Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

38ª SEDUTA

MERCOLEDI 15 LUGLIO 1998

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

prima parte

seconda parte

 

Prima parte

Indice degli interventi

PRESIDENTE
GIOVINE
CORSINI (Dem.di Sin.-l'Ulivo) deputato 1 - 2
FRAGALA' (AN), deputato 1 - 2
MANCA (Forza Italia), senatore
TARADASH (Forza Italia), deputato 1 - 2 - 3 - 4
ZANI (Dem.di Sin. - l'Ulivo), deputato

La seduta ha inizio alle ore 19,45.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.

Invito l'onorevole Taradash a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

TARADASH, segretario f f , dà lettura del processo verbale della seduta dell'8 luglio 1998.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

 

COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE

PRESIDENTE. Comunico che, dopo l'ultima seduta, sono pervenuti alcuni documenti, il cui elenco è in distribuzione, che la Commissione acquisisce formalmente agli atti dell'inchiesta.

 

INCHIESTA SUGLI SVILUPPI DEL CASO MORO: AUDIZIONE DELL'ONOREVOLE UMBERTO GIOVINE

Viene introdotto l'onorevole Umberto Giovine

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'inchiesta sugli sviluppi del caso Moro, l'audizione dell'onorevole Umberto Giovine.

Ringraziamo l'onorevole Giovine per la sua disponibilità ad essere audito dalla Commissione. Naturalmente, trattandosi di un collega parlamentare, non possiamo che procedere in sede di libera audizione. L'onorevole Giovine avrà capito le ragioni per cui l'Ufficio di Presidenza della Commissione ha deciso di verificarne la disponibilità ad essere audito. Le ragioni sono in dichiarazioni che recentemente l'onorevole Giovine ha rilasciato all'Adnkronos. Ne do lettura, perché vorrei che innanzitutto l'onorevole ci confermasse se queste dichiarazioni sono state rese: "Durante il sequestro Moro il generale Dalla Chiesa riuscì ad entrare in contatto con elementi di Autonomia e delle Brigate rosse. Questi ultimi, anche se non direttamente coinvolti nel rapimento dello statista, fornirono al generale indicazioni utili per la trattativa e per le indagini. Lo rivela all'Adnkronos Umberto Giovine, all'epoca direttore della rivista "Critica Sociale" ed oggi deputato di Forza Italia. "Dalla Chiesa" - prosegue Giovine, che nel 1978 insieme all'avvocato Giannino Guiso gestiva a Milano i contatti con l'Autonomia - "utilizzò un margine di manovra tramite Craxi, potendo così attivarsi pur non essendo ancora stato nominato a capo dell'Antiterrorismo. In quel periodo il generale si attivò moltissimo per liberare Moro, aveva conoscenze interne molto vaste, era in grado di suscitare le confidenze dell'Autonomia e dei brigatisti non direttamente coinvolti nel sequestro. Ma, dato che vi era un'area di osmosi tra questi ambienti, egli riuscì a sfondare un pezzo di quel muro che lo divideva dalla prigione del presidente della Dc". "Ma a chi riferiva Dalla Chiesa, - domanda il giornalista - visto che non aveva incarichi ufficiali durante i cinquantacinque giorni del sequestro?" "Non riferiva a nessuno" - afferma ancora l'ex direttore di "Critica sociale" - e questo lo rendeva prezioso. Fu Craxi a dargli qualche possibilità e sarebbe bene che la Commissione Stragi su questo lo andasse a sentire ad Hammamet"". (Io su questo ho dichiarato, come voi ricorderete, che questa è una delle ragioni per cui abbiamo deliberato l'audizione di Craxi ad Hammamet). Sulla trattativa per liberare Moro, Umberto Giovine aggiunge altri particolari. Ad esempio che: "Autonomia aprì diversi fronti a Milano, a Roma e a Bologna. Io mi occupavo dell'area milanese insieme all'avvocato Guiso e ci accorgemmo di essere seguiti e controllati. Sotto casa mia stazionavano due auto giorno e notte. Non avevamo incoraggiamenti. In ogni caso avemmo diversi incontri e ricevevamo messaggi che sapevamo provenire da Morucci. A Bologna, probabilmente, qualcuno cercò di avvertire i professori della seduta spiritica. I contatti non erano mai diretti; mandavano una persona, che sapevamo rischiava la vita incorrendo nelle rappresaglie dell'ala più dura delle Br. L'estremo tentativo lo facemmo pochi giorni prima del 9 maggio, nel carcere di Torino. Guiso parlò con Curcio, tentando di strappargli un appello, ma non riuscì a convincerlo". Vorrei innanzitutto chiedere all'onorevole Giovine se conferma di aver dato queste dichiarazioni all'Adnkronos.

GIOVINE. Sì, con due precisazioni di dichiarazioni che non ho fatto e che sono state sommariamente riportate. Per quanto riguarda Bologna, la giornalista ha confuso. Io ho solo espresso una opinione, che era già corrente sulla stampa circa la famosa questione della seduta spiritica. Non sono assolutamente a conoscenza di alcuna attività dell'Autonomia a Bologna, che anzi mi risulta fosse molto modesta. Quindi, quella non è una dichiarazione su cose che io so, ma semplicemente su sentito dire.

PRESIDENTE. Una ipotesi che coincide con quella che personalmente avevo formulato in una proposta di relazione. E’ una deduzione logica.

GIOVINE. Ecco, quindi la fonte è il Presidente, non sono io. Non per scaricare la responsabilità, ma per distinguere dalle altre dichiarazioni. La seconda, che è invece una inesattezza piuttosto grave, riguarda Morucci. All'epoca né io, né probabilmente altri, sapevamo neanche chi era Morucci. Quindi, noi abbiamo svolto questa trattativa parlando nel vuoto e dal vuoto ricevendo delle risposte, ma assolutamente non in grado di stabilire nome e cognome di chi poteva essere la fonte. A tutt'oggi non si è certi che Morucci abbia avuto un ruolo per la parte opposta, perché quantomeno non ha spiegato quali e come fossero i suoi contatti con questa osmosi dell'area dell'Autonomia. Quindi, non ho detto che io conoscessi Morucci o che sapessi che era Morucci l'autore delle controproposte - chiamiamole così - che ci arrivavano. A parte questo, l'intervista è estremamente corretta.

PRESIDENTE. Però effettivamente c'era una persona che sapevate rischiava la vita incorrendo nelle rappresaglie dell'ala più dura delle Br, con le quali avevate rapporti.

GIOVINE. Più di una direi: tutti quelli che in qualche modo si sono esposti a darci una mano correvano un duplice rischio, quello di essere oggetto di vendetta in quanto accusati di delazione da parte dei duri e quello di essere semplicemente arrestati dalla Forza pubblica, e questo rischio queste persone lo hanno corso. Poi oggi sappiamo meglio qual era l'articolazione all'interno dell'ambito da cui nasce il rapimento del presidente Moro, allora le cose apparivano più schematiche. Oggi sicuramente vediamo le cose con maggiore conoscenza di causa, ma in sostanza queste persone hanno rischiato parecchio.

PRESIDENTE. Lei non ritiene di farcene i nomi?

GIOVINE. All'epoca il mio ruolo era quello di direttore, insieme ad Alfassio Grimaldi, della rivista "Critica sociale", una piccola rivista però molto autorevole nell'ambito socialista in quanto fondata da Filippo Turati e Anna Kulisciof. Quindi, in qualche modo l'ideologia del riformismo socialista ha sempre ruotato attorno alla "Critica sociale" di Turati, Kulisciof, poi di Mondolfo e Faravelli; io sono stato l'ultimo direttore "non partitico" di quella rivista. Conseguentemente, in quanto direttore e in quanto giornalista professionista, ho garantito fino ad oggi la copertura delle fonti. Devo dire però che, pur rispettando l'etica professionale, non è poi così difficile, mettendo insieme l'immensa pubblicistica arrivata dopo sul caso Moro e anche - se posso dire - le firme degli autori di articoli espliciti usciti sulla rivista "Critica sociale", indagare maggiormente. Dubito però che le persone direttamente coinvolte possano dire di più di quello che ci dissero all'epoca. In base alle cose che ci dissero, le azioni che facemmo comunque non ottennero il risultato che ci eravamo proposti, cioè liberare Aldo Moro.

PRESIDENTE. Aggiungo che, riflettendo su tutte queste vicende dalla prospettiva di ciò che oggi sappiamo, capisco perché poi lei abbia, sia pure in forma dubitativa e non assertiva come ha riportato l'agenzia, ritenuto che il contatto con l'interno delle Br potesse essere Morucci. Sono noti, per esempio, i rapporti di Morucci con Pace e il ruolo che Pace svolse a Roma nei contatti che ebbe con esponenti del partito socialista. Lei questo non l'aveva mai scritto prima?

GIOVINE. No, mi ero posto un embargo di venti anni su questa faccenda. Su altre cose l'embargo è di trent'anni, su questa era di venti anni perché ritenevo, a torto, che in venti anni comunque si sarebbero sapute le cose che c'erano da sapere. Siccome non è avvenuto così, sono lieto di dare un piccolo contributo alla Commissione.

PRESIDENTE. Sì, che però consiste nel darci conferma di una valutazione che personalmente avevo fatto basandomi su dati diversi, e cioè che la impermeabilità delle Brigate rosse era relativa e che ci fosse un’osmosi tra il mondo delle Br e il mondo dell'Autonomia, cioè fra i pesci e l'acqua in cui i pesci nuotavano.

GIOVINE. La valutazione del presidente è sicuramente giusta.

PRESIDENTE. Quello che mi ha colpito è il fatto che lei attribuisce al generale Dalla Chiesa un rapporto con questo mondo permeato o contiguo alle Brigate rosse. Potrebbe dirci di più su questo? Recentemente abbiamo ascoltato il generale Bozzo, che all'epoca dei fatti, come colonnello o capitano, era uno dei più stretti collaboratori di Dalla Chiesa, e lui ci avrebbe escluso qualsiasi attività del generale per la liberazione di Moro, dato che in quel momento non ricopriva incarichi istituzionali per intervenire.

GIOVINE. Ho anche chiesto a Nando Dalla Chiesa, che tra l'altro è un collega parlamentare, se suo padre avesse mai parlato in famiglia di questo. Certo, un ufficiale dei carabinieri forse non parla di tutto in famiglia, ma poteva essere del tutto legittimo che ne avesse fatto cenno. Nando Dalla Chiesa mi ha detto che non ne sapeva niente. Però mi sono anche chiesto io stesso come avessimo rafforzato nel tempo questa opinione, che già allora era molto forte, circa un intervento del generale Dalla Chiesa. Essa derivava da due elementi: il primo era certamente il rapporto tra il generale Dalla Chiesa e Bettino Craxi, che era un rapporto molto stretto. Posso testimoniare quanto fosse stretto. Quando l'avvocato Guiso mi confermò che sul versante romano (bisogna infatti distinguere questo versante da quello milanese) Dalla Chiesa era stato coinvolto da Craxi, non ebbi difficoltà a credergli. E gli credetti soprattutto per il fatto che Dalla Chiesa non aveva ruolo per intervenire: infatti se l'avesse avuto difficilmente avrebbe potuto essere coinvolto nella nostra iniziativa, in quanto la posizione dei socialisti, o comunque del segretario del PSI Craxi, rispetto a quella trattativa era in contraddizione con la posizione del Governo. Pertanto difficilmente il generale avrebbe potuto intervenire. La sua relativa libertà si accompagnava poi ad una conoscenza delle Brigate rosse probabilmente non eguagliata da nessun altro in Italia: aveva arrestato Curcio ed aveva infiltrato le Brigate rosse, com'è documentato. Quindi il suo intervento in qualche modo ufficioso, sollecitato da Craxi, era del tutto legittimo. Anzi, mi sarei meravigliato del contrario, cioè che se ne fosse lavato le mani. Un altro elemento che avvalorò la mia convinzione fu il fatto che il colonnello Giovannone, che, per quanto ne so, con Dalla Chiesa non aveva rapporti, dimostrò anni dopo una buona conoscenza del ruolo svolto dal generale Dalla Chiesa. Questo fatto mi stupì.

PRESIDENTE. Giovannone era un uomo dei Servizi.

GIOVINE. Sì. Era rimasto molto toccato dalla vicenda perché era l'uomo di fiducia di Aldo Moro in Medio Oriente. Era un uomo di grandissime capacità che conobbi in circostanze fortuite nel 1981 o nel 1982. Ebbene, Giovannone era a conoscenza del ruolo svolto dal generale Dalla Chiesa pur non essendoci alcun rapporto tra lui, tra i Servizi ed il generale. Questo confermò nella mia opinione un intervento da parte del generale. Ma quel che è più importante è che erano di questa opinione i nostri interlocutori nell'Autonomia: erano loro a "credere" in Dalla Chiesa.

PRESIDENTE. Di questo rapporto tra personaggi dell'Autonomia e Dalla Chiesa lei ha scienza diretta perchè le è stato riferito da uomini dell'Autonomia stessa o perché ha avuto contatti con Dalla Chiesa?

GIOVINE. Ho avuto contatti occasionali con Dalla Chiesa prima e dopo il sequestro Moro, ma non durante.

PRESIDENTE. Allora come fa a sapere che essi avevano contatti con Dalla Chiesa?

GIOVINE. Su questo deve parlare in modo definitivo soprattutto Craxi, perché è lui ad avere conoscenza del ruolo diretto svolto sul versante romano.

PRESIDENTE. Ma prendiamo per buona l'ipotesi peggiore, cioè che non riusciamo a parlare con Craxi, anche se speriamo di farlo: ci dica lei da dove deriva questa certezza.

