Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

47a SEDUTA

MERCOLEDI 17 FEBBRAIO 1999

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

Indice degli interventi

PRESIDENTE
BARCA
DE LUCA Athos (Verdi-l'Ulivo), senatore
FRAGALA' (AN), deputato
TARADASH (Forza Italia), deputato
TASSONE (Misto), deputato

 

La seduta ha inizio alle ore 20.10.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.

Invito la senatrice Bonfietti a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

BONFIETTI, segretario, dà lettura del processo verbale della seduta del 10 febbraio 1999.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

 

COMMEMORAZIONE DEL SENATORE GUALTIERI.

Il Presidente si leva in piedi, e con lui tutta la Commissione

PRESIDENTE. Colleghi, Libero Gualtieri non è più con noi.

In questi pochi giorni che hanno seguito la sua scomparsa, un compianto unanime è venuto da ogni parte del mondo politico e della pubblica opinione, nel riconoscimento di Libero Gualtieri come uno dei più autorevoli membri del Parlamento repubblicano nell'ultimo ventennio.

Ieri Gualtieri è stato ricordato dal presidente del Senato Mancino e al suo commosso ricordo si sono uniti, dopo il presidente del Gruppo dei Democratici di Sinistra, senatore Salvi, tutti i rappresentanti degli altri Gruppi politici, con una straordinaria concordanza d'accenti, nella quale è stato unanime il riconoscimento che nella sua lunga milizia politica uno dei momenti di maggior rilievo fu la presidenza di questa Commissione nella X e nell'XI legislatura.

A tanto vorrei aggiungere solo che Gualtieri è stato qualche cosa di più di un ottimo Presidente per questa Commissione, che considerava quasi una sua creatura per il ruolo decisivo che aveva avuto già nella fase della sua istituzione. Penso che il modo migliore per ricordarlo sia leggervi quello che Gualtieri disse in Senato il 17 marzo 1988, quando annunciò il voto favorevole del suo Gruppo sulla prima legge istitutiva di questa Commissione:

"Signor Presidente, il Gruppo repubblicano ha già dichiarato, nell'intervento svolto in sede di votazione del disegno di legge istitutivo di una Commissione parlamentare antimafia, che avrebbe votato con la stessa determinazione e con la stessa volontà di capire anche per questo disegno di legge. Occorre capire per poter agire, signor Presidente, non per poter perdonare secondo un noto detto francese. Qui abbiamo pochissimo da perdonare perché praticamente non abbiamo in mano nessuno da perdonare: non abbiamo in mano i principali responsabili delle stragi, i "burattinai", coloro che le hanno dirette. Chi in questo momento parla di perdono, lo fa più per farsi perdonare che per perdonare a sua volta. Prima di poter perdonare dobbiamo assicurare alla giustizia i colpevoli e capire cosa sono stati i venti anni delle stragi e del terrorismo in Italia: vent'anni della nostra storia che non è possibile leggere in chiaro, signor Presidente. Ci sono zone d'ombra ancora amplissime, ci sono zone vietate alla conoscenza e alle indagini svolte da tutte le Commissioni fin qui istituite. Ci sono inchieste, anche poderose, svolte separatamente dalla magistratura, ma non è stato mai possibile compiere una unificazione logica delle stesse. La Commissione che stiamo per istituire ha il compito di unificare le inchieste, di capire le parti separate compiendo una sorta di lavoro di centralizzazione della conoscenza, un lavoro utilissimo per poter finalmente cercare di mettere sotto un'unica possibilità di comprensione questi vent'anni della nostra storia non ancora penetrati".

Nella nettezza, nella semplicità, nella schiettezza di queste frasi personalmente rivedo Libero Gualtieri per come l'ho conosciuto, anche attraverso lo studio delle carte di questa Commissione nelle due legislature in cui non ne ho fatto parte. Fu questa la cifra che caratterizzò la sua Presidenza: sostituire all'osservatorio parcellizzato dei vari uffici giudiziari che indagavano su singoli episodi un osservatorio centralizzato di matrice parlamentare. Se oggi la situazione di quel passato non è più quella di totale oscurità che descrive Gualtieri nel suo intervento, questo è dovuto anche all'opera della Commissione da lui presieduta.

In questi giorni sulla stampa sono state ricordate le inchieste svolte dalla Commissione presieduta da Gualtieri su Gladio e su Ustica soprattutto, ma è l'insieme di tutto il suo lavoro ad assumere rilievo, anche negli aspetti meno ricordati. Vorrei da parte mia rammentare l'inchiesta sui fatti dell'Alto Adige, che furono già allora inquadrati come una possibile prova generale della strategia della tensione, che in anni successivi avrebbe insanguinato il paese. Traspare da quelle pagine, da quei verbali, uno sforzo collettivo di comprensione complessiva del periodo. Uno sforzo che poi ha avuto risultati preziosi, perché molte indagini che già allora erano in corso, ma che allora languivano, poi successivamente, durante queste ultime legislature, hanno raggiunto approdi ulteriori: penso alle indagini di Priore, di Salvini, di Lombardi, in parte anche a quella di Mastelloni. Ovviamente, esiti non ancora definitivi, che si raggiunsero però soprattutto per l'opera che la Commissione compì sotto la presidenza di Gualtieri, che volle continuare a farne parte anche quando fu chiamato ad altri importanti incarichi parlamentari: la Presidenza del Gruppo parlamentare della Sinistra Democratica nella XII legislatura, la Presidenza della Commissione difesa in questa legislatura; due legislature in cui Gualtieri è stato per questa Commissione una presenza attenta, vivace, spesso critica, ma preziosissima; quasi una memoria storica in una Commissione che di legislatura in legislatura è venuta rinnovandosi quasi completamente.

Vorrei aggiungere soltanto che la ritualità dell'occasione non mi fa velo. Non avrebbe senso non ricordare innanzi a voi, che ne siete stati testimoni, che se sul passato dell'esperienza di questa Commissione il punto di vista di Gualtieri e il mio pienamente coincidevano, sul presente e sul futuro della Commissione non vi era invece una piena convergenza. Penso che ciò dipendesse dalla diversità della nostra formazione: squisitamente politica quella di Libero Gualtieri, prevalentemente giuridico-istituzionale la mia, che mi lascia perplesso dinanzi a organismi parlamentari di inchiesta che, pur dotati eccezionalmente dei poteri della magistratura, tendono quasi a istituzionalizzarsi, cioè a continuare ad operare finché i fenomeni oggetto d'inchiesta non siano cessati. Questo era invece il punto di vista squisitamente politico di Gualtieri: finché ci sarà la mafia occorre una Commissione antimafia, finché sulle stragi e sul terrorismo non si sarà fatta piena chiarezza occorre che ci sia un osservatorio parlamentare, non tanto in vista del risultato finale dell'inchiesta, ma per il valore anche simbolico che l'impegno parlamentare può avere; quindi non come un mezzo per fare chiarezza, quanto piuttosto come un mezzo per attestare anche simbolicamente il valore che il Parlamento attribuisce allo scopo di fare chiarezza.

Devo dire, per la verità, che negli ultimi tempi segnali mi sono venuti dall'esperienza quotidiana, che in qualche modo danno ragione a Gualtieri. Il primo è l’oggettiva difficoltà che noi stiamo incontrando nel formulare una valutazione ampiamente condivisa sul passato, su questi vent’anni della nostra storia che, anche per merito del lavoro di questa Commissione, non possono più ritenersi totalmente oscuri. Il secondo sta nell’attenzione con cui la magistratura continua a seguire la nostra attività di inchiesta. L’audizione del dottor Ancora, di cui abbiamo approvato il verbale, ci è stata già richiesta da una procura della Repubblica; penso che ci verrà richiesta anche l’audizione di questa sera. Così come mi risulta che spunti indagativi, che vengono da atti di inchiesta di questa Commissione, stanno avendo presso altri uffici giudiziari sviluppi estremamente interessanti.

Ecco, chiudo – non nascondo una certa commozione – dicendo che in questi giorni ho spesso pensato quale sarebbe stata la reazione di Gualtieri se io gli avessi fatto, come con ogni probabilità gli avrei fatto, questo riconoscimento. Penso che lo avrebbe accolto con intimo orgoglio, ma non lo avrebbe dato a vedere; avrebbe mascherato il compiacimento dietro quel suo atteggiamento di costante e borbottante insoddisfazione, di quella sua costante scontentezza che, in fondo, può essere, come nel caso di Gualtieri era, la matrice di un alto impegno politico, quello del politico che si impegna giorno per giorno per il bene comune, perché pensa di poter contribuire a un ordine migliore delle cose: la fatica a cui il politico affida la speranza di poter lasciare una traccia della sua presenza sulla terra. Auguro che la terra oggi sia lieve a Libero Gualtieri.

Nel chiudere questo ricordo, chiedo alla Commissione un minuto di silenzio.

La Commissione osserva un minuto di silenzio in segno di rispetto e di lutto.

 

INCHIESTA SUGLI SVILUPPI DEL CASO MORO: AUDIZIONE DEL SENATORE LUCIANO BARCA

Viene introdotto il senatore Luciano Barca

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’inchiesta sugli sviluppi del caso Moro. È in programma oggi l’audizione del senatore Luciano Barca, che ringrazio della sua presenza.

Ovviamente non devo farvi perdere tempo nell’illustrare le ragioni di questa audizione. Voi ricorderete che nella scorsa seduta abbiamo ascoltato il dottor Tullio Ancora, amico e in qualche modo collaboratore dell’onorevole Moro. Nel memoriale dell’onorevole Moro c’era un passaggio preciso che riguardava la strage di piazza Fontana. Moro diceva che fu raggiunto a Parigi da un lancio di agenzia che annunciava la strage, e provò immediatamente una sensazione d’allarme per qualche cosa di oscuro e di allora non preciso che poteva esservi dietro questo evento sanguinoso. Poco dopo Moro fu raggiunto da una telefonata del dottor Ancora che l’informava che alcuni suoi amici comunisti lo avevano, sia pure con cautela, in qualche modo allertato invitandolo a comunicare allo stesso Moro che sarebbe stato prudente nel suo ritorno in Italia assumere qualche cautela; cosa che l’onorevole Moro afferma poi di aver assunto. Questi sono fatti noti perché fanno parte del memoriale di Moro, ma il dottor Ancora nella sua audizione ci ha detto che l’autore della telefonata, che poi aveva determinato la sua telefonata all’onorevole Moro, era stato l’onorevole Luciano Barca, con il quale aveva buoni rapporti. Queste sono le ragioni per cui sentiamo oggi il senatore Barca.

Anche se poi ho riletto il verbale e l’impressione che avevo avuto nell’immediatezza dell’audizione si è un po’ attenuata, in qualche modo il dottor Ancora ha diminuito l’importanza dell’allarme, facendo un riferimento a possibili reazioni della Grecia. Voi ricorderete che anche il generale Maletti, quando lo abbiamo sentito a Johannesburg, ci disse che una delle ipotesi che immediatamente si formularono fu che la strage di piazza Fontana poteva essere ricondotta o ad una ritorsione della Grecia o comunque, genericamente, alla possibilità che in Italia ci fossero disordini. Invece, la lettura del memoriale ci porta, direi quasi naturalmente, verso un’ipotesi un po’ più grave: cioè che la preoccupazione che Ancora comunicava a Moro (e che poteva venire da una parte del PCI) riguardasse una situazione di tensione istituzionale, e che fosse proprio con riferimento a questo possibile accendersi della tensione istituzionale che veniva consigliato a Moro di avere prudenza nel tragitto di ritorno in Italia.

