuzione" e della "quota caratteristiche", prelevate, nello stesso periodo, dal ricavo della vendita del prodotto ammassato ed importato;

    gestione Quote Unificate (svolta dalla Federconsorzi): riguarda la gestione della "quota ammassi" per le cinque campagne suddette;

    - gestione Franco Molino (svolta dalla Federconsorzi): riguarda la distribuzione e la vendita del grano ammassato da parte dei consorzi ed il deposito, distribuzione e vendita di quello importato dalla Federconsorzi attraverso la gestione Cereali Esteri nelle quindici campagne che vanno dal 1949/50 alla 1963/64; essa riguarda, ad un tempo, la gestione della "quota ammassi", della "quota caratteristiche" e della "quota distribuzione" indistintamente prelevate – come si è detto – dal ricavato della vendita del grano nazionale e di quello di importazione durante le stesse campagne.

    4. La politica legislativa sul ripiano delle gestioni di ammasso in senso stretto e le sue conseguenze sull’attività di rendicontazione

    E’ necessario riflettere sulla politica legislativa in ordine al ripiano degli oneri delle gestioni in esame, poiché ad essa sono, in larga misura, collegati i ritardi che si sono verificati nella attività di rendicontazione e le conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate per l’Erario.

    Nel periodo compreso tra il 1944 ed il 1956, lo Stato assunse a proprio carico i disavanzi delle campagne di ammasso dal 1943/1944 al 1953/1954, mediante numerosi provvedimenti legislativi.

    Con essi si stabilirono modalità di "regolamento provvisorio" e modalità di "regolamento definitivo".

    Le prime furono intese a "(…) ridurre l’aggravio a carico del bilancio dello Stato degli interessi maturati e maturandi sulle anticipazioni delle aziende di credito (…)" e, consistettero nell’erogazione da parte dello Stato, a favore degli enti gestori, di somme da ripartirsi immediatamente fra gli istituti di credito, sotto forma di acconti destinati alla parziale estinzione delle situazioni debitorie.

    Quanto alle modalità di "regolamento definitivo", si previde che ad esso si dovesse pervenire solo previo accertamento e liquidazione, da parte del Ministero dell’agricoltura e foreste, dell’effettiva entità degli oneri da porre a carico dello Stato in base a "rendiconti finali di gestione", compilati e presentati dagli enti gestori.

    In altri termini, la rendicontazione delle gestioni di ammasso fu prevista e disciplinata nello stesso contesto dei provvedimenti legislativi che disposero, a posteriori, l’assunzione dei relativi risultati a carico dello Stato mediante lo stanziamento di specifici fondi in bilancio.

    Fu una scelta legislativa certamente corretta e consona ai principi potendosi configurare, a stretto rigore, un obbligo di resa del conto soltanto se ed in quanto fosse stato adottato un formale provvedimento legislativo che facesse carico al bilancio dello Stato dei risultati negativi delle gestioni.

    L’anomalia che si è verificata sta tutta nel fatto che tali leggi non sono intervenute per tutte le campagne e, quando sono intervenute, ciò è accaduto molti anni dopo la chiusura delle gestioni.

    Ed infatti, successivamente al 1956, nessun’altra legge di ripiano è stata emanata, nonostante che - come si vedrà - vari disegni di legge fossero stati presentati in Parlamento sino al 1967 e, poi, ancora, dopo circa 18 anni, nel 1985.

    Tutte le campagne successive a quelle del 1953/54 - in pratica le sette campagne che vanno dal 1954/55 al 1961/62 - si sono, quindi, svolte e si sono concluse senza che fosse prestabilito se lo Stato avrebbe mai assunto a proprio carico i relativi risultati negativi e, dunque, se e secondo quali modalità dovesse provvedersi alla rendicontazione delle relative gestioni.

    Ciò ha comportato notevoli ritardi nella conclusione del procedimento di rendicontazione che si è avuto soltanto nel 1996, con la definitiva sanzione di regolarità da parte della Corte dei conti.

    Tali ritardi, peraltro, hanno finito per ripercuotersi sulla interdipendente rendicontazione delle gestioni delle "quote" - per alcuni versi più importante della prima - da parte della Federconsorzi, che, sebbene prodotta, ancorché con notevole ritardo, non è mai stata oggetto di controllo e di approvazione da parte del Ministero dell'agricoltura e foreste, né, in conseguenza, è mai pervenuta all’esame della Corte dei conti.

    Peculiari vicende hanno invece riguardato la rendicontazione della gestione Cereali Esteri e di essa si dirà più diffusamente di seguito.

    Ciò posto, è necessario un esame dettagliato delle vicende relative alla rendicontazione di ciascuna delle sopracitate gestioni.

    5. La rendicontazione delle gestioni di ammasso svolte dai consorzi agrari

    5.1 Le scansioni procedurali e temporali attraverso cui si è articolata l’attività di rendicontazione

    Per motivi di ordine espositivo-sistematico, appare opportuno distinguere i rendiconti relativi a tali gestioni in tre distinti gruppi, a seconda delle campagne a cui si riferiscono.

    Primo gruppo (campagne dal 1943/44 al 1946/47)

    I rendiconti relativi a tali campagne sono stati tutti presentati, approvati dal Ministero dell'agricoltura e foreste e liquidati con decreti registrati alla Corte dei conti negli anni ‘50, mediante completa utilizzazione dei fondi stanziati con le leggi sopra indicate.

    Secondo gruppo (campagne dal 1947/48 al 53/54)

    Tali campagne riguardano, per le prime due annate (1947/48 e 1948/49), diversi prodotti agricoli (grano, granoturco, orzo, segale, avena, olio); per le successive (dal 1949/1950 al 1953/1954), solo il grano.

    Gli oneri relativi sono stati assunti a carico dello Stato con la legge n. 459 del 12 luglio 1949 (che riguarda esclusivamente l’ammasso dei cereali della campagna 1947/48) e con le leggi del 28 giugno 1956 (dalla n. 596 alla n. 602), che riguardano l’ammasso dell’olio per la campagna 1947/48 (la prima) e l’ammasso del grano e degli altri cereali per la campagna 1948/49, nonché del solo grano per le campagne dal 1949/50 al 1953/54 (le altre).

    Tali leggi - come si è detto - hanno contestualmente previsto che gli oneri definitivi dovessero essere accertati mediante rendiconti finali di gestione da presentarsi da parte dei consorzi secondo modalità da definirsi dal Ministero dell'agricoltura e foreste d’intesa con il Ministero del tesoro e sentita la Corte dei conti.

    Per quanto riguarda la campagna cerealicola 1947/48:

    - la richiesta di parere alla Corte dei conti sullo schema di rendiconto è stata inoltrata in data 30 ottobre 1952;

    - il parere è stato fornito con nota del Presidente della Corte dei conti in data 23 marzo 1953;

    - le istruzioni ai consorzi sono state diramate con circolare n. 232 del 27 maggio 1953;

    - i rendiconti sono stati presentati negli anni 1953/54 e sono stati resi con riferimento alla data del 30 settembre 1953.

    Per quanto riguarda le altre campagne (ammasso olio 1947-48; ammasso grano ed altri cereali 1948-49; ammasso grano 1949/50-1953/54):

    - la richiesta di parere alla Corte dei conti sullo schema di rendiconto è stata inoltrata in data 12 luglio 1956;

    - il parere è stato reso con deliberazione delle sezioni riunite del 24/26 luglio 1956;

    - le istruzioni ai consorzi sono state diramate con circolare n. 376 del 28 dicembre 1956;

    - i rendiconti sono stati presentati negli anni 1957/58 e sono stati resi con riferimento alla data del 30 giugno 1957.

    Sennonché, le somme stanziate con tali provvedimenti legislativi non sono risultate sufficienti a coprire tutti i disavanzi registratisi nelle gestioni.

    Il Ministero dell'agricoltura e foreste, quindi, pur avendo approvato tutti i relativi rendiconti ha provveduto a liquidare, adottando il relativo formale decreto di approvazione e trasmettendolo alla Corte dei conti, per il riscontro di legittimità, solo quelli per i quali vi era capienza di bilancio, pari a circa la metà.

    Ciò è avvenuto nel corso dei primi anni Sessanta.

    Gli altri rendiconti, a seguito delle vicende di cui si dirà più avanti, sono stati approvati con formale decreto ministeriale soltanto più tardi, negli anni dal 1973 al 1976 e sono stati tutti registrati dalla Corte dei conti negli anni dal 1976 al 1978.

    Terzo gruppo (campagne dalla 1954/55 alla 1961/62)

    Tali campagne sono tutte relative all’ammasso del grano. Per esse l’unico provvedimento legislativo di ripiano si identifica nella recente legge n. 410 del 1999. Non sono state, quindi, mai previste modalità di regolamento provvisorio o definitivo.

    Nel maggio del 1962, il Ministero dell'agricoltura e foreste trasmise alla Corte dei conti uno schema di modello di rendiconto, redatto in conformità a quello già adottato per la rendicontazione delle campagne precedenti.

    Con nota in data 22 maggio 1962, il Presidente della Corte dei conti, pur convenendo sulla necessità che anche le gestioni relative a tali campagne fossero oggetto di rendicontazione, rappresentò, in mancanza di una disposizione legislativa che appositamente lo prevedesse, che nessun parere poteva essere reso dall’Istituto di controllo.

    Il Ministero dell'agricoltura e foreste ritenne, nondimeno, di disporre affinché i consorzi provvedessero ugualmente a presentare i rendiconti relativi a dette gestioni in conformità allo schema proposto.

    Tali rendiconti furono, pertanto, presentati dai consorzi nel corso del 1964 e del 1965, ma le operazioni di riscontro si protrassero per lungo tempo, tant’è che, alla data del 18 febbraio 1977, dopo circa 14 anni, essi non erano stati ancora approvati.

    Va detto in proposito che ancora in data 18 giugno 1976, il Ministero dell'agricoltura e foreste chiese ai consorzi di aggiornare i rendiconti, con riguardo, essenzialmente, alla esposizione bancaria delle gestioni, alla data del 30 giugno 1976.

    I rendiconti furono, poi, approvati, mediante lettere dirette ai singoli consorzi, nell’anno 1978, ma fu soltanto negli anni successivi 1979 e 1980 che intervennero i formali decreti ministeriali, con cui furono formalmente accertate le risultanze definitive di tali gestioni, che furono inviati alla Corte dei conti per il riscontro di sua competenza.

    Tali decreti furono tutti registrati tra il 1980 e il 1982.

    5.2 La questione dei costi delle campagne di ammasso

    La questione dei costi delle campagne di ammasso ha avuto una rilevanza politica mai del tutto sopita. Negli anni Sessanta essa era vivissima.

    La campagna elettorale per le elezioni politiche del 28 aprile 1963 ebbe tra i suoi temi il cosiddetto scandalo dei "mille miliardi" che il Partito comunista denunciava dispersi nella gestione degli ammassi.

    Il Partito socialista, da anni uno dei più accesi critici della Federconsorzi e sostenitore della necessità di maggiori controlli, il 5 dicembre del 1963 entrò nel primo governo Moro.

    L’onorevole Nenni divenne vice presidente del Consiglio, mentre ministro dell’agricoltura fu designato l’onorevole Ferrari-Aggradi e ministro del bilancio l’onorevole Giolitti, socialista.

    Orbene, la Commissione ha rinvenuto, tra la documentazione della Federconsorzi, classificata come riservata, un appunto, che sembra provenire dal Ministero dell’agricoltura, che consente di ricostruire quanto accadde a quel tempo e di comprendere meglio le ragioni per le quali non si è provveduto sui crediti di consorzi che quasi quaranta anni dopo.

    Nel novembre del 1963 il Ministero dell’agricoltura predispose un disegno di legge per ripianare le passività di tutte le gestioni di ammasso del grano. Il progetto incontrò la sostanziale opposizione del Ministero del bilancio che pose il problema della responsabilità della Federconsorzi per aver aperto presso le banche conti separati per il finanziamento delle gestioni e per l’afflusso dei ricavi delle gestioni.

    L’onorevole Nenni predispose, nell’anno 1964, un autonomo disegno di legge che, all’evidente fine di esercitare nuovi controlli su tutte le gestioni, trasformava i conti che i consorzi e la Federconsorzi avrebbero dovuto presentare da conti amministrativi in conti giudiziali. In tal modo i conti stessi, e non i soli provvedimenti del Ministero che li approvavano, sarebbero stati sottoposti direttamente al controllo di legittimità e di merito della Corte dei conti e sarebbero stati posti in discussione tutti i provvedimenti fino ad allora adottati.

    L’insanabile contrasto politico che si determinò paralizzò ogni iniziativa legislativa. Rimasero in vigore le direttive che il Ministero aveva emanato nel 1962 due anni prima che fosse approfondita la questione dei costi degli ammassi nella relazione Ferrari-Aggradi, che non ebbe alcun seguito.

    Fu elevata, di fatto, una invalicabile barriera di fronte ad una tentativo di far chiarezza sui costi realmente sostenuti dalla Federconsorzi e sui rapporti di questa con le banche.