GIOVINE. Nell'ultima fase, molto animata e per noi abbastanza drammatica dei tentativi, tutti inutili, di superare quel muro che ormai, era inevitabile riconoscere, si era creato contro la liberazione di Moro, cioè nei venti giorni che vanno dal falso comunicato del lago Duchessa al comunicato n. 9, quello "del gerundio", che annuncia l'inevitabile esecuzione, la "trattativa" con le Brigate rosse si era spostata dall'iniziale richiesta di uno scambio di prigionieri politici (l'ultimo nome che si fece fu quello della detenuta Besuschio) alla richiesta di modifiche nei trattamenti carcerari riservati ai brigatisti. Ci trovammo di fronte a cambiamenti drammatici in questa "trattativa" che in realtà si svolgeva con l'area con la quale eravamo in rapporti, che dimostrava di essere a sua volta in rapporti con l'area dei brigatisti rapitori di Moro o dei loro collaboratori. Occorre infatti fare una differenza, perché c'era anche un'area delle Brigate rosse che non ne era a conoscenza: Curcio e Franceschini, che erano in carcere, credo non sapessero assolutamente niente; a tutt'oggi ne sono ancora convinto. Ebbene quest'area, evidentemente interessata a una soluzione positiva della vicenda, spostò la "trattativa" dalla liberazione dei prigionieri al miglioramento dei trattamenti carcerari per i brigatisti. Questo apriva possibilità insperate perchè il generale Dalla Chiesa era responsabile della sicurezza nelle carceri: ecco quale fu il teorema che noi vedemmo. Dalla Chiesa non era soltanto un profondo conoscitore delle Brigate rosse e quindi per questo da loro apprezzato (va infatti considerata anche questa mentalità di tipo militare delle Brigate rosse), ma era anche l'uomo in grado di fare concessioni sul versante carcerario e di farle brevi manu, con la disinvoltura - lo dico in senso positivo - che era noto Dalla Chiesa usasse, a differenza di altri. Pertanto non c'era soltanto la conoscenza del fatto che il generale Dalla Chiesa era innestato nell'attività che noi mettevamo in opera sul versante romano, ma c'era anche la richiesta della controparte di ottenere una modifica del trattamento carcerario, di quello che Dalla Chiesa chiamava "il circuito dei camosci", che consisteva nel trasferimento dei detenuti da un carcere di sicurezza ad un altro: questo creava estreme difficoltà perché era un regime carcerario molto duro e quindi era particolarmente sentita dai brigatisti l'instabilità dovuta ai continui trasferimenti. Il generale Dalla Chiesa lo chiamava così, non chiedetemi il perché: non lo so. Non voglio fare alcun paragone tra le Brigate rosse e la mafia, ma, in quanto carcerati, gli esponenti di queste due organizzazioni hanno avuto pulsioni simili: appare pertanto comprensibile che le richieste fatte allora per i brigatisti carcerati fossero non troppo dissimili da quelle che fa oggi certa parte dei detenuti mafiosi. Queste sono le ragioni per cui Dalla Chiesa risultava avvalorato ai nostri occhi come interlocutore che poteva fare concessioni ai brigatisti e come uomo di cui questi "si fidavano".

PRESIDENTE. Che vi fossero contatti vi fu riferito da questi uomini dell'Autonomia con cui eravate in contatto o fu una vostra intuizione?

GIOVINE. Il contatto di Dalla Chiesa (che fu indiretto: dubito fosse diretto) fu determinato da Craxi.

TARADASH. Questo lo ha sentito da Craxi o dagli uomini dell'Autonomia?

GIOVINE. Deve essere lui ad avvalorare questa tesi. Anche Guiso non penso potrebbe dire di più, ma forse varrebbe la pena di ascoltarlo su questo specifico punto.Poi rimane soltanto Craxi. Ma nell'ipotesi negativa che faceva prima il Presidente, il coinvolgimento generico di una persona esperta sulle Brigate rosse come Dalla Chiesa e su una questione specifica come la possibile trattativa in ordine ad eventuali concessioni carcerarie, questa fu una scoperta nostra sul versante milanese. Ci rendemmo conto che quello era un terreno sul quale si poteva trattare.

PRESIDENTE. Ci sta dicendo due cose: la prima che Craxi nella sua autonomia politica assunse una iniziativa che a mio personale avviso colpisce non sia stata assunta da quelli che avevano responsabilità istituzionali...

GIOVINE. E’ inutile che le dica che sono d'accordo con lei.

PRESIDENTE. Cioè io sono rimasto colpito del fatto che si chiamavano veggenti, rabdomanti e direttori di enciclopedia e non si chiamavano invece il maggior esperto di terrorismo, che, insieme a Santillo, era Dalla Chiesa, perché desse sia pure informalmente un contributo alle indagini. E’ indubbiamente un problema che abbiamo, anche perché l'attuale generale Bozzo ci ha riferito che gli uomini del gruppo di Dalla Chiesa furono fatti venire a Roma ma restarono assolutamente inutilizzati, tant'è vero che la sera se ne andavano al cinema perché non sapevano bene cosa dovevano fare. La seconda cosa che lei ci dice è che Craxi non ha detto al verità alla commissione Moro, perché lui in quella sede minimizzò al massimo questo suo contatto con l'Autonomia, addirittura dicendo che non sapeva nemmeno bene chi fosse Lanfranco Pace e che aveva avuto dei contatti molto fugaci portando quindi avanti soltanto un'iniziativa di puro programma politico.

GIOVINE. Posso chiederle, Presidente, la data della deposizione di Craxi alla commissione Moro?

PRESIDENTE. Le posso dare questa indicazione, comunque essa avvenne quando era in funzione la commissione Moro e quindi abbastanza nell'immediatezza del fatto.

GIOVINE. Sono convinto che il tempo in alcuni casi fa riacquistare la memoria e che quindi forse oggi la posizione di Craxi... Non dico che le cose che ha detto non siano vere, può darsi benissimo che non conoscesse nome e cognome delle persone con cui trattava, ma Craxi mise in piedi a Roma una trattativa in piena regola, con anche quelle misure di sicurezza che ci consentirono di eludere la sorveglianza molto stretta, da me dichiarata anche nell'intervista citata dal presidente, degli organi di Polizia. Il senatore Andreotti mi ha fatto l'onore, in un'intervista radiofonica alla quale anch'io ho partecipato, di riconoscere questa nostra abilità nel momento in cui disse che la forza pubblica aveva cercato di seguire Guiso ma che "una volta i nostri uomini lo avevano seguito in metropolitana a Milano e lui all'uscita aveva preso una macchina, andando via con qualcuno, e quindi lo si era perso". Avevo predisposto lo quella operazione; al capolinea della metropolitana 1 di Milano, sapendo che era seguito, noi eravamo lì con la macchina, prendemmo Guiso e lo portammo via, se ricordo bene, da Monsignor Bettazzi, vescovo di Ivrea, che aveva fatto una sua generosa ma fantasiosa proposta di cui la stampa si è di nuovo occupata, anche di recente. I contatti tra me e Craxi all'epoca - io a Milano lui a Roma - furono ridotti al minimo.

PRESIDENTE. Craxi fu sentito dalla commissione Moro il 6 novembre del 1980.

GIOVINE. Non ho bisogno di aggiungere altro perché la data parla da sé: siamo lontani anni-luce e si può capire che un politico nel pieno delle sue funzioni cercasse di minimizzare qualsiasi ruolo potesse essere al di fuori dell'immagine che dava di se stesso.

PRESIDENTE. Sì, perché il problema che sorge e che in qualche modo riguarderebbe sia pure in maniera minore anche lei e l'avvocato Guiso è che probabilmente le informazioni sulla trattativa sarebbero state suscettibili di un'utilizzazione da parte degli apparati di sicurezza non per portare avanti la trattativa ma per arrestare qualcuno ed arrivare alla prigione di Moro.

GIOVINE. Lei dice questo, Presidente, perché ne è convinto o mi sta facendo una domanda per sapere la mia opinione?

PRESIDENTE. Questa è una mia valutazione. Ritengo che la divisione tra partito della fermezza e partito della trattativa abbia portato da un lato il partito della fermezza a restare fermo - e non era proprio il modo di assumere un atteggiamento di fermezza -, e questo riguarda l'intero partito della fermezza senza esclusioni, dall'altro a far sì che il partito della trattativa fosse così impegnato nel raggiungere l'obiettivo politico della conclusione della trattativa da non dare alcuna collaborazione agli apparati di sicurezza per fare invece operazioni di Polizia e rintracciare la prigione.

GIOVINE. Ha perfettamente ragione. L'idea di collaborare con gli apparati di sicurezza non mi è neanche passata per la testa all'epoca; oggi sarei ancora più convinto di questo. La nostra convinzione, allora, che non si volesse trovare la prigione di Moro e che il comunicato del Lago della Duchessa fosse una costruzione dei Servizi - su cui poi, Presidente, vorrei dire ancora qualcosa - era molto solida al riguardo, ed ha avuto conferma in tutte le istanze dei processi successivi. Gli apparati di sicurezza, almeno quelli di cui eravamo a conoscenza, erano interessati a una sola cosa, impedire la trattativa.

PRESIDENTE. Non rintracciare la prigione?

GIOVINE. No, perché avevano mezzi di farlo, se avessero voluto. Il collega Fragalà ha già esposto, e sicuramente, Presidente, egli è ben più a conoscenza di me di tutte le prove che ci sono al riguardo. Io non voglio insistere sul fatto dell'intestazione degli appartamenti di Via Gradoli, voglio parlare di cose che la Commissione non conosce non di quelle che già sa, però c'è una messe di informazioni tale, come l'intestazione al compianto dottor Parisi e tante altre cose... Ma potrei aggiungere a ciò che l'intero ambiente del Ministero dell'interno appare inquinato, e perciò inefficace nell'azione. Giustamente il Presidente dice che si è chiesto a rabdomanti e a direttori di enciclopedia; è vero, ma in questa corte dei miracoli c'erano poi anche, come in tutte le corti dei miracoli, veri protagonisti. Pensiamo al ruolo di Michael Ledeen, che entrava e usciva dal Viminale in quei giorni. Michael Ledeen non è uno qualsiasi, ma è forse il più esperto, non teorico ma pratico, della disinformazione americana. Michael Ledeen peraltro è anche un intellettuale apprezzato: è lui per esempio l'autore dell'intervista a De Felice sul fascismo. All'epoca del caso Moro era uno dei più abili giocatori di poker a Roma. E’ l'uomo che ha congegnato il cosiddetto "Billygate", cioè che ha incastrato il fratello del presidente Carter con una operazione in Libia di altissima scuola fra i cosiddetti "dirty tricks".

PRESIDENTE. Insieme a Pazienza.

GIOVINE. Ma Pazienza è un ragazzo di bottega rispetto a Michael Ledeen, e io ho citato solo una delle sue imprese. E poi chi troviamo all'altro capo del telefono quando Craxi parla col presidente Reagan la notte di Sigonella? Michael Ledeen, che traduce per Reagan. Ho citato solo due episodi: Ledeen è un uomo di punta di tutto l'ambiente che grava intorno al generale Alexander Haig, personaggio cruciale dell'ambiente nixoniano, uomo poi caduto sull'affare Iran-Contras, il cui ruolo è centrale.

PRESIDENTE. Quindi, mentre l'amministrazione Carter manda Pieczenik, lei dice che i circoli nixoniani facevano un'operazione opposta?

GIOVINE. , Ledeen, ripeto, ha contatti con il giro di Alexander Haig, che è un giro particolare, di una massoneria particolare e di Servizi di un certo tipo, come del resto è noto alle cronache. Michael Ledeen è uomo che il ministro Cossiga fa entrare direttamente nella vicenda Moro: non mi interessano i rabdomanti e la corte dei miracoli, ma che, all'interno di questi vi sono anche gli uomini forti. Michael Ledeen è un uomo forte in questo tipo di azione. E’ mai stato chiesto il suo ruolo? E’ mai stato chiesto a Cossiga perché si è rivolto a Michael Ledeen? Perché lo ha mandato, con quale scopo? Scusatemi questa valutazione politica, ma altri come lui possono essere stati coinvolti da Cossiga, di cui neanche sappiamo i nomi.

PRESIDENTE. E’ difficile un colloquio con il presidente Cossiga: per aver avanzato dubbi in questo senso mi ha definito un mascalzone politico. Questo troncava qualsiasi possibilità di dialogo costruttivo. Un'ultima cosa sull'episodio del Lago della Duchessa: la mia personale valutazione è che aveva ragione Moro, che lo definì più o meno letteralmente una tragica messa in scena della sua futura esecuzione, quindi un modo per capire quali sarebbero state le reazioni popolari nell'ipotesi di una sua uccisione. Lei ha una versione ulteriore?

GIOVINE. Io posso dire questo. Appena leggemmo quel comunicato capimmo subito che non era un comunicato delle BR, non ci voleva una grande abilità semantica.

PRESIDENTE. Si sa pure che l'idea originaria era del dottor Vitalone.

GIOVINE. Che la rivendica e dice che Cossiga forse ha seguito il suo consiglio a riguardo. Io non sono in grado di valutarlo, però certamente noi all'epoca a Milano eravamo costretti a diventare degli esperti di comunicati delle BR. I comunicati arrivavano in una libreria del centro, la libreria Calusca, gestita da un personaggio geniale e stravagante, oggi defunto: Primo Moroni. Lì era una specie di porto delle nebbie: arrivavano i volantini, arrivavano i giornalisti e arrivavamo noi per vedere. Era una zona franca che anche Polizia sapeva che andava lasciata libera perché altrimenti i comunicati non avevano modo di arrivare. Lì quindi arrivavano i comunicati; quello del Lago della Duchessa è tutto eccetto che un comunicato delle BR e, ripeto, lo si capì immediatamente. Insisto, passarono venti giorni e niente accadde. E’ argomento su cui tra l'altro mi sembra sia intervenuto il brigatista latitante Casimirri in una recente intervista che ha rilasciato fra l'altro ad un mio collaboratore di allora, Guglielmo Sasinini di "Famiglia cristiana". Casimirri avvalora l'ipotesi che già allora Morucci fosse di questa ala e sostiene che il rapimento Moro fu comunque organizzato qualche settimana o due o tre mesi prima e quindi che tutta l'area attorno alle Brigate rosse ne fosse a conoscenza. Noi abbiamo trattato con quell'area che quindi non era estranea - come erano Curcio e Franceschini per ragioni di detenzione - ma anzi aveva partecipato alla fase di costruzione di questo rapimento. Riteniamo quindi che chi ha fatto quel comunicato lo ha fatto per motivi precisi.

PRESIDENTE. Questo possiamo darlo per acquisito, e credo che così la pensi l'intera Commissione. Vorrei farle un'ultima domanda. Sono rimasto sempre colpito dai tempi e dai modi con cui Dalla Chiesa entra nel covo di Via Monte Nevoso e trova le carte di Moro. Secondo lei, l'idea che fosse stato monitorato il percorso delle carte e che quindi Dalla Chiesa sapesse che erano arrivate da poco a Via Monte Nevoso quando poi finalmente partì quel blitz che egli stesso aveva ritardato, mentre poi dette il via, è un'ipotesi attendibile?

GIOVINE. E’ attendibile, ma non ho le prove per sostanziarla, perché sul percorso di quelle carte c'è ancora qualche punto oscuro. Voglio anche aggiungere, per dire quali erano e quali sono tuttora i nostri limiti, che l'area dell'Autonomia che ha trattato con noi era un'area non marxista-leninista, ma un'area, direi, anarchica che faceva capo alla cosiddetta "Croce nera" anarchica, grande fornitrice di informazioni all'epoca del libro "La strage di Stato": era questo che ce la accreditava come ambiente serio. Questo ambiente era completamente all'oscuro su quanto è avvenuto dopo, in relazione alle carte di Via Monte Nevoso, e quindi le nostre fonti a quel punto non valevano più niente.

MANCA. Credo di sapere già in anticipo la risposta che lei potrà dare alla mia domanda, ma la faccio comunque. Perchè non ha mai sentito l'esigenza, durante e dopo i contatti che aveva con quelli di Autonomia, di avvisare la polizia, in modo da dare un qualche contributo che poi potesse portare addirittura anche a individuare la prigione di Moro? Si è mai posto il problema di cercare di inserirsi nel discorso ufficiale per dare un contributo alla soluzione almeno di una parte del problema?