Noi questa sera sentiamo il senatore Barca. Innanzitutto gli dobbiamo chiedere se conferma di aver fatto quella telefonata al presidente Ancora, quali ne fossero i contenuti e quali fossero le fonti informative, le "antenne" del PCI di allora che subito dopo la strage di piazza Fontana lo indussero a lanciare questo messaggio da inviare all’onorevole Moro.

BARCA. Io ero allora vicepresidente del Gruppo parlamentare del PCI. Ricevetti la notizia dell’attentato di piazza Fontana a Montecitorio. Come accade, in questi casi, vi fu un immediato accorrere di giornalisti; se arrivò prima l’Ansa o un altro giornalista, non lo so. Avuta la notizia, ci riunimmo come Presidenza nella sede del Gruppo del PCI, nella stanza dell’onorevole Pietro Ingrao, il quale era sicuramente presente, mentre degli altri non ricordo esattamente. Iniziammo subito una serie di telefonate, come potete immaginare per avere notizie dirette. Anche i parlamentari milanesi cercarono notizie da Milano. Ci fu un minimo di confronto con parlamentari milanesi di altri Gruppi per capire. L’allarme fu molto grosso e tutto Montecitorio era in fermento per quello che era accaduto ed era profondamente turbato.

È possibile – ma su questo non sono in grado di essere preciso – che l’onorevole Ingrao ad un certo momento si sia recato a via delle Botteghe oscure per parlare con il vicesegretario del partito, che era allora Berlinguer, e con il responsabile dei problemi dello Stato e dell’ordine pubblico, che era l’onorevole Pecchioli. Tuttavia l’indicazione che venne da Berlinguer fu quella di cercare di avere il massimo di contatti, di notizie, ma per vie istituzionali. Quindi Ingrao si ritrasferì nella sede del Gruppo parlamentare comunista per agire nella sua qualità di presidente del Gruppo parlamentare comunista più che di membro della direzione del partito. Facemmo varie telefonate e le prime notizie che da varie fonti - che adesso non potrei precisare - furono raccolte, e che grosso modo coincidevano con quelle che arrivavano a Botteghe Oscure con cui eravamo in contatto, erano che ci potesse essere stato un intervento esterno. La Federazione di Milano tendeva ad escludere che fosse un fatto milanese, quale che fosse la parte che lo aveva organizzato, e questo faceva allora ancora più riflettere, ma la voce che fosse un fatto esterno, cioè che ci potessero essere state delle interferenze estere, era una voce... Specificamente ci furono riferimenti, come ha ricordato il Presidente, alla possibile vendetta-ritorsione della Grecia per le critiche che l’Italia aveva mosso al regime dei colonnelli, per le manifestazioni che c’erano state eccetera, e che questo potesse anche essere avvenuto in collegamento con qualche forza interna; non voglio dire servizio deviato, perché in quel periodo non usavamo questa terminologia.

Ci fu allarme. Credo che un primo contatto tentammo di prenderlo con l’onorevole Restivo intorno alle ore 18. Cioè, formalmente Ingrao chiese un colloquio all’onorevole Restivo, ministro dell’interno, per avere notizie e Restivo, in un primo momento, appunto intorno alle 18, quando più o meno avvenne la prima telefonata, disse che non avevano ancora elementi, che tutte le ipotesi erano possibili e così via. Successivamente a questa telefonata che accrebbe l’allarme io telefonai al dottor Tullio Ancora, che era il tramite informale con l’onorevole Aldo Moro, per sapere se alla Presidenza del Consiglio sapevano qualcosa. Lui mi disse che non solo non sapevano qualcosa ma che non era nemmeno riuscito ….

PRESIDENTE . Mi scusi se la interrompo, questo deve essere un falso ricordo: allora Moro era ministro degli esteri.

BARCA. Sì, ha ragione, era ministro degli esteri. Comunque per sapere, attraverso il dottor Ancora - perché poi era con Moro, che personalmente, oltre che come partito e come parlamentare, io avevo dal 1968 stabilito un certo rapporto personale; fatto anche di cortesie reciproche - se si sapeva qualcosa, dalla Presidenza del Consiglio o dalla Presidenza della Repubblica.

Quindi in parte telefonai per acquisire informazioni, però, nel corso della telefonata - adesso non mi ricordo se fu una telefonata o se furono due - quando mi disse che l’onorevole Moro era ad una riunione dei Ministri degli esteri o ad una assemblea a Parigi, dato l’allarme che regnava gli chiesi: "Ma ci hai parlato, l’hai avvertito? Qui c’è un clima molto incandescente, credo che sia giusto che tu lo avverta, che prenda anche qualche misura, perché qua non si riesce a capire assolutamente che cosa stia accadendo". Questo deve essere avvenuto tra le ore 18 e le ore 20 del giorno dell’attentato. Dico tra le ore 18 e le ore 20 perché alle ore 20 venne una telefonata (o Ingrao telefonò a Restivo o Restivo, in risposta alle sollecitazioni, richiamò) piuttosto tranquillizzante (se tranquillizzante può dirsi relativamente a quella tragedia che c’era stata) in cui ridimensionava l’allarme affermando che tutto sembrava dovuto ad un gruppetto minoritario e che non c’era da temere. Ripeto: intorno alle ore 20, per iniziativa dell’onorevole Restivo e di questa sua comunicazione, ci fu un po’ un ridimensionamento dell’allarme che c’era stato.

PRESIDENTE. La ringrazio onorevole. Le devo fare un’altra domanda che probabilmente le verrà poi proposta anche da altri membri della Commissione.

Come lei saprà, tra gli atti che noi abbiamo acquisito c’è un’inchiesta della procura di Roma che ha riguardato quella che poi, con una semplificazione dei media, è stata chiamata la "Gladio rossa". Emergerebbe da questi atti che il PCI di allora aveva quasi come una specie di servizio di informazioni. Lei ritiene che fonti di allarme siano potute venire da lì? Perché, come lei ricorderà, l’onorevole Moro parla di questa vicenda tragica della strage di Piazza Fontana all’interno di un discorso più ampio sulla strategia della tensione, rispetto alla quale parla di responsabilità istituzionali interne - dice - forse anche estere, e di connivenze e indulgenze all’interno del quadro politico di Governo. La mia domanda è questa: il PCI di allora che sensazione ebbe di tutto questo? Tenete presente che la Commissione ha sentito anche Taviani, il quale ci ha confermato questa idea di un quadro di responsabilità istituzionali, soprattutto dietro la strage di Piazza Fontana. Ci ha detto: "La strage di Piazza Fontana è stata organizzata da persone serie; probabilmente il suo effetto sanguinoso non era voluto: la bomba sarebbe dovuta esplodere a banca chiusa, come esplosero le bombe contemporanee a Roma". Il complesso della domanda è allora questo: di tale quadro di possibili responsabili istituzionali, il PCI che intuizione e che conoscenza ebbe? E se il PCI ebbe intuizioni, e ancora di più conoscenza, la scelta, perché così sembrerebbe, non fu tanto quella di passare ad una denuncia, quanto invece di stringere rapporti istituzionali, rapporti politici in particolare, con settori della Democrazia cristiana, come quello che faceva riferimento all’onorevole Moro, per vedere di dare una risposta politica al pericolo che la democrazia poteva correre. Un tipo di ricostruzione di questo genere è forzata o in che limiti ha elementi di realtà?

BARCA. Qualche elemento di realtà c’è. Nel senso che allora il Partito comunista era un partito organizzato con delle federazioni, con un responsabile di organizzazione e un responsabile per la stampa e propaganda in ogni federazione. Quindi è evidente che Pecchioli ed altri dirigenti avranno cercato delle notizie e certamente non le hanno cercate solo a Milano. Però, francamente, dovrei fare delle ipotesi: non è che esisteva una rete di informazione specifica. Io ho fatto per venti anni il redattore ed il direttore de "L’Unità" e debbo dire che molte volte la rete di informazione era "L’Unità". Cioè, eravamo noi come giornalisti che, prima ancora del partito, segnalavamo notizie, ad esempio dal redattore che teneva i rapporti con la questura: come ogni giornale anche noi avevamo nostri cronisti giudiziari legati agli ambienti giudiziari e legati agli ambienti della questura. Questa fu la mia esperienza di vent’anni a "L’Unità"; (fui prima redattore capo a Roma e a Milano, poi direttore a Torino): molte volte arrivavamo noi a dare l’allarme e a mettere il partito sull’avviso di qualche questione. Sulla seconda questione cui lei ha accennato, e cioè se c’erano anche timori sul fatto che potessero essere coinvolte figure istituzionali o spezzoni di figure istituzionali, rispondo che tale timore ci fu. Dovete rendervi conto che quella avvenuta era stata davvero un’azione quasi militare. Correggerei invece l’idea che sia stata questa l’occasione per l’avvio di un discorso con l’onorevole Moro e con la sua piccola corrente.

PRESIDENTE. Non volevo dire questo. Non intendevo asserire che poteva essere stato questo l’avvio del discorso, ma proprio perché c’era già un rapporto precedente…