    Va ricordato che, all’atto della formazione del primo Governo a partecipazione socialista, il Partito socialista aveva posto, tra le altre, proprio la questione della riforma della Federconsorzi, che avrebbe dovuto perdere ogni funzione pubblicistica, e dei consorzi agrari che sarebbero dovuti diventare cooperative.

    Una simile riforma, se attuata, avrebbe posto fine al monopolio democristiano.

    In quello stesso periodo di tempo la Federconsorzi fu interessata da importanti eventi. Essa fu oggetto di accertamenti da parte della Commissione parlamentare di indagine sui limiti della concorrenza.

    Il suo stesso presidente, dottor Costa, ne denunciò pubblicamente le anomalie.

    Della vicenda la Commissione ha rinvenuto una interessante eco in scritti riservati dell’epoca, di autore ignoto, nei quali un ruolo decisivo, a difesa della Federconsorzi, viene attribuito al presidente del Consiglio, onorevole Moro.

    5.3 l’unificazione delle contabilità

    Riprendendo il filo conduttore fin qui seguito, con decreto interministeriale (Ministero dell'agricoltura e foreste e Ministero del tesoro) in data 13 ottobre 1980, fu disposta l’istituzione di una contabilità unica presso ciascun consorzio e presso ciascuna azienda di credito, relativamente alle gestioni che non era stato possibile liquidare per mancanza dello stanziamento in bilancio dei fondi necessari.

    Si trattava, in pratica, di tutte quelle inerenti alle campagne del terzo gruppo, per le quali nessun provvedimento legislativo di ripiano era stato ancora adottato nonché di quelle relative alla campagne antecedenti del secondo gruppo, per le quali, pur esistendo tali provvedimenti legislativi, nondimeno non era stato possibile provvedere alla loro formale approvazione e conseguente liquidazione per esaurimento dei fondi all’uopo stanziati.

    Le istruzioni relative furono diramate ai consorzi con circolare del Ministero dell'agricoltura e foreste n. 12 del 15 giugno 1981, che dispose, nella circostanza, di procedere ad un nuovo aggiornamento di tutti i rendiconti (anche di quelli relativi alle campagne del secondo gruppo, che erano rimasti fermi, per quanto riguarda la situazione della esposizione bancaria, alla data del 30 giugno 1957), fissando, all’uopo, la data al 31 gennaio 1982.

    Tali operazioni, che si protrassero per circa 7 anni, condussero alla formulazione di 89 contabilità unificate (una per ciascun consorzio agrario) denominate "conto ammassi dei prodotti agricoli per le campagne 1961/62 e precedenti", nelle quali vennero trasfusi ed aggiornati, alla data del 31 gennaio 1982, tutti i rendiconti, approvati in precedenza, che si erano chiusi con un disavanzo.

    Le situazioni contabili furono poi approvate definitivamente con altrettanti decreti ministeriali adottati negli anni 1989/1990 e dichiarati regolari dalla Corte dei conti negli anni 1994/1996.

    La riforma dei controlli della Corte dei conti operata medio tempore dal legislatore con la legge 14 gennaio 1994 n. 20, che ha disposto la soppressione del controllo preventivo di legittimità, ha riguardato, infatti, anche i provvedimenti ministeriali approvativi dei rendiconti di tali gestioni.

    La soppressione del controllo preventivo sui decreti approvativi dei rendiconti delle gestioni de quibus, ha impedito, in alcuni casi, che si completassero i procedimenti di controllo in corso e che avessero inizio quelli relativi alle gestioni non ancora definite ed approvate in sede amministrativa.

    Ne consegue che ogni decisione sulla regolarità e sulla legittimità di tali gestioni, così come sulla regolarizzazione di quelle per le quali il procedimento di controllo si era concluso con la ricusazione parziale del visto e della registrazione da parte della Corte dei conti, è stata rimessa alla esclusiva responsabilità del Ministero competente.

    5.4 le cause del ritardo nella presentazione dei rendiconti

    Come si è visto, la fase della rendicontazione delle gestioni di ammasso svolte dai consorzi è stata decisamente tortuosa e incredibilmente lunga, ma ciò non sembra alla Commissione imputabile a resistenze o ad inadempimenti dei consorzi, che hanno tempestivamente presentato i rendiconti non appena ciò è stato loro richiesto dal Ministero dell'agricoltura e foreste e, comunque, entro i termini fissati, bensì, alla mancata o non tempestiva adozione di una chiara disciplina al riguardo ed alle conseguenti incertezze interpretative.

    E’ incontestabile che, pur essendo chiaro che le gestioni erano svolte per conto dello Stato, l’obbligo della presentazione dei rendiconti non è stato mai previsto al momento dell’affidamento dell’incarico gestorio ma in occasione dell’emanazione delle leggi che hanno assunto, a posteriori, a carico del bilancio dello Stato, i risultati delle gestioni. Tali leggi, infine, sono state emanate dopo molti anni dacché le campagne si erano chiuse o non sono state emanate affatto.

    Ciò sembra aver ingenerato per lungo tempo ed almeno sino al 1962, il convincimento, nell'apparato ministeriale, che l’attività di rendicontazione da parte dei consorzi fosse subordinata all’emanazione delle leggi sopra menzionate.

    5.5 Le cause del ritardo nella conclusione del procedimento di controllo

    Dopo che i rendiconti furono tutti presentati da parte dei consorzi nel 1965, il comportamento del Ministero dell'agricoltura e foreste concorse in modo rilevante a ritardare la conclusione del procedimento di accertamento definitivo dell’onere a carico dello Stato delle gestioni dell’ammasso.

    Le leggi con cui furono assunti, a carico del bilancio dello Stato, gli oneri scaturenti dalle gestioni di che trattasi, non previdero esplicitamente che i decreti ministeriali con cui essi venivano liquidati fossero soggetti al riscontro e cioè al visto ed alla registrazione della Corte dei conti, bensì, soltanto, l’obbligo che l’Istituto di controllo fosse sentito previamente "(…) sulle modalità per la compilazione e la presentazione dei rendiconti (…)".

    Nondimeno, non apparve dubbio, sin dall’inizio, che tali provvedimenti non potessero essere sottratti al controllo della Corte dei conti, stanti le allora vigenti norme dettate dagli articoli 18 e 19 del testo unico 12 luglio 1934 n. 1214, secondo cui dovevano essere presentati alla Corte per il visto e la registrazione e per il riscontro "(…) tutti i decreti con i quali…si autorizzano altre spese per un importo superiore a L. 10.000 quando l'autorizzazione non sia contemporanea all'emissione dell'ordine di pagamento (…)", nonché "(…) i mandati per il pagamento delle spese dello Stato (…) con i documenti giustificativi (…)".

    Ed infatti, tutti i decreti ministeriali con i quali furono accertati e liquidati gli oneri derivanti da tali gestioni, per le quali erano intervenute le leggi di ripiano e che avevano trovato capienza nei relativi stanziamenti di bilancio, furono inviati alla Corte dei conti per il controllo di sua competenza.

    In altre parole, il procedimento non si concluse con l’approvazione ministeriale dei rendiconti e con la contestuale liquidazione degli oneri accertati a seguito dei controlli eseguiti dagli organi del Ministero.

    A tale fase doveva seguire quella del controllo esterno da parte della magistratura contabile, che non poteva limitarsi solo al provvedimento finale, ma si estendeva necessariamente all’esame degli atti presupposti e, dunque, comportava anche l’esame del rendiconto.

    Sicché, solo all’esito del controllo della Corte dei conti, l’onere poteva ritenersi definitivamente accertato nei termini indicati nel decreto approvativo.

    Orbene, il Ministero dell'agricoltura e foreste, ritenendo - evidentemente - che il controllo della Corte dei conti non potesse svolgersi in mancanza di un provvedimento che accertasse e liquidasse gli oneri, che costituiva l’oggetto principale di tale controllo, e che quest’ultimo, a sua volta, non potesse essere adottato in difetto di appositi stanziamenti in bilancio, operò come segue.

    Da un lato, relativamente alle campagne dalla 1947/48 alla 1953/54, per le quali sole - come si è più volte detto - erano stati emanati provvedimenti legislativi di assunzione a carico dello Stato degli oneri relativi, pur avendo approvato, con provvedimenti interni tutti i rendiconti presentati, provvide ad adottare i formali provvedimenti (decreto ministeriale) di approvazione e di liquidazione degli oneri nei limiti della capienza degli stanziamenti in bilancio, con la conseguenza che quasi la metà dei rendiconti relativi a tali campagne non furono liquidati, e, dunque, non furono trasmessi alla Corte dei conti per il riscontro di sua competenza.

    Per le campagne dalla 1953/54 alla 1961/62 (per le quali, invece, non erano state adottate le leggi di ripiano), non provvide nemmeno ad approvare con provvedimenti interni i relativi rendiconti, i quali, pertanto, al pari di quelli di cui si è detto, rimasero per lungo tempo nei suoi archivi, senza essere inviati alla Corte dei conti.

    Per le ragioni politiche si rinvia ai paragrafi precedenti.

    Vi è stata, così, un’inerzia, durata per quasi un decennio, dalla metà degli ‘60 alla metà degli anni ’70, che ha impedito che il procedimento, per l’accertamento definitivo dell’onere complessivo che ne era derivato per lo Stato, si concludesse e per la gran parte dei rendiconti (quelli delle campagne successive al 1953/54), come si è visto, addirittura, si iniziasse.

    5.6 I tentativi di risolvere il problema. Il disegno di legge ferrari-aggradi

    Al problema affrontato nel precedente paragrafo si cercò di dare soluzione mediante la predisposizione di due disegni di legge.

    In un primo momento si tentò di risolvere definitivamente la questione della assunzione a carico del bilancio dello Stato degli oneri delle gestioni di ammasso relative alla campagne successive alla 1953/54 e dell’apprestamento dei mezzi finanziari necessari, ivi compresi quelli occorrenti alla liquidazione degli oneri relativi alla campagne precedenti, a cui non si era potuto provvedere per l’esaurimento dei fondi stanziati con le leggi del 1949 e del 1956.

    Trattasi dello schema di disegno di legge predisposto dal ministro Ferrari-Aggradi nell’ottobre del 1964, nel corso della III legislatura, e con riferimento al quale, in vista del suo successivo esame parlamentare, fu redatta una relazione che pochi sembrano aver letto o potuto leggere.

    La cosiddetta relazione Ferrari-Aggradi, rinvenuta con relativa facilità da questa Commissione, è una voluminosa pubblicazione (833 pagine), dal titolo "Gestioni di ammasso e di importazione di prodotti agricoli svolte per conto e nell’interesse dello Stato", edita dal Ministero dell’agricoltura e foreste nel dicembre del 1964. Essa è suddivisa in una premessa ed in tre parti, riguardanti:

    - le gestioni di ammasso obbligatorio dei prodotti agricoli (Parte I);

    - la gestione cereali di importazione (Parte II);

    - le gestioni olii, semi oleosi e grassi di importazione (Parte III).

    Il volume è, inoltre, preceduto da una presentazione del ministro Ferrari-Aggradi.

    Ciascuna parte è, infine, corredata da una ricca appendice, contenente quadri sinottici e prospetti statistici relativi alle singole gestioni trattate, nonché varia documentazione ad esse relativa (circolari ministeriali, deliberazioni del Comitato interministeriale prezzi, bandi di gara, disciplinari, etc.).

    La relazione Ferrari-Aggradi sembra ispirata dalla finalità di rispondere alle accuse rivolte per anni al Governo di non aver effettuato alcun serio controllo sulla gestione del denaro pubblico da parte della Federconsorzi, accusata, a sua volta, di aver tratto ingenti guadagni a danno della finanza pubblica, in dipendenza degli intricati e poco trasparenti rapporti instaurati con le banche che avevano finanziato le varie gestioni.

    Scopo della relazione Ferrari-Aggradi era pertanto (come esplicitamente dichiarato dallo stesso Ministro nella presentazione del volume) di informare l’opinione pubblica ed il Parlamento "(…) sia sull’uso fatto dal Governo e dalla pubblica amministrazione sulla discrezionalità loro demandata in proposito da leggi e regolamenti, sia sulle risultanze contabili fondamentali delle gestioni svolte (…)".

    In essa non si rinvengono rilievi espliciti sul costo complessivo delle gestioni per l’erario pubblico, né sulla politica che li aveva determinati, né, infine, sulle modalità di svolgimento delle singole gestioni da parte della Federconsorzi o dei consorzi agrari. Essa tuttavia espone, per la prima volta, l’entità reale dei costi risultante dai rendiconti presentati, e le cause che li avevano determinati ed inoltre illustra lo svolgimento delle gestioni, le vicende amministrative, lo stato della rendicontazione, le cause dei ritardi, le modalità e gli esiti dei controlli svolti.

    La relazione Ferrari-Aggradi, di fatto, scomparve e di ciò si diedero le più diverse interpretazioni.