GIOVINE. La risposta è duplice. Innanzitutto ero, e lo sono ancora di più oggi, convinto che qualsiasi contributo avessi dato sarebbe stato usato per intenti opposti. Del fatto che il partito della fermezza volesse solo stare fermo - come ha detto il Presidente - eravamo assolutamente convinti. La seconda risposta è più articolata: non ero assolutamente convinto che i nostri interlocutori fossero a conoscenza di questo particolare; anzi devo dire francamente che ritengo tuttora che loro ne avessero soltanto una vaga idea.

PRESIDENTE. Di quale particolare?

GIOVINE. Di dove si trovasse Moro.

MANCA. Questo sì, ma alle volte da cosa nasce cosa, da un anello nasce un altro anello e poi si forma la catena.

GIOVINE. Posso rispondere a questa domanda con le parole pronunciate pochi giorni fa dall'allora Presidente del Consiglio Andreotti: "E’ vero - ha detto in un convegno al Senato - che lo Stato era debole e impreparato". Cioè la debolezza dello Stato, il precedente smantellamento degli apparati più efficienti e la situazione politica certamente non favorevole al raggiungimento della verità erano cose note a chiunque si occupasse di politica. Io non ho mai fatto politica attiva fino ad ora, ma ero al corrente di queste cose. Che esistesse una cosiddetta linea Cossiga-Pecchioli non l'ho inventato io ora, ma lo si è detto venti anni fa; la nostra rivista pubblicò due opinioni importanti di "trattativisti", sia pure con vari distinguo: una di Galloni, che dette un'opinione sul PCI molto chiara circa il perché il Partito comunista fosse obbligato ad essere assolutamente duro e cieco, dato che aveva questa contiguità, che ovviamente non voleva, specialmente nella zona emiliana, con le Brigate rosse (tutte cose già risapute); ed una del defunto onorevole Riccardo Lombardi che sosteneva, in modo direi speculare, che se la DC avesse avuto il senso dello Stato, che non aveva, non avrebbe avuto problemi ad affrontare anche le trattative. Sulla mia rivista ho pubblicato (e la lascerò alla Commissione per puro interesse giornalistico) una rassegna che abbiamo fatto immediatamente, a caldo, dimostrando che in tutti i casi di rapimento nel mondo si era trattato, compresi quelli israeliani. Una cosa è dire che non si tratta, altra cosa è trattare. Prima del raid di Entebbe ci fu trattativa. Anzi, più uno Stato è forte, quindi più vuole fare sul serio, più tratta, non fosse altro che per prendere tempo. Voglio citare un'altra cosa impressionante: in Canada addirittura si trattò dopo un assassinio commesso da parte del Front de libération québequois.

Per noi che conoscevamo queste cose a livello internazionale la situazione era insopportabile. Non potevamo crederci, e in seguito ci siamo rimproverati, chiedendoci cos'altro avremmo potuto fare, chiedendoci perché non eravamo scesi in piazza. La verità è - mi si consenta di dirlo - che c'era un vero regime. Si parla anche oggi di regime, ma vorrei riportare la mente a venti anni fa. Purtroppo quello che si venne a creare, per una serie di circostanze, era un vero e proprio regime. Per noi che eravamo all'opposizione in questo regime la sensazione era precisa. Per avvisare la polizia per me sarebbe stato sufficiente aprire la finestra e chiamare gli agenti. Per fortuna tempo dopo ebbi modo di parlare con il capo del servizio che mi aveva sorvegliato, che era un conterraneo cilentano di mio padre, il quale mi raccontò anche i particolari; ci incontrammo in piazza in quel paese al Sud e mi raccontò tutto. Non ho quindi neanche alcun dubbio sugli intenti che c'erano allora nel Governo. Certamente non dicevano ad un maresciallo quali erano quegli intenti, ma egli era abbastanza bravo da capirli. Voglio aggiungere un'altra considerazione: che la situazione fosse altamente pericolosa lo dimostrò la comparsa, nel periodo del fatto Moro, di un personaggio di nome Volker Weingraber. Questo personaggio, che ora è sotto processo su richiesta dei servizi segreti tedeschi, era un agente provocatore tedesco utilizzato per azioni di infiltrazione nell'ambiente anarchico in Germania, rimasto poi coinvolto nell'assassinio di un anarchico, che era stato spedito in Italia in condizioni non chiare, ma che l'allora ministro Cossiga non poteva non conoscere (ora va di moda questa locuzione retorica). Perchè Volker Weingraber venne in Italia? E’ mai possibile che un servizio alleato mandi un agente provocatore senza dirlo agli omologhi servizi italiani? E’ impossibile! Ed ecco che Weingraber viene da me chiedendo di fare un'edizione tedesca delle nostre ricerche per accreditarsi lui in Germania (oggi lo sappiamo, ma allora no) presso gli ambienti della sinistra. Egli era stato introdotto da ambienti della sinistra extraparlamentare. La rivista "L'Espresso" ha fatto due inchieste su di lui e ci sono gli atti di un processo: egli si infiltrò in questo ambiente in modo abbastanza articolato. Per puro caso andò ad abitare nello stesso palazzo dove abitava anche Walter Tobagi, ma non ritengo che questo abbia un nesso con la morte di quest'ultimo. Ci fu inoltre un movimento di presenze, anche provenienti dalla parte sovietica. Non dimentichiamo infatti che il senatore Pecchioli era uomo di fiducia dell'Unione sovietica, era persona di fiducia di Boris Ponomarev: dobbiamo allora cercare di contestualizzare la cosa. Ponomarev era l'uomo che teneva d'occhio l'Italia, e non solo. Quando Andreotti, mi pare nel 1977, andò in Urss e i sovietici gli chiesero notizie circa il materiale nucleare nella base de La Maddalena, secondo il suo interlocutore sovietico Andreotti gli rispose, a sua giustificazione, che gli americani avevano creato la base senza dirgli nulla. Questo era il clima. Mentre Andreotti diceva questo, risultano ora agli atti, non solo stando a quanto pubblicato dalla rivista russa "Stolica", ma anche negli archivi sovietici, proseguivano i rapporti tra Pecchioli e Ponomarev. Nel frattempo Michael Ledeen entrava al Quirinale (ed è l'uomo di Haig). A questo punto, signor Presidente, andare a cercare i "grandi vecchi" non ha molto senso, in quanto era tutto un pullulare di personaggi dell'Est e dell'Ovest...

PRESIDENTE. Sarà che io tendo ad un'eccessiva semplificazione, però sono portato a distinguere le posizioni e le responsabilità politiche dalle posizioni e responsabilità istituzionali. Che ci potesse essere una decisione politica di rifiuto della trattativa e che questo possa portare ad un giudizio politico e ad eventuali responsabilità politiche è un conto; che però apparati istituzionali che avevano il dovere istituzionale di rintracciare la prigione e liberare l'ostaggio non lo abbiano fatto, ci fa fare un salto molto maggiore nella gravità del giudizio.

GIOVINE. Certo, Presidente, ma non spetta a me ricordare alla Commissione l'esistenza di qualcosa che lega alcuni personaggi di questa storia: nomine fatte ai vertici dei Servizi e delle Forze armate concordemente effettuate dalle persone, precedentemente nominate, appartenenti ad una unica lobby massonica. Messaggi che passano nelle Forze armate che talvolta non sono ordini o fonogrammi ma sono del tipo di quelli avanzati dal Conte Zio dei Promessi Sposi: "troncare, sopire"; basta questo perché un'inchiesta si fermi; perché qualcuno non indaghi o non si dia troppo da fare. E’ ben vero che Dalla Chiesa arrestò Curcio ma poi fu rimosso dall'incarico; non lo dimentichiamo. E’ una lezione che ha avuto una sua influenza sulle gerarchie.

PRESIDENTE. Ciò mi induce ad insistere nel considerarle mascalzonate politiche.

GIOVINE. Concordo con lei; ma con conseguenze letali anche sulle gerarchie militari.

MANCA. Si sa che l'avvocato Guiso - credo in un suo libro - ha scritto che lei cercò di interloquire o, comunque, di ottenere un intervento internazionale a favore della trattativa, rivolgendosi a Willy Brandt. Questo personaggio però non ritenne di farlo. Potrebbe riferirci di che natura era questo intervento da lei auspicato?

GIOVINE. Ho avuto ottimi rapporti con il Presidente Brandt; ero con lui a Varsavia nel 1970: si ricorderà la famosa foto di Brandt inginocchiato davanti al monumento della rivolta nel ghetto quando era cancelliere; io da studente avevo abitato vicino a quel monumento, in Ulica Aniclewicza. Un monumento storico. Fui poi con Brandt nell'Internazionale socialista quando divenne Presidente, ricoprendo al suo interno degli incarichi. Sul perché Brandt non sia intervenuto posso limitarmi a dare un mia interpretazione, anzi due: la prima è che si fosse reso conto che non era possibile fare niente; allora era già Presidente dell'Internazionale; non era più cancelliere perché dimessosi nel 74 a seguito di un'operazione di "incastramento", di cui fu vittima grazie ad un agente dell'allora Repubblica democratica tedesca di nome Guillaume, e non senza qualche conoscenza se non addirittura approvazione dei servizi occidentali, cioè americani. La seconda ragione - legata alla prima - per cui Brandt non è intervenuto è perché questi è sempre stato sospettato - si direbbe - sia nel suo paese sia presso ambienti politici occidentali, particolarmente statunitensi: nel suo paese perché non si è apprezzata mai la sua resistenza al regime nazista ed il suo "fuoriuscitismo" in Norvegia; egli fu in Norvegia durante la guerra (sua moglie era norvegese). Per molti tedeschi tale atteggiamento era imperdonabile; pur essendo Brandt molto popolare il suo "sospetto fuoriuscitismo" lo rendeva molto prudente nel trattare certe questioni internazionali, anche se si potrebbe pensare l'opposto essendo egli Presidente proprio dell'Internazionale. Ognuno però ha i propri limiti e lui aveva questo. Il secondo motivo era che rimaneva molto antipatico a molti ambienti statunitensi perché sospetto di collusione con i sovietici. La Ostpolitik, vista dagli europei come un grande progresso, era invece interpretata, da alcuni ambienti americani, per esempio quelli che facevano capo al generale Haig e, soprattutto, al generale Dick Vernon Walters, poi ambasciatore all'Onu, personaggio chiave di tutta la politica americana dal '64 in poi (che ha deposto recentemente tra l'altro a discarico del senatore Andreotti). Vernon Walters è un uomo chiave in molti avvenimenti dal Brasile all'Italia; era addetto militare in Italia durante la guerra; fu l'unico a proporre nel 1961 l'eventualità di un intervento anche armato dalle basi americane in Italia nel caso di avvento al Governo dei socialisti. Un personaggio insomma molto interessante. Questi ambienti sospettavano Brandt di essere ricattato dai sovietici; questo limitava notevolmente sulle questioni delicate come era sicuramente quella di Moro il raggio di azione di Brandt; in particolare se si ricorda che era rimasto vittima a sua volta di un'operazione internazionale come quella dell'agente Guillaume...

MANCA. Capisco le ragioni per cui secondo lei non è intervenuto; la mia domanda era però che tipo di intervento ha chiesto a Brandt.

GIOVINE. In quel caso non si trattava del settore trattative, piuttosto di quello enunciazioni; sia con Brandt poi con altri personaggi -Craxi fece intervenire anche Amnesty international - sia con Curcio (ruolo dell'avvocato Guiso) si cercò di ottenere delle dichiarazioni che rafforzassero l'ala più disponibile delle BR - o quelle che noi ritenevamo tale e che oggi siamo certi fosse tale - ed influenzassero con il loro peso l'andamento delle cose, visto che da parte dello Stato (e del Vaticano) non si arrivava a niente. Una dichiarazione forte di Brandt, essendo persona accetta alla sinistra in generale, certamente sarebbe servita, anche se non ad alcun scopo pratico. Il segretario dell'Onu Kurt Waldheim intervenne per esempio a titolo di amicizia per Moro. La dichiarazione di Curcio invece era più importante e tuttora sono molto perplesso su questo episodio perché fu l'ultimissimo tentativo fatto, sapendo dell'impossibilità che Curcio, Franceschini e gli altri sapessero alcunché. (La forza pubblica un'operazione intelligente la fece ma non ebbe esito; l'arresto del brigatista Piancone poteva costituire un legame ma lui non c'entrava niente con i rapitori, per cui tutto finì lì). Curcio non era noto come persona particolarmente dura di cuore; non ha mai ucciso nessuno, anzi ha subito un dramma familiare per la sua militanza politica. L'avvocato Guiso, avvocato delle Brigate rosse, come tutti gli avvocati tendeva a rappresentare anche la posizione politica delle Brigate rosse con una certa convinzione e capacità che gli ho sempre riconosciuto...

PRESIDENTE. Una dichiarazione di Curcio a favore della trattativa avrebbe aperto una più profonda contraddizione...

GIOVINE. Assolutamente. Perché non fu fatta la dichiarazione? Devo purtroppo dire una cosa di cui non vado orgoglioso ma di cui non mi pento: avevo detto all'avvocato Guiso - vorrei che lui lo confermasse ma magari non lo farà - di andare a parlare con Curcio, tenuto conto di questi personaggi e dubitando quindi che lui avrebbe da solo preso il coraggio di fare una dichiarazione; lo Stato era talmente ottuso su questo aspetto che onestamente non avevamo nulla da proporre a Curcio. In cambio di cosa potevamo chiedere alcunché? Certo, vi era la questione delle carceri; dissi pertanto all'avvocato Guiso di recarsi da Curcio, di non coinvolgerlo direttamente nella questione; ormai la gente è abituata a vedere in te - gli dicevo - non soltanto l'avvocato ma anche il portavoce dei brigatisti; esci e fai tu una dichiarazione', non imbrogli nessuno; non dici che Curcio ti ha detto che...; dirai tu qualcosa. Il clima all'epoca era tale che una dichiarazione dell'avvocato Guiso all'uscita delle carceri di Torino avrebbe avuto un forte impatto. Evidentemente quello che Curcio disse a Guiso in quell'occasione fu tale da scoraggiare l'avvocato Guiso dal parlare. L'avvocato Guiso pertanto non disse niente; però deve essere lui a spiegare il motivo della sua scelta perché ci tolse l'ultimissima possibilità di agire. Avevo convocato i media alla porta del carcere. Tutto inutile.