BARCA. Sì, certo: non a caso, infatti, telefonai al dottor Ancora, perché c’era un rapporto precedente. Il rapporto era cominciato su tutt’altro terreno, quello dell’economia, nel 1964, quando l’onorevole Giolitti mi aveva presentato all’onorevole Moro con un atto di gentilezza e di attenzione, ma aveva assunto un carattere un po’ diverso quando nel ’68, per i fatti di Valle Giulia, io cercai inutilmente, personalmente - sempre nella mia qualità di vice presidente di Gruppo - un contatto con il ministro dell’interno e con quello della pubblica istruzione (che all’epoca era l’onorevole Gui) perché fummo informati, presso il Gruppo parlamentare comunista, che erano stati emessi non so se dei mandati di cattura o degli ordini di fermo contro alcuni giovani che si erano nascosti. Una delegazione di giovani ci informò che erano stati emessi questi mandati di cattura. Alcuni studenti erano venuti al Gruppo parlamentare comunista, altri, credo nella sede di altri gruppi. Le cose precipitarono quando alle due di notte, nella mia abitazione di allora, in via Gianbattista Vico 9, venne uno di questi giovani (con i quali avevamo avuto questo colloquio insieme ad Ingrao nel pomeriggio, presso il Gruppo parlamentare comunista) a dirmi che gli era stato passato al termine degli scontri un biglietto con un indirizzo di una casa sicura in cui rifugiarsi. Era uno degli studenti che aveva avuto il mandato di cattura ed era andato in questa casa dove aveva scoperto che c’erano delle armi. Lui non voleva tornare in questa casa, ma neppure andare in prigione. Quindi passò la notte a casa mia e la mattina cercai, per l’appunto, questi contatti con i Ministri dell’interno e della pubblica istruzione cui raccontai il fatto; ebbi dei rifiuti alla richiesta di una soluzione ed allora, in base al fatto che dal ’64 con l’onorevole Moro c’era un rapporto di saluto, di cortesia e così via, con grande faccia tosta telefonai direttamente all’onorevole Moro, alla Presidenza del Consiglio, gli dissi che c’erano dei giovani che rischiavano di essere coinvolti, al di là della loro volontà, perché erano stati dati loro degli indirizzi pericolosi e gli chiesi se sarebbe stato possibile sistemare tale questione. L’onorevole Moro telefonò al Ministro dell’interno, il quale gli rispose che istituzionalmente non voleva e non poteva intervenire. Telefonò all’onorevole Gui, che pur essendo collaboratore e amico di Moro rifiutò, ed allora chiamò l’onorevole Scaglia. Intanto gli studenti avevano saputo che erano stati spiccati dei mandati di arresto, erano usciti in corteo dall’università per occupare Piazza Colonna, Largo Chigi e così via. L’onorevole Moro convinse il Ministro per i rapporti parlamentari, Scaglia che era un suo fedele amico a tentare una mediazione. Nella sala del Governo, a Montecitorio, ci fu un incontro tra l’onorevole Scaglia e una delegazione degli studenti. Fu una trattativa molto difficile e lunga – della quale, venni ogni tanto informato - alla fine della quale da parte degli studenti fu deciso di cessare ordinatamente l’occupazione di Piazza Colonna e di Largo Chigi e da parte dell’onorevole Scaglia, il quale, immagino, ebbe contatti con il questore (non so esattamente con chi le ebbe) venne l’assicurazione che i mandati di cattura o di fermo sarebbero stati revocati. Questo fu l’accordo. Ci furono degli sviluppi, perché poi - la mattina dopo - l’onorevole Moro mandò da me il dottor Ancora per dirmi che, poiché aveva ricevuto dei giovani non appartenenti a partiti parlamentarmente rappresentati, riteneva giusto ricevere (come infatti fece) a Palazzo Chigi i responsabili giovanili i segretari giovanili dei vari partiti rappresentati in Parlamento, perché voleva che non si determinasse alcun privilegio. La storia ebbe ancora qualche sviluppo perché andai a visitare l’università "La Sapienza" occupata. Ottenni un permesso per entrare dal comitato di occupazione ed ebbi dei colloqui con il presidente di tale comitato, che era Nuccio Fava insieme a Raoul Mordenti. Poi mi recai anche alla facoltà di economia e commercio, a Piazza Fontanella Borghese, dove ebbi dei colloqui sia con gli studenti che con i professori (Caffè e Marrama) ed ebbi delle rassicurazioni. Alla facoltà di economia e commercio trovai tutto tranquillo. Il professor Federico Caffè ed il professor Vittorio Marramao avevano trasformato l’occupazione in una specie di seminario di politica economica "a ruota libera" e quindi, attraverso il dottor Ancora, mi permisi di mandare a dire a Moro che mi sembrava che le cose stessero diventando meno aspre ed acute, e che quindi - tutto sommato - l’effetto della mediazione che egli aveva accettato di fare era stato positivo.

Così si stabilì un mio rapporto personale con l’onorevole Moro, rapporto che quando l’onorevole Berlinguer diventò vicesegretario del partito io trasferii a Berlinguer. Ecco perché, da una parte io e dall’altra il dottor Ancora, diventammo i tramiti di questo rapporto fino a pochi giorni dopo il rapimento dell’onorevole Moro, quando fui chiamato dall’onorevole Pecchioli, al secondo piano di Botteghe Oscure, e mi fu detto che, su richiesta della signora Eleonora Moro, richiesta comunicata (se non erro) dal dottor Guerzoni, non dovevo assolutamente occuparmi della questione e del rapimento Moro e dovevo rimanere fuori da ogni contatto. La cosa mi addolorò, mi colpì, anche se, ovviamente, ubbidii, visto anche che era la signora Moro a chiedere questo. Quello che mi colpì è che la sera telefonai al dottor Ancora per dirgli: "Guarda," - non ricordo se ci davamo ancora del lei o se eravamo passati al tu - "ormai sono fuori da ogni cosa per quanto riguarda Moro", e lui mi disse che gli aveva telefonato la signora Moro e gli aveva detto la stessa cosa, cioè che anche lui non doveva interferire e lasciare gestire tutto a Freato, Rana e Guerzoni.

PRESIDENTE. La mia domanda era un po’ diversa.Lei ha ricordato più volte l’onorevole, poi senatore, Pecchioli, che io ho conosciuto. In questi anni, in queste due legislature, leggendo carte, mi sono fatto un’idea sulle tensioni istituzionali del periodo su cui noi indaghiamo, ma la domanda che spesso mi faccio è la seguente: è possibile che un uomo come Pecchioli non avvertisse in tempo reale, mentre le cose avvenivano, quello che a me è sembrato di capire attraverso la lettura delle carte? E quindi quale fu la strategia del PCI in quegli anni? Voi percepivate queste tensioni istituzionali, la possibilità che in qualche modo ci potessero essere responsabilità istituzionali (anche se - secondo me - non si arrivò mai ad un livello di guardia tale che la democrazia corresse qualche pericolo) e, quindi, quali fossero le forme migliori di intervento in una situazione nella quale dire pubblicamente determinate cose avrebbe potuto, in qualche modo, soprattutto poi negli anni successivi, legittimare l’azione delle BR, l’azione di Curcio? Oppure voi non percepivate queste tensioni istituzionali e ritenevate che, in realtà, la democrazia in Italia non corresse rischi seri? Le chiedo una valutazione politica, sia pure sul piano del ricordo e della memoria.

BARCA. Sul filo del ricordo e della memoria debbo dire che nel periodo successivo alla morte di Togliatti (quindi il periodo della segreteria Longo, poi della segreteria Berlinguer) non sempre il partito percepì in tempo i pericoli; a volte li percepimmo quando le cose erano già avvenute. Non voglio dire che ogni tanto non ci fosse qualche allarme. Tanto per essere chiari, io stesso due o tre volte, come membro della segreteria nazionale del partito, dal 1960 al 1963, poi come dirigente del partito, ricevetti indicazioni di allarme e avvertimenti di stare attento e in due occasioni ricevetti anche l’indicazione di un indirizzo dove recarmi per proteggermi nel caso che fosse successo qualcosa. Quindi non è che non ci furono allarmi ma, per esempio, non credo che fu percepito in tutta la sua gravità quello che poi avvenne nel 1964. Non lo credo assolutamente. Credo che Pecchioli, pur molto attento, in molti casi si sia fidato troppo di conoscenze e di un certo rapporto che era rimasto fra i partigiani di diverse organizzazioni. Per esempio, credo che avesse un ottimo rapporto con l’onorevole Taviani. Io sarei stato più cauto, personalmente, in taluni casi. L’onorevole Pecchioli aveva ottimi rapporti con altri comandanti partigiani, dato che era stato un comandante partigiano che aveva operato in Piemonte a stretto contatto con organizzazioni partigiane di altri colori, soprattutto con il Partito d’Azione, che era molto forte in Piemonte e con altre organizzazioni. Ho citato il periodo precedente al 1964 perchè ricordo un allarme di Togliatti, mi sembra nel 1954, e in quell’occasione mi venne il dubbio che a Togliatti, che stava in villeggiatura in montagna, fosse stato detto qualcosa addirittura da fonte liberale.

PRESIDENTE. E durante il sequestro Moro, in cui - come ha detto recentemente il Capo dello Stato - potevano forse esserci altre intelligenze dietro le BR? Qual era la valutazione che facevate? Oppure ritenevate che si trattasse di un fatto chiuso al terrorismo rosso?

BARCA. Di questo abbiamo molto discusso. Se il Presidente me lo consente, vorrei presentare l’estratto relativo a quel periodo di un diario che va dal 1944, quando ero in Marina, ai nostri giorni.

PRESIDENTE. La ringrazio.

BARCA. In questa parte di diario sono citati anche episodi che non riguardano affatto la questione Moro, ma per rispetto verso la Commissione non li ho né cancellati né tagliati, ma li ho semplicemente segnati e prego che quelle parti non siano utilizzate; infatti, si tratta di rapporti con colleghi, discussioni di politica economica, quindi la questione Moro non c’entra. Ad esempio, si discute dell’aborto o di un mio colloquio con il ministro Pandolfi. Mi sembrava scorretto cancellare queste parti che ho invece segnato con la penna. In queste pagine di diario sono contenute note, a partire dal 15 marzo fino al giorno e al momento in cui mi resi conto, dal sesto piano di Botteghe Oscure, che era accaduto qualcosa di terribile e quindi mi precipitai al secondo piano rompendo la regola che mi era stata imposta. Infatti, in tutto quel periodo io non ho mai parlato con Berlinguer della questione Moro, salvo che nelle riunioni ufficiali di direzione alle quali partecipavo ed intervenivo ovviamente come membro della direzione del partito.

PRESIDENTE. Questo è molto interessante. Ad esempio, lei formula l’ipotesi del canale di ritorno.

BARCA. Io formulo nel diario l’ipotesi del canale di ritorno.

PRESIDENTE. I "postini" vengono e vanno.

BARCA. Esatto. Ed uno dei rimproveri che ho mosso non solo all’onorevole Pecchioli, ovviamente, è che forse si poteva fare qualcosa di più per individuare questi postini. Ci furono invece dei momenti (per esempio l’attentato al mio amico Carlo Castellano dell’Ansaldo, l’uccisione dell’operaio Guido Rossa a Genova, cose di cui mi occupai per rapporti di stretta amicizia che avevo con Carlo Castellano e che avevo poi stabilito su questo terreno con i genovesi e che mi portarono poi ad occuparmi della questione di Rossa) nei quali casi ci fu una mobilitazione del partito e cercammo di mettere in moto gli operai. Guido Rossa ha pagato con la vita proprio il tentativo di cercare di scoprire chi metteva i volantini delle Brigate rosse in fabbrica. Quindi ha pagato con la vita proprio l’avere ubbidito a questa mobilitazione. La mia impressione è che durante il caso Moro noi adoprammo molto i canali istituzionali, cioè i contatti con il comitato di crisi di Cossiga, rapporti con il questore di Roma, ma secondo me, anche se la Federazione del PCI di Roma si impegnò a fondo, non ci fu la stessa mobilitazione.

PRESIDENTE. La ringrazio, questo è molto interessante. Noi, ad esempio, sentiremo l’avvocato Guiso, quindi potremo avere conferma dell’episodio. Della citazione di Svetonio da parte di Bufalini ce lo ha raccontato anche il dottor Ancora.

BARCA. Però poi Bufalini è stato il relatore al comitato centrale. L’ultimo contatto con il dottor Ancora, prima del rapimento, l’ho avuto verso la mezzanotte del 15 marzo, come è scritto nella prima pagina del mio diario. La formazione del Governo non ci aveva soddisfatto, aveva scontentato profondamente alcuni membri della segreteria e della direzione. Era stata chiesta una riunione della direzione perché eravamo delusi dalla composizione del Governo Andreotti. Moro, evidentemente, si preoccupò di queste reazioni. Fra le ore 23 e la mezzanotte del 15 marzo, il dottor Ancora mi telefonò dicendo che aveva un messaggio di Moro per Berlinguer. Poiché lui abitava vicino a viale Gorizia ed io abitavo vicino alla via Salaria, decidemmo di incontrarci a metà di via Chiana scortati dai rispettivi figli maggiori. Sulla tettoia di una macchina trascrissi il messaggio di Moro per Berlinguer, che diceva: non mandiamo per aria tutto perché nel Governo c’è rimasto questo o quel Ministro; la cosa che stiamo facendo va al di là di queste particolarità; del resto io, Aldo Moro, ho sempre detto che avrei operato nell’unità di tutta la DC, questo non l’ho mai nascosto, e quindi vi prego di non precipitare i giudizi. Quando andai per consegnare questo messaggio a Berlinguer, c’era già la notizia del rapimento di Moro. Erano le ore 9 del mattino.