    Si scrisse che essa era stata distrutta per oscuri motivi e si fecero ipotesi inquietanti.

    La Commissione è dell’opinione che i dati contabili che essa conteneva e le deduzioni che se ne potevano trarre, nel clima politico degli anni Sessanta, non ne favorirono la diffusione. Si volle, verosimilmente, evitare il confronto pubblico su dati certi.

    Il disegno di legge Ferrari-Aggradi, si distingueva dai precedenti sotto vari importanti profili. Innanzitutto, perché, essendosi ormai concluse tutte le gestioni di ammasso ed essendone, quindi, note, ancorché per grandi numeri, le risultanze, affrontava la non facile questione con maggiore cognizione di causa ed organicità.

    In secondo luogo e, soprattutto, per l’innovativa previsione di liquidare immediatamente e dunque prima ancora ed indipendentemente dal loro definitivo accertamento all’esito dell’esame e dell’approvazione dei rendiconti - attraverso l’assunzione diretta da parte dello Stato dei relativi debiti -, i rapporti tra gli enti incaricati delle gestioni e gli istituti di credito finanziatori (i cosiddetti oneri di finanziamento), facendo fronte alle relative esigenze finanziarie con l’emissione di un prestito redimibile di 800 miliardi, da sottoscriversi per intero dalla Banca d’Italia ed ammortizzabile in 30 anni all’interesse del 5 per cento annuo.

    In tale importo era stata stimata, infatti, a quella data, l’esposizione del sistema federconsortile nei confronti delle banche finanziatrici delle gestioni.

    Si prevedeva che al pagamento dei debiti contratti dagli enti gestori nei confronti del sistema creditizio si sarebbe proceduto a cura dello stesso Istituto di emissione, senza attendere la conclusione del più lungo ed articolato procedimento di rendicontazione sulla base del loro provvisorio accertamento, attraverso un procedimento più rapido e snello, sebbene dotato delle necessarie cautele.

    Quest’ultimo veniva, contestualmente, fatto oggetto, per la prima volta, di un’organica e compiuta disciplina, mediante la previsione dei termini e delle modalità per la compilazione e la presentazione dei rendiconti, nonché del loro controllo interno, da parte degli organi centrali e periferici del Ministero dell'agricoltura e foreste, ed esterno, da parte della Corte dei conti.

    Il descritto procedimento solutorio dei crediti vantati dagli istituti bancari nei confronti dell’organizzazione federconsortile, si sarebbe svolto, pertanto, senza pregiudizio del definitivo regolamento dei rapporti tra ciascun ente gestore (consorzi o Federconsorzi) e lo Stato, il quale restava, comunque, subordinato alle definitive risultanze del formale procedimento di rendicontazione.

    Alla soluzione della complessa e, già allora, annosa questione della sistemazione delle gestioni di ammasso e di quelle altre ad esse connesse, il Governo - come si legge nella relazione accompagnatoria del suddetto disegno di legge - si era determinato nella considerazione:

    - che gli enti gestori erano diretti creditori nei confronti dello Stato, per propria diretta esposizione, soltanto per importi relativamente modesti, avendo fatto ricorso, per la maggior parte, al finanziamento bancario (come si è visto, si era calcolato che ci fosse un rapporto di 1 a 40 tra i crediti propri degli enti gestori e quelli del sistema bancario che aveva finanziato le gestioni);

    - che gli istituti finanziatori, che erano creditori delle gestioni, avevano a loro volta riscontato quasi per intero, presso la Banca d’Italia il loro portafoglio cambiario relativo ai finanziamenti erogati agli enti gestori, con la duplice conseguenza che essi non avevano rilevanti risorse impegnate nelle gestioni e che l’Istituto di emissione – quale effettivo possessore dei titoli cambiari – risultava essere l’effettivo creditore delle gestioni medesime;

    - che siffatta complessità di rapporti, che si traduceva, in definitiva, nella presenza di un solo soggetto effettivamente creditore delle gestioni (Banca d’Italia) e di altri soggetti (gli istituti finanziatori), solo formalmente creditori, faceva sì che l’esposizione debitoria delle gestioni fosse gravata del tasso corrente del sistema bancario, sensibilmente più elevato, del tasso di sconto praticato dall’Istituto di emissione;

    - che, in mancanza di una sollecita soluzione del problema, l’esposizione debitoria verso gli istituti finanziatori sarebbe stata destinata ad accrescersi in maniera esponenziale, stante la capitalizzazione quadrimestrale degli interessi.

    Tali considerazioni furono condivise anche dalla Corte dei conti che, chiamata ad esprimere il proprio parere sul suindicato disegno di legge, osservò che non poteva "(…) non essere vista con favore l’immediatezza operativa del procedimento solutorio, inteso appunto a bloccare senz’altro, ogni ulteriore lievitazione, diretta o riflessa, di oneri a carico del bilancio statale (…)".

    Sta di fatto che il suddetto disegno di legge non fu mai presentato in Parlamento, sicché non fu nemmeno possibile procedere al suo esame.

    Successivamente si tentò una soluzione di minore portata rispetto a quella proposta dal ministro Ferrari-Aggradi e cioè quella di disciplinare, quanto meno, la irrisolta questione delle modalità e delle procedure di rendicontazione, al fine di subordinare alle risultanze di questa ogni decisione (da assumersi con futuri provvedimenti legislativi) sul ripiano delle gestioni e sulle modalità attraverso cui esso doveva in concreto attuarsi.

    Si tratta del disegno di legge predisposto nel corso della IV legislatura dal ministro Restivo, che fu presentato in Parlamento in data 15 giugno 1967 (AC n. 4171) e sul quale, pure, fu previamente acquisito il parere della Corte dei conti (SS.RR. 11 maggio 1967).

    Quest’ultimo disegno di legge non ebbe miglior fortuna di quelli che l’avevano preceduto.

    Di fronte, dunque, al persistere di una tale situazione, le sezioni riunite della Corte dei conti, in occasione della relazione sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio 1969, denunciarono al Parlamento la mancata presentazione al suo controllo dei rendiconti, così come di tutti quelli relativi alle gestioni di cui era stata titolare la Federconsorzi, esprimendo l’avviso che "(…) l’obbligo di resa del conto e di sottoposizione dei conti relativi all’esame della Corte non appare subordinato all’avvenuta acquisizione delle risultanze attive o allo stanziamento in bilancio dei fondi necessari per la regolazione degli oneri passivi a carico dello Stato, in quanto è proprio con la resa del conto che può determinarsi l’effettiva incidenza delle gestioni sul bilancio statale e possono valutarsi tutti gli elementi che concorrono a formare l’onere a carico dello Stato (…)".

    Ma nemmeno la denuncia dell’Istituto di controllo che faceva ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuscontabile sortì, nell’immediato, effetti.

    Fu solo a seguito dell’intervento della Procura generale presso la stessa Corte dei conti, che nel frattempo aveva aperto un fascicolo istruttorio sulla vicenda, a seguito della denuncia ad essa presentata nel novembre del 1965 da alcuni pubblicisti ed uomini politici facenti capo al "Movimento Gaetano Salvemini" - denuncia che dette luogo anche ad un procedimento penale intentato contro i dirigenti della Federconsorzi dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma -, che la situazione cominciò a muoversi.

    Ed infatti, nel novembre del 1971, il pubblico ministero contabile invitò formalmente il Ministero dell'agricoltura e foreste a presentare alla Corte dei conti i rendiconti che erano ancora in suo possesso, preannunciando che, in mancanza di questi, se dall’omissione fosse risultato un danno all’erario, si sarebbe proceduto ad azione di responsabilità a carico dei responsabili.

    L’invito fu accolto soltanto per i rendiconti concernenti le gestioni relative alle campagne del secondo gruppo, quelli cioè che, pur essendo stati approvati non erano, tuttavia, stati liquidati per esaurimento dei fondi stanziati con le leggi di ripiano del 1949 e del 1956 e che furono inviati al competente Ufficio di controllo della Corte dei conti negli anni immediatamente successivi.

    Il procedimento di controllo si potè concludere con la registrazione dei decreti ministeriali che li approvavano, nel 1978.

    Per gli altri rendiconti, relativi al terzo gruppo, per i quali a quella data non erano nemmeno iniziate le operazioni di revisione in sede centrale, fu invece necessaria l’introduzione, da parte del Requirente contabile, nel luglio del 1977, dello speciale procedimento giurisdizionale per "resa di rendiconto", che dette luogo all’adozione da parte della II Sezione giurisdizionale della Corte dei conti, di decreti con cui si fissava ai consorzi il termine di 180 giorni per la presentazione dei rendiconti relativi alle campagne di che trattasi.

    Analogo, contestuale procedimento fu introdotto nei confronti della Federconsorzi per le gestioni di sua diretta competenza per la maggior parte delle quali, invece, si verificavano tutti i presupposti di legge, non essendo stati gli stessi ancora trasmessi al Ministero per il riscontro in sede amministrativa.

    Solo così il Ministero dell'agricoltura e foreste accelerò i tempi per la revisione dei rendiconti che furono, poi, approvati sul finire degli anni Settanta e trasmessi al competente Ufficio di controllo della Corte dei conti che completò le operazioni di riscontro nel 1982, ammettendo al visto ed alla conseguente registrazione tutti i decreti approvativi.

    L’inerzia del Ministero non richiede commenti!

    La resistenza della Federconsorzi a rendere possibile un controllo, sia pur meramente formale, sul suo operato è palese.

    Le suddescritte vicende consentono di chiarire quali siano state le ragioni che hanno determinato l’incredibile ritardo con cui si è definitivamente chiuso il procedimento di rendicontazione delle gestioni di ammasso: quasi 35 anni, considerando la più recente campagna 1961/62.

    Tale ritardo non ha inciso minimamente sul progressivo ed esponenziale accrescersi degli oneri pubblici, essendo ciò dovuto esclusivamente alla mancata volontà politica di farne carico al bilancio dello Stato.

    Ne costituisce riprova la circostanza che, ancora dopo il 1982, quando ormai tutti i provvedimenti approvativi dei rendiconti erano stati registrati dalla Corte dei conti, nessuna legge di ripiano è stata approvata sino alla legge 28 ottobre 1999 n. 410, che ne ha previsto la regolazione, ancorché parziale. Permane, infatti, la questione di crediti vantati dalla liquidazione Federconsorzi, per circa 1.000 miliardi.

    6. Il contenuto dei rendiconti

    Per quanto attiene al contenuto dei rendiconti, essi erano redatti su "modelli" approvati dal Ministero dell'agricoltura e foreste d’intesa con il Ministero del tesoro nel 1953, nel 1956 e nel 1963 nonché in base alle disposizioni esplicative contenute nelle circolari diramate ai consorzi.

    Solo i primi due schemi di modello di rendiconto (quelli del 1953 e del 1956 e quelli relativi alla rendicontazione delle campagne dalla 1947/48 alla 1953/54) furono esaminati dalla Corte dei conti, che espresse il proprio parere rispettivamente con nota del Presidente in data 23 marzo 1953 e con deliberazione delle SS.RR. del 24/26 luglio 1956; sul terzo, invece (relativo alle campagne successive), alcun parere fu reso, avendo la Corte rappresentato (nota del Presidente in data 22 maggio 1962) che a tanto non poteva provvedersi in difetto di una espressa previsione di legge.

    I modelli di rendiconto e le relative istruzioni, tuttavia, sono sostanzialmente simili tra loro. Essi differiscono soltanto nel numero dei prospetti riassuntivi che li componevano, nonché - con riguardo al loro contenuto  - per alcune voci, legate ai particolari avvenimenti che caratterizzarono - soprattutto con riferimento alle tipologie di cessione del prodotto - alcune campagne.

    In sintesi, il rendiconto era composto di vari "fogli" che esponevano in forma riassuntiva il risultato della gestione, nonché le operazioni contabili che avevano concorso a determinarlo.

    7. I controlli

    Le procedure di controllo interno e, cioè, quelle svolte dalle stesse Amministrazioni sotto la cui vigilanza si svolgevano le gestioni, sono state esclusivamente disciplinate da disposizioni di natura regolamentare, essendo falliti - come si è visto - i tentativi di legiferare in materia.

    Questa è rimasta, pertanto, regolata dalle varie circolari e dagli altri provvedimenti emanati dal Ministero dell'agricoltura e foreste e dal Ministero del tesoro, nonché dalle prescrizioni dettate dalla Corte dei conti in occasione dei pareri formulati sugli schemi di modello di rendiconto, alle quali ultime è sempre stato riconosciuto valore normativo.

    7.1 Gli organi ed il procedimento

    I rendiconti erano innanzitutto controllati dalle "Commissioni di controllo" istituite a tale scopo in ogni provincia e composte da due funzionari, nominati dal Ministero dell'agricoltura e foreste e dal Ministero del tesoro (di solito, rispettivamente, nelle persone del Capo dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura e del Direttore della Ragioneria provinciale dello Stato).