FRAGALA’. Innanzitutto la ringrazio della sua disponibilità e dell'aiuto che ci sta dando non soltanto nell'analisi ma soprattutto nella rappresentazione di una vicenda che dopo 20 anni appassiona ancora non soltanto la nostra Commissione ma soprattutto l'opinione pubblica. Con il generale Dalla Chiesa e con Craxi si pose il problema del perché gli apparati investigativi antiterrorismo in Italia tra il 1976 e il 1978 furono completamente smantellati? Perché infatti il nucleo antiterrorismo di Santillo fu sciolto? Perché Dalla Chiesa e il suo nucleo antiterrorismo furono mandati a casa nonostante che il pericolo del brigatismo rosso fosse enormemente presente e nonostante che Dalla Chiesa avesse ottenuto dei successi eccezionali nel 1974 e nel 1975? Quale fu l'analisi politica di questa volontà da parte dello Stato di smantellare, alla vigilia del sequestro dell'onorevole Moro, tutti gli apparati investigativi antiterrorismo?

GIOVINE. Per le discussioni che facemmo all'epoca e che furono molto precise (rileggendo gli articoli di allora vedo che si era capito forse più di ora che abbiamo perso il senso di quell'epoca) non c'è dubbio che il clima politico negli anni fra le elezioni amministrative del 1975 - se vogliamo una data precisa - e l'affare Moro era un clima che forse oggi abbiamo dimenticato, ma che certamente non spingeva a rafforzare gli apparati dello Stato che garantissero, nelle frasi del rapporto del prefetto di Milano Mazza, "una lotta equanime contro gli opposti estremismi". Ricordo che la sola menzione del termine "opposti estremismi" causò una ribellione nella intellighentia italiana pari a quella che suscitò nei militanti dei gruppi di estrema sinistra, e nella sinistra in generale, devo dire francamente: non fra i socialisti. Per dare un'idea di come poi cambiò questa situazione (però intanto erano avvenuti dei fatti che il collega Fragalà ha ricordato), quando venne a Milano Gunther Grass, uomo altamente gradito alla sinistra, un simbolo, un grande scrittore, amico di Brandt, parlò al circolo De Amicis, che era un po' il luogo d'incontro della sinistra riformista milanese con il Club Turati. In Germania c'era una sfasatura rispetto all'Italia: avevano già avuto la Baader-Meinhof, erano già stati sottoposti ad un forte stress, si erano già resi conto del rischio che c'era a non combattere in modo uguale a destra e a sinistra gli estremismi. Quando Gunther Grass, pur avendo - ripeto - una platea inizialmente molto favorevole - la sala era stracolma - si azzardò a dire che bisognava che lo Stato fosse forte come in Germania stava diventando per combattere contro l'estremismo di sinistra, suscitò una sollevazione. Ricordo un intervento di Giorgio Bocca, che era già molto noto allora, il quale prese a male parole Grass, e solo grazie alla traduttrice queste parole non vennero tradotte in tedesco. Ma la sollevazione, di cui Bocca fu la mosca cocchiera, ruolo che gli è congeniale, fu di tutti, tutti quelli che si chiamavano allora i radical chic. Di lì a qualche tempo cambiò il clima anche in Italia, ma nel frattempo il danno, ad avviso di chi come noi poi protestò contro questa "fermezza" che era in realtà inerzia dello Stato, era già fatto. Che poi il filo che lega certi uomini, messi a capo di quelle strutture oramai svuotate, fosse il filo di una lobby politica, non sta a me giudicare; certo è impressionante la coincidenza, ma ciò è già stato indagato in questo Parlamento. Certamente la cosa venne valutata già allora nei suoi aspetti e tutte le testimonianze venute dopo dimostrano che c'è una finestra che si apre tra il 1975 e il 1978, periodo nel quale accadono una serie di fatti devastanti. Noi intervistammo per "Critica sociale" un personaggio che era tabù all'epoca, Randolfo Pacciardi, che ci raccontò delle cose molto interessanti su questo aspetto. Lui aveva buone informazioni, essendo stato per cinque anni Ministro della difesa e avendo fatto crescere alcuni personaggi poi diventati importanti nelle Forze armate. Certamente vi fu un intento di smantellamento, o comunque di controllo, e il controllo lo si ottiene di più se le strutture sono deboli che non se sono forti e in grado di reagire al controllo politico. (Il 25 aprile 1975, militari in divisa e partigiani sfilarono insieme al Campo di Marte. Fu un segnale?).

FRAGALA’. Ha risposto in modo esauriente. La mia seconda domanda vuole essere anche una riabilitazione della memoria del maresciallo Leonardi, che più volte è stato ingiustamente attaccato. Quando lo Stato, con la scorta di Moro in via Fani, quel 16 marzo, si presentò con le armi nel portabagagli, non fu il frutto di una superficialità o di un pressappochismo della scorta, ma fu invece il portato di un clima per cui lo Stato aveva smantellato tutte le strutture e la scorta di Moro era una specie di accompagnamento, di status symbol, e non una protezione effettiva. Era questo il clima?

GIOVINE. Certo, peggio che uno status symbol: era esporre degli uomini della forza pubblica ad essere dei bersagli destinati. Perché quando non c'è la copertura generale questo naturalmente avviene, e purtroppo è avvenuto. D'altra parte, ho citato prima le parole del senatore Andreotti dette a pochi passi da qui qualche giorno fa: "lo Stato era debole". Ma come si spiega che questo Stato debole, anni prima avesse avuto successi consistenti - torno a Dalla Chiesa - nella lotta al terrorismo? Com'è che è diventato debole tutto ad un tratto? Ed era poi uno Stato che, se andiamo indietro nel tempo, altri successi li aveva avuti. Io scrissi nel 1974 un libro sul banditismo nel dopoguerra, e devo dire che si sono fatte delle cose importanti. Evidentemente era una debolezza, non voglio dire indotta, ma certo improvvisa e imprevista; ma non imprevista dalle BR, che si erano addestrate appunto per questo. Ora il senatore Andreotti, con l'ironia che gli riconosco, qualche giorno fa ha detto testualmente: "Quanto al partito della trattativa, non è che ne ho visti poi tanti allora; deve essere un partito con retrodatazione della tessera". Dice una verità: che fossimo pochi all'epoca ce ne rendemmo drammaticamente conto. Quando andammo a fare l'inchiesta e raggruppammo sotto "Critica sociale" tutti quelli che erano d'accordo, trovammo a destra e a sinistra, ma pochi, nell'ambiente laico e cattolico: nessuno voleva esporsi. Pertini era contrario, per dirne uno, altri erano estremisti che non volevano né lo Stato né le BR, quindi ci consideravano trattativisti al servizio dello Stato. Era veramente un clima che non vorrei si riproducesse in Italia. Concordo con la valutazione fatta dall'onorevole Fragalà.

FRAGALA’. Il professor Silvestri è venuto qualche giorno fa a dare testimonianza di una sua collaborazione in un inesistente comitato di crisi. Poi abbiamo scoperto che era una consulenza ed una collaborazione che gli aveva chiesto a titolo personale il senatore Cossiga durante quel periodo: e il professor Silvestri ci ha confermato una valutazione, che poi ha affidato ad una intervista l'esperto americano Pieczenik, che era stato mandato dalla CIA e dagli americani in Italia per operativamente collaborare alla individuazione del covo e alla liberazione di Moro. Ebbene, il professor Silvestri ci ha dato questa valutazione, che Pieczenik, con cui lui aveva una particolare vicinanza in quel periodo, andò via dall'Italia quando si rese conto che il partito della fermezza non era indirizzato né a salvare l'ostaggio, o a liberarlo, né ad individuare il luogo della prigione, ma serviva esclusivamente a tutelare il quadro politico; così ha detto il professor Silvestri. Ora io le chiedo questo: allora voi che vi battevate per la trattativa e per la liberazione di Moro (noi poi abbiamo ascoltato Cossiga, che ha detto praticamente la stessa cosa) avevate avuto la sensazione, o addirittura la conoscenza, di fatti che avessero il significato preciso che non si volesse andare in fondo nella liberazione di Moro perché bisognava salvaguardare il quadro politico, quello del compromesso storico, o addirittura bisognava soprattutto salvaguardare il Partito comunista? In una parola, voi avevate saputo che i precedenti contatti tra l'onorevole Pecchioli e il generale Maletti, quando Maletti era capo dell'Ufficio D dei nostri servizi, erano contatti che avevano avuto poi una determinata influenza negli apparati di informazione e anche di sicurezza dello Stato? E se questi contatti tra Pecchioli e Maletti durante l'affaire Moro vennero fuori e furono portati a vostra conoscenza come elementi determinanti perché l'affare Moro si conducesse in un certo modo piuttosto che in un altro?

PRESIDENTE. Mi scusi, onorevole Fragalà, ma che ruolo aveva Maletti durante l'affare Moro?

FRAGALA’. Nessuno; sto parlando dei contatti precedenti - l'ho detto - che ci sono stati rivelati dal generale Maletti a Johannesburg. Desidero che lei risponda, se ha elementi in merito, su quanto le ho chiesto.

GIOVINE. Che ci fosse un intento preciso di salvaguardare un ambito politico era evidente fin da prima che si arrivasse al dramma del rapimento di Moro. Quando si crea una condizione così inedita per un paese occidentale come quella oggi nota come "compromesso storico", è molto importante per chi la pone in atto ridurre il dissenso ai minimi termini; di qui anche la partecipazione dei socialisti, che non avrebbero normalmente né voluto né dovuto partecipare ma che poi parteciparono perché non potevano non partecipare. Quindi c'era tutto un insieme...

FRAGALA’. Che lei ha chiamato regime.

GIOVINE. Che lo chiamo regime e che è diventato drammatico quando è venuta fuori una questione come l'affare Moro, ma che c'era anche prima. Sostenere una situazione politica, poi, attraverso l'utilizzo di alcuni apparati e lo smantellamento di altri apparteneva a quella "guerra per bande", purtroppo ancora oggi non ignota per altri settori in Italia, che vedeva contrapposti a livello terminale uomini come Maletti o come Miceli. E’ il caso di ricordare che Miceli era uomo di fiducia di Moro, e che Andreotti ha più volte criticato questa fiducia di Moro in Miceli.

PRESIDENTE. Anche qui in Commissione.

GIOVINE. L'attività investigativa della "Critica sociale", che per sua natura era una rivista ideologica, iniziò se ricordo bene, con l'affare Eni-Petromin; fui costretto a penetrare in questo groviglio nell'affare Eni-Petromin. Ero in possesso di carte sul modo di operare dell'Eni...

PRESIDENTE. Però in gran parte era un problema interno al PSI.

GIOVINE. Lo era in gran parte, però coinvolgeva trasversalmente anche correnti democristiane. Fu allora che, almeno a mia conoscenza, venne fuori per la prima volta questo contrasto: si crearono secondo me all'epoca dell'affare Eni-Petromin degli spartiacque che sono poi rimasti. Ripeto, la fiducia di Moro in Miceli, la lotta che gli fece Maletti ed il coinvolgimento di Maletti, tramite il defunto Pecchioli, in certa parte di questi assetti ha sicuramente un ruolo; mi rifaccio ancora alla testimonianza su questo argomento del colonnello Giovannone, che considero molto attendibile, perché non era uomo che parlava a vanvera, anzi, parlava pochissimo ma quel poco che diceva secondo me lo diceva giusto. Parlò con me, tra l'altro, per sostenere che lui con l'affare Eni-Petromin non c'entrava niente; ora mi ricordo anche perché andai ad incontrarmi con Giovannone. Oggi che abbiamo anche le carte attendibili di parte sovietica - non parlo di quelle meno attendibili, che sono un po' di tutti i colori - su quelli che erano i rapporti anche logistici fra l'apparato controllato politicamente da Boris Ponomarev e logisticamente dal KGB - il cui terminale, inizialmente in Piemonte e poi a livello nazionale, era il senatore Pecchioli, al quale faccio riferimento soltanto perché le cose di cui parlo sono già acclarate. D'altra parte il senatore Flamigni è già intervenuto diverse volte, ed io contro di lui, su questo argomento - esse creano una diramazione di cui è difficile non vedere la conseguenzialità. Inoltre rimane sempre agli atti la dichiarazione del generale Torrisi di essere in possesso della ricevuta del conto pagato alla pizzeria qui vicino ("La Capricciosa") dove gli fu offerta la carica, che poi ebbe, di Capo di Stato maggiore con la benedizione di Pecchioli, alla presenza anche di alcuni autorevoli colleghi ed ex colleghi dell'allora PCI. Quindi non c'è bisogno di andare molto lontano. Naturalmente da parte democristiana c'erano altri tipi di rapporti, però devo ricordare che all'epoca del caso Moro - secondo quanto a loro volta rivelano le carte rese pubbliche negli Stati Uniti - il senatore Andreotti, a lungo terminale di riferimento di ambienti statunitensi in Italia, non era più tale, forse perché anche lui incappava nel sospetto di collusione con i sovietici (per questo ho riferito il colloquio Ponomarev - Andreotti del 1977); ma era Cossiga, era inequivocabilmente Cossiga. Silvestri dice sicuramente una cosa giusta e, immagino, se interrogato su Ledeen direbbe: è l'autore dell'intervista a De Felice e di altri libri. Non tutti hanno la voglia di andare a vedere cosa c'è dietro a certi personaggi: ebbene, Ledeen in questa corte dei miracoli è il personaggio importante. Su questo punto il senatore Cossiga non può eludere la domanda, deve spiegarci cosa ci faceva Ledeen - che è quello di cui so io: magari altri sanno di altri, ma di lui sono certo -, questo esperto in dirty tricks in Italia, in quel momento che cosa ha fatto? Aveva un ruolo, come dice Vitalone, magari nel comunicato della Duchessa o è venuto lì così? Ledeen non ha mai fatto niente a caso, era un uomo di notevole potere. Mi rendo conto che la mia risposta è insufficiente, però forse per contestualizzarla meglio andrebbe allargata su un altro versante, quello del senatore Cossiga.

PRESIDENTE. Volevo fare un'osservazione. La sua assomiglia per alcuni aspetti ad una audizione, per altri profili no. Lei però è un parlamentare, e il Parlamento dovrà discutere la nostra relazione sul caso Moro e quindi per questo non sto intervenendo in questo suo debordare.

GIOVINE. La ringrazio, signor Presidente, per aver compreso.

PRESIDENTE. C'è qualcosa però che non riesco a capire. Lei poco fa ci ha detto - lo avevo annotato - che a suo avviso la preparazione dell'agguato in via Fani era percepita negli ambienti dell'Autonomia, o perlomeno percepibile. Inoltre - su questo ci soffermeremo nella prossima audizione - c'è il grosso sospetto che negli apparati di sicurezza vi siano state delle falle che abbiano reso possibile - come Silvestri ci ha riferito che Pieczenik riteneva - che tutto andasse liscio a via Fani. A via Fani, cioè, tutto va troppo liscio per non pensare ad una falla a livello, diciamo, abbastanza alto dell'apparato di sicurezza. Come si giustifica ciò con la volontà di tener fermo il quadro politico? Perché certamente il quadro politico sarebbe rimasto più stabile se Moro non fosse stato rapito.