PRESIDENTE. Quindi possiamo verbalizzare che il senatore Barca ci consegna una copia del suo diario, che va dal 15 marzo al 9 maggio 1978.

TARADASH. Vorrei porre una domanda al senatore Barca. Mi sembra che il quadro che lei ha fatto della situazione di quei giorni, anche dal 1967, dà l’idea di uno Stato che non è molto di diritto, nel senso che il Governo si impegna per la magistratura e d’altra parte il Partito Comunista ha una rete clandestina che protegge i ragazzi che sono stati raggiunti da mandato di cattura.

BARCA. Questo lo sta dicendo lei, non l’ho detto io. Non ho parlato di rete clandestina, ho detto che si è presentato un gruppo di giovani nella sede del Gruppo parlamentare del PCI, in via Uffici del Vicario, che ci ha chiesto di intervenire perché alcuni giovani erano stati…

PRESIDENTE. …portati in luoghi dove c’erano armi.

BARCA. No. Ci chiesero semplicemente di intervenire ed intervenimmo senza ottenere nulla attraverso i normali canali istituzionali. Non c’era alcuna rete clandestina. Posso anche dire il nome del giovane che venne a casa mia, si chiamava Olivetti. Lo conoscevo perché conoscevo tutto il giro di architetti e urbanisti ed Olivetti era un architetto e urbanista. Abitavo a casa di mio suocero (Campos Venuti), che tra l’altro era di idee totalmente opposte alle mie. Può immaginare se potevo avere una rete clandestina a casa mia, dal momento che mio suocero votava per il Movimento sociale italiano. Ciò nonostante, avevamo degli ottimi rapporti affettivi. In quella casa venne il giovane Olivetti. La mattina, appena possibile, cercai di mettermi in contatto con gli organi istituzionali (Ministero dell’interno, Ministero della pubblica istruzione e Presidente del Consiglio). Mi dica di quale rete clandestina ho parlato! La prego di non travisare ciò che ho detto.

TARADASH. Va bene. La domanda che le volevo fare in particolare è la seguente. Questo ragazzo era stato dirottato verso una sede provvisoria – diciamo così – dove ha trovato delle armi. Lei gli chiese da chi fosse stato indirizzato e a chi appartenessero le armi? Qual era la rete clandestina cui aveva fatto riferimento il ragazzo? Questo l’avrà chiesto, almeno.

BARCA. Il giovane mi disse che da una macchina – credo una "500"– gli era stato passato un biglietto con l’indirizzo di questo luogo dove trovare… Egli ci andò, però non mi volle dire qual era l’indirizzo della casa da cui era fuggito.

TARADASH. E la "500" a chi apparteneva?

BARCA. Non lo sapeva nemmeno lui, ma mi disse che non si trattava di studenti.

TARADASH. Senatore Barca, sono cose poco credibili. Onestamente, non intendo travisare, però mi permetta di dubitare della sua versione dei fatti.

BARCA. Ripeto quello che è accaduto. Alle ore 2 di notte viene un giovane che conoscevo per contatti con l’ambiente della facoltà di architettura. Mi dice: "sono andato a questo indirizzo. In mezzo a noi evidentemente c’era qualcuno che non era uno studente, questo è chiaro". Ma poi chi fosse non lo sapeva nemmeno lui.

TARADASH. Ma lei era a conoscenza dell’esistenza di quella che viene definita la Gladio rossa?

BARCA. No, non ne ero a conoscenza.

TARADASH. Esclude che esistesse qualcosa di simile ad una rete di protezione difensiva del Partito Comunista, che fosse in grado di salvaguardare la vita o la libertà dei dirigenti comunisti ed eventualmente sostituirli?

BARCA. Come lei sa, fino ad un certo anno – credo sia stato il 1953, se non sbaglio, ma non vorrei dire cose inesatte – esisteva una struttura di protezione per Palmiro Togliatti, che faceva capo all’onorevole Pietro Secchia ed al segretario dell’onorevole Secchia, Seniga, che poi fuggì con documenti del Partito, la cassa del Partito ed un elenco di nomi. Poi scoprimmo che esisteva anche uno schedario che l’onorevole Secchia e questo Seniga tenevano. Da quel momento, ci fu la distruzione di questo schedario e lo smantellamento di questa rete; inoltre, l’onorevole Secchia fu tolto dall’incarico di responsabile dell’organizzazione (perché questa rete era costituita da alcuni appartenenti alle varie commissioni di organizzazione o alla commissione di organizzazione, per quello che ne so io) e fu nominato l’onorevole Amendola che, come un carro armato, distrusse quello che c’era di questa rete. Da allora, non mi risulta che vi sia stata alcuna rete ma semplicemente, nel periodo del terrorismo ad esempio, a me, che avevo sempre guidato l’automobile, fu dato un autista che era anche la mia vigilanza. Se questa è una rete allora essa era rappresentata dal mio autista.

TARADASH. Quella non era una rete. In occasione del "quasi golpe" di De Lorenzo venne fuori una lista, poi scomparsa, dei cosiddetti enucleandi, che contava circa un centinaio di nomi di persone che facevano capo al partito comunista e che avrebbero dovuto essere catturati dai golpisti e trasportati in una base militare della Sardegna. Abbiamo pensato che questa lista fosse collegabile alla Gladio rossa. Per l’esattezza, la Commissione ha questa convinzione abbastanza unanime.

PRESIDENTE. Effettivamente vige questa ipotesi, secondo cui la famosa lista degli enucleandi di De Lorenzo fossero in realtà i nomi della rete clandestina di Secchia o almeno la prosecuzione di una rete clandestina del partito comunista italiano. Avete mai formulato questa ipotesi? Non si è mai capito bene perché la lista non è mai uscita. Potevano essere dirigenti…

BARCA. Credo siano i dirigenti del partito; comunque credo che qualche giornale abbia pubblicato quella lista in ogni caso, adesso che lei mi pone questa domanda, le dirò che mentre ero redattore capo de "L’Unità" di Milano – siamo negli anni tra il 1950 ed il 1953 – non so da chi, ma fu pubblicata (quindi, da qualche parte dovrebbe esserci) la lista dei comunisti pericolosi, una pubblicazione che mi sembra si chiamasse "I quaranta terribili bolscevichi". Si disse che era stata presa dagli archivi della CIA, dei servizi segreti americani. Non ne esiste traccia comunque nel mio diario.

TARADASH. Non credo sia la stessa cosa. Inoltre, il partito comunista aveva dei rapporti abbastanza stretti con l’Unione sovietica – e li ha avuti sicuramente – fino alla metà degli anni ‘70, nell’epoca della strage di piazza Fontana; è immaginabile che Ugo Pecchioli, il referente più diretto del partito comunista sovietico, almeno per quanto riguarda la figura di rappresentante degli interessi sovietici in Italia, abbia avuto dei collegamenti anche durante il periodo delle stragi. Avete avuto notizie dai servizi segreti sovietici? Ne discutevate? L’Unione sovietica faceva scenari? Immaginava che la strage di piazza Fontana potesse essere opera della CIA o di altri servizi segreti? In che cosa consisteva questo rapporto? Inoltre fino al 1976 ci sono state frequenti missioni ufficiali da parte del partito comunista con invio di giovani dirigenti in Unione sovietica o in altri paesi comunisti per addestramento culturale e non so di che altro tipo. Probabilmente, questo rapporto è diventato meno ufficiale. Tuttavia, ho trovato un documento del 1982 in cui si dà notizia che il partito comunista aveva invitato i responsabili di questo settore a far scomparire tutta una serie di ricetrasmittenti di provenienza sovietica ancora operative. Ha avuto notizia di questi fatti e del perché ancora nel 1982 esistessero dei rapporti che portavano alla fornitura di ricetrasmittenti, di passaporti falsi o di documenti di questo genere?

BARCA. Non so assolutamente niente di quello che lei mi chiede, anche se posso dirle che Pecchioli era solo un referente stimato del PCI. D’altra parte nel partito sono stato per anni esterno all’apparato. Ho fatto il giornalista fino al 1960 quando improvvisamente (per una idea di Togliatti e Longo di immettere nella segreteria del partito uno che non veniva dall’apparato o, come diceva Giorgio Amendola sfottendomi, che non era mai stato vescovo, e di metterlo dall’esterno nella segreteria del partito) fui proiettato dalla direzione di una rivista economica che si chiamava "Politica ed economia", con sede in via Nazionale, nella segreteria nazionale del partito dove, tra l’altro, in un primo momento feci anche delle brutte figure perché non conoscevo nemmeno i nomi dei segretari delle federazioni. Ero veramente un tentativo di innesto. Ci furono delle novità in quel periodo. Togliatti nell’ultimo periodo cercò di innovare: nella segreteria del partito dovevano esserci, per statuto, due membri non parlamentari per evitare il parlamentarismo e due membri non appartenenti alla direzione del partito, in maniera che non ci fosse una identificazione con il vertice. Vi erano perciò anche due membri semplici del comitato centrale; infatti, nel 1960, quando entrai non ero membro della direzione del partito ma membro del comitato centrale e lo ero diventato perché, per tradizione, il direttore de "L’Unità" veniva nominato membro del comitato centrale. Nel periodo – che non ha nulla a che fare con il periodo di piazza Fontana – dei cinquantacinque giorni della prigionia di Moro, avremmo mancato ad un dovere elementare se non avessimo attivato tutte le conoscenze che avevamo anche nelle ambasciate di tutti i tipi. Tra l’altro personalmente, non avevo soltanto rapporti con l’ambasciata sovietica, ma nel 1978 avevo avuto rapporti con l’ambasciata britannica e dal 1981, come membro della direzione del partito, ho avuto rapporti regolari con l’ambasciata degli Stati Uniti.

TARADASH. I rapporti erano forse meno organici con gli Stati Uniti rispetto a quelli con l’Unione sovietica che finanziava anche il partito comunista?

BARCA. La posso informare che dagli Stati Uniti ci arrivò ad un certo punto anche l'invito: "Dato che mandate ogni anno dieci giovani a studiare all'università di Mosca, perché non fate un atto di coraggio e mandate dieci giovani a studiare in una università americana?".

TARADASH. Quello che lei dice è molto simpatico, però non è molto attinente…

BARCA. E le posso dire che c'è una deliberazione - che quando saranno aperti tutti gli archivi dovrà venire fuori - della segreteria del PCI in cui si accoglie la proposta. Comunque, voglio dire, attivammo …

TARADASH. Non è la stessa cosa, vero?

BARCA. … tutte le conoscenze che avevamo, compresi i contatti - lo troverà nel mio diario - con Arafat, di cui io fui informato, dopo, da Giancarlo Pajetta.

TASSONE. Volevo fare qualche domanda al senatore Barca, anche rispetto alle cose che ho ascoltato. Il senatore Barca è stato dirigente e militante per molti anni all'interno del Partito Comunista. La prima domanda riguarda piazza Fontana. Dopo piazza Fontana il suo partito prese una posizione; se ben ricordo, ci furono degli articoli su "L'Unità" più che altro improntati a degli slogan.