    Benché tali Commissioni fossero state originariamente istituite per procedere all’esame ed al controllo dei rendiconti relativi alle campagne ammassatorie svoltesi sino al 1943/1944, esse hanno, di fatto, continuato a svolgere tale compito per tutte le successive campagne.

    In occasione dell’aggiornamento dei rendiconti alle date del 30 giugno 1976 e del 31 gennaio 1982 disposto con le circolari del Ministero dell'agricoltura e foreste nn. 2/1976 e 12/1981, le relative operazioni di controllo (vertenti, soprattutto, sulla verifica della situazione dei conti di finanziamento) venivano svolte dai Collegi sindacali dei singoli consorzi essendo ormai state sciolte le Commissioni provinciali di controllo.

    Successivamente i rendiconti venivano trasmessi al Ministero dell'agricoltura e foreste, dove erano sottoposti ad un ulteriore controllo da parte degli uffici a ciò preposti, e, in seguito, all’esame della Commissione consultiva centrale per la formulazione della definitiva proposta di approvazione.

    Tale Commissione era stata istituita con decreto interministeriale del 23 gennaio 1957 con il precipuo compito di esprimere un motivato parere ai fini dell’approvazione dei rendiconti presentati dai consorzi in base alle leggi del 1956.

    Essa era presieduta da un direttore generale del Ministero dell'agricoltura e foreste ed era composta da sette membri, tutti funzionari dello Stato, di cui tre in rappresentanza dello stesso Ministero, tre in rappresentanza del Ministero del tesoro ed uno in rappresentanza dell’Alto commissariato dell’alimentazione.

    Anche l’attività della Commissione consultiva centrale, al pari di quanto avvenuto per le Commissioni provinciali di controllo, è stata in prosieguo ripetutamente prorogata con appositi provvedimenti.

    Seguiva la fase di approvazione dei rendiconti da parte del Ministero, dapprima mediante comunicazioni inviate ai consorzi, nelle quali venivano esposte le risultanze del riscontro eseguito e, quindi, con formali decreti adottati dal Ministro, che venivano, poi, trasmessi, unitamente ai rendiconti medesimi, alla Corte dei conti per il controllo di legittimità di sua competenza.

    7.2 L’oggetto del controllo

    Il controllo documentale dei rendiconti, vale a dire il riscontro tra le cifre esposte negli elaborati, di cui si è detto sopra, e la documentazione amministrativa e contabile posta a corredo, è stato effettuato unicamente dalle Commissioni provinciali di controllo.

    In altre parole, il controllo da parte degli uffici ministeriali e della Commissione consultiva centrale non si è sostanziato in "riesame" dettagliato del rendiconto, sulla base della sottostante documentazione, che è rimasta presso i consorzi, ma ha avuto a riferimento esclusivamente i dati globali esposti nei modelli di cui esso si componeva, nonché le risultanze dei riscontri eseguiti in loco dalle Commissioni provinciali di controllo, quali esposte nelle relazioni da queste all’uopo redatte, in conformità alle prescrizioni a suo tempo dettate dalla Corte dei conti.

    Analogamente si è svolto il controllo di legittimità da parte della Corte dei conti, il quale ha avuto, inoltre, ad oggetto anche gli esiti del riscontro eseguito in sede ministeriale, quali risultanti dalla definitiva proposta di approvazione formulata dalla suddetta Commissione consultiva centrale.

    Deve, al riguardo, evidenziarsi che, già in occasione del suo primo parere - anno 1953 - la Corte dei conti riconosciuta "(…) la complessità delle operazioni svolte dagli enti gestori e (…) la difficoltà di allegare a corredo dei singoli rendiconti la ingente mole dei documenti originali sparsi in un centinaio di uffici periferici (…)", sicché "(…) le proposte modalità di compilazione dei rendiconti per prospetti riassuntivi, accompagnati dalle dettagliate relazioni delle apposite Commissioni provinciali cui è affidata in loco la revisione dei documenti, rispondono ad una inevitabile esigenza pratica (…)" aveva modo di rappresentare che, ai fini del controllo di sua competenza, non era necessario allegare ai rendiconti la suddetta documentazione, fermo restando che essa doveva essere conservata dai consorzi e tenuta a disposizione della Corte stessa sino alla definitiva approvazione dei rendiconti.

    7.3 I risultati di una verifica

    La Commissione ha sottoposto a verifica la documentazione che è stato possibile acquisire e, cioè, i rendiconti presentati dal consorzio di Macerata, dei quali è stata fornita copia integrale da parte del Ministero delle politiche agricole e forestali, nonché gli atti relativi a vari rendiconti presentati da altri 34 Consorzi reperiti presso il competente Ufficio di controllo della Corte dei conti.

    Da quanto si è avuto modo di accertare, può dirsi che per le prime campagne (sino alla 1948/49) l’attenzione delle Commissioni provinciali di controllo, nonché degli uffici ministeriali e della Commissione consultiva centrale si è soffermata, essenzialmente, sul riconoscimento delle spese tecniche, generali e straordinarie esposte dai consorzi alle quali sono state apportate significative riduzioni.

    Ma correzioni, per quanto più sporadiche e di minore incidenza ai fini del risultato definitivo delle gestioni, risultano essere state apportate anche al cosiddetto "conto magazzino" e cioè alla parte decisamente più importante dei rendiconti.

    Le operazioni esposte in tale "conto" erano tutte documentate dai bollettini di conferimento, per quanto riguarda i movimenti in entrata, e dalle fatture di vendita o da altri documenti equipollenti, per quanto riguarda i movimenti in uscita.

    Era quindi difficile che potessero essere riscontrate significative divergenze tra i dati riportati nei suddetti documenti e quelli esposti in rendiconto.

    Si è trattato, per lo più, di correzioni derivanti da errori di calcolo o dal mancato riconoscimento di perdite, per furti, avarie, cali o ammanchi, in quanto non opportunamente o sufficientemente documentate.

    7.4  Il contenuto ed i risultati del controllo della corte dei conti; gli oneri di finalizzazione

    Il controllo della Corte di conti, a quanto è stato possibile evincere dai rilevi istruttori formulati sui decreti approvativi sottoposti nelle varie epoche al suo esame, si è concentrato, soprattutto, su due aspetti: il riconoscimento, a partire dal 1976, in favore dei consorzi dei cosiddetti oneri di finalizzazione; l’entità ed il sistema di calcolo degli interessi sull’esposizione bancaria.

    Con l’espressione "oneri di finalizzazione" sono state definite, in gergo, le spese di carattere amministrativo, essenzialmente per personale e spese generali, sostenute dai consorzi a partire dal settimo mese successivo alla chiusura di ogni gestione e sino alla definitiva liquidazione della stessa, per la tenuta della contabilità, per la periodica parificazione dei conti accesi presso gli istituti bancari finanziatori, per il rinnovo quadrimestrale degli effetti a copertura della passività delle gestioni, per la custodia della documentazione e per altro.

    Si tratta, anche in questo caso, di oneri strettamente legati alla mancata copertura finanziaria delle gestioni di ammasso, in quanto maturatisi a causa della mancata loro liquidazione e che sono cresciuti esponenzialmente nel corso del tempo.

    Essi sono stati riconosciuti, per la prima volta, oltre ai relativi interessi, in occasione dell’approvazione dei rendiconti relativi all’ultima campagna di ammasso (1961/62) e con riferimento a quelli maturati sino alla data del 30 giugno 1976.

    L’importo relativo, comprensivo delle spese pertinenti a tutti i rendiconti non ancora liquidati, è stato determinato con una drastica riduzione rispetto agli importi richiesti dai consorzi, sulla base di un complesso meccanismo di punteggi, tabelle, categorie e parametri elaborato dalla Commissione consultiva centrale sulla scorta di criteri oggettivi, quali il numero delle gestioni svolte da ciascun consorzio, l’ammontare dei finanziamenti ricevuti, il costo del personale, la quantità di merce movimentata, il numero degli istituiti finanziatori ed altri ancora.

    Un secondo e definitivo riconoscimento, alla data del 31 gennaio 1982, è avvenuto, sulla base dei medesimi criteri, al momento dell’approvazione dei decreti approvativi delle contabilità unificate.

    Va segnalato, a questo punto, che gli oneri di finalizzazione costituiscono la parte preponderante dei crediti propri dei consorzi.

    Essi incidono tuttavia in maniera minima sul totale del disavanzo delle gestioni, essendo la parte preponderante di esso imputabile agli oneri bancari.

    Il competente Ufficio di controllo della Corte, nel corso dell’istruttoria sui provvedimenti che avevano approvato i rendiconti delle campagne del terzo gruppo, avanzò riserve sul riconoscimento di tali oneri, eccependo la mancanza di una esplicita previsione normativa sul punto.

    Successivamente, tuttavia, il rilievo fu superato per due ordini di considerazioni.

    Per un verso la Sezione del Controllo, aveva ritenuto infondata una osservazione di tale contenuto mossa dalla stesso Ufficio con riferimento al decreto approvativo del rendiconto relativo alla gestione "Alimentari d’Importazione" svolta dalla Federconsorzi, sul rilievo che trattavasi di spese non attinenti alle funzioni proprie di istituto dell’ente gestore, ma che erano state sostenute dopo la presentazione dei rendiconti, sicché appariva conforme a legge la decisione di procedere al loro rimborso.

    Per altro risultavano condivisibili i criteri di liquidazione elaborati dalla Commissione consultiva centrale in mancanza di specifiche disposizioni normative ed a fronte delle esorbitanti richieste esposte dai consorzi.

    Con riguardo al secondo aspetto, l’Ufficio di controllo, in un primo momento e cioè in occasione dell’esame dei decreti che approvavano i rendiconti relativi alle campagne del secondo gruppo, eccepì la mancata allegazione degli estratti di conto corrente bancario.

    Anche tale rilievo fu, tuttavia, superato, a seguito di una lunga ed elaborata risposta del Ministero, nella considerazione che, in effetti, nel caso di specie, non solo erano note la natura del contratto di apertura di credito e le condizioni applicate ai conti di finanziamento, ma il riscontro di concordanza tra gli estratti di conto corrente e le scritture del consorzio risultava essere stato effettuato dalle Commissioni provinciali di controllo, per cui non appariva necessario ripetere un controllo già analiticamente svolto, e conclusosi senza osservazioni.

    In un secondo momento, in sede di controllo degli 89 decreti approvativi delle contabilità unificate, il controllo è stato rivolto, essenzialmente, a verificare la concordanza tra i disavanzi aggiornati esposti in tali decreti ed i dati risultanti dai singoli decreti approvativi dei rendiconti precedentemente ammessi a registrazione, nonché ad accertare la correttezza del sistema di calcolo degli interessi sulle esposizioni bancarie maturati nel periodo a cui si riferiva il disposto aggiornamento dei rendiconti.

    La complessa istruttoria, che dette luogo alla formulazione di osservazioni per 34 delle suddette contabilità, si è conclusa - a seguito dei chiarimenti e dei documenti integrativi forniti dal Ministero - con pronuncia di regolarità per tutti gli 89 decreti sottoposti al controllo.

    7.5 La gestione dei consorzi

    Sulla base di quanto si è sin qui riferito sembra che le sopra illustrate modalità di rendicontazione, da un lato, e il correlativo sistema dei controlli dall’altro, hanno consentito di accertare, dal punto di vista documentale, la regolarità dell’attività svolta dai consorzi.

    Gli elaborati da cui era composto il rendiconto davano compiuta rappresentazione di tutte le operazioni che concorrevano a determinare il risultato finale della gestione.

    Essendo il sistema dei controlli articolato in una fase interna - a sua volta strutturata in due distinti livelli: controllo analitico e documentale da parte delle Commissioni provinciali e controllo sui risultati di quest’ultimo da parte degli uffici ministeriali e della Commissione consultiva centrale - ed in una fase esterna - controllo di legittimità da parte della Corte dei conti - esso era idoneo ad assicurare l’accertamento di eventuali irregolarità od illegittimità.

    Durante lo svolgimento delle campagne era previsti anche controlli non documentali da parte di organi del Ministero dell'agricoltura e foreste.

    I consorzi erano, infatti, sottoposti alla vigilanza da parte degli Ispettorati provinciali dell’agricoltura (subentrati, dal 1952, agli Uffici periferici del soppresso Ufficio Nazionale Statistico Economico dell’Agricoltura - U.N.S.E.A.), i quali, oltre a ricevere giornaliera comunicazione della quantità di prodotto conferito all’ammasso (erano, infatti, destinatari di una copia del bollettino di conferimento rilasciato ai produttori) hanno effettuato, a richiesta del Ministero dell'agricoltura e foreste o autonomamente, controlli tecnici (ad esempio, sulla qualità, sul peso e sul peso specifico del prodotto, nonché sull’idoneità delle strutture ricettive) ed ispezioni al fine di accertare la regolarità delle operazioni e delle loro trascrizioni contabili.

    I risultati dei controlli eseguiti non sono noti alla Commissione.

    Va, tuttavia, precisato che le considerazioni che precedono valgono per la sola rendicontazione relativa alle gestioni di ammasso in senso stretto.

