Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

50a SEDUTA

Mercoledì 17 marzo 1999

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

prima parte

seconda parte

 

Prima parte

Indice degli interventi

PRESIDENTE
FRANCESCHINI
BONFIETTI (Dem. di Sinistra-l’Ulivo), senatrice 1 - 2
DE LUCA Athos (Verdi-l'Ulivo), senatore
FRAGALA' (AN), deputato 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7
MANTICA (AN), senatore 1 - 2
PARDINI (Dem.di Sin.-l'Ulivo), senatore
TARADASH (Forza Italia), deputato 1 - 2
TASSONE (Misto), deputato

 

La seduta ha inizio alle ore 20,15.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.

Invito la senatrice Bonfietti a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

BONFIETTI, segretario, dà lettura del processo verbale della seduta del 16 marzo 1999.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

 

COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE.

PRESIDENTE. Comunico che, dopo l'ultima seduta, sono pervenuti alcuni documenti, il cui elenco è in distribuzione, che la Commissione acquisisce formalmente agli atti dell'inchiesta.

Colgo anche l'occasione per informare i colleghi che, prima di ogni audizione, i nostri consulenti preparano un capitolato di possibili domande, di cui normalmente mi servo. Vorrei far presente, però, che questo materiale è a disposizione di tutti i membri della Commissione almeno dal giorno precedente a quello in cui viene svolta l'audizione. Pertanto, chiunque vorrà prendere visione di questo materiale ed utilizzarlo nel corso della seduta, può farlo. Anzi, se qualche collega intende porre qualcuna delle domande, questo mi consentirebbe una maggiore agilità nella parte introduttiva dell'audizione e anche una maggiore brevità.

 

INCHIESTA SUGLI SVILUPPI DEL CASO MORO: AUDIZIONE DEL SIGNOR ALBERTO FRANCESCHINI.

Viene introdotto il signor Alberto Franceschini

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del signor Franceschini. E' inutile che spieghi alla Commissione chi è il signor Franceschini, mentre, per introdurre l'audizione, forse è bene che dica al signor Franceschini in quale logica la Commissione si sta muovendo, o per lo meno in quale logica si muove la maggior parte di noi. Penso di interpretare l'opinione della maggior parte dei presenti se dico che, alla nostra riflessione, le Brigate rosse oggi si presentano soprattutto per quello che dicevano di essere. Ritengo, cioè, che alla maggior parte di noi sia comune la valutazione che le Brigate rosse sono una parte della storia della sinistra italiana, così come possono essere comprensibili le ragioni politiche e culturali per cui questo fu negato: la necessità del PCI - ieri lo ricordava l'avvocato Guiso - di contestare quella comunità di album di famiglia che era stata sottolineata dalla Rossanda, e vorrei dire anche da buona parte del ceto acculturato della sinistra italiana, che ebbe quasi un moto collettivo inconscio di rimozione. Ricordo personalmente quante volte abbiamo letto le parole: "con il farneticante proclama delle sedicenti Brigate rosse". In realtà, un esame più attento di quei proclami avrebbe consentito di cogliere con chiarezza quello che invece era un piano operativo, ovviamente a mio avviso velleitario e profondamente sbagliato, però leggibile nella sua coerenza, e quindi cogliere l'effettiva natura politica del movimento.

Nella scorsa legislatura ci siamo domandati come è stato possibile che un movimento come il vostro (pur comprendendo la forza che veniva dall'ampiezza del movimento stesso, che ha riguardato indubbiamente migliaia di giovani di questo paese) sia riuscito sostanzialmente a tenere in scacco lo Stato italiano per un così lungo periodo di tempo. La conclusione a cui giunsi in una proposta di relazione, che poi la fine della legislatura non consentì di approvare, è che questo è dovuto in buona parte a fenomeni di disorganizzazione e a ritardi nella risposta istituzionale all'attacco che veniva da voi. Si individuava anche un andamento altalenante della risposta, che alternava momenti di estrema efficienza a momenti, invece, di regressione e fragilità. Quindi, la valutazione che allora feci è che probabilmente questo era un fatto in parte voluto, cioè che in qualche modo venivate utilizzati attraverso la logica del relativo contrasto, perché c'era chi, dall'altra parte, tutto sommato poteva ritenere utile che voi ci foste ed attuaste almeno in parte il programma evidenziato nei farneticanti proclami.