BARCA. Quali slogan, per cortesia? Lo chiedo per mia memoria.

TASSONE. Cioè, si imputò allora la strage a gruppi di destra. Non credo che ci fu una valutazione oggettiva in quel momento. Io ricordo quei titoli su "L'Unità", lei forse non ricorda ma non c'è dubbio che fu un individuazione molto chiara di quella che poteva essere…

BARCA. Lei è anche molto più giovane di me.

TASSONE. Purtroppo la vecchiaia…Un'altra domanda. La signora Moro disse di no a lei e disse di no ad altri per quanto riguarda l'interessamento a favore del marito. Lei era un trattativista all'interno del suo Partito? Era per la trattativa per la liberazione di Aldo Moro?

BARCA. Io ho votato in Direzione del Partito e in Comitato centrale per la linea della fermezza. Non ero trattativista anche se, ripeto, ritenevo - del resto è scritto nel diario - che si potesse fare di più.

TASSONE. Senatore Barca, poiché lei ha poco fa evidenziato la diversificazione di posizione tra lei stesso e l'onorevole Pecchioli (quando lei diceva che si doveva andare al di là dei canali istituzionali come impegno attivo di ricerca) avevo capito che lei potesse essere stato un trattativista, visto e considerato che Pecchioli era per la non trattativa. Allora Pecchioli cosa avrebbe dovuto fare, secondo lei, di più e di meglio? Se lei era non trattativista e stava nell'ambito delle istituzioni, Pecchioli cosa avrebbe dovuto fare? Questa è la cosa che mi è sfuggita.

BARCA. Innanzitutto Pecchioli, che era come me uno dei più stretti collaboratori di Berlinguer, molte cose le ha fatte. Per esempio, proprio poco prima del rapimento di Moro mi aveva affidato una risoluzione strategica delle Brigate rosse da studiare nella parte economica per cercare di capire… forse questo non è nel diario, perché è antecedente, lo aggiungo adesso; dovrei avere della documentazione al riguardo…ecco: "Il 12 marzo l'onorevole Pecchioli mi consegna una copia della risoluzione della direzione strategica delle Brigate rosse, datata febbraio 1978, perché la esamini al fine di tentare di riconoscere la mano o una delle mani che possono avere contribuito a scrivere o a ispirarla. Mi consegna anche, facendomi rilevare la differenza fra i due documenti, il comunicato n. 4 delle Brigate rosse, in data novembre 1977". Ora, quello del novembre 1977 è un documento di pura incitazione alla violenza; la risoluzione del febbraio 1978 invece è un documento molto più politico, raffinato, eccetera, che io ho esaminato e ho avanzato l’ipotesi – ripeto che è un'ipotesi - che ci potesse essere la mano di Toni Negri o che fosse stato utilizzato del materiale di polemica di Toni Negri direttamente con me e con un mio libro di economia. L'altra cosa che rilevai fu uno squilibrio di stile. Ecco perché poi accenno nel diario - anche perché mi ero formato questa convinzione - alla possibilità che ci fossero delle persone che tenevano prigioniero Moro e mandavano i documenti dalla prigione e poi c'erano delle persone in un comodo studio elaboravano delle idee e dei testi: per la differenza di stile proprio clamorosa che c'era tra un documento e l'altro, la grossolanità di alcune espressioni, la raffinatezza di altre nella risoluzione strategica, anche se era datata, perché si rifaceva a documenti vecchi. La polemica, infatti, era con una posizione assunta dal Partito nel 1962 sulla politica economica, sulla possibilità di modificare dall'interno il sistema. Praticamente era propriamente una polemica contro il riformismo del Partito Comunista Italiano.

PRESIDENTE. I colleghi non hanno ancora potuto leggere questo stralcio del diario che ci ha dato il senatore Barca. Debbo dire che contiene una valutazione che io pienamente condivido, anzi voi ricorderete che l'ho espressa più volte in questa Commissione. Scrive il senatore Barca: "Consento con queste argomentazioni" - cioè con le argomentazioni che spingevano il Partito ad assumere la posizione della fermezza - "le quali tuttavia non porterebbero ad escludere un'iniziativa del tutto propria ed umanitaria della Santa Sede. Trovo tuttavia che non si stia facendo tutto il possibile per incalzare polizia e Servizi e per utilizzare nella ricerca della prigione di Moro tutte le forze esistenti, pubbliche e private" - poi fa l'esempio di Guido Rossa, eccetera, e aggiunge: "Ora quasi tutto è affidato ai contatti segreti tra Pecchioli e Cossiga, che ha istituito uno strano Comitato di crisi al Viminale. Ho anche l'impressione che alcuni, a partire da Freato, Rana e Guerzoni, sappiano di più di quanto danno a vedere, se non altro per ciò che riguarda i postini; questi postini, che non solo vengono ma vanno, portando le lettere di Moro e, ho l'impressione, messaggi ai carcerieri da parte di un centro esterno alla prigione, mi danno molto da pensare: possibile che i Servizi di Cossiga non riescano a pedinarne uno?". Questa è l'osservazione banale che io ho fatto una serie di volte. Là c'era un traffico incredibile di lettere; è possibile che non siano riusciti a pedinarne uno? Poi c'è tutta un'altra pagina sul ruolo del PSI, eccetera.

TASSONE. Signor Presidente, è questo che volevo dire. Senatore Barca, arrivati a questo punto, lei era per la fermezza, però individuava anche l'insufficienza delle indagini. Quando lei dice: …

BARCA. Esatto!

TASSONE. …"Pecchioli era con il prefetto, il questore" e tutte cose così, c'è stata una volontà, secondo lei, determinata a non dispiegare con forza le indagini …

BARCA. No, anzi.

TASSONE. …o c'è stata un'incapacità? Il suo Partito, nel momento in cui decideva per la fermezza, ha spinto perché le indagini fossero dispiegate con grande forza, con grande incisività e con grande puntigliosità?

BARCA. Noi ci rendevamo conto che – come poi è avvenuto – con l’uccisione o la distruzione politica di Moro si sarebbe chiusa una stagione politica e si sarebbe andati verso qualcosa che non era chiaro. Non era in gioco soltanto il rapporto tra il Partito comunista e la Democrazia cristiana o una parte della Democrazia cristiana, era in gioco qualcosa di più grosso. Del resto, Berlinguer e Moro si stimavano molto reciprocamente. Non hanno mai pensato a governare insieme come meta finale anche se hanno pensato che – l’ho detto pochi giorni fa parlando all’Istituto Jaques Maritain - un passaggio del PCI al Governo avrebbe ricucito la ferita del 1947, avrebbe rilegittimato tutte e due le forze passando da una contrapposizione ideologica ad un eventuale contrapposizione politica, dopo di che ognuno avrebbe fatto alternanza, per usare le parole di De Mita, alternativa, o anche Governo di solidarietà, ma sempre su un piano su cui non c’era più il fattore preclusivo ideologico. C’era una grande attenzione per la figura dell’onorevole Moro e credo che Berlinguer abbia impegnato tutto se stesso. Praticamente il gruppo dirigente più ristretto…

TASSONE. Infatti ricordo molte riunioni.

BARCA.dalle quali io ero escluso, come ho detto.

TASSONE. Molte riunioni, senatore Barca, moltissime riunioni, solo riunioni.

BARCA. Non sono state solo riunioni.

TASSONE. Lo ha detto lei.

BARCA. Glielo ho detto io?

TASSONE. No, lei non ha detto che erano solo riunioni, ha detto che però in fondo non c’è stata una grande capacità di mobilitazione.

BARCA. No, ho detto che ci servivamo molto dei canali ufficiali: Cossiga assicura questo, il questore assicura questo, la federazione romana ha saputo dal questore quest’altro. Probabilmente un eccesso di fiducia negli organi istituzionali.

TASSONE. Un solo commento: un grande partito nella fermezza, ma molto modesto nelle prospettive.

BARCA. No, le nostre prospettive erano molto ambiziose perché andavano molto al di là della solidarietà nazionale e dell’emergenza, tant’è vero che fino al 1981, come lei ricorderà, Berlinguer continuò a parlare del compromesso storico, anche se è chiaro che con la scomparsa di Moro la prospettiva del compromesso storico era caduta.

TASSONE. Chiudeva un’epoca.

BARCA. Su questo punto sono d’accordo, le altre sono soltanto sue valutazioni.

FRAGALA’. Senatore Barca, intanto la ringrazio per il contributo che lei sta portando ai lavori della Commissione e d’altronde non potevamo aspettarci di meno da un intellettuale e da uno specialista in economia come lei è stato per tanti anni, non soltanto quando ha ricordato di avere diretto quella famosa rivista ma soprattutto dopo.

Essendo stato lei un protagonista "innestato" dalla società civile, direi dalla società intellettuale, in un partito gerarchizzato, in un partito che era come un esercito in marcia quale era il Partito comunista di allora fin dal 1960, le chiedo alcune valutazioni su quelli che – con il senno del poi, per carità - sembrano gravi errori di valutazione politica.

La prima concerne il problema Brigate rosse - sequestro Moro. Credo che, a partire dal 1969, da una costola del Partito comunista nacquero vari gruppi che si dedicarono alla lotta armata: dal gruppo di Feltrinelli, al gruppo dell’appartamento di Reggio Emilia, al gruppo delle Brigate rosse, al gruppo di Potere operaio, e così via. Questi gruppi venivano dalla militanza più stretta del PCI. Per esempio, il gruppo dell’appartamento di Reggio Emilia, fondato da Franceschini, Prospero Gallinari e non ricordo in questo momento da chi altro, ha dichiarato nei processi e nei libri che i vari protagonisti della lotta armata hanno scritto di aver ricevuto le armi dai vecchi capi partigiani che le avevano consegnate dopo averle tirate fuori dai nascondigli dicendo: questo Partito comunista ha tradito l’idea rivoluzionaria; qui ci sono le armi che noi teniamo dal momento della Resistenza, ve le consegniamo. Con queste armi continuate voi l’iniziativa rivoluzionaria. Franceschini e Gallinari hanno dichiarato questo. Quella di Franceschini era addirittura una Luger. Questi movimenti, ripeto, dal 1969 in poi avevano un’identità politica e ideologica precisa, una identità politica e ideologica comunista, non soltanto nelle loro dichiarazioni e declamazioni, non soltanto negli obiettivi dei loro attentati, ma soprattutto nella dinamica della lotta nelle fabbriche, nell’humus politico e culturale in cui agivano, in quell’acqua dove nuotavano come pesci, avevano un’identità comunista precisa.

Ebbene, come mai il Partito comunista e il giornale da lei diretto per tanti anni, fino all’omicidio di Guido Rossa, cioè fin quando l’evidenza della situazione non poteva più essere nascosta, fino al momento del sequestro Moro, mistificarono il reale connotato ideologico di questi movimenti extraparlamentari di sinistra che facevano la lotta armata in nome del comunismo? Perché per tanti anni non si parlò di compagni che sbagliano, ma di fascisti travestiti? Si disse dalla bomba di piazza Fontana in poi che Pinelli era stato ucciso dal commissario Calabresi, che il commissario Calabresi era stato ucciso da quelli di Ordine Nuovo, che tutta una serie di attentati (Brescia e via dicendo) erano stati sicuramente opera di sedicenti Brigate rosse che, invece, erano la reazione in agguato, dei fascisti travestiti. L’anarchico Bertoli non era anarchico ma era anche lui un fascista travestito. Perché, secondo lei, ci fu questo clamoroso errore di valutazione senza il quale, a mio avviso, col senno del poi, ripeto, si sarebbe potuta evitare tutta una serie di lutti e una scia di sangue che, se lei ricorda, si protrasse dal 1969 fino all’ultimo omicidio delle Brigate rosse che è addirittura del 1987? Questa è la prima domanda che le pongo.