    Non altrettanto può dirsi, invece - come si riferirà in immediato prosieguo - per la rendicontazione relativa alle altre gestioni svolte dalla Federconsorzi, che concorrono insieme alla prima a formare il "sistema degli ammassi" in senso lato.

    8. la rendicontazione della gestione cereali esteri

    Anche la rendicontazione di questa importantissima gestione svolta - a differenza di quelle di ammasso - direttamente dalla Federconsorzi, è stata contraddistinta da particolari vicende e da incredibili ritardi, la cui illustrazione consentirà di meglio comprendere quanto si andrà a dire, alla fine di questa relazione, sul procedimento penale che coinvolse i dirigenti della Federconsorzi nei primi anni ‘70.

    Questa gestione è sorta negli ultimi mesi del 1946, quando, venuti ormai a cessare gli aiuti forniti dagli alleati, il Governo dispose l’acquisto diretto sui mercati esteri di cereali e loro derivati destinati alla pani-pastificazione.

    Essa fu successivamente disciplinata dal decreto legislativo 26 gennaio 1948 n. 169, il quale, all’articolo 2, previde l’assunzione a carico dello Stato della differenza tra le spese sostenute dall’ente gestore (la Federconsorzi), e il ricavo ottenuto dalla cessione dei prodotti, dedotta la quota destinata a far fronte alle spese di distribuzione sul territorio nazionale.

    Anche in questo caso, fu previsto che l’onere relativo fosse liquidato sulla base di rendiconti da presentarsi da parte della Federconsorzi per ogni tradotta o vapore, attraverso cui si era provveduto all’importazione, da redigersi sulla base di modelli approvati dall’Alto Commissariato per l’alimentazione, previo parere della Corte di conti.

    Detto parere fu fornito con nota del Presidente della Corte dei conti, in data 3 novembre 1950, sicché le relative disposizioni illustrative furono inviate alla Federconsorzi con nota in data 27 novembre dello stesso anno.

    8.1 La vexata quaestio degli estratti conto.

    Il primo rendiconto che fu mandato alla Corte dei conti fu il numero n. 289. Esso concerneva l’importazione di 10.000 quintali di grano trasportati via terra dal territorio libero di Trieste ad Udine, Pordenone e Sacile nel trimestre luglio-settembre 1948, approvato con decreto dell’Alto Commissario per l’alimentazione in data 19 ottobre 1956, ed esponente una perdita della gestione, al netto degli acconti sino a quel momento erogati, di lire 3.848.950 che veniva liquidato con ordinativo diretto di pari importo.

    Tale decreto formò oggetto di vari rilievi da parte del competente Ufficio di controllo in ordine, tra l’altro, all’efficacia probatoria della documentazione allegata al rendiconto a dimostrazione della spesa sostenuta dalla Federconsorzi per interessi passivi sui mutui contratti per le operazioni di importazione del prodotto, che erano stati esposti nella specie nella misura dell’8,75 per cento, con capitalizzazione trimestrale, pari, cioè, alle condizioni minime previste dal cosiddetto "cartello interbancario" all’epoca vigente.

    Sosteneva, nello specifico, l’Ufficio la necessità di allegare al rendiconto gli estratti-conto originali relativi ai finanziamenti ottenuti, nonché copia delle condizioni generali stipulate con le aziende di credito ed il correlativo contratto di apertura di conto corrente, mentre il Ministero e la Federconsorzi asserivano essere sufficiente, al riguardo, una dichiarazione (chiamata "staffa" o "scaletta") dello stesso ente gestore, corredata da una dichiarazione dell’istituto di credito, attestante l’entità dello scoperto.

    In particolare, in un primo momento, l’apparato ministeriale aveva eccepito che la presentazione degli estratti-conto, dato il tempo trascorso, avrebbe comportato una non lieve spesa per la gestione e, quindi, per l’erario.

    In seguito, aveva rappresentato che l’apertura dei conti di finanziamento non si riferiva a ciascun trasporto (vapore o tradotta) ma era stata richiesta globalmente, di modo che i numerosi estratti-conto rimessi trimestralmente dai diversi istituti di credito dal 1946 in poi, riportavano genericamente le operazioni effettuate per più trasporti.

    Tale modo di operare era attribuito alla circostanza che la regolamentazione legislativa della gestione, che aveva previsto la rendicontazione per singolo trasporto, era intervenuta dopo due anni dacché essa aveva avuto inizio.

    Sennonché, quando l’Ufficio di controllo, in dipendenza delle asserite difficoltà di ordine pratico, aveva acconsentito, in via subordinata, a che l’accertamento della esattezza contabile delle poste, nonché del tasso di interesse applicato, venisse eseguito in loco, attraverso l’esame degli estratti conto bancari originali, da parte della speciale "Commissione per l’esame e le proposte nelle questioni di carattere generale concernenti la revisione e l’approvazione delle gestioni alimentari d’importazione e CE.FA.PA.", il Ministero comunicò che la Commissione non aveva ritenuto possibile vincolare all’esame diretto degli estratti-conto la revisione dei rendiconti.

    Successivamente, furono rassegnate dalla Federconsorzi e fatte proprie dal Ministero, ulteriori deduzioni allo scopo di convincere l’Organo di controllo a dar corso al decreto de quo.

    Si sosteneva, per un verso, che la Federconsorzi aveva provveduto direttamente al finanziamento del controvalore in lire della valuta occorrente per gli acquisti e le spese, sicché doveva ritenersi che titolare dei diritto di credito verso la gestione per le somme anticipate in suo favore, e per essa nei confronti dello Stato, fosse lo stesso ente gestore.

    Per altro si affermava che, comunque, le disposizioni a suo tempo diramate dall’Alto Commissariato per l'alimentazione ai fini della rendicontazione, non prevedevano l’allegazione degli originali degli estratti-conto bancari.

    Non essendo stato risolto il delineato contrasto, la questione fu deferita all’esame della Sezione del Controllo, la quale, con deliberazione n. 274, adottata nella seduta del 24 gennaio 1963, ricusò il visto al suddetto decreto, ritenendo che l’esposizione del calcolo degli interessi da parte della Federconsorzi, coincidente con l’astratta previsione del "cartello interbancario", poteva avere un valore meramente confessorio, ma non forniva la benché minima dimostrazione della entità del costo del danaro determinato in concreto, in relazione, cioè, alla specifica operazione di credito e che, pertanto, veniva a mancare la possibilità dell’esatta determinazione dell’onere da accollare allo Stato a titolo di interessi sui finanziamenti in questione.

    Successivamente, in data 23 gennaio 1964, il Ministero dell'agricoltura e foreste inoltrò nuovamente gli atti già oggetto di ricusazione di visto al competente Ufficio di controllo, rappresentando che la cosiddetta "staffa" o "scaletta", già redatta dalla Federconsorzi, era stata corredata da una dichiarazione della banca finanziatrice con la quale si confermava la rispondenza delle somme e dei conteggi ivi esposti alle operazioni compiute al saggio di interesse applicato, accompagnata da una separata dichiarazione della stessa banca sull’esatta misura del tasso di interesse.

    Con rilievo n. 193, in data 13 marzo 1964, la Corte restituì un'altra volta il decreto non registrato, non ritenendo che la nuova documentazione prodotta fosse idonea a superare i motivi che avevano condotto alla precedente ricusazione di visto.

    Nell’occasione, veniva altresì rappresentata una nuova problematica che superava i confini della questione in contestazione e che sino a quel momento era rimasta in ombra: quella, cioè, della globale resa dei conti relativi alla gestione.

    A quella data, il rendiconto che se ne occupa era ancora l’unico ad essere stato inviato alla Corte dei conti e ciò anche ai fini della compensazione dei saldi attivi e passivi dei vari rapporti, essendosi accertato in via informale che essa - secondo dati riferiti al 1963 e confermati dal rappresentante del Ministero del tesoro nel corso dell’adunanza del 24 gennaio 1963, all’esito della quale fu adottata la deliberazione n. 274 sopracitata - presentava, nel suo complesso, conti attivi per circa 7 miliardi che fruttavano (asseritamente) un interesse del 2,50 per cento e conti passivi per oltre 8 miliardi gravati (asseritamente) da un interesse passivo dell’8,75 per cento.

    In altri termini, veniva posto ad un tempo il problema dell’interdipendenza dei conti con il rapporto giuridico di finanziamento intercorso tra ente gestore e istituto bancario e quello dell’esigenza di una globalità della resa dei primi nell’ambito del medesimo rapporto di finanziamento a fini dell’elisione dei debiti fino alla concorrenza dei crediti della medesima parte contrattuale, ai sensi dell’articolo 1853 del codice civile.

    Sembra che l’Ufficio di controllo avesse intuito che, dietro tale parziale rendicontazione e la resistenza della Federconsorzi a fornire notizie sulla natura e sulle condizioni dei rapporti intrattenuti con le banche, si potesse celare una operazione intesa a trarne diretto profitto a danno dello Stato come poi, in effetti, sarà disvelato nel corso delle indagini svolte dalla magistratura penale (cfr. infra).

    Nella stessa ottica fu affermato che il rapporto di interdipendenza tra conti e sottostante rapporto giuridico di finanziamento, con la conseguente necessità della globalità della resa dei conti, doveva intendersi riferito anche alle altre gestioni di cui era stata titolare la Federconsorzi e cioè a quelle delle "quote" e di distribuzione, a quel momento ancora oggetto di parziale ed incompleta rendicontazione in sede amministrativa.

    A tale fondamentale rilievo istruttorio, il Ministero si limitò a dare, in data 13 marzo 1964, una risposta interlocutoria, mostrando di convenire con le osservazioni dell’Ufficio di controllo e rimandando la soluzione delle sollevate questioni all’approvazione di un disegno di legge di cui si annunciava prossima la presentazione.

    Soltanto dopo circa 16 anni, nel 1980, il Ministero dell'agricoltura e foreste fornì la risposta definitiva, reiterando, di fatto, le argomentazioni già rassegnate in precedenza nel corso della lunga istruttoria esitata nella deliberazione di ricusazione del visto n. 274 del 1963.

    In tale stessa circostanza, il Ministero dell'agricoltura e foreste chiariva, inoltre, che, nel frattempo, la Federconsorzi aveva presentato tutti i rendiconti relativi alla gestione di che trattasi per un totale di 2.498 (uno per ciascun vapore o tradotta); di essi soltanto quelli relativi alle importazioni effettuate sino alla campagna 1950/51 (in numero di 1.214, compreso quello all’esame) erano privi degli originali degli estratti di conto corrente, mentre quelli relativi al periodo successivo (in numero di 1.284) erano corredati dalla richiesta documentazione.

    La questione fu nuovamente deferita alla Sezione del Controllo, la quale con deliberazione n. 1150, adottata nella seduta del 7 maggio 1981, accertato che non era stata adempiuta l’originaria richiesta istruttoria di allegazione degli originali degli estratti di conto corrente, né era stata fornita la prova di una impossibilità per cause indipendenti dalla volontà dell’ente gestore di soddisfarla, sicché essa si presentava negli stessi sostanziali termini già valutati negativamente in precedenza, ricusava nuovamente il visto e la registrazione al decreto approvativo di tale rendiconto, riaffermando il principio che, in tanto la Federconsorzi poteva vantare un credito nei confronti dello Stato committente, in quanto esso fosse risultato in modo certo da documenti originali o in copia autentica.

    8.2  L’esito del controllo sui restanti rendiconti e le conseguenti determinazioni adottate dal Ministero dell'agricoltura

    Successivamente, avendo il Ministero trasmesso al controllo i decreti approvativi di tutti gli altri rendiconti afferenti alla gestione di che trattasi, la Corte dei conti, in conformità ai suddetti principi, ritenendo soddisfatta la manifestata esigenza della globalità della resa dei conti ai fini della compensazione degli interessi attivi con quelli passivi dalla istituzione, sin dal 1964, del cosiddetto conto transitorio cereali esteri, ammetteva al visto soltanto quelli, in numero di 1.284, che approvavano i rendiconti ai quali risultavano allegati gli originali degli estratti di conto corrente, mentre restituiva non registrati quelli in numero di 1.213 che approvavano i rendiconti privi di tale documentazione.

    A seguito di tali ultime due pronunce, il Ministero invitò la Federconsorzi, da un lato, a riformulare i rendiconti per i quali era intervenuta la ricusazione di visto, esponendo il tasso di interesse passivo nella misura dello 0,5 per cento e, dall’altro, relativamente ai rendiconti ammessi al visto, a versare sul suddetto conto transitorio l’importo complessivo di lire 1.318.902.200 (comprensivo degli interessi), pari al totale delle perdite per cali e delle spese di sbarco esposte nei suddetti rendiconti (ma non riconosciute all’esito dell’eseguito controllo interno) degli stessi.

    Va precisato che, per quanto riguarda questa gestione, il controllo era eseguito esclusivamente dagli uffici ministeriali con la consulenza della Commissione consultiva centrale.