Questa prospettiva poi è stata delineata in un capitolato che è stato sottoposto all'esame dei nostri consulenti in questa legislatura, uno dei quali l'ha smentita. È stata fatta la valutazione che in realtà era uno Stato sfasciato, disorganizzato, che andava avanti per improvvisazioni e a questo si deve l'inefficienza o la relativa efficienza di questa azione di contrasto. Però, anche in questa prospettiva più riduttiva, lo stesso consulente ha dovuto ammettere che intorno alla vicenda del caso Moro, che poi è l'oggetto per il quale questa sera la sentiamo, le mancanze di risposta sono tante e di tale gravità da lasciare almeno uno spazio al dubbio e quindi a ritenere necessario un approfondimento dell'inchiesta, che poi è il lavoro che stiamo compiendo in questi ultimi mesi. Intorno alla vicenda di Moro, si rafforza, anche in questa lettura più riduttiva della storia del paese, il dubbio che almeno in parte non si sia voluto coniugare il rifiuto della trattativa con un'effettiva azione di ricerca della prigione dell'ostaggio e dei suoi rapitori, per pervenire a quello che sicuramente era un dovere istituzionale, cioè la salvezza dell'ostaggio attraverso la sua liberazione e la punizione di coloro che lo tenevano sequestrato. Capisco le ragioni umane per cui buona parte dei componenti delle Brigate rosse rifiuti questo tipo di lettura, cioè capisco che i soldati, gli ufficiali di un esercito sconfitto vogliano almeno conservare l'idea di una purezza rivoluzionaria e che pesi già riconoscere di essere stati inconsapevolmente utilizzati. Così come indubbiamente pesa ancora di più, eventualmente, il dover riconoscere di essere stati non solo utilizzati attraverso la logica di relativo contrasto, ma di essere stati addirittura eterodiretti, cioè di avere inconsapevolmente lavorato per il re di Prussia. Questo è un dato che storicamente è difficilmente contestabile. In fondo, quello che voi temevate ed individuavate come uno Stato imperialista delle multinazionali in qualche modo ha avuto riscontro - almeno per la mia riflessione - nel mondo della globalizzazione, in un mondo che è andato in una direzione del tutto diversa da quella che volevate voi e anche una parte ben più ampia del paese. Le voglio dare atto che all'interno del mondo delle Brigate rosse ed indipendentemente dagli atteggiamenti processuali della collaborazione e della dissociazione, lei è stato uno dei primi ad avviare una riflessione di questo tipo, che si è andata sviluppando negli anni. Un primo stadio della sua riflessione è all'interno della valutazione di cui parlavo con riferimento alla mia proposta di relazione del 1995, cioè l'idea che se avessero voluto fermarvi e stroncarvi subito e definitivamente questo sarebbe stato possibile, perché in realtà la vostra forza, la vostra capacità offensiva era relativa. Poi, attraverso sue interviste e produzioni successive (mi riferisco in particolare a quel suo romanzo di fantasia, "La borsa del presidente", nel quale però è chiaramente leggibile la vicenda Moro), lei avanza un dubbio più grande, cioè non solo quello del non contrasto, ma anche la possibilità dell'eterodirezione, quindi di presenze all'interno delle Brigate rosse che non erano soltanto le Brigate rosse, ma qualcosa di più e di diverso.

Ho fatto questa lunga introduzione per dare un senso alle domande che le rivolgerò prima di lasciare la parola ai colleghi. Innanzitutto, vorrei sapere se mi conferma che tutto sommato eravate una forza fragile, che se avessero voluto colpirvi già nel 1971-1972 questo sarebbe stato possibile, perché non solo avete avuto fenomeni di infiltrazione, ma non eravate quel cubo di acciaio di cui parlò - se non sbaglio - Cardinale, eravate permeabili e in qualche modo voi stessi, durante la vostra storia, aveste la sensazione di essere stati