PRESIDENTE. Mi scusi se la interrompo. Sulla prima parte della domanda concordo con lei, come è noto: io ho sempre ritenuto che le Brigate rosse facciano parte della storia della sinistra italiana. Ma se "l’Unità" avesse scritto che erano rosse e non erano sedicenti rosse, perché la scia di sangue sarebbe stata più breve? Gli apparati di sicurezza non ebbero mai dubbi sulla connotazione ideologica delle Brigate rosse, né la magistratura.

FRAGALA’. Perché ci sarebbe stata quella mobilitazione, quindi quella chiusura, quel "togliere l’acqua ai pesci" che si fece dopo l’omicidio di Guido Rossa. Perché questo errore di valutazione? Perché si consentì a Camilla Cederna di dire ….

BARCA. Innanzi tutto noi non abbiamo mai parlato di compagni che sbagliano. Inoltre credo che non possiamo mettere tante cose diverse sullo stesso piano. Le varie storie vanno viste singolarmente. Per Piazza Fontana, forse, se non sbaglio, le ultime indagini stanno dimostrando che si trattò proprio di un’iniziativa dell’estrema Destra e quindi ha sbagliato qualche altro e non sbagliammo noi. Ma voglio fare un caso concreto. Io sono stato amico di Giangiacomo Feltrinelli; essendo stato redattore capo de "L’Unità" di Milano, avevo stabilito dei rapporti di amicizia, passavamo qualche domenica assieme, andavamo al cinema, alla partita. Giangiacomo Feltrinelli faceva delle cose molto utili; fra queste va ricordata la fondazione di un istituto tra i più seri sulla storia del movimento operaio. Ad un certo punto Feltrinelli non ebbe più fiducia nel partito e lo dichiarò. Pensò che il partito sottovalutasse gravemente il pericolo di un colpo di Stato. Addirittura si trasferì in Svizzera perché accusò il partito di questa sottovalutazione e uscì dal partito con questa accusa: "Voi sottovalutate il pericolo e state veramente facendo una politica di tolleranza in cui le cose andranno per forza male e accadrà qualcosa di terribile".Quando venne, durante il nostro congresso a Milano nel 1972, la notizia che Giangiacomo Feltrinelli era morto - prima arrivò la notizia dell’attentato poi venne la precisazione che era Giangiacomo Feltrinelli -, ecco io la prima cosa che pensai, conoscendolo ed avendolo frequentato, (anche se avevo cessato di frequentarlo perché poi la vita mi aveva portato a Torino, poi di nuovo a Roma, e ognuno aveva seguito la sua strada), fu che fosse stato attirato in una trappola. Non è che pensai che fosse un bandito, un terrorista o altro. Assolutamente non lo pensai. Devo dire che in quel momento, quando arrivò la notizia, presiedeva il congresso Umberto Terracini: è l’unica volta che ho visto Umberto Terracini, di solito controllatissimo, commuoversi nel dare la notizia. Non possiamo mettere tutto sullo stesso piano. Errori in alcuni casi ci sono stati.

PRESIDENTE. Ma non può essere stata pure una forma di rimozione collettiva?

BARCA. Può essere stata anche una forma di rimozione, io non lo escludo. Però, ad esempio, noi abbiamo rotto per alcuni anni - adesso non mi ricordo esattamente le epoche - ogni rapporto con il partito comunista bulgaro. Abbiamo rotto ogni rapporto di ogni tipo. Discutemmo se invitarlo o no ad un congresso, poi decidemmo che sarebbe stato strano...

PRESIDENTE. E potrebbe essere invece che Feltrinelli lo abbia mantenuto il rapporto?

BARCA. Volevo dire perché lo abbiamo interrotto. Lo abbiamo interrotto quando abbiamo scoperto che il partito comunista bulgaro era legato e dava aiuto ad un gruppo extraparlamentare.

FRAGALA’. In denaro, in armi?

BARCA. Non credo assolutamente in armi.

FRAGALA’. In campi di addestramento?

BARCA. Non credo nemmeno questo; credo aiuti come denaro e pubblicazioni. Però appena sapemmo che il partito comunista bulgaro aveva contatti con un gruppo extraparlamentare, rompemmo ogni rapporto.

FRAGALA’. Quale era il gruppo extraparlamentare?

BARCA. Qui siamo in una sede in cui non si dovrebbero commettere errori. Non voglio commettere …

PRESIDENTE. Se non lo ricorda, ci dica che non lo ricorda, se no, dica che le sembra di ricordare.

BARCA. Mi sembra di ricordare che fosse Avanguardia operaia. Poi, non so, un altro che è uscito dalla federazione giovanile costituendo prima un movimento di estrema Sinistra poi passando a Destra è Brandirali. Brandirali, devo confessare, fu un mio errore. Nel 1960, proprio come membro della segreteria nazionale del partito andai a presiedere il Congresso nazionale della federazione giovanile comunista a Bari; mi colpì questo giovane operaio, vivace, intelligente eccetera, e lo proposi per la segreteria nazionale della FGCI, dalla quale poi lui uscì clamorosamente e andò a formare un gruppo di estrema Sinistra e poi dall’estrema Sinistra è passato a Destra. Quindi per questo motivo non possiamo mettere tutto sullo stesso piano.

Per esempio, ricordo delle discussioni nel partito sull’atteggiamento da prendere nei riguardi di Lotta Continua. Quando ci sembrò che dentro Lotta Continua ci fosse una lotta interna, parlo di lotta politica, e che ci fosse una parte che ritenesse di dover operare rigorosamente nella legalità, si affacciò addirittura l’ipotesi di invitare Lotta Continua ad un nostro congresso, poi, con un voto a maggioranza fu deciso di no. Quindi, dovremmo esaminare questione per questione.

Poi, voglio dire, dobbiamo anche stare attenti a non creare il mito di questa "rete", di questa nostra conoscenza di tutto. Mi ricordo che una volta arrivai ad Ascoli Piceno e volevo andare in un albergo dove soggiornavo sempre, che affacciava su quella stupenda Piazza del Popolo della città. Arriva il compagno della federazione di Ascoli Piceno e dice: "No, non puoi andare in quell’albergo per ragioni di sicurezza devi andare al Jolly". Io andai all’albergo Jolly, salvo scoprire, due mesi dopo, dalla stampa che un terrorista, in questo caso era uno di Destra (mi pare si chiamasse Nico Azzi) aveva esattamente la sua sede tre stanze dopo quella occupata da me, allo stesso piano dove, per ragioni di sicurezza, mi avevano mandato a dormire. Quindi vorrei che non si creasse poi un eccesso di miti su quello che era il nostro grado di informazione.

PRESIDENTE. Mi scuso con lei e con l’onorevole Fragalà, ma se prima l’avevo interrotta a proposito di Feltrinelli era perché noi avevamo sentito in una lunghissima audizione il dottor Arcai, un magistrato che ha indagato "sui dintorni" della strage di Brescia ed egli, sia pure a livello di ipotesi, ha fatto riferimento ad un possibile collegamento fra Feltrinelli e i NAR di Fumagalli, cioè l’opposta eversione, tra l’altro sottolineando come il traliccio di Segrate su cui muore Feltrinelli fosse localizzato a poche centinaia di metri da un’officina di Fumagalli. Se tale ipotesi fosse verificata, sarebbe sconvolgente. Se noi trovassimo un punto di intreccio tra gli opposti estremismi, tra gli opposti terrorismi sarebbe poi difficilissimo non pensare che dietro ci potesse essere una centrale comune, una centrale esterna che alimentava gli uni e gli altri proprio nella logica della strategia della tensione. Lei ci ha detto una cosa che non sapevo, cioè di aver avuto un rapporto con Feltrinelli: come valuta l’ipotesi che ora le ho descritto?

BARCA. Per quanto riguarda personalmente Feltrinelli, la considero assolutamente assurda. Ripeto: Feltrinelli era ossessionato dal pericolo di un colpo di Stato di destra in Italia eterodiretto e criticava aspramente il partito, perché questo sottovalutava tale pericolo.

FRAGALA’. Onorevole Barca, non so se lei abbia letto il libro autobiografico del generale Francesco Delfino, o comunque la recensione che ne ha fatto Giorgio Bocca…

PRESIDENTE. Il libro l’avrebbe dovuto leggere proprio in questi giorni. A me è arrivato due giorni fa, per la verità: ce l’ho sul comodino, ma non l’ho ancora letto.

FRAGALA’. Dicevo della recensione che ha fatto di tale libro Giorgio Bocca il 4 febbraio scorso su "la Repubblica". La parte conclusiva di tale recensione commentava in poche parole un passaggio del libro di Delfino dove questi si improvvisa filologo e chiosa sulle differenze semantiche, terminologiche e ideologiche dei primi comunicati delle Brigate Rosse, dimostrando che tali primi comunicati potevano essere stati scritti da un agente del KGB che parlava bene il russo e male l’italiano, e quindi usava tutta una serie di termini propri della terminologia ideologica del partito comunista sovietico di allora, come ad esempio "camera gerarchica", e così via. Il generale Delfino conclude che leggendo questi primi comunicati delle Brigate Rosse si ha l’impressione che siano stati scritti da un soggetto di questo genere che poi è stato sostituito perché non era plausibile che degli intellettuali, dei laureati in sociologia dell’università di Trento scrivessero i comunicati in quel modo.

PRESIDENTE. Vorrei fare un’osservazione: tutto ciò, a meno che non l’abbia scritto Micaletto, perché ad esempio l’espressione "traino" fa parte del linguaggio salentino; usiamo moltissimo tale parola!

FRAGALA’. Sì, ma non "camera gerarchica"!

BARCA. Cosa è una "camera gerarchica"?

FRAGALA’. In questo comunicato delle Brigate Rosse si parla della "camera gerarchica"!

PRESIDENTE. Mi sono riferito a Micaletto, perché era leccese!

FRAGALA’. Si parla di "camera gerarchica" per indicare il luogo delle decisioni, che viene rappresentato, per l’appunto, con l’espressione di "camera gerarchica", che è inusuale, inusitata per la terminologia propria di persone di un certo livello culturale.

BARCA. Io ho settantotto anni, ed è la prima volta in vita mia che sento questa espressione. Posso anche dirglielo avendo fatto due viaggi di studio in Unione Sovietica. Reichlin ed io facemmo nel 1956 un viaggio perché insoddisfatti del modo con cui il corrispondente da Mosca informava. Andammo lì dopo il ventesimo congresso e facemmo un viaggio di quaranta giorni in Unione Sovietica, visitandola. Per i primi dieci giorni…

FRAGALA’. Ci fu chiusura totale?

BARCA. Non solo ci fu chiusura totale, ma ci fu rifiutato l’interprete di italiano. Arruolammo al libero mercato un free lance che parlava francese, che poi - per punto preso - abbiamo tenuto anche dopo che il Pcus e la Pravda mutarono in parte atteggiamento.