    Avverso la prima richiesta, come si rileva da un appunto redatto dal Ministero delle politiche agricole in data 4 maggio 2000, ed acquisito agli atti, la Federconsorzi presentò ricorso al Tar e contemporaneamente ricorso straordinario al Capo dello Stato.

    Il Tar del Lazio ha respinto il ricorso.

    Le conseguenze non sembrano, tuttavia, poter ricadere sulla liquidazione. Alcun seguito sarebbe stato dato, invece, alla seconda richiesta, avendo la Federconsorzi preteso la previa liquidazione in suo favore del compenso per la gestione di che trattasi, espressamente previsto dalla legge istituiva, nonché di tutte le altre spese amministrative sostenute, a suo dire, per la rielaborazione e la finalizzazione dei relativi rendiconti.

    8.3  Il problema del compenso e delle spese per la rielaborazione e la finalizzazione dei rendiconti

    In data 8 febbraio 1952, il Ministero impartì disposizioni per la tenuta dei conti disponendo, in particolare, che alla relativa rendicontazione dovesse procedersi, a partire dalla campagna 1951/52, per campagna, anziché, come originariamente previsto, per singolo trasporto, vapore o tradotta.

    In data 18 settembre 1964 fu richiesto alla Federconsorzi di reimpostare la rendicontazione relativa alle suddette campagne, per singolo trasporto, in conformità alle disposizioni del decreto legislativo n. 169/48.

    Ciò, secondo la Federconsorzi, aveva comportato una notevole quantità di lavoro aggiuntivo, che doveva essere compensato separatamente dal compenso ad essa dovuto per l’espletamento della gestione.

    Parimenti dovevano essere separatamente compensati, come avvenuto per i consorzi, gli oneri di finalizzazione e cioè le spese amministrative sostenute dal settimo mese successivo alla chiusura di ogni singola importazione e sino alla data della sua definitiva liquidazione.

    Da un nota del Ministero, in data 18 dicembre 1996, diretta al competente Ufficio di controllo della Corte dei conti, si apprende che la Commissione consultiva centrale avrebbe riconosciuto a tale complessivo titolo alla Federconsorzi un importo di 8,5 miliardi che, alla data del 31 dicembre 1991, era stato aggiornato, per gli interessi nel frattempo maturati, a circa 34 miliardi.

    Non è noto, se e in qual modo sia stata data soluzione a tale controversia tra il Ministero e la Federconsorzi.

    Sono rimaste, inoltre, irrisolte tutte le altre questioni ancora in sospeso concernenti la complessa e intricata materia della rendicontazione delle altre gestioni e contabilità tenute dalla Federconsorzi, a cominciare da quella del cosiddetto conto transitorio cereali esteri, che non è stata mai presentata.

    Alla data odierna, a distanza di più di 40 anni, non è dato conoscere, con esattezza, quali risultati - positivi o negativi - essa abbia prodotto per il pubblico erario.

    9. La rendicontazione della gestione "quote unificate"

    La Corte dei conti espresse il suo parere con deliberazione delle SS..RR. del 21 aprile 1958, sul modello di rendiconto relativo a tale gestione, che concerneva le "quote" prelevate dal ricavo della vendita del grano ammassato sino alla campagna 1949/50 destinate a coprire le spese di gestione sostenute dai consorzi (cosiddetta "quota ammasso") .

    La Corte prescrisse che i rendiconti:

    - fossero accompagnati da una dettagliata relazione dell’ente gestore che illustrasse le risultanze del conto entrate ed uscite ed attestasse di aver controllato i risultati dei conti di finanziamento con quelli delle proprie scritture riscontrandone la conformità e la regolarità;

    - fossero successivamente esaminati dalla Commissione consultiva centrale con conseguente accertamento dei loro risultati definitivi e proposta di approvazione;

    - fossero, a tal fine, corredati dai decreti approvativi dei singoli rendiconti delle gestioni di ammasso a cui si riferivano, nonché di tutta l’altra documentazione atta a dare dimostrazione dei risultati esposti, con particolare riferimento agli estratti del conto corrente intrattenuto con gli istituti bancari ed a tutte le quietanze di versamento.

    Da una lettera del Ministero dell'agricoltura e foreste diretta alla Procura generale della Corte dei conti nel novembre del 1977, si evince che tali rendiconti, in numero di 29, riferiti a ciascuna delle suddette campagne e per ogni prodotto ammassato erano stati, a quella data, già presentati dalla Federconsorzi, ma che non era stato ancora possibile effettuarne l’esame da parte della Commissione consultiva centrale, essendo essi collegati, sotto il profilo amministrativo-contabile a quelli delle singole gestioni di ammasso tenute dai consorzi.

    A quella data, infatti, la questione della rendicontazione di tali ultime gestioni, per la gran parte, era ancora tutta da definire.

    Dal citato appunto del Ministero delle politiche agricole in data 4 maggio 2000, si rileva, tuttavia, che tale esame non è stato mai effettuato.

    La relativa documentazione sarebbe rimasta sempre nella disponibilità della Federconsorzi, poiché condizionata dalla risoluzione di una non meglio specificata problematica riguardante "(…) la misura degli interessi a debito dello Stato (…)", per la quale, in data 6 settembre 1999, sarebbe stato richiesto un parere all’Avvocatura Generale dello Stato.

    Tali rendiconti esporrebbero un disavanzo complessivo e, quindi, un debito dello Stato nei confronti della Federconsorzi, di lire 1.860 milioni alla data del 30 giugno 1963.

    10. La Rendicontazione della gestione CE.FA.PA.

    Tale gestione concerne la distribuzione e la vendita dei cereali ammassati da parte dei consorzi, il deposito, la distribuzione e la vendita dei cereali, nonché degli altri prodotti alimentari, importati dalla Federconsorzi attraverso le gestioni Cereali esteri alimentari di importazione, U.S.F.A.P. ed E.R.P., per le cinque campagne che vanno dal 1944/45 al 1948/49; essa riguarda, allo stesso tempo, la gestione della "quota distribuzione" prelevata dal ricavo della vendita del prodotto ammassato ed importato.

    Sul relativo modello di rendiconto, la Corte dei conti espresse il suo parere con nota del Presidente del 26 febbraio 1949, che, tuttavia, non è stato possibile reperire; si sa soltanto indirettamente, dalle varie risposte fornite dal Ministero dell'agricoltura e foreste ai numerosi rilievi formulati sul rendiconto n. 249 della gestione cereali esteri che, nella specie, la Corte richiese che ai rendiconti fossero allegati gli estratti dei conti correnti aperti presso le banche.

    10.1. Le fasi della rendicontazione e la situazione attuale

    Dalle varie relazioni trasmesse dal Ministero dell'agricoltura e foreste alla Procura Generale presso la Corte dei conti durante l’istruttoria a cui si è più volte accennato, si evince:

    - che nel maggio del 1967 i rendiconti erano stati presentati, che esponevano una differenza passiva di lire 213.784.199 che era stata portata a debito della successiva gestione Franco Molino (che ne costituiva la continuazione) e che la loro revisione era subordinata alla definizione dei risultati delle gestioni (alimentari di importazione, ammassi, cereali esteri, U.S.F.A.P. ed E.R.P.) da cui provenivano i prodotti distribuiti (note del 9 maggio 1967 e dell’8 maggio 1972);

    - che si trattava di 5 rendiconti, uno per ciascuna delle suddette campagne dalla 1943/44 alla 1948/49, e che erano state "(…) definite tutte le pendenze (…)" con la Federconsorzi (nota dell’8 novembre 1977); con tale frase si voleva, con ogni probabilità, intendere che (diversamente da quanto avvenuto per la gestione Franco Molino) non erano sorte contestazioni sull’importo riconosciuto alla Federconsorzi a titolo di compenso e di rimborso per le spese generali;

    - che il loro esame, alla data dell’11 novembre 1982, non era ancora iniziato, essendo condizionato alla preventiva approvazione dei rendiconti relativi alle suddette gestioni a quella data non ancora intervenuta (nota dell’11 novembre 1982); nell’occasione si trasmettevano, tuttavia, al suddetto Ufficio le copie dei frontespizi relativi a 3 dei suddetti 5 rendiconti (campagne dalla 1946/57 alla 1948/49).

    Dal più volte citato appunto del Ministero, in data 4 maggio 2000, si apprende, tuttavia, che la documentazione relativa a tali rendiconti, che da un’annotazione non firmata risulterebbe essere stata trasmessa dalla Federconsorzi in data 15 dicembre 1952, racchiusa in cinque casse, non sarebbe mai stata rinvenuta negli archivi del Ministero.

    In definitiva, ad oggi, non solo non risulta essere stata effettuata la revisione di tali rendiconti da parte del Ministero, ma deve escludersi che essa possa mai più essere effettuata, essendo andata smarrita, stando a quanto rappresentato dal Ministero, la relativa documentazione.

    11. La rendicontazione della gestione franco molino

    La situazione relativa a tale gestione non è dissimile da quelle precedenti.

    Come si è detto essa costituisce l’unificazione di due gestioni, concernendo, ad un tempo, per le quindici campagne che vanno dal 1949/50 al 1963/64:

    - la distribuzione e la vendita del grano ammassato da parte dei consorzi;

    - il deposito, la distribuzione e la vendita di quello importato dalla Federconsorzi attraverso la gestione cereali esteri;

    - la gestione della "quota ammassi", della "quota distribuzione" e della "quota caratteristiche", indistintamente prelevate dal ricavato della vendita del grano nazionale e di quello di importazione.

    Il modello di rendiconto - composto di un frontespizio riassuntivo e da 18 allegati - redatto previo parere della Commissione consultiva centrale, fu trasmesso dal Ministero dell'agricoltura e foreste alla Corte dei conti per il prescritto parere il 7 maggio 1963 e su di esso l’Istituto di controllo si espresse con deliberazione delle SS.RR. del 26 giugno successivo.

    La Corte oltre che formulare le stesse raccomandazioni espresse in occasione del parere reso sulla gestione quote unificate ed indicare la documentazione da allegare a corredo di ciascun allegato di cui il rendiconto si componeva, rilevò, nella specie, l’indebita inclusione nel modello sottoposto al suo parere di alcune voci di entrata ("controvalore delle caratteristiche merceologiche del grano importato") e di spesa ("spese per l’organizzazione e controllo degli ammassi", "spese per il concorso produttività" e "spese per il deposito di cereali e dei derivati di origine estera").

    Il parere veniva reso quando già oramai la gestione de qua era quasi conclusa, sicché le suddette voci di entrata e di spesa riflettevano, come d’altra parte esplicitamente indicato nella relazione che accompagnava la richiesta di parere, movimenti finanziari già effettuati e, dunque, somme indebitamente affluite alla gestione ed altrettanto indebitamente uscitene.

    La Corte raccomandò, quindi, che, a fini contabili, la voce di entrata fosse pareggiata istituendo nel conto stesso una correlativa voce di uscita e provvedendo con ogni sollecitudine ad accreditarne l’importo di ciascuna campagna al corrispondente conto della gestione di acquisto del prodotto (cereali esteri) al fine di ridurne la passività.

    Per quanto riguarda le uscite, auspicò la regolarizzazione a mezzo di apposite norme legislative, fermo restando che a medio tempore esse fossero comunque opportunamente documentate mediante l’allegazione di tutta la corrispondente documentazione.

    11.1 Le fasi della rendicontazione e la situazione attuale

    Le vicende relative alla rendicontazione della gestione che ne occupa possono, sinteticamente, così ricostruirsi, sulla base delle informazioni rese dal Ministero dell'agricoltura e foreste alla Procura contabile nel corso dell’istruttoria più volte richiamata:

    - nel novembre del 1967 risultavano essere stati presentati i sei rendiconti relativi alle prime campagne (dalla 1949/50 alla 1954/55), mentre per le restanti campagne erano state presentate "(…) dettagliate situazioni contabili (…)" non essendo state definite "(…) le misure di alcuni corrispettivi (…)" (nota del 9 maggio 1967);

    - tali rendiconti esponevano un avanzo di lire 42.325.396.546 che era stato trasferito, quanto a lire 35.971.569.620, alla gestione cereali esteri, quanto a lire 5.741.203.769 alla gestione ammassi e quanto a lire 612.623.157 alla gestione olio 1948/49; il loro esame non poteva essere iniziato sino a quando la Federconsorzi non avesse provveduto a rimettere i rendiconti relativi alla gestioni E.R.P. ed U.S.F.A.P., da essa predisposti, sicché la relativa documentazione era ancora conservata presso gli uffici dell’ente gestore (nota dell'8 maggio 1972);

    - i 9 rendiconti relativi alle successive campagne non erano stati, al novembre del 1977, ancora prodotti, avendone la Federconsorzi subordinato la loro presentazione alla determinazione dell’importo da riconoscerle a titolo di rimborso per spese generali e di compenso per il servizio reso; in ogni caso, l’esame di tali rendiconti non poteva essere iniziato prima che fossero stati revisionati ed approvati i rendiconti relativi alle gestioni provinciali di ammasso (note dell’8 maggio 1972 e dell’8 novembre 1977);

    - essendo stati questi ultimi rendiconti trasmessi - a seguito della sopracitata iniziativa della stessa Procura generale - in periodo immediatamente successivo, era stato dato mandato alla Commissione consultiva centrale di esprimere proposte sull’entità dell’importo da riconoscere alla Federconsorzi a titolo di rimborso spese generali e di compenso per l’attività svolta, che quest’ultima aveva autonomamente esposto nei rendiconti medesimi (nota del 12 aprile 1978);

    - alla data dell’11 gennaio 1982, né era stato ancora determinato tale importo, né era iniziato l’esame e il controllo dei quindici rendiconti presentati, poiché non erano state ancora definitivamente accertate le risultanze delle gestioni di provenienza della merce distribuita (nota dell’11 novembre 1982); nell’occasione, analogamente a quanto avvenuto per la gestione CE.FA.PA., venivano trasmessi all'Ufficio del Procuratore generale i frontespizi relativi ai quindici rendiconti.