GIOVINE. Non risultano da nessuna parte collegamenti fra le Brigate Rosse e "l'assetto politico". Le Brigate Rosse perseguono un loro fine e l'assetto politico è tutt'altra cosa, anzi, le Brigate Rosse funzionano da catalizzatore contro questo assetto.

PRESIDENTE. Sì, ma se non salvare Moro, secondo la sua visione delle cose, era funzionale al mantenimento dell'assetto, impedire il sequestro sarebbe stato anch'esso funzionale al mantenimento dell'assetto, anzi molto più efficace, perché poi quell'assetto dopo il rapimento di Moro in effetti dura poco.

GIOVINE. Certamente, però da una parte fare indagini serie su Moro era un obiettivo preciso, visibile e secondo me indispensabile. In generale, prevenire il rapimento di Moro richiedeva un apparato dello Stato ed anche una coscienza repressiva dello Stato che non c'era assolutamente, per le ragioni che prima, rispondendo al collega Fragalà, ho cercato di spiegare. Quindi lo Stato, se esiste una tale entità, non poteva essere a conoscenza dell'obiettivo anche se - mi riferisco ancora alle interviste...

PRESIDENTE. Quindi sarebbero concause che si muovono però su piani diversi.

GIOVINE. Anche se l'unico brigatista a piede libero, che è Casimirri - attendibile in quanto in qualche modo fuori da tutto il contesto italiano - nelle due interviste che ha rilasciato a "Famiglia cristiana" e a "L'Espresso" ritiene che chi avesse avuto occhi per leggere anche solo i comunicati avrebbe capito che Moro era il bersaglio.

PRESIDENTE. Come Renzo Rossellini.

FRAGALA’. I comunicati erano negati!

GIOVINE. I comunicati non furono neanche pubblicati. Al secondo comunicato si pubblicò solo il sommario, facendo riferimento giornalistico a comunicati non pubblicati - noi poi li pubblicammo tutti - e criminalizzando - uso scientemente tale termine - chi osasse andare a divulgarli, quale responsabile di intelligenza con il nemico; il clima era questo. Basta andare a leggersi i giornali dell'epoca, specialmente quelli che rappresentavano il cosiddetto "partito della fermezza", che era un partito molto trasversale. Non dimentichiamo che il compianto direttore de "II Corriere della sera"...

PRESIDENTE. Mi pare che anche l'estrema destra politica partecipasse al partito della fermezza.

GIOVINE. C'erano tutti i tipi secondo me.

FRAGALA’. In modo assoluto.

GIOVINE. Forse il Presidente però si riferiva all'estrema destra extraparlamentare.

PRESIDENTE. No, all'estrema destra politica, quella presente in Parlamento.

GIOVINE. Non sono in grado di dirlo. Però devo dire che le lotte a livello di uomini come Miceli e Maletti hanno inquinato un po' tutta la situazione. Vorrei aggiungere sulla questione politica dell'intervento dello Stato che ricordo che il "Corriere della Sera" - che allora era l'ammiraglia di questa linea, direttore Di Bella - al momento dei funerali di Moro, ai quali la famiglia impose non fosse presente lo Stato, ma che lo Stato fece lo stesso in assenza del corpo di Aldo Moro, titolò a tutta pagina - e a quell'epoca non erano frequenti i titoli a tutta pagina, abitudine poi dilagata - "Fiero requiem dell'Italia per Moro". Ecco, trovo che il partito della fermezza, che niente aveva fatto, tentò in qualche modo anche di attribuirsi Moro come eroe di questa stessa "fermezza" che ne aveva causato la morte. Immediatamente dopo iniziò la rimozione, ma questo è un fatto politico e non voglio, Presidente, abusare della sua pazienza.

FRAGALA’. Però, onorevole - per rispondere anche alla domanda del Presidente - lo smantellamento preventivo era assolutamente in sintonia con la creazione e la tutela di quel quadro politico, perché dava il segnale agli apparati di sicurezza investigativi che era proibito indagare a sinistra. Ricordiamoci che nel 1976 le Brigate rosse erano "sedicenti Brigate rosse", erano fascisti travestiti nell'immaginario...

PRESIDENTE. Onorevole Fragalà, la realtà è complessa. Violante, Caselli, Vigna, Galli, erano tutti magistrati orientati ideologicamente a sinistra, e furono gli unici che fecero qualche cosa di serio sulle Brigate rosse, se non altro perché si collegarono l'uno con l'altro ed evitarono che un brigatista, spostandosi da un distretto all'altro di Corte di appello, improvvisamente riacquistasse verginità. Su questa stasi della risposta al terrorismo rosso nel 1975 ci sono pagine di un libro di Caselli che hanno la loro importanza, la loro evidenza.

FRAGALA’. Le conosciamo benissimo. Tra l'altro, allora in effetti a Torino il capo di questo partito della fermezza era l'onorevole Giuliano Ferrara, più che Caselli o Violante. Desidero farle una domanda, onorevole Giovine, su un problema che ci siamo sempre posti, quello del cosiddetto canale di ritorno. Noi abbiamo appreso dal senatore Cossiga che il giorno in cui Moro fu assassinato, la mattina di quel 9 maggio il senatore Cossiga uscì da casa con la lettera di dimissioni da Ministro dell'interno in tasca perché sapeva che di lì a poco si sarebbe riunito il consiglio nazionale della Dc, presieduto dall'onorevole Riccardo Misasi, e che avrebbe, con un discorso di Fanfani, aperto la trattativa e rotto il fronte tra Dc e Pci del partito della fermezza. Cossiga ci ha detto pubblicamente in questa Commissione che aveva già scritto la lettera di dimissioni. Il problema è che i brigatisti seppero per tempo che si apriva questa possibilità e che quindi Moro poteva a questo punto essere salvato perché si andava verso un riconoscimento comunque politico del sequestro. Quella mattina stessa, in contraddizione, irrazionalmente o con troppa coerenza, Moretti uccide Aldo Moro. Ci siamo posti sempre il problema di questo canale di ritorno: come faceva Aldo Moro a sapere, non soltanto di tutte le discussioni interne dei gruppi dirigenti della Dc e del partito comunista, ma addirittura a mandare le sue lettere mirate ai personaggi che potevano identificare una posizione o un'altra durante la sua prigionia. I brigatisti ci hanno sempre detto che questa era abilità di Moro, perché leggeva i giornali e conosceva i personaggi politici interlocutori del suo mondo; mentre ci sono elementi per pensare che invece vi era un canale di ritorno, qualcuno che andava a riferire e che riferì tragicamente una notizia che a un certo punto fece prendere la decisione al gruppo militare, al gruppo duro delle Brigate rosse di uccidere immediatamente Moro, prima che non potesse più consumarsi questo delitto perché si apriva la trattativa addirittura dal vertice più alto della Democrazia cristiana, cioè il Consiglio nazionale. Voi avete mai saputo, pensato o immaginato che vi potesse essere un personaggio politico che andava a riferire, o che comunque era un trait d'union mai conosciuto tra le Brigate rosse e i gruppi dirigenti dello Stato?

GIOVINE. Non abbiamo avuto conoscenza di questo e in quegli ultimi giorni - quelli in cui si parlò del possibile intervento di Fanfani - non eravamo già più nella partita. Dopo il tentativo Dalla Chiesa sulla questione delle carceri e la totale sordità dello Stato su questo punto, il tentativo fatto con Curcio e l'impossibilità di ottenere da Curcio comunque un proclama, noi non abbiamo avuto più nessuna carta da giocare. Per quanto riguarda invece la prima parte della questione, relativamente al dottor Caselli, devo dire che ho chiesto al dottor Caselli in un breve colloquio se fosse a conoscenza del ruolo avuto dal generale Dalla Chiesa in quel momento e Caselli ha detto: no, non ne sono a conoscenza, però non sono autorizzato a parlare in quanto, essendo la procura di Palermo preposta ad indagare sull'assassinio del generale Dalla Chiesa, la questione è coperta da segreto. Lui però mi ha indicato che il fatto che Buscetta all'epoca fosse nel carcere di Cuneo, che era un punto locale dei carceri di massima sicurezza, era un aspetto importante.

PRESIDENTE. Sono questioni note da moltissimo tempo, perché fanno parte delle due richieste di autorizzazione a procedere che ho letto nella giunta delle immunità del Senato contro Andreotti: quella palermitana e quella romana per la verità, poi trasferita a Perugia, sull'omicidio Pecorelli.

GIOVINE. Quindi, sono agli atti di quella inchiesta. Poi, naturalmente, anche agli atti della Commissione...

PRESIDENTE. Risulta - ne ho parlato anche nella mia proposta di relazione - questo attivarsi di impossibile canale carcerario, che però poi si interrompe quando, secondo Mannoia, Calò dice a Bontade: non hai capito che non lo vogliono salvare?

GIOVINE. Perché era Bontade che avrebbe parlato con Buscetta, chiedendogli e poi la cosa comunque finì lì.

PRESIDENTE. Diciamo che intorno al 15 aprile si interrompono tutti questi canali che erano stati attivati.

FRAGALA’. Onorevole Giovine, lei, o l'onorevole Craxi, o altri esponenti del cosiddetto partito della trattativa siete in possesso di lettere dell'onorevole Moro che non sono state mai pubblicate? Noi sappiamo che ci sono alcune lettere di Moro che non sono state rese note per vari motivi, o politici o personali, soprattutto quelle della famiglia. A lei risulta che ci siano queste lettere e se l'onorevole Craxi è in possesso di alcuna di queste lettere, o è stato destinatario di queste lettere?

GIOVINE. Non sono in grado di parlare per Craxi, perché stranamente di questo argomento non si è più parlato: c'è stata una sorta di rimozione, anche per l'inutilità di tutto questo. Però certamente, all'epoca, i nostri ambienti politici di Milano ricevettero copia delle lettere prima che la stampa ne venisse a conoscenza.

PRESIDENTE. Di lettere non note?

GIOVINE. No, di lettere che poi sono diventate note. Non c'è rimasta in tasca alcuna lettera che poi non sia stata diffusa. Però a noi arrivarono prima e questo, peraltro, ci accreditava la fonte. In seguito vennero tutte pubblicate, sia pure in forma contratta e tronca. Non ricordo di altre lettere. Craxi non me ne ha mai parlato, ma questo non vuol dire.

FRAGALA’. Lei è a conoscenza del fatto che il sequestro e l'assassinio dell'onorevole Moro portarono ad uno scontro all'interno della Guardia di finanza, per quanto riguarda i generali Giudice e Lo Prete, all'inchiesta del giudice istruttore Vaudano sulla Guardia di finanza, sui finanziamenti dei petrolieri e via dicendo?

GIOVINE. So soltanto quello che all'epoca dell'argomento scriveva Pecorelli, che fu quello che attraverso un trasparente gioco di nomi fece uscire la questione. Prendevamo queste rivelazioni dell'agenzia OP per quel che potevano valere: le ho seguite attentamente per vedere quali fossero sostanziate da qualche altro fatto, ma senza avere elementi. Mentre nel caso ENI-Petronim erano state condotte indagini molto accurate che avevano portato a conclusioni sorprendenti, in questo caso, al di là delle notizie di Pecorelli e di altre fonti giornalistiche successive, non abbiamo avuto nulla.

PRESIDENTE. Per ritornare se possibile allo scopo dell'audizione, cioè all'acquisizione di fatti nuovi, le pongo una domanda chiedendole brevemente di dirci se è in condizione di dire qualcosa oppure no. Recentemente abbiamo ascoltato Morucci nell'ambito di una audizione abbastanza "chiusa" e, accanto alle cose che sapevamo, abbiamo avuto due spiragli nuovi. Del primo abbiamo parlato in altre occasioni ed è stato percepito dai mezzi di informazione: riguarderebbe il proprietario di una casa presso Firenze nella quale si riuniva il comitato esecutivo delle Brigate rosse. Nell'ultima audizione è stato detto che probabilmente si trattava di una villa signorile alla periferia di Firenze. L'altro spiraglio era sfuggito anche a me inizialmente: si tratta di un accenno al personaggio - un irregolare - che secondo Morucci avrebbe dattiloscritto i comunicati delle BR. Un accenno ancor più sfumato è stato fatto al brigatista che ha dattiloscritto il memoriale di Moro nella versione consegnata all'autorità giudiziaria dai carabinieri dopo il sequestro in via Monte Nevoso. Ha qualche osservazione da fare su questi spiragli?

GIOVINE. Sulla seconda questione non ho assolutamente nulla da dire. Per quanto riguarda la villa a Firenze ho le informazioni che mi derivano dall'essere nato e cresciuto in quella città. L'espressione "villa alla periferia di Firenze" può riferirsi a duecento edifici diversi. Però devo dire che all'epoca a Firenze contava abbastanza l'aristocrazia terriera. Essa era già intervenuta a supporto di iniziative giovanili nel 1966, dopo l'inondazione. Ci furono movimenti nel 1968 e soprattutto nel 1974 quando a Firenze nacque l'Autonomia. Fu proprio a Firenze che nel 1975 per la prima volta l'Autonomia fece uso di armi da fuoco, senza fare vittime. L'Autonomia a Firenze era molto contigua a questi ambienti di aristocrazia terriera, tant'è vero che si parlava, scherzando, di "Podere operaio". Il famoso anfitrione potrebbe essere identificato in quindici persone diverse. Potrebbe essere fortemente ingiusto nei confronti delle altre quattordici cercare di fare il raccordo.

TARADASH. Comunque si trattava di un aristocratico.

GIOVINE. Di un aristocratico o di una aristocratica.

TARADASH. Innanzi tutto c'è da lamentare che il suo Gruppo non l'abbia designata a membro di questa Commissione, perché dal quadro che lei ci ha fornito questa sera il suo apporto sarebbe stato sicuramente prezioso!

PRESIDENTE. Probabilmente non mi sarei sentito dire da un membro di questa Commissione che la Democrazia in Italia c'è perché si è votato dal 1946 in poi a suffragio universale!