FRAGALA’. Le leggo un pezzo del comunicato, così ha il senso della questione.

BARCA. Grazie.

FRAGALA’. Il comunicato diceva: "La congrega più bieca di ogni manovra giudiziaria… sulle cui gambe cammina il progetto delle multinazionali alla cui testa stanno le maggiori potenze della camera gerarchica ha il compito di trainare le appendici militari". Questa è la parte del comunicato in questione.

BARCA. Ebbene, le assicuro che se lei ha letto (credo che nessuno lo abbia fatto, ma siccome esistevano…) i volumi di Breznev, non credo che abbia trovato mai espressioni di questo genere.

FRAGALA’. "Camera gerarchica", lo si dice dopo, è un’espressione che veniva usata nella terminologia del partito comunista russo.

BARCA. Le ripeto che ho fatto due lunghi viaggi, uno da Mosca a Novosibirsk, per incontrare gli economisti (dato che mi occupavo di economia), perché lì erano stati un po’ esiliati quelli non ortodossi, e per incontrare il prof. Agambeghian, che aveva fondato una sua scuola. Da dirigenti o da vari interpreti ufficiali sovietici che ci ricevettero a Taskent nel viaggio per Novosibirsk, questo termine non l’ho mai sentito. Forse la questura di Roma dovrebbe avere ancora dei volantini che venivano liberamente distribuiti per la città di Roma da uno strano gruppo contro le multinazionali e lì, forse, ritroverà questo linguaggio, ma non credo…

PRESIDENTE. Suggerirei di andare al contenuto della domanda.

FRAGALA’. La domanda è la seguente. Rispetto all’ipotesi che avanza il generale Delfino e rispetto alla realtà ormai processualmente acquisita che esponenti e militanti delle Brigate rosse avevano partecipato a campi di addestramento in Cecoslovacchia, compreso Renato Curcio, il fondatore delle Brigate rosse, lei, come spiega il fatto che il partito comunista italiano (che da allora aveva dei legami comunque stretti con i partiti comunisti ceco e russo, con l’Unione Sovietica, con il patto di Varsavia e così via) non aveva notizie di prima mano di questi collegamenti tra un gruppo di lotta armata così pericoloso come le Brigate Rosse, che siede sulla scena italiana per oltre un decennio (anzi, direi per quasi un ventennio) e né di queste situazioni obiettive di aiuti, di attività di addestramento e probabilmente di rifornimento di armi e di denaro? Lei ha fatto l’esempio di Avanguardia operaia, che causò la rottura dei contatti con il partito comunista bulgaro. Voi non sapeste mai che in Cecoslovacchia si ospitavano nei campi di addestramento dei militanti delle Brigate rosse?

BARCA. Innanzitutto rispondo che non ne seppi mai nulla, anche avendo occupato posti di responsabilità. In secondo luogo, come lei sa, Praga è stata prima la sede del Cominform; poi, dopo la rottura, rimase la sede della rivista "Problemi della pace e del socialismo", che poi praticamente era finanziata dai sovietici. Noi ci ritirammo anche dalla redazione, ma mantenemmo un osservatore (che credo però sia morto), che era Michelino Rossi. Rossi, tuttavia, viveva la maggior parte del tempo a Roma e solo ogni due mesi andava alla riunione di redazione ad assistere come osservatore. E’ chiaro che ci sono stati periodi diversi. C’è stato il periodo in cui in Cecoslovacchia era rifugiato Moranino, e così via; risaliamo però veramente agli anni lontani e a quel periodo nel quale poi Amendola, e successivamente Berlinguer, responsabile di organizzazione, successore cioè di Amendola alla commissione organizzazione, distrussero ed eliminarono.

FRAGALA’. Non avete mai saputo nulla?

BARCA. No.

FRAGALA’. Un’ultima domanda sul sequestro Moro. Lei ha fatto riferimento ai postini che andavano e venivano, cioè al famoso "canale di ritorno" che sicuramente raggiungeva Moro nella sua prigione e lo informava di quelle che erano le discussioni più riservate fra i gruppi dirigenti sia del PCI che della Democrazia Cristiana di allora. Voi non avete svolto delle indagini su questo "canale di ritorno" per capire chi fosse? Perché doveva trattarsi naturalmente di uno dei massimi livelli dell’establishment politico di uno dei due partiti.

PRESIDENTE. Risponda anche se la risposta è contenuta nel diario.

BARCA. Una delle critiche che ho mosso a Pecchioli, pur rendendomi conto del rischio di interferire con la polizia, è che noi non abbiamo adottato un’iniziativa nostra. E’ vero che non avevamo la famosa "rete", ma avevamo comunque delle forze con un rapporto stretto con il territorio, per esempio i segretari di sezione. Tuttavia non c’è stata una nostra iniziativa per quanto io sappia, nonostante il comitato di crisi di Cossiga fosse incapace di far pedinare questi postini che andavano e venivano tranquillamente. Sappiamo che in un caso il postino era un sacerdote; almeno ho letto così.

PRESIDENTE. E non vuole venire in Commissione.

FRAGALA’. Il problema non era il postino, perché il postino era soltanto latore del messaggio.

BARCA. Ma scoprire il postino significava scoprire…

PRESIDENTE. Il senatore Barca sostiene che scoprendo il postino e pedinandolo si sarebbe ottenuta una traccia.

FRAGALA’. Addirittura, chi è che faceva sapere a Moro dei conciliaboli più segreti dei gruppi dirigenti? Infatti, Moro sapeva ciò che si diceva ai massimi livelli sia del PCI che della DC; qualcuno glielo andava a dire. Quindi, il problema non era il postino, che era latore del messaggio, ma il contenuto del messaggio da inviare a Moro che trapelava da ambienti ristrettissimi. Voi non vi siete mai posti il problema di sapere chi è che mandava a dire a Moro il contenuto delle conversazioni più riservate in un periodo per giunta così allarmante come quello del suo sequestro?

BARCA. Ci siamo posti questo interrogativo ma non siamo stati in grado di dare una risposta. Tenga conto che, come lei avrà letto nel libro del fratello di Moro (mi sembra nella prefazione) non fu tagliato fuori soltanto l’amico di Moro, Tullio Ancora, ma tutti i familiari. Per quel che riguarda i miei rapporti con Moro non erano proprio di amicizia quanto di affettuosità; ad esempio, quando lui seppe che io non stavo bene mi mandò dal suo medico perché siamo stati tutti tagliati fuori con una comunicazione di Freato, Rana e Guerzoni, data per ordine della signora Moro? E perché il fratello di Moro dice che lui è stato tagliato fuori da tutto e che la signora Moro ha tagliato fuori tutti i familiari di Moro?

FRAGALA’. Si è chiesto il perché?

BARCA. Appunto. Non so dare una risposta.

FRAGALA’. Mi permetto di darla io. Perché vi erano interessi economici di altissimo livello tutelati da Freato, e lei sa il perché.

PRESIDENTE. Lo accenna anche nel diario.

BARCA. Si, lo accenno nel diario.

FRAGALA’. Allora ci siamo intesi. Senatore Barca, vorrei rilevare un suo accenno presente anche nel diario, e cioè che gli interrogatori di Moro – come hanno detto tanti commentatori – erano così articolati che provenivano da persone che avevano una conoscenza enorme della storia della Democrazia Cristiana e delle correnti. Sembra che tali interrogatori venissero decisi o addirittura compilati a Firenze, dove si recava Mario Moretti due o tre volte la settimana, perché in quella città si riuniva il comitato, la direzione strategica delle Brigate Rosse che preparava l’interrogatorio a Moro. Quindi, ci siamo sempre chiesti come mai, durante un periodo così problematico per quanto riguardava la sicurezza dei terroristi, questi andavano e venivano da Roma a Firenze, per riunirsi a Firenze invece che a Roma, magari nel covo accanto alla prigione. Una spiegazione è stata data da Valerio Morucci che ha chiaramente detto di andare a chiedere a quella "sfinge" di Moretti perché si recava a Firenze e chi era l’anfitrione della casa di Firenze in cui si riuniva il comitato strategico delle Brigate rosse. Voi vi siete mai posti l’interrogativo o avete mai avuto l’idea che qualche esponente, qualche intellettuale della Sinistra, qualche personaggio di altissimo livello fosse, in effetti, l’estensore di questi interrogatori e fosse la mente, il regista della parte ideologica e politica del sequestro Moro e che questo intellettuale stesse a Firenze e per questo motivo la direzione strategica delle Brigate rosse, il comitato esecutivo si riunisse a Firenze, nonostante che il sequestro avesse luogo a Roma?

PRESIDENTE. Questo, ex post. Non potevano sapere dove si riuniva il comitato.

FRAGALA’. Si, certo. Ex post.

BARCA. La ringrazio della notizia, perché io non sapevo che il comitato si riuniva a Firenze. A tutt’oggi non lo sapevo anche per mia ignoranza – lo confesso – e in parte perché non sono più tornato su questi fatti dolorosi se non perché la Commissione mi ha convocato. Nel mio diario, tuttavia, non a caso, si parla di postini che vanno e vengono da un centro esterno. Quindi, l’ipotesi di un centro esterno era chiara; che poi tale centro esterno fosse a Firenze e che addirittura fosse guidato da qualcuno di Sinistra, anche se il termine sinistra è molto vasto e variegato, francamente mi sembra un’ipotesi azzardata. Se lei dice che ci sono le prove…

PRESIDENTE. C’è una dichiarazione di Morucci resa nel corso di un’audizione svolta in Commissione, un’audizione estremamente chiusa in cui Morucci non ha raccontato niente ma ad un certo punto – secondo me – ha lanciato chiaramente un messaggio a qualcuno o a più di qualcuno. Morucci ha detto che era inutile che noi gli ponevamo tutte quelle domande e che dovevamo farci spiegare da Moretti chi era il proprietario della casa di Firenze in cui si riunivano e chi era che dattiloscriveva i manoscritti di Moro; per la verità, non ha detto che preparavano gli interrogatori; si deve tenere presente poi che da Firenze parte la traccia che, in modo abbastanza mal costruito, porta a via Montenevoso. Il problema di Firenze nasce da questa dichiarazione di Morucci.

BARCA. Non lo sapevo.

DE LUCA. Athos. Senatore Barca, ho ascoltato la sua voce e – non so se qualcuno glielo ha già detto – somiglia alla voce di Nenni che, negli ultimi anni, era un po’ roca. Io ero ragazzo a quel tempo e ora ho avuto questa suggestione.

A parte questo, senatore Barca, vorrei chiederle se il PCI di allora fu completamente sorpreso dalla strage di piazza Fontana o in qualche modo c’era un sentore, un clima che fece in modo che quell’avvenimento lasciò certamente di sorpresa ma che permise che qualcuno, nel partito, si rendesse conto che le cose non andavano bene e che ci potevano essere degli eventi così gravi. Cioè, fu un fulmine a ciel sereno?

BARCA. In gran parte fu un fulmine a ciel sereno; una cosa di questo tipo nessuno se la aspettava, non solo noi, ma neanche i socialisti, i democristiani. Veramente l’atmosfera di quella prima mezz’ora – lei che vive nel Transatlantico può immaginarla - era proprio di smarrimento, ci si chiedeva come fosse possibile una cosa del genere.