    Sta di fatto che la revisione in via amministrativa di tali rendiconti non è stata in prosieguo mai iniziata, poiché, in ogni caso, anche per tali rendiconti la Federconsorzi non ha mai trasmesso la relativa documentazione.

    Nessun controllo è mai stato, quindi, effettuato sui rendiconti relativi a tale gestione, attraverso cui, è bene notare, sono transitate, così come nelle due precedenti, ingenti somme di danaro.

    12. Un importante e quasi sconosciuto processo penale presso il tribunale di roma

    Nell’autunno del 1965 alcuni uomini politici e pubblicisti che si collocavano nell’area del movimento liberal-progressista "Movimento Gaetano Salvemini" presentarono un esposto alla Procura generale della Repubblica di Roma: primo firmatario era Ernesto Rossi.

    Con tale esposto si denunciavano, facendo generico riferimento al contenuto di tre pubblicazioni ("Rapporto sulla Federconsorzi" di Manlio Rossi Doria; "La Federconsorzi" di Ernesto Rossi, Pietro Ugolini e Leopoldo Picardi; "Viaggio nel feudo di Bonomi" di Ernesto Rossi), che venivano trasmesse in allegato, numerose irregolarità che si attribuivano ai dirigenti della Federconsorzi nella gestione degli ammassi e dell’importazione di prodotti agricoli per conto dello Stato.

    I principali fatti denunciati, quali furono enucleati dalla magistratura dal contenuto dei tre scritti, erano i seguenti:

    - il ritardo - cioè lo sfasamento nel tempo - nei versamenti alle banche finanziatrici delle gestioni delle somme ricavate dalla vendita dei prodotti ammassati o importati e destinati a ridurre l’esposizione bancaria; in tal modo la Federconsorzi avrebbe disposto di cospicue masse di denaro distratte dalle destinazioni espressamente previste, con conseguente aggravio per l’erario cui le esposizioni facevano carico;

    - l’intenzionale ritardo nella presentazione dei rendiconti relativi alle varie gestioni di ammasso, allo scopo di impedire allo Stato l’esatta conoscenza del reale importo dei debiti derivanti da tali gestioni e, dunque, l’adozione di misure dirette alla rapida eliminazione di tali passività, così determinando il costituirsi, a vantaggio delle banche creditrici, di ingenti debiti produttivi di interessi cospicui e garantiti.

    12.1 L’archiviazione parziale

    Con decreto di archiviazione pronunciato dal giudice istruttore dottor Alibrandi, su conforme richiesta del pubblico ministero, in data 28 aprile 1970, la magistratura di Roma affermava che si trattava di accuse in gran parte prive di rilevanza penale ed infondate.

    In particolare, il giudice rilevava che: la tenuta di separate gestioni da parte della Federconsorzi e dei consorzi era stata imposta legislativamente; la distinzione tra i conti bancari, sempre generalmente attivi, pertinenti alle gestioni delle "quote" tenute dalla Federconsorzi, ed i conti bancari, sempre generalmente passivi, intrattenuti dai singoli consorzi per le gestioni di ammasso, era ineliminabile stante il sistema legislativo delineato che demandava distinti compiti all’una ed agli altri, aventi distinta personalità giuridica, sicché doveva essere impossibile ogni loro commistione.

    Con riguardo all’accusa di ritardo nella presentazione dei rendiconti relativi alla gestioni di ammasso, al quale era del tutto estranea la Federconsorzi, così come di quelli relativi alle gestione delle "quote" per le stesse campagne, di competenza invece, della Federconsorzi, riteneva che esso era imputabile esclusivamente alla circostanza della mancata emanazione delle leggi di ripiano per le campagne dalla 1953/54 alla 1961/62 e, dunque, in definitiva "(…) alla responsabilità delle forze politiche di maggioranza che non hanno saputo o voluto affrontare con chiarezza e decisione la questione (…)".

    Il ritardo nella presentazione dei rendiconti relativi alla gestione Cereali Esteri di competenza della Federconsorzi era addebitabile, secondo il magistrato, alle contraddittorie disposizioni ministeriali sulle modalità di impostazione della rendicontazione, che avevano dapprima imposto per le campagne successive al 1951/52 di provvedere, sulla base di emanande disposizioni legislative, ad una rendicontazione per campagna, e poi, una volta che i relativi disegni di legge non erano stati approvati, richiesto di tornare all’originario sistema di rendicontazione per tradotta o per vapore come originariamente previsto dal decreto legislativo n. 169/1948.

    12.2 I risultati delle indagini sulla questione degli "scartellamenti"

    Il procedimento di cui trattasi fu coltivato e formalizzato soltanto per uno dei fatti esposti e cioè per la vicenda degli "scartellamenti".

    Fu ipotizzato, a carico del Direttore generale e del Responsabile dei Servizi finanziari della Federconsorzi, delitto di peculato perché "distraevano a profitto della società e di terzi (gruppi e partiti politici) ingenti somme delle quali avevano il possesso (…) riscuotendo dalle Banche i cosiddetti premi di scartellamento sui depositi inerenti alle gestioni pubbliche anziché versarli all’Erario o conteggiarli a scomputo degli onerosi tassi di sconto pagati dallo Stato alle banche stesse a corrispettivo delle anticipazioni di credito".

    I temi dell’indagine, condotta dal giudice istruttore Alibrandi e fondata su accertamenti peritali, come si ricava dalla motivazione della sentenza di proscioglimento, pronunciata in data 10 maggio 1971, in difformità dalle richieste del pubblico ministero che ne aveva, invece, richiesto il rinvio a giudizio per il reato di peculato, furono i seguenti:

    Non sembra che, invece, furono oggetto di accertamenti, questioni che, a seguito del commissariamento e del concordato preventivo, appaiono ancora attuali ed importanti, costitute:

    Va subito chiarito che con il termine "cartello" si solevano indicare le disposizioni emanate dalla Banca d’Italia nelle funzioni di Ispettorato del credito e del risparmio, ai sensi della legge bancaria del 1938. Esse prevedevano i tassi massimi che potevano essere corrisposti sui depositi e quelli minimi che potevano essere richiesti sulle operazioni di impiego.

    Da ciò l’espressione "scartellamenti", ovvero extra cartello, per indicare tassi maggiori di quelli massimi e minori di quelli minimi.

    Successivamente tale termine passò ad indicare un accordo interbancario del medesimo contenuto.

    Gli scartellamenti e la retrocessione degli interessi erano tassativamente vietati dalle norme del cartello interbancario perché alteravano la concorrenza ed il regolare funzionamento del mercato bancario e della funzione creditizia.

    Le indagini accertarono che effettivamente la Federconsorzi aveva percepito da alcuni dei molti istituti bancari con i quali aveva intrattenuto rapporti, in relazione alle numerose gestioni di cui era stata titolare, interessi attivi integrativi, oltre quelli ufficialmente accreditati sui relativi conti correnti (cosiddetti "interessi extra cartello"), così come aveva beneficiato di sconti sugli interessi passivi e sulle commissione bancarie ufficialmente addebitati sugli stessi conti correnti (cosiddette "retrocessioni" di interessi e di commissioni) senza che tali integrazioni e retrocessioni fossero accreditati sui conti correnti relativi alle gestioni, o fossero esposti nei corrispondenti rendiconti presentati al Ministero.

    Di qui, l’imputazione di peculato, sul presupposto che tali somme fossero di pertinenza pubblica e fossero state distratte a profitto della Federconsorzi.

    In particolare si accertò:

    - che tali clandestine integrazioni e retrocessioni erano state riconosciute da quattro dei tredici istituti bancari con cui la Federconsorzi aveva intrattenuto rapporti e, per la precisione, dal Banco di Sicilia, dalla Banca nazionale del lavoro, dalla Banca Commerciale Italiana e dall’Istituto federale delle Casse di risparmio delle Venezie;

    - che il loro controvalore ammontava, nel complesso, a 2 miliardi e 164 milioni circa, dei quali ben 1 miliardo e 600 milioni circa erano stati corrisposti dalla sola Banca nazionale del lavoro;

    - che le erogazioni erano avvenute praticamente, pur esistendo differenze tra istituto ed istituto, durante tutto il periodo in cui si erano svolte le gestioni (e cioè nell’arco di circa 20 anni dal 1946 al 1966/67);

    - che le gestioni interessate erano per la parte più consistente quelle delle "quote" e/o di distribuzione (Franco Molino e CE.FA.PA.) e la gestione cereali esteri, nonché, ma soltanto in minima e trascurabile parte, le gestioni "olii, semi oleosi e grassi" e le gestioni di importazione legate a programmi di assistenza dell’immediato dopoguerra (U.S.F.A.P. e E.R.P.);

    - che, generalmente, le operazioni di "scartellamento" erano effettuate sui conti correnti cosiddetti di deposito (che comportavano, di regola saldi attivi) e cioè, soprattutto, su quelli sui quali affluivano le somme ricavate dalla vendita del prodotto nonché dal gettito delle "quote" di cui ai decreti legislativi luogotenenziali del 1945 e, dunque, pertinenti alle corrispondenti gestioni (quote unificate, CE.FA.PA. e Franco Molino), mentre le operazioni di retrocessione di interessi passivi e di commissioni bancarie erano effettuate per la maggior parte sui conti cosiddetti di finanziamento (che comportavano di regola saldi passivi) e cioè, essenzialmente, sui conti "vapore" o "tradotta" della gestione cereali esteri chiusisi con risultati negativi;

    - che questi ultimi conti venivano in considerazione ai fini della corresponsione delle maggiorazioni di interessi attivi soltanto in quanto alcuni istituti bancari avevano liquidato quegli interessi basandosi sul confronto tra i saldi attivi dei conti di disponibilità ed i saldi passivi dei conti di finanziamento.

    12.3 La sentenza di proscioglimento

    Il giudice istruttore prosciolse i due imputati da ogni addebito. Per comprendere le ragioni della decisione occorre seguire il percorso argomentativo del giudice, ricordando che gli enti gestori e cioè i consorzi e la Fedit, avevano l’obbligo di compilare rendiconti finali che dovevano essere approvati e liquidati dal Ministero dell’agricoltura.

    Di fondamentale rilevanza, è, inoltre, l’opinione del giudice secondo il quale il rapporto tra lo Stato e la Fedit si inquadrava nella concessione di un servizio pubblico e le somme di danaro di cui la Fedit beneficiò, secondo le modalità già evidenziate, non appartenevano allo Stato e quindi, non era configurabile il delitto di peculato.

    Le somme dovevano, comunque, essere esposte nei rendiconti perché riducevano gli oneri di gestione e, quindi, l’ammontare delle somme di cui la Fedit poteva, a rendiconto, chiedere il ristoro.

    Va osservato che il pubblico ministero, nel richiedere il giudizio pubblico per i due imputati, aveva invece sostenuto che si trattava di danaro pubblico perché gli interessi passivi retrocessi dovevano essere riversati sulla partita dei mutui e destinati ad affrontare quelle spese cui si provvedeva con quella forma di finanziamento; gli interessi attivi extra-cartolari dovevano essere portati a compensazione delle voci passive come gli interessi normali.

    Secondo il giudice istruttore i fatti accertati, se non costituivano delitto di peculato, non erano perciò stesso privi di rilevanza penale: "(…) E’ palese che, se un soggetto tenuto a rendere il conto omette volutamente di inserire nel rendiconto una posta attiva (le maggiorazioni di interessi passivi o le retrocessioni di interessi passivi e commissioni bancarie) (…) - sicché, se il conto si chiude in passivo ed egli vanta un credito, viene a chiedere una somma maggiore di quella che gli spetterebbe, mentre, se il conto si chiude in attivo ed egli risulta debitore, viene a dichiararsi debitore di una somma minore di quella che in realtà gli spetterebbe - quel soggetto ha posto in essere un artificio o raggiro idoneo ad indurre in errore il soggetto nei cui confronti il conto è reso (…)".

    L’omessa esposizione nei rendiconti dei maggiori interessi attivi e dei minori interessi passivi costituiva, infatti, a suo giudizio, artificio idoneo ad indurre in errore il Ministero dell’agricoltura ed a far conseguire alla Federconsorzi rimborsi indebiti perché maggiori di quelli dovutile.

    Considerato però che la truffa poteva configurarsi soltanto se ed in quanto fossero stati presentati i relativi rendiconti, costituendo tale adempimento l’unico strumento, giuridicamente idoneo, a perpetrare la truffa; che a quel momento, come si è già evidenziato, molti rendiconti non erano stati ancora presentati (ad esempio, tra i più importanti, per l’entità delle erogazioni che li avevano riguardati, i nove relativi alla gestione Franco Molino per le campagne dalla 1955/56 alla 1963/64) o, comunque, se erano stati presentati (ad esempio i 29 della gestione Quote Unificate o i 5 della gestione CE.FA.PA.), non erano ancora stati approvati, talché, per questi ultimi, si verteva, in ogni caso, in ipotesi di tentativo di truffa, gli imputati furono prosciolti per prescrizione del reato, in relazione alle illecite erogazioni che si riferivano a conti correnti concernenti le gestioni rendicontate e non ancora approvate, in quanto i rendiconti risultavano essere stati tutti presentati in data antecedente al decennio dall’emissione del mandato di comparizione; con la formula "perché il fatto non sussiste", in relazione alle illecite erogazioni che avevano riguardato conti bancari pertinenti a gestioni per le quali i rendiconti non erano stati ancora presentati.

    Rimaneva, tuttavia, accertata la falsità dei rendiconti e della documentazione.

    Le truffaldine operazioni poste in essere dalla Federconsorzi, disvelate nel corso del procedimento penale, non riguardavano le gestioni di ammasso stricto sensu, bensì quelle altre, per la maggior parte alle prime connesse, di cui era esclusiva titolare la Federconsorzi. Esse non avrebbero potuto, comunque, in alcun modo, essere rilevate dal controllo dei rendiconti da parte del Ministero o della Corte dei Conti, poiché le rimesse di denaro corrispondenti ai maggiori interessi attivi riconosciuti "extra-cartello" o alla retrocessione di interessi passivi o a commissioni bancarie ufficialmente addebitate, erano effettuate dalle banche per contanti, o mediante assegni o vaglia circolari, ovvero, ancora, mediante diretto accreditamento su altri conti correnti "privati" della Federazione.

    Nulla poteva risultare dagli estratti di conto corrente allegati (o, meglio che avrebbero dovuto essere allegati) ai rendiconti.

    Alla decisione, passata in giudicato, che pur tuttavia stabiliva l’esistenza di irregolarità miliardarie al valore di trenta anni or sono, ed evidenziava accordi occulti tra la Federconsorzi ed il sistema bancario, non fece seguito - per quanto noto - alcuna iniziativa di carattere amministrativo e contabile.

    Non risulta che il Ministero - potenziale parte civile nel processo - sia stato ufficialmente informato da parte dell’autorità giudiziaria ed abbia mai interloquito.

    Il Ministero dell'agricoltura e foreste non ha mai nemmeno iniziato le relative operazioni di controllo.

    Non consta che, delle risultanze acquisite nel corso del procedimento penale, sia mai stata informata la Procura generale presso la Corte dei conti, alla quale l’esposto che vi dette origine fu pur inviato, e che aveva finalizzato la sua azione essenzialmente alla presentazione dei rendiconti.

    Una volta che tale obiettivo fu raggiunto, mediante l’inoltro alla Corte dei conti dei rendiconti delle gestioni di ammasso ancora pendenti presso il Ministero dell'agricoltura e foreste e la resa da parte della Federconsorzi di quelli di sua pertinenza che non erano stati, a quell’epoca, ancora presentati alla stessa Amministrazione, archiviò la complessa istruttoria svolta.

    Qualche anno dopo un secondo, analogo, esposto, a firma del senatore Anderlini, del gruppo della Sinistra indipendente, e di altri, attivò nuovamente la magistratura di Roma.

    Le indagini furono affidate ai carabinieri che chiesero informazioni alla stessa Federconsorzi. Riemerse, in tal modo, la questione.

    Ne fu riferito dal direttore generale Scotti al Comitato esecutivo della Fedit e così la Federconsorzi si interrogò finalmente - circostanza che sintetizza da sola, efficacemente, come la Federconsorzi fosse amministrata e come fosse controllata - sul se si dovessero versare allo Stato ed in particolare al Ministero dell’agricoltura le somme indebitamente ricevute.

    Fu deciso, dopo circa 14 anni, di procedere alla restituzione dell’indebito. "Il Presidente propone che di tale fatto sia data immediata comunicazione al Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste, precisando che, pur non condividendo l'assunto del Giudice Istruttore (cfr. supra n.d.r.) circa l'attribuibilità alle gestioni condotte per conto dello Stato di qualsiasi parte delle somme come sopra corrisposte dagli Istituti di Credito alla Federconsorzi e pur esprimendo la ferma convinzione che tali somme sono di esclusiva spettanza della Federconsorzi e da essa a tale esclusivo titolo ed in buona fede ricevute, si dichiari la disponibilità, anche allo scopo di pervenire ad una sollecita definizione delle gestioni di cui trattasi, a trasferire a credito delle gestioni statali interessate gli importi risultanti dalla sentenza in parola.

    In considerazione poi della circostanza, chiaramente risultante dalla sentenza predetta, che diversi importi non sono attribuibili ad una specifica gestione, propone che si prospetti l'opportunità che l'importo globale venga accreditato ad un conto di un'unica gestione oppure ad un conto speciale, unitamente agli interessi relativi, richiedendo al Ministero di conoscere le determinazioni che riterrà di adottare al riguardo.

    Dopo approfondita discussione (…) il Comitato Esecutivo condivide le proposte fatte dal Presidente, approvando altresì l'operato dello stesso sin qui svolto, nonché il testo della lettera - che viene letto - che al riguardo dovrà essere inviata al Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste".

    Gli accertamenti penali si rifecero al giudicato.

    Da un promemoria senza firma in data 30 gennaio 1992, coevo alla gestione commissariale, sembra evincersi che la Federconsorzi avrebbe restituito al Ministero la quota capitale pari a 1,8 miliardi e gli interessi pari a ben 8 miliardi.

    Non consta che cosa sia realmente accaduto.

    I riflessi dei fatti descritti ed accertati sulla regolarità e fedeltà dei bilanci e della contabilità della Fedit sono evidenti.

    Non si è potuto stabilire, per mancanza del tempo necessario, se i maggiori ricavi e i minori costi furono registrati fedelmente o se, invece, si trattò di operazioni occulte ed, infine, l’esistenza di tracce della eventuale destinazione delle somme a partiti e gruppi politici.

    Deve, in conclusione, per una corretta visione della storia della gestione della Fedit riaffermarsi che, incontrovertibilmente, i rendiconti presentati dalla Fedit al Ministero dell’agricoltura fino al 1971 erano falsi e che era stata falsificata la documentazione di supporto con la complicità delle banche.

    Sembra, quindi, alla Commissione che le accesissime contestazioni di tecnici e di alcune parti politiche alla gestione degli ammassi non fossero affatto infondate.

    13. Osservazioni finali

    L’illustrazione, per grandi tratti, delle vicende relative alla rendicontazione delle sopraindicate gestioni svolte dalla Federconsorzi, della loro genesi e dei complicati meccanismi attraverso cui esse si sono intrecciate nel tempo a quelle di ammasso in senso stretto, consente di meglio comprendere, in un quadro sufficientemente completo, il ruolo della Federconsorzi nella gestione degli ammassi.

    La Federconsorzi non fu direttamente coinvolta nelle gestioni di ammasso vere e proprie, delle quali erano esclusivi titolari i singoli consorzi.

    Nondimeno, per le sue finalità statutarie di ente esponenziale e rappresentativo dei vari consorzi e, soprattutto, per i compiti ad essa demandati di distribuzione delle "quote", nonché della gestione dell’importazione, ha finito per svolgervi un ruolo essenziale e predominante.

    Essa ha, nei fatti, materialmente gestito tutti gli ingenti flussi finanziari che le gestioni di ammasso hanno prodotto.

    Limitatamente ai soli rendiconti relativi alle gestioni degli ammassi in senso stretto, non può muoversi alcun sostanziale rilievo né in ordine al loro contenuto né alla loro completezza.

    La regolarità, dal punto di vista documentale, dell'attività svolta dai consorzi e, conseguentemente, l’effettività dei risultati definitivi delle gestioni, quali sono stati esposti nei rendiconti, deve ritenersi accertata.

    Va, comunque, rammentato che i controlli sulla gestione avevano natura cartolare, consistendo non in una verifica fisica di quanto rappresentato, ma della sola regolarità della documentazione.

    Essi non possono, quindi, per loro natura, garantire la effettività delle operazioni e dei costi ed escludere alterazioni e frodi, di cui, tuttavia la Commissione non ha rinvenuto indizi.

    E’ certo, tuttavia, che la Federconsorzi non ha mai allegato ai rendiconti di sua competenza la relativa documentazione, così impedendo, di fatto, che potesse essere accertata la regolarità, ancorché da un punto di vista meramente cartolare, delle operazioni in essi esposte.

    I rendiconti devono, pertanto, ritenersi, tuttora, non completi.

    Per quanto concerne la gestione dell’importazione dei cereali esteri, la Federconsorzi ha presentato 2.498 rendiconti e cioè uno per ciascun vapore o tradotta.

    Ben 1.214 relativi alle importazioni effettuate sino alla campagna 1950/51, erano privi della documentazione di supporto, costituita dagli originali degli estratti di conto corrente. Quelli relativi al periodo successivo, in numero di 1.284, erano, invece corredati dalla richiesta documentazione.

    La Corte dei conti, ammise al visto i 1.284 decreti che approvavano i rendiconti, ai quali risultavano allegati gli originali degli estratti di conto corrente, mentre restituì non registrati gli altri 1.214.

    A seguito del provvedimento di data 20 aprile 1989 con il quale la Corte dei conti, sul rilievo della mancata esibizione degli estratti conto, ne negò la registrazione - il Ministero, con provvedimento del 3 agosto 1993, dopo quattro anni, annullò di ufficio tutti i propri decreti di approvazione dei rendiconti della gestione esteri - ed invitò la Fedit a ripresentarli al tasso di interesse dello 0,50 per cento annuo.

    La questione riguarda i tassi d’interesse praticati dalle banche alla Fedit che dovevano conformarsi alla convenzione interbancaria.

    La Fedit esibì le convenzioni contenenti l’indicazione dei tassi ma non i sottoconti e gli estratti conto perché, come si è visto, non poteva farlo, avendo stipulato convenzioni "speciali".

    Il Tribunale amministrativo regionale ha, nell’anno 2000, rigettato il ricorso della Fedit avverso il provvedimento assunto in autotutela.

    Non è stata mai presentata la rendicontazione delle altre gestioni e contabilità tenute dalla Federconsorzi, a cominciare da quella del cosiddetto conto transitorio cereali esteri.

    A distanza di più di 40 anni, non è dato conoscere, con esattezza, quali risultati - positivi o negativi - essa abbia prodotto per il pubblico erario.

    Per quanto concerne la gestione CE.FA.PA., e cioè la distribuzione e la vendita di cereali ammassati dai consorzi, la documentazione relativa a tali rendiconti, che da un’annotazione non firmata proveniente dal Ministero delle risorse agricole risulterebbe essere stata trasmessa dalla Federconsorzi in data 15 dicembre 1952, racchiusa in cinque casse, non è stata più rinvenuta negli archivi del Ministero.

    Infine, per quanto concerne la gestione "Franco Molino", alla data dell’11 gennaio 1982 non era iniziato l’esame e il controllo dei quindici rendiconti presentati, poiché non erano state ancora definitivamente accertate le risultanze delle gestioni di provenienza della merce distribuita.

    Sta di fatto, che la revisione in via amministrativa di tali rendiconti non è stata in prosieguo mai effettuata poiché anche per tali rendiconti la Federconsorzi non ha mai trasmesso al Ministero la relativa documentazione.

    La Federconsorzi, prima ancora dell’accertamento definitivo delle risultanze della suddetta gestione e dalla formale approvazione dei relativi rendiconti, ha, tuttavia, autonomamente, quanto illegittimamente, prelevato dai conti bancari, le somme che il Ministero aveva riconosciuto in suo favore.

    Nessun controllo, quindi, è mai stato effettuato sui rendiconti relativi a tale gestione, attraverso cui, è bene notare, sono transitate, così come nelle due precedenti, ingenti somme di danaro.

    La Federconsorzi, con la complicità di alcune banche, falsificò una parte della documentazione relativa alle gestioni di sua competenza e gli stessi rendiconti presentati fino all’anno 1971.

    A parere della Commissione solo una specifica e mirata indagine del Parlamento potrebbe consentire di pervenire ad un definitivo accertamento di fatti che si consegnano alla storia d’Italia con un permanente forte grado di oscurità che non sarebbe difficile far cessare.