TARADASH. Dal quadro che lei fa della situazione par di capire che c'era una strana alleanza in quei giorni. Il Partito comunista, con l'URSS alle spalle, era alleato con la DC, in particolare con la sinistra democristiana. Poi c'erano la P2 e la destra americana. Erano tutti uniti nella stessa azione politica tendente a far sì che il fronte della fermezza trionfasse e di conseguenza che l'onorevole Moro non venisse liberato. C'era chi, ovviamente sul fronte politico, sosteneva la fermezza e chi, sul fronte operativo, in dissonanza dal fronte politico, agiva perché Moro non venisse liberato. C'era la presenza di Ledeen, esponente della destra americana, collegato a Cossiga; e c'era, diametralmente contrastante, la presenza di Pieczenik, esperto inviato ufficialmente dal Governo americano presso il Ministero dell'interno. Questo è già un quadro sconcertante. Bisognerebbe capire per quale motivo Pieczenik fosse più sulle posizioni di Craxi mentre Ledeen stava su posizioni analoghe a quelle di Pecchioli e Ponomarev. E’ uno scenario da capire per comprendere che tipo di fatti si verificassero. Poi c'era la questione di Dalla Chiesa. Ho capito che lei non abbia voluto informare gli ispettori che stazionavano sotto casa sua. Ma che il generale Dalla Chiesa, che credo avesse all'epoca una responsabilità istituzionale, che era stato candidato a direttore del Sisde e - se è vero quel che ci ha detto Cossiga - aveva subito il veto del Partito comunista, instaurasse un rapporto personale privato con il segretario di un partito politico sostenitore della trattativa, che avesse degli informatori e magari degli infiltrati all'interno dell'Autonomia e delle Brigate rosse e che durante tutto il periodo avesse costruito una sua pista alternativa senza informare di tutto ciò il Presidente del consiglio, il Ministro dell'interno o quello della difesa, senza informare nessuno, questo è un fatto che definire sconvolgente è dire poco, che getta un'ombra sinistra su una situazione. Non voglio dire su una persona, ma certo su una situazione. Getta un'ombra sinistra su quello che era avvenuto prima e su quello che sarebbe avvenuto dopo. Se sarà possibile andremo ad Hammamet per avere conferma da Craxi, ma comunque le rivelazioni che lei ci ha fatto questa sera sul ruolo del generale Dalla Chiesa evidentemente aprono uno squarcio tenebroso sulla vicenda.

GIOVINE. Circa la stranezza della presenza di personaggi americani legati alla Cia o ad ambienti completamente diversi, posso soltanto ripetere che Ledeen fu chiamato da Cossiga, ebbe accesso al Viminale, a carte e ad uffici. Non so assolutamente perché il Ministro Cossiga l'abbia convocato, né quale fosse il suo ruolo. Egli peraltro è molto attento a presentarsi come un free lance e se lo ascoltaste confermerebbe questo suo ruolo. Quindi su quello che ha fatto Ledeen non so niente, cioè so qualcosa su quello che ha fatto prima e dopo, ma su quello che ha fatto nel caso specifico può rispondere solo Cossiga. Pertanto, la mia personale opinione, non suffragata da alcuna prova, è che Ledeen abbia approfittato del legame con Cossiga per uno scopo suo o del suo gruppo non necessariamente congeniale, anzi probabilmente, come indicava l'onorevole Taradash, opposto ad altri. Quando avvengono fatti del genere si buttano tutti dentro, tutti i servizi segreti devono avere una parte quando c'è una fibrillazione di questo genere. Era il terreno di caccia più adatto a gente come Ledeen. Pertanto non mi sorprende la sua presenza, anche perché certi ruoli possono poi essere scambiati con altri. Certamente Ledeen apparteneva all'ala più ferocemente anticomunista dell'ambiente americano; da sempre e scopertamente. L'ho conosciuto come tale, quindi mi pare improbabile per certi aspetti - però in questo campo è meglio non essere troppo recisi - una sua collusione con questa situazione che invece era rappresentata egregiamente dal Ministro stesso che l'aveva invitato. La negligenza del Ministro nel momento in cui si circonda di personaggi del genere è altrettanto grave delle sue inadempienze sul piano investigativo, e torno al caso di Volker Weingraber, sul perché agenti provocatori siano stati mandati, nel caso specifico dal Bundeskriminalamt o dai Servizi in Italia, a infiltrarsi. Ma per fare che e perché? Non è forse, quello tedesco, un servizio alleato? Idem per gli israeliani. Per quanto riguarda invece la parte sul generale Dalla Chiesa, intanto sicuramente il collega Taradash ricorderà che a quell'epoca i Servizi erano più intenti a mandare veline gli uni contro gli altri e a informare gli uomini politici su quello che facevano i loro vicini, in base al vecchio criterio che ognuno vuole sapere cosa fa contro di lui l'amico - e nemmeno è tanto interessato a sapere cosa fa il nemico ideologico - che non a mettere in piedi una struttura. Mi riferisco anche a quanto detto in testimonianze varie da chi aveva delle responsabilità in un periodo precedente, quello in cui i Servizi funzionavano meglio. Per quanto non approvi tutte le dichiarazioni che ha fatto il generale Viviani, egli aveva nel 1972 un ruolo tale da consentirgli, ad esempio, di descrivere rapporti tra i servizi segreti sovietici e una parte della sinistra, ad esempio all'epoca dell'attentato dove trovò la morte l'editore Giangiacomo Feltrinelli. Pertanto in questo contesto io non trovo per niente stupefacente che il generale Dalla Chiesa, uomo tra l'altro abituato ad ottenere comunque dei risultati, si servisse di un suo contatto politico, cui era legato a quanto pare da amicizia personale, per poter avere un ruolo laddove non era previsto, se non nel caso della sicurezza delle carceri, in una questione così importante. Anche perché egli sapeva meglio di quanto sappia io quali erano i canali da attivare. Ripeto, le Brigate rosse, data la loro mentalità militarista, si fidavano soltanto del nemico militare che consideravano più equipaggiato, cioè Dalla Chiesa. Ciò non è sorprendente. Per quanto riguarda i mezzi, non conoscendoli nei dettagli, non posso esprimermi, posso solo dire che non trovo strano ciò che ha fatto Dalla Chiesa; se coincide con quanto ho detto ora e con quanto spero dirà Craxi era una presa di libertà molto limitata rispetto alle gravissime irregolarità che venivano commesse quotidianamente a tutti i livelli, anche i più alti, delle istituzioni dello Stato, e mi riferisco anche a quelle caratterizzate da legami militari. Insisto sul caso dell'agente segreto tedesco perché di lui si è parlato. Quindi di lui si conosce e c'è un processo in corso, perché il servizio segreto tedesco gli ha chiesto di restituire mezzo miliardo di marchi che gli aveva dato perché non aveva ottenuto il risultato che doveva ottenere e lui ora vive tranquillamente in Toscana, ma di altri non sappiamo niente e forse il Ministro dell'interno di allora potrebbe anche far luce su questo. Ormai sono passati vent'anni, quindi la mia risposta forse è insufficiente, ma non condivido lo stupore del collega Taradash su questo comportamento del generale Dalla Chiesa.

ZANI. Signor Presidente, devo dire che in effetti anch'io sono abbastanza stupito, perché per la prima volta dopo aver letto tanti libri, aver sentito anche in questa sede tanti personaggi e aver riflettuto per moltissimi anni su questa vicenda che ha segnato la storia recente del nostro paese, oggi se ho ben capito ci troviamo di fronte ad un'analisi di tipo nuovo rispetto a tutte quelle che si erano sentite finora, secondo la quale in estrema sintesi Moro doveva morire per salvaguardare il quadro politico del compromesso storico. C'è un filo rosso che parte dalla locuzione opposti "estremismi" del prefetto Mazza, il quale crea un clima, una sollevazione, una levata di scudi che è alla base dello smantellamento dell'ispettorato antiterrorismo di Santillo e, aggiunge l'onorevole Fragalà, anche dell'impreparazione della scorta di Moro e quindi dell'impreparazione dello Stato. In generale tutti gli organi istituzionali sono in mora dentro questo filo rosso e quindi in questo modo si assolvono naturalmente le responsabilità di qualsivoglia organo istituzionale. Ciò che ha contato nella vicenda specifica e nella storia recente del nostro paese è stato questo tentativo del partito della fermezza di salvaguardare il quadro politico del compromesso storico; è un'analisi davvero perspicua, dato che il quadro politico salta esattamente all'indomani dell'uccisione di Moro. Dunque, secondo me mi pare ci sia qualcosa che non va in questa analisi. Fino ad adesso avevamo sempre pensato, pur dividendoci nella eventuale ricerca delle responsabilità, ad una sorta di alleanza più o meno vasta, articolata ed occulta contro il compromesso storico, come condizione di questo "essere contro": si prendeva Moro, lo si rapiva e lo si uccideva, questo grosso modo era il quadro. Cioè si voleva affermare un esperimento. Poi, con responsabilità diverse, incroci, strane alleanze e tutto ciò che volete, adesso quest'analisi viene esattamente ribaltata. E’ abbastanza interessante, devo dire, anche se la considero assai poco aderente alla realtà. Il quadro politico salta perché Moro viene prima preso dalle Brigate rosse e poi ucciso, questo è il dato di fatto. Salta immediatamente e dato che nella realtà è avvenuto ciò, ragionando in questo modo, faccio presente che io potrei dire che Craxi era il grande vecchio delle Brigate rosse perché era l'unico davvero interessato alla rottura del quadro politico. Non mi pare che questo sia un modo serio di ragionare. All'interno di tale quadro devo poi dire che ci sono anche degli altri fatti nuovi, che per la prima volta sento espressi in questi termini, e cioè che Pecchioli era di fatto un terminale del KGB essendo uomo di Ponomarev, un organico. Quindi Ponomariov era un uomo che si occupava dell'organizzazione, la logistica...

GIOVINE. Politicamente Ponomarev, per la logistica il KGB!

ZANI. Esatto, stavo appunto dicendo questo. Quindi veniamo a sapere questo. Ho conosciuto il senatore Pecchioli per lungo tempo e ho sempre saputo e verificato che lui era praticamente l'uomo più vicino ad Enrico Berlinguer tra quelli che ho conosciuto. Veniamo invece a sapere che Pecchioli di fatto faceva parte della lobby della P2, la quale - come ricordava poc'anzi anche l'onorevole Taradash - era in contatto con la destra americana e con il generale Haig; quindi sostanzialmente in realtà o Berlinguer lavorava contro se stesso e per il suo suicidio, oppure Pecchioli era un infiltrato del KGB posto alla destra di Berlinguer. Infatti dall'analisi che viene fatta emerge questo dato di fatto, che rappresenta un fatto nuovo: lo registriamo, lo mettiamo a verbale e ci rifletteremo perché è davvero straordinario! Penso che in questo modo sarà difficile fare un passo avanti. Mi domando onestamente a cosa possano servire audizioni di questo genere. Comunque, se il combinato disposto "onorevole Fragalà-onorevole Giovine" ci dà questa nuova analisi della situazione, proveremo a ragionarci su!

FRAGALA’. C'è la variabile impazzita dell'onorevole Zani, che ha detto esattamente il contrario di quello che ho sostenuto io.

ZANI. Io ho cercato di sintetizzare, ma se ho sbagliato correggetemi: Moro sarebbe stato il bersaglio (e quindi il partito della fermezza aveva questo bersaglio) per salvaguardare quel quadro politico che era dentro la strategia politica del compromesso storico.

FRAGALA’. Lo hanno detto tutti, anche Silvestri!

PRESIDENTE. Silvestri questo non lo ha detto. Se rileggiamo il verbale della sua audizione, ce ne rendiamo conto.

ZANI. Come vede, onorevole Fragalà, l'ho ben compresa. Lei lo mette in bocca a Silvestri, poi vedremo se effettivamente lo ha detto: sta di fatto che lei è convinto di questo. Ripeto però che questa è un'analisi del tutto nuova, che io sento per la prima volta. Credo peraltro che sia smentita dalla realtà dei fatti. Infatti, se si voleva salvaguardare quel quadro politico, ci voleva Moro vivo ad elaborare la sua terza fase e a costruire insieme a Berlinguer...

FRAGALA’. Moro liberato dalle Brigate rosse sarebbe stato il peggior nemico del Pci!

PRESIDENTE. Onorevole Fragalà, non anticipiamo il dibattito.

TARADASH. Facciamo però le domande all'audito!

ZANI. Certo, infatti io sto facendo la seguente domanda: ho capito bene? Ci troviamo di fronte a questa nuova analisi, per cui in Italia c'era questa lobby? Per me infatti sarebbe abbastanza sconcertante, come voi capite bene. Se effettivamente il braccio destro di Berlinguer era di fatto un uomo della P2...

FRAGALA’. Chi lo ha detto questo?

ZANI. Come chi lo ha detto? Mi sembra il contenuto di quanto dichiarato.

FRAGALA’. Era un uomo del KGB, come dimostrano tutte le carte e i documenti!

PRESIDENTE. Questo non è vero. Non ci sono né carte, né documenti.

ZANI. Bene, allora a questo punto chiedo formalmente all'onorevole Fragalà o all'onorevole Giovine di avere i documenti che dimostrano che il senatore Ugo Pecchioli era uomo del KGB. Desidero avere questi documenti.

FRAGALA’. Saranno prodotti immediatamente!

ZANI. Perfetto, li attendo e concludo qui il mio intervento.

FRAGALA’. E la domanda all'audito qual è?

ZANI. La domanda è molto semplice: chiedo conferma di tutti questi eventi, cioè del fatto che Pecchioli era uomo del KGB!

FRAGALA’. ... che si incontrava con Maletti per decidere...

ZANI. Che c'entra questo?

PRESIDENTE. Ha detto che Maletti lo ha incontrato una volta sola!

FRAGALA. ... che si incontrava con il capo dei servizi segreti...

ZANI. Ma che c'entra?

PRESIDENTE. Non era il capo dei servizi segreti e poi ci ha detto di averlo incontrato una volta sola.

FRAGALA’. Ha detto tre volte.

PRESIDENTE. Si sta sbagliando: basta rileggere quel resoconto. Lei sta confondendo gli incontri con Boldrini con quelli con Pecchioli.

ZANI. Lei comunque, onorevole Fragalà, sostiene che Pecchioli era un uomo del KGB. Questo è un dato nuovo. Buono a sapersi, perché io non lo sapevo; è una novità mondiale, se mi consente. Bene, dato allora che è una novità mondiale, producete i documenti in modo che noi possiamo poi fare anche una riflessione. Siamo stati nel PCI: o ci hanno presi tutti in giro, oppure anch'io sono un uomo del KGB.

TARADASH. Fragalà intendeva dire che era Pecchioli che si incontrava con Ponomarev e che era il referente del KGB. Non estremizziamo!

ZANI. Bene, io sto cercando di ricondurre il dibattito nell'ambito di una certa normalità, perché lei stesso, onorevole Taradash, si è accorto che con tutto questo giro, tra P2 e Alexander Haig, ne viene fuori un quadro francamente nuovo. Chiedo allora se questo nuovo quadro è effettivamente confermato.

PRESIDENTE. La domanda è quindi se la lettura che l'onorevole Zani ha dato della sua audizione, onorevole Giovine, è un'interpretazione autentica o merita correzione.

CORSINI. L'onorevole Zani chiede anche di più, cioè se è possibile avere la documentazione che attesta la veridicità di quanto dichiarato dall'onorevole Giovine.

ZANI. Esatto, questa è la seconda richiesta.

GIOVINE. Sulla prima questione la ricostruzione fatta dal collega Zani è a sua volta un po' curiosa. Intanto, se egli mi permette, attribuire razionalità a tutti i soggetti e in tutte le circostanze è altamente rischioso.

ZANI. Infatti io non lo faccio!

GIOVINE. Solo chi si riferisce ad un'ideologia molto chiusa può attribuire a tutti i soggetti protagonisti di fatti storici una razionalità indefettibile.

ZANI. E’quello che mi pareva lei avesse fatto!

GIOVINE. Ho già detto rispondendo al collega Taradash che la presenza di Michael Ledeen (e magari anche di altri) nell'entourage e su richiesta del ministro Cossiga, essendo inequivocabilmente Michael Ledeen proveniente dagli ambienti nixoniani del generale Haig, non dimostra nulla. Non ho infatti detto - perché non lo so - cosa ha fatto in quelle settimane e dopo. Dico soltanto che lui si vende come free lance, ha formidabili appoggi internazionali e può benissimo aver montato da solo un'operazione. Questo lo rende ancora più sospetto. Va allora chiesto a Cossiga perchè Ledeen era stato messo lì. Ma andiamo oltre: che le Brigate rosse fossero contro il compromesso storico è talmente noto che non ho perso neanche un minuto ad insistere su questo punto, anche perché non è questo il mio ruolo come audito. Mi scuso quindi con l'onorevole Zani se la mia esposizione ha dato anche solo per un istante l'idea che io la pensassi diversamente. Abbiamo dei soggetti che hanno ideologizzato questa loro posizione; gli stessi Autonomi andavano in giro gridando lo slogan: "Bee, bee, bee, Berlinguer". Quindi forse c'è un equivoco. Quando si dice o si deduce che la morte di Moro dovuta all'inettitudine delle indagini fosse stata provocata, cioè l'inettitudine ergo la possibilità per gli assassini di Moro di proseguire senza che venissero fatti tentativi seri di fermargli la mano, e servisse a mantenere l'assetto politico è quanto ho affermato e quanto credo di poter confermare anche in base a fonti pubblicistiche ormai note, e spero anche in base alle testimonianze. Devo dire che il senatore Cossiga ha detto molte cose, anche in contraddizione l'una con l'altra; recentemente qualcuno - mi sembra il senatore Sergio Flamigni - ha detto che questa faccenda è ormai un nervo scoperto per Cossiga, e così ha anche ribadito il senatore Cesare Salvi. Comunque, leggendo le innumerevoli esternazioni di Cossiga, si trova anche questo: innanzitutto egli ha detto che potevano salvare Moro; in secondo luogo ha detto che non avevano fatto tutto per salvarlo, è arrivato molto vicino a dire francamente che avevano di fatto boicottato le indagini, contraddicendo quanto detto al momento delle dimissioni. Certo un Ministro dell'interno, prima di arrivare a dire questo deve pensarci due volte, ma non sta a me giudicare. Insisto, in base alle carte degli archivi sovietici, di cui sicuramente il collega Zani ha preso visione perché le hanno pubblicate anche i giornali italiani (non soltanto "Stolica" ed altri quotidiani sovietici; vi è stato anche un libro di Francesco Bigazzi, all'epoca corrispondente dell'Ansa da Mosca, e di Valerio Riva, intitolato "Onde rosse", pubblicato in parte su un numero di "Panorama" dell'ottobre 1993, che spiega i rapporti esistenti, con la foto di Pecchioli) sul fatto che il senatore Pecchioli...

ZANI. La foto di Pecchioli non è probante.

GIOVINE. Non posso leggere ora tutti i passaggi, ma si parla di Pecchioli, degli apparecchi radio commissionati ai sovietici da Pecchioli a nome del Pci.

PRESIDENTE. Ma questo in che epoca?

FRAGALA’. Il problema non è cronologico per l'onorevole Zani. Per lui tutto ciò non è mai successo, in nessuna epoca. Non è un problema di tempi.

ZANI. Che cosa non è mai successo?

PRESIDENTE. Onorevole Fragalà, lei non può attribuire questo all'onorevole Zani, sapendo benissimo che non è storia del Pci.

ZANI. Onorevole Fragalà, lei mi deve soltanto fornire i documenti con i quali si dimostra che Pecchioli era del KGB!

GIOVINE. Onorevole Zani, lascerò qui quanto meno la documentazione di stampa. Comunque, avendo frequentazioni familiari con la Russia, se la Commissione ritiene di rimborsarmi le spese, posso anche recarmi lì a procurarmi la documentazione.

PRESIDENTE. Abbiamo già nominato un esperto.

GIOVINE. Benissimo. Io dico comunque che, mentre di Michael Ledeen si può anche accettare la sua versione che sia un free lance, difficilmente potremmo dire la stessa cosa di Pecchioli, che tutto era fuorché un free lance.

ZANI. Questo non dimostra alcunché.

GIOVINE. No, ma dico soltanto che tutto quello che Pecchioli ha fatto, a torto o a ragione, lo ha fatto in quanto incaricato dal Partito comunista. L'onorevole Zani dice: per quanto mi riguarda potrei anche io essere del KGB; segnalo che il KGB si è sempre fidato piuttosto dei piemontesi che degli emiliani. Spetta a lei indicare il perché; forse è a causa delle decisioni di Palmiro Togliatti negli anni '60. In ogni caso ricomincio ad elencare titoli di rassegna stampa: "Gladio rossa ancora attiva nel '76,",- "Pecchioli guida la Gladio rossa (1993): non può controllare i servizi segreti". Il collega Tassone ora non presente in Commissione fu uno di quelli che impedì che Pecchioli se ne andasse e gli votò a favore; è tutto agli atti; riporto altri titoli: "L’archivio del Pcus incastra Pecchioli",- "Da Mosca 50 milioni di dollari al Pci" - mi scuso, signor Presidente per questa elencazione ma il collega Zani mi chiede le prove - "Gladio rossa: Pecchioli resta, salvato dalla DC" e "Sulla guancia del Komunista di ghiaccio il bacio mortale di Kossiga"; "Pecchioli nella bufera",- "Gladiio rossa: Pecchioli nega e si attacca alla poltrona",- "Anche la DC contro Pecchioli"; "Le verità di Craxi"; "Craxi accusa Pecchioli". E infine leggo: nell'ottobre del 1993 Pannella disse l'intera storia fin dal ritiro del PDS quando si trattava di portare il caso Cossiga in Parlamento descrivendola così: "la successiva ed immediata nomina di Pecchioli all'attuale incarico e l'altrettanto immediata esultanza esternata da Cossiga nel silenzio di quasi tutta la stampa avrebbe meritato e meriterebbe titoli a scatoloni"-, si chieda a Pannella cosa intendesse con queste parole. Vi è un trade off, uno scambio. Come mai il PDS molla le accuse a Cossiga e Pecchioli improvvisamente diventa Presidente? Tutte cose che non sta a me dire. Riporto un altro titolo: "Craxi: Pecchioli deve dimettersi; rispunta Pecchioli nell'armadio del KGB", e così via. Sulla rivista "Cuore e Critica" ho pubblicato nel 1993 un dossier su Pecchioli che farò avere ai commissari.

PRESIDENTE. Se mi consente, nel '93 questa commissione già esisteva e disponeva di una rassegna stampa estremamente aggiornata.

GIOVINE. Il collega Zani non l'ha letta.

PRESIDENTE. Siccome in questi giorni il mondo politico italiano è agitato sull'opportunità di costruire un'ulteriore Commissione d'inchiesta, quello che sta avvenendo stasera ne dimostra i limiti. Ciò che è singolare nella vicenda di Moro è che ci portiamo ancora dietro la palla di piombo di una vecchia polemica politica che dovrebbe essere superata: quello tra il partito della trattativa e quello della fermezza, quanto alle ragioni politiche che spinsero il Pci ad assumere la posizione della fermezza, agli atti di questa Commissione vi è una lettera mandata da Cossiga al Presidente Spadolini (recuperata dall'archivio Spadolini) per dirgli che per il futuro aveva intenzione di dire che un certo giorno era venuto Bufalini che gli aveva detto: per noi Moro è come se fosse morto. Le ragioni politiche che spinsero il Pci ad assumere una posizione della fermezza sono note e sono probabilmente diverse da quelle che spinsero la Dc ad assumere la stessa posizione e ancora diverse da quelle che spinsero il Movimento Sociale italiano ad assumere quella posizione. Oggi abbiamo un dovere diverso: capire perché le istituzioni funzionarono fino ad un certo punto e se è attribuibile solo a disorganizzazione il fatto che la prigione di Moro non fu individuata e Moro non fu salvato. Questo è il giudizio che noi oggi possiamo dare: riprendere questa polemica, a mio avviso sterile, soprattutto attribuendo a persone che abbiamo già sentito cose che in parte non hanno detto, mi sembra un esercizio inutile. Il nostro compito è di capire se si poteva evitare il sequestro a via Fani; gli apparati di sicurezza erano in possesso - fra poco avremo un'altra audizione che ci riporterà drammaticamente a quel elemento - di elementi che potevano avvisare che stava per succedere quanto è successo a via Fani? In caso positivo perché non furono utilizzati e perché i tanti e tanti segnali - non vorrei ricordare all'onorevole Fragalà quante volte ci ha parlato di via Gradoli, dello spiritismo e così via - furono utilizzati così male? Altrimenti, la conclusione è la cronaca di una morte annunciata. Tutti contribuirono ad un evento che forse nessuno voleva.

GIOVINE. Alcuni più di altri.

PRESIDENTE. Compresi quelli che non informavano gli apparati di sicurezza delle trattative in corso con le BR o con ambienti vicine a queste. Ecco perché è importante sentire Craxi; se quello che lei dice è vero, la posizione di Craxi diventa difficile; egli era in possesso di una massa enorme di informazioni laddove la giustificazione può essere quella che mi ha dato Signorile in un dibattito poco tempo fa: non demmo quella informazione, perché come la famiglia Moro, non ci fidavamo di quelli che sarebbero andati a liberare Moro; il che crea una nube estremamente oscura sulla quale non ho personalmente ancora un'opinione definita; ho un dubbio che ancora non sono riuscito a chiarire.

GIOVINE. In questo posso aiutarla: allora scrivevo un libro con Altiero Spinelli - il grande federalista europeo - e mi ricordo che proprio in quei giorni venni a trovarlo qui a Roma, nella sua casa a Clivo Rutario. Gli dissi: credo vada fatta una trattativa per avere delle informazioni che possono servire, e lui mi disse che era assolutamente necessario che io comunicassi quanto sapevo agli organi dello Stato; quindi fui posto di fronte a una questione da una persona che stimavo moltissimo ma io pensai: neanche per sogno. Non c'era bisogno del bicchiere semovente di Prodi per capire che non era il caso di andare a cacciarsi in una situazione impossibile. Se arriva nella mia casa un agente tedesco (il quale poi inventerà che a casa mia abitava una pericolosa terrorista, pure tedesca) egli non può non essere mandato dagli italiani. Quando - dieci anni prima - facevo azioni contro la dittatura "dei colonnelli" in Grecia diffidavo soprattutto delle questure italiane che avrebbero riferito tutto quanto scoprivano su di noi ai loro colleghi greci: un'intera operazione durata oltre due anni in Italia, l'intera rete di sostegno della resistenza greca, fu fatta clandestinamente. Credo di sapere come trattare queste cose; Andreotti me ne ha dato atto in un caso molto più banale. Signor Presidente, non me ne voglia se venti anni dopo sono ancora più convinto che avrei fatto un gravissimo errore esponendo le mie fonti, che dovevo difendere a titolo politico e giornalistico, a chissà quali rappresaglie senza ottenere alcuno lo scopo. Spero che questa Commissione riesca a dimostrarmi che ho avuto torto.

PRESIDENTE. La prova del contrario non c'è; personalmente mi sarei comportato in maniera diversa: avrei lasciato la responsabilità agli altri di non utilizzare queste informazioni.

CORSINI. Vorrei svolgere due osservazioni e due domande: una soltanto per soddisfare una mia curiosità personale nel caso incorressi in una sorta di scambi di omonimia. La prima constatazione è che mi sembra che le campagne di stampa e le rassegne stampa non costituiscano documenti, fonti di prova, di giudizi, di attribuzioni di responsabilità. Poiché sono anch'io molto interessato alla vicenda di Pecchioli, invito il collega a fornirmi fonti e documenti, non rassegne stampa. La seconda osservazione un po' polemica è la seguente: il presidente Pellegrino sarà molto soddisfatto perché questa sera è diventato anche Presidente in pectore della futura Commissione, se ci sarà, su tangentopoli...

PRESIDENTE. Ho già rifiutato; ho proposto il collegio arbitrale e ho dato scelta all'altro arbitro, il presidente Cossiga, di scegliere il Presidente tra l'onorevole Severino Citaristi e il procuratore Borrelli.

CORSINI. E sempre sulla base di una documentazione che non è una documentazione, cioè il fatto che Pecchioli abbia ricevuto non so se 50.000 dollari, non ho ben capito, entriamo nel cuore di Tangentopoli, quindi ringrazio l'onorevole Giovine perché con la sua presenza questa sera ha inaugurato questa nuova Commissione.

FRAGALA’. Fu fatta l'amnistia per i finanziamenti dall'estero per Pci e Dc: un po' di soldi li avete presi anche voi!

CORSINI. Probabilmente li hanno presi tutti. Se io ragionassi con l'impianto logico che ha caratterizzato alcuni passaggi dell'audizione per la parte che ho ascoltato, e cioè in realtà che l'assassinio di Moro è servito a stabilizzare il sistema politico, dovrei trarre l'arbitraria, o fondata, conclusione che, siccome noi dobbiamo accertare le tante responsabilità di chi non ha portato alla liberazione di Moro, anche l'onorevole Giovine porta questa responsabilità. Perché se ipoteticamente avesse reso pubbliche o fatto conoscere le sue fonti, avrebbe aperto sicuramente una pista di ricerca per l'individuazione dei carcerieri di Moro. Le due domande. In realtà Michael Ledeen non è un free lance, Michael Ledeen esordisce sulla scena dell'imprenditoria e della pubblicistica italiana con due volumi: il primo l'intervista a De Felice sull'antifascismo, e il secondo il volume, pubblicato da Laterza, sull'internazionale fascista. Sono molto interessato ad una migliore identificazione di questo personaggio, che all'epoca negli ambienti accademici e degli storici italiani suscitava non poche perplessità non soltanto in ordine alle tesi che sosteneva e che aveva pubblicizzato soprattutto nel secondo volume, ma proprio in relazione alla sua figura di studioso. Ho letto nella sua biografia, collega Giovine, che lei ha insegnato in non meglio definite università americane.

GIOVINE. Non meglio definite da chi? Dalla biografia, non da me.

CORSINI. Sì, dalla biografia, nel senso che nella "Navicella" si dice che lei è stato per una certa fase docente in queste università, ma non si dice quali. Ma questo non è un problema. La cosa che mi sconcerta è che per un verso lei sembra informato dell'identità più propria di questo personaggio americano, e quindi le chiedo se può darmi qualche ulteriore elemento per conoscere meglio la biografia, la collocazione politica e il ruolo di Ledeen. Ad esempio, una voce che circolava negli ambienti universitari è che Michael Ledeen fosse uomo dei servizi segreti americani. Non so fino a che punto questa voce fosse fondata. Sulla base delle conoscenze che lei sicuramente avrà tratto dalle sue esperienze americane, per le notizie che ci dà questa sera, può ulteriormente approfondire l'identità di questo personaggio? La seconda domanda scaturisce da una mia curiosità personale: non vorrei che ci fosse un’omonimia e quindi io sia tratto in inganno. Lei ha mai avuto processi o riportato condanne in primo grado per diffamazione?

GIOVINE. Credo di aver ben compreso le domande del collega Corsini e forse, non maliziosamente, anche lo spirito di queste domande. Cercherò quindi nelle risposte di non deluderlo, nel senso di dare alle risposte un contenuto, ma anche un certo spirito. In primo luogo, per quanto riguarda l'individuazione del carcere di Moro e quello che io avrei voluto fare rivelando quello che stavo facendo, ho già detto che in nessun caso durante la trattativa noi riuscimmo a capire alcunché sulla localizzazione di Moro, perché non era questo il nostro obiettivo. E se anche lo fosse stato, non avremmo saputo niente. L'obiettivo era creare un ambiente favorevole ad una trattativa fatta da privati in base - diremmo oggi - al principio di sussidiarietà, visto che lo Stato non interveniva. Quindi sarebbe stato contraddittorio con l'intenzione stessa che io mi rivolgessi a quello Stato che non faceva niente; e tutto questo lo abbiamo scritto, personaggi autorevoli di tutte le parti. Ricordo nella sinistra, tra i religiosi, padre Ernesto Balducci, padre Davide Maria Turoldo, personaggi che vengono ora glorificati e collocati in loro nicchie dalla sinistra al potere, ma forse dimenticando il loro ruolo di allora. Padre Camillo Da Piaz, un eroe della Resistenza. Non accetto facilmente queste semplificazioni un po' parziali. Quindi sarebbe stato contraddittorio che io fossi andato a rivelare a quello Stato che scientemente non faceva niente, quel poco che noi potevamo fare. Dopo venti anni noi sappiamo che lo Stato sapeva di via Gradoli; non è ancora chiaro, ma nell'intestazione degli appartamenti, il dossier presentato dal collega Fragalà e altri...

PRESIDENTE. Lo aspettiamo.

GIOVINE. ... se ancora oggi vi sono ombre su questo...

FRAGALA’. C'è un'indagine della procura di Roma.

GIOVINE. Devo dire che sono contento di aver dato quel giorno quella risposta ad Altiero Spinelli, il quale, fra l'altro, aveva fatto la scelta di ritornare nel Pci, invitatovi da Amendola. Questo perché, anche per quanto riguarda Giuliano Ferrara, che è stato dirigente comunista, e altri ex comunisti, non si sa mai nella vita cosa può succedere... Che uno che ha sofferto anni per essere diventato anticomunista, come Spinelli, alla fine, torni nel Partito comunista, insegnava delle cose a chi aveva imparato tanto da un grande uomo come lui. Avevo conosciuto lui e sua moglie Ursula Hirschmann nel 1962. Certamente, ciò mi indusse a non fare una sola parola, al contrario di quanto egli mi chiedeva. Ma andiamo al concreto. Per quanto riguarda le fonti della rassegna stampa, sicuramente già saprete di quali fonti si tratti; le avevo portate qui per prudenza, per un antico vizio giornalistico: non faccio più il giornalista professionista da 15 anni. Qui ci sono i testi delle carte dell'archivio: cos'altro vogliamo? Quando si fa la storia si vanno a vedere gli archivi di Stato. Se si trovano delle carte, fino a prova contraria, esse sono valide.

CORSINI. Sugli archivi di Stato, come lei ben sa, c'è una seconda operazione da compiere, che è quella relativa all'autenticità delle fonti, perché non basta produrre un documento, bisogna dimostrare che è degno di fede, che è autentico.

PRESIDENTE. L'altro giorno, durante l'ultima audizione, è venuta una persona a dirci che ha visto un documento autentico russo in traduzione italiana; il che creava qualche problema sull'autenticità.

TARADASH. La Commissione possiede dei documenti che ci sono arrivati dalla Russia; abbiamo l'inchiesta Ionta, i rapporti tra Pci e Urss sono dimostrati!

PRESIDENTE. Dove però la periodizzazione storica diventa molto facile.

ZANI. Questo lo dovevano chiarire Fragalà e l'onorevole Giovine.

CORSINI. Onorevole Giovine, io ho fatto un'altra riflessione; ho detto che se noi applicassimo sillogisticamente la logica che lei applica all'interpretazione delle finalità dell'assassinio di Moro, dovremmo paradossalmente e arbitrariamente dedurre, sotto il profilo puramente logico-formale, che lei ha una responsabilità diretta in ordine alla mancata individuazione di personaggi che avrebbero potuto portare alla scoperta del covo e alla liberazione di Moro. Questo è un puro ragionamento logico-formale.

GIOVINE. Lei sta stabilendo un nesso di consequenzialità del tutto arbitrario. Lei mi sta dicendo che, siccome le persone con cui io ero in contatto erano a loro volta in contatto con le persone che in via Gradoli o altrove tenevano Moro, se io avessi dato il nominativo alla polizia...

CORSINI. In linea di principio, non di fatto.

GIOVINE. Ma l'errore che lei fa è che non c'è questo nesso, perché io avevo invece la certezza che i nostri interlocutori non erano i rapitori di Moro e non erano con costoro fisicamente in contatto. Infatti nei processi non è mai risultato nessuno scambio provato fra chi era dentro e chi era fuori. Cinque processi, nessuno scambio: perché mi dice queste cose? Per lasciare a verbale una traccia?

CORSINI. Ho letto la prima domanda che suppongo il Presidente le abbia fatto, perché è nel tabulato delle domande, che fa riferimento alla figura di Morucci.

PRESIDENTE. L'onorevole Giovine ha già risposto, dicendo che quello era un errore dei giornalisti, che lui oggi, ex post, può pensare che il contatto di quegli autonomi fosse Morucci, ma allora non ne aveva conoscenza.

GIOVINE. Questo l'ho chiarito all'inizio. La mia dichiarazione è stata riportata erroneamente dall'agenzia di stampa, a quell'epoca io non sapevo neanche chi era Morucci: la giornalista ha in qualche modo creato una sincope nell'intervista, ha messo insieme una valutazione di massima, come fu quella di Bologna, facendo in buona fede confusione. E’ un equivoco.

PRESIDENTE. Vorrei però su questo punto introdurmi un attimo. Poi risponderà alle domande di Corsini, meno a quella sul processo per diffamazione. Risponda semplicemente a questa domanda. Lo scontro politico era fra trattativa e fermezza; se la prigione di Moro fosse stata individuata e Moro fosse stato liberato, per il partito della trattativa sarebbe stata una sconfitta politica ed avrebbe dimostrato che la linea della fermezza era giusta; così come, per converso, se durante un'operazione militare che avrebbe dovuto portare alla liberazione di Moro casualmente, in uno scontro a fuoco, Moro fosse rimasto ucciso, per il partito della fermezza sarebbe stata una grande sconfitta, le piazze si sarebbero riempite di manifesti e di persone. Non potrebbe allora essere questa la banale spiegazione del perché i fautori del partito della trattativa non passarono agli organi di sicurezza informazioni che erano utili e del perché il partito della fermezza diventa il partito della stasi e non dell'azione? A me che non ho vissuto direttamente quel periodo questa sembra una verità che si impone in termini di assoluta evidenza logica.

GIOVINE. Concordo. Per la prima parte della sua esposizione, volevo farle presente...

PRESIDENTE. Le faccio un esempio: Dozier rappresenta una sconfitta del partito della trattativa, perché non c'è bisogno di trattare per fare operazioni di polizia, individuare il covo, entrare, liberare Dozier, e dopo un minuto Savasta aveva raccontato mezza storia delle Brigate rosse, la storia che conosceva lui; fu una sconfitta della logica della trattativa. Viceversa, nel momento in cui un'azione militare si fosse conclusa con la morte anche accidentale dell'ostaggio, sarebbe stata una sconfitta gravissima per il partito della fermezza. Ecco perché nasce la situazione di blocco: perché un problema istituzionale diventa un problema politico.

GIOVINE. Signor Presidente, secondo me non bisogna mettere neanche in linea teorica sullo stesso piano chi ha in mano lo Stato e chi con mezzi estremamente ridotti, sia pure con la collaborazione di uomini come Dalla Chiesa, cerca di porvi rimedio, perché non c'è paragone. Lo Stato della "fermezza" era fermo. Non sono io a dirlo, non voglio annoiare di nuovo la Commissione tirando fuori dei dati di stampa: era fermo! Noi cercavamo semplicemente la salvezza di Moro, non ci veniva neanche in mente quale fosse la conseguenza politica di una soluzione o dell'altra. Reagivamo al fatto.

PRESIDENTE. Sì, onorevole, ma in una riflessione serena un pedinamento di Pace avrebbe portato a Morucci e Faranda, un pedinamento di Morucci e Faranda avrebbe portato a Moretti, arrivati a Moretti con ogni probabilità Moro si sarebbe potuto liberare.

GIOVINE. Ed una ispezione nell'appartamento di via Gradoli fatta tempestivamente avrebbe portato...

PRESIDENTE. Esatto. Ecco perché dico che dovremmo abbandonare questa polemica, perché è la polemica politica che secondo me ha determinato involontariamente in gran parte l'evento e poi il concludersi tragico di questa vicenda.

GIOVINE. Signor Presidente, capisco il suo punto di vista. Mi rincresce che malgrado la mia troppo lunga esposizione non sia riuscito a dare l'idea di che cosa sia stata la primavera del 1978, di cosa sia stato quel periodo e di come tutti quelli che come noi hanno cercato di fare qualcosa ed anche coloro che, come il presidente Scalfaro, niente hanno fatto ma hanno forse pensato che potevano fare, ancora oggi annaspano in quest'idea che si poteva fare, che si doveva fare...

PRESIDENTE. Le consento di sindacare il Ministro dell'interno dell'epoca, non il Capo dello Stato di oggi perché questo ci è impedito dalla Costituzione.

GIOVINE. Mi riferisco all'interpellanza presentata e poi ritirata dal senatore Cossiga e poi ripresentata (e quindi agli atti) dal collega Mancuso, quindi non dico niente di nuovo.

PRESIDENTE. Ho ascoltato quel dibattito.

GIOVINE. Voglio solamente ricordare, per tornare alla domanda dell'onorevole Corsini, intanto che appena qualche giorno fa il senatore Cossiga ha di nuovo parlato dell'amnistia del 1989 e dei finanziamenti goduti dal Pci da parte del Pcus attraverso il KGB; non voglio neanche ripeterlo. Per quanto riguarda Michael Ledeen, per la verità non ho seguito questo personaggio anche se mi ricordo che ad un certo punto da notizie varie - perché era un personaggio inquietante, perciò interessante - avevo una documentazione. Confesso la mia negligenza: avendo già dovuto impiegare parecchie ore per prepararmi alla seduta di stasera, ho lasciato perdere Ledeen. Da qualche parte si troverà per esempio un articolo di Claire Sterling; Ledeen ne ha fatte di tutti i colori, però onestamente ricordo che ne sapevo molto di più dieci anni fa che non ora, ne sapevo abbastanza da poter affermare con certezza che era un uomo pericoloso... sul fatto poi che fosse dei servizi, onestamente io non credo che uno che fa parte dei servizi, di qualsiasi tipo, possa comportarsi con la disinvoltura che aveva Ledeen, però niente è escluso. Alexander Haig all'origine non era dei servizi, eppure ne disponeva, come si vide quando scoppiò lo scandalo "Iran-Contras".

PRESIDENTE. Ma la domanda era se i suoi studi nelle università americane le hanno dato informazioni specifiche su Ledeen.

GIOVINE. Io ho insegnato politica europea e mediterranea e rapporti internazionali (a quella che allora si chiamava School of Advanced International Studies), alla Johns Hopkins University di Washington e poi alla Standford University (il programma italiano), poi anche alla Johns Hopkins di Bologna. Alla prima mi aveva destinato nel 1971 proprio Spinelli; con la seconda ho sempre avuto rapporti, dato che in Italia la dirigeva un mio vecchio amico, lo storico Giuseppe Mammarella.

PRESIDENTE. Quindi non ha informazioni americane sul personaggio.

GIOVINE. No, assolutamente no. Sono informazioni note...

TARADASH. Bastava chiederlo.

GIOVINE. Non mi sono mai occupato accademicamente in questo mio periodo di insegnamento universitario di questioni che riguardassero servizi, perché non esiste nessun insegnamento pagato - e io insegnavo per denaro, non per la gloria, e per questo motivo lo facevo negli Stati Uniti - sull'argomento. Sull'ultima domanda del collega Corsini, sulla diffamazione, rispondo molto volentieri...

PRESIDENTE. Questa è una domanda che non vorrei ammettere. Lei può trincerarsi dietro questa mia valutazione di non ammissibilità della domanda.

GIOVINE. Poiché però la domanda potrebbe, se rimanesse senza risposta, ingenerare dubbi, volontariamente rispondo che avendo vinto cause per diffamazione (per esempio, una contro il quotidiano "l'Unità" a Milano che attraverso un Bollettino di Controinformazione Democratica compilato dai genitori di uno degli assassini di Tobagi, mi aveva accusato di alcune cose). Più tardi ne ho persa una e vinta un'altra contro due magistrati, per responsabilità oggettiva in quanto un mio collaboratore ed amico, attualmente noto giornalista televisivo, aveva scritto un pezzo in cui figurava la collocazione di un magistrato in un ambito massonico. Effettivamente, avendo avuto più tempo, forse potevo cancellare fra le tante cose quel riferimento, che tra l'altro era irrilevante per l'articolo. Mentre abbiamo vinto la querela del magistrato bolognese Persico, abbiamo perso quella contro il magistrato calabrese Marino: la Corte era presieduta dal giudice Caccamo. Sono cose che capitano. Molto si è discusso in ambito giornalistico se la responsabilità oggettiva sia veramente giusta o meno; io la ritengo giusta, perché ci deve essere pure un responsabile; essendo stato diffamato a volte io stesso... Ma non ho scritto mai niente che sia stato considerato diffamatorio per qualcuno, e di questo porto modesto merito.

PRESIDENTE. Tutta quella vicenda fa parte di un altro oggetto di inchiesta della Commissione, che però per adesso non stiamo affrontando. Direi che possiamo considerare conclusa questa audizione, anche perché siamo in ritardo con l'audizione del dottor Frattasio. Ringrazio pertanto l'onorevole Giovine per il suo contributo.

La seduta, sospesa alle ore 22,05, riprende alle ore 22,15.

Fine prima parte

prima parte

seconda parte

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