DE LUCA Athos. Durante il rapimento Moro, aveste la sensazione, o qualcuno pensò, che gli organismi di sicurezza disponessero di infiltrati nelle Brigate rosse? Questa ipotesi è stata ventilata?

BARCA. Fu auspicata questa ipotesi, nel senso che speravamo che Cossiga, il Ministero dell’interno, la polizia e tutti gli organismi segreti avessero degli infiltrati. Ci fu sempre risposto che non ce l’avevano.

DE LUCA Athos. In questa Commissione, attraverso le varie audizioni, non ci siamo mai persuasi – almeno io personalmente – del fatto che questa disorganizzazione, negligenza ed inefficacia delle indagini della polizia, degli organi investigativi fosse effettivamente possibile. Abbiamo audito alti graduati dei carabinieri, convocati per dare un contributo che hanno dichiarato di essere stati sostanzialmente non utilizzati. Presidente, chi ci ha detto che andava al cinema ?

PRESIDENTE. Il generale Bozzo, che faceva parte del gruppo Dalla Chiesa, ci ha detto che alcuni di loro vennero a Roma ma non furono utilizzati, tant’è vero che la sera se ne andavano al cinema.

DE LUCA Athos. Lei conferma questo, anche dicendo "questa strana commissione di Cossiga" – mi sembra siano parole sue -, nel senso che si avvertiva questa completa inefficacia. Spesso anch’io, come altri, sono stato portato a ritenere che in realtà quell’inefficienza fosse in qualche modo voluta. Sembra che la DC dell’epoca, forse con la soddisfazione degli apparati americani che allora avevano una certa strategia, in fondo lasciasse fare (mi esprimo molto semplicemente) questo terrorismo, queste organizzazioni, pur tenendole sotto controllo, perché erano funzionali ad un disegno più ampio. In sostanza, il fatto che in Italia in quel momento vi fossero questi movimenti eversivi di sinistra e che il paese fosse un po’ destabilizzato consentiva al partito di maggioranza relativa di governare e di poter dire al popolo, alle grandi masse che - anche se c’era il malgoverno - comunque la DC garantiva loro la fedeltà atlantica e la tranquillità, poiché c’era il pericolo dei terroristi. C’era quindi una non confessabile situazione, un silenzio o un tacito accordo: da una parte, la CIA aveva tale interesse perché così si teneva lontano il pericolo dei comunisti e, dall’altra, alla DC questo serviva perché in tal modo si faceva perdonare l’esistenza di ingiustizie sociali nel paese e comunque faceva il pieno dei voti. Infatti, la gente si accontentava di un tozzo di pane e di stare tranquilla: c’erano tante ingiustizie, però non c’erano la guerra civile e i disordini. In questo senso si capisce come i servizi segreti gestivano la situazione e perché lasciavano fare. Poi magari la cosa è sfuggita un po’ di mano, perché questo lasciar fare ha fatto sì che alla fine ci si organizzasse. Questa tesi sarebbe avvalorata dal fatto che, ad un certo punto, quando si è deciso che si doveva intervenire, è sembrato che l’efficienza tornasse tutta insieme.

Ora dirò una cosa che invece riguarda più il PCI di allora. Lei ricorda le critiche a Pecchioli, perché c’era la fermezza (e questa andava bene), però non era sufficiente. Lei dice che si poteva fare qualche cosa in più, assumere delle iniziative, se non altro polemizzare con l’inefficienza che riscontravate e svolgere così il vostro ruolo. In fondo il PCI era all’opposizione.

PRESIDENTE. Per la verità, era nella maggioranza, che era nata proprio il giorno della morte di Moro.

DE LUCA Athos. Ha ragione, Presidente. Comunque, c’erano opposti estremismi, perché dall’altra parte c’era il rovescio della medaglia, cioè c’erano i ragazzi di destra che "facevano" anche loro. Anche in quel caso, lo abbiamo constatato in molte audizioni, i servizi lasciavano fare, assicuravano impunità, li proteggevano. Quindi, si era trovata – anche da parte del PCI di allora – una funzionalità, cosicché quando era il momento, la DC faceva il suo pieno di voti; così questa situazione dell’estremismo di destra alimentava e teneva compatta anche la sinistra. Ho dipinto a grandi linee uno scenario, in effetti, anche dal suo racconto emerge comunque il fatto che si riscontrava una totale inefficienza di fronte ad un fatto grave; si poteva concordare con la fermezza, però si doveva pretendere che la polizia facesse il suo dovere. Invece abbiamo assistito a delle cose veramente incredibili, che hanno messo in ridicolo lo Stato. Rispetto a questo scenario vorrei una sua opinione. Infine, lei non è mai stato sentito dalla Commissione stragi? E’ la prima volta?

BARCA. Si, è la prima volta in assoluto.

DE LUCA Athos. Allora, la invito a cogliere questa occasione se volesse dire una cosa a questa Commissione che magari non ha mai detto in un’altra sede così importante, e volesse consegnare qualcosa, scovando nella sua memoria, che potesse esserci utile per andare avanti nella ricerca della verità.

BARCA. Lei ha disegnato uno scenario. Credo che in esso ci siano elementi di verità e che quindi si possa in parte condividere, ma francamente non ho prove. Però, posso assicurare al senatore De Luca e alla Commissione nel suo complesso, che da voi mi sono venute sollecitazioni a riflettere ulteriormente su una vicenda che per me è stata molto dolorosa e che in parte ho rimosso. Posso tornare a rifletterci e se emergesse qualche elemento sarei il primo a farlo presente al presidente Pellegrino. Per quanto posso dire adesso, non trovo nella mia memoria riscontri, anche se, a livello di sensazione, il suo scenario non è da escludersi. Temo purtroppo che dovremo attendere l’apertura di taluni archivi segreti non solo italiani per saperne di più; comunque, alcuni di questi sono già stati aperti.

PRESIDENTE. Abbiamo incaricato due consulenti di recarsi l’uno in Russia e l’altro negli Stati Uniti, per aggiornarci sulle ultime acquisizioni.

BARCA. Tutto l’archivio che comprende tra l’altro i rapporti tra un membro della direzione del PCI, nella persona di Luciano Barca, e l’ambasciata americana, è stato aperto tanto è vero che un giornalista ha scritto anche un libro in merito. Pensavo che questo libro, per le rivelazioni che contiene (cifre pagate alla DC e ad altri partiti, colloqui di Rabb e dell’ambasciatrice Claire Luce con il governo italiano) avrebbe fatto grande scalpore in Italia, invece non ha avuto neppure una recensione.

PRESIDENTE. Qual è il titolo del libro?

BARCA. E’ un libro italiano che non è stato recensito da nessuno. Spero che siano recuperabili delle copie; personalmente dovrei essere in possesso di una copia; ma tenete conto che proprio in questi giorni sto trasferendo il mio archivio da Roma a Milano, il 25 febbraio per l’esattezza avverrà il trasferimento.

FRAGALA’. Lo versa a qualche fondazione?

BARCA. Lo verso alla Fondazione Feltrinelli che si è impegnata a catalogare ed a informatizzare tutto il materiale. Tutti coloro che sono venuti a casa mia, tra i quali molti studenti universitari, lo hanno potuto consultare; però non ho le forze per tenere quarantotto cartoni di carte e documenti. Ho avuto la fortuna di trovare una fondazione che in cambio della donazione o meglio della vendita simbolica per una lira si impegna a catalogare e a riordinare tutto. La trattativa è durata un anno e finalmente il 25 febbraio l’archivio partirà per Milano. La biblioteca invece resta dov’è ed all’interno della stessa dovrebbe trovarsi il libro di questo giornalista che è stato per vari anni il corrispondente de "Il Corriere della Sera" negli Stati Uniti e al quale qualche amico ha mostrato l’archivio non appena arrivò il decreto che toglieva il segreto e nel momento in cui però non era ancora aperto al pubblico. Si è trattato quindi di un’anteprima.

PRESIDENTE. Ringrazio l’onorevole Barca per questa lunga audizione che a mio avviso è stata tra le più interessanti e più utili di quelle che negli ultimi tempi la Commissione ha svolto. Prima di terminare, vorrei consegnare alla riflessione dell’onorevole Barca un mio pensiero. Non vi è dubbio che lo Stato, soprattutto inteso come amministrazione, conosce una débacle durante i giorni del sequestro Moro. Fa quello che già Sciascia definì "le grandi operazioni di parata"; però, non riesce a produrre nulla di utile quanto ad una possibilità, che la fermezza non escludeva, dell’individuazione della prigione di Moro per la liberazione dell’ostaggio.

La spiegazione che se ne è data è stata che si scontò negativamente un grosso stato di disordine, di disorganizzazione e di inefficienza. Questo indubbiamente c’è stato. Personalmente, anche se la mia ipotesi mi ha causato l’accusa di "mascalzone politico", penso che ci sia stato anche qualcos’altro; che vi siano state cioè delle falle volute. I brigatisti sanno con certezza che quel giorno Moro passa da via Fani e probabilmente (l’idea la lanciò per prima la signora Moro) massacrano con il colpo di grazia la scorta perché non volevano che qualcuno della stessa, sopravvivendo, potesse indicare una traccia sul punto di non tenuta dell’apparato di sicurezza. Una serie di informazioni non vengono utilizzate; l’indicazione di Gradoli viene utilizzata con un inutile blitz militare nel paese di Gradoli che finisce per essere un messaggio a Moretti per abbandonare il covo di via Gradoli che lascia la doccia aperta come a ringraziare del messaggio ricevuto.

Vorrei porre alla sua riflessione se a tutto questo non si sia aggiunto anche qualche altro elemento: l’individuazione della prigione e la liberazione dell’ostaggio comportavano un rischio che riguardava la persona di Moro. Allora, forse vi è stato il concorso di una serie di atteggiamenti convergenti. La famiglia Moro mantiene una sua trattativa privata perché ha paura e forse non si fida degli apparati di sicurezza, per questo non vuole dare le informazioni necessarie per consentire la liberazione di Moro. D’altro canto, i socialisti non danno una serie di informazioni, di cui erano in possesso, perché l’individuazione della prigione e la liberazione dell’ostaggio con un’operazione militare avrebbe significato la sconfitta del partito della trattativa e la conseguente vittoria del partito della fermezza.

Non potrebbe quindi essere che anche il partito della fermezza abbia preferito restare fermo, perché aveva paura che se la liberazione di Moro si fosse conclusa tragicamente si sarebbe decretata in tal modo la vittoria politica del partito della trattativa che avrebbe "impietito" l’Italia, dicendo: ecco, lo avete ammazzato? Se così fosse somiglierebbe molto alla "Cronaca di una morte annunciata"; vi è stata cioè una serie di concause, l’una separata dall’altra: disorganizzazione, dolo, volontà della famiglia di Moro di non dare le sue informazioni perché aveva paura per la vita dell’ostaggio; uomini della trattativa col PSI che non danno le informazioni perché non vogliono che Moro sia liberato con una operazione militare ma anche – e questo potrebbe spiegare alcuni atteggiamenti di Pecchioli – il partito della fermezza che ha paura che l’individuazione della prigione di Moro possa bloccare trattative che si sapeva si stavano attivando per altro canale. E’ troppo artificiosa questa costruzione?

BARCA. Non è del tutto artificiosa. Ci rifletterò.

PRESIDENTE. Dichiaro conclusa l’audizione.

I lavori terminano alle ore 22,30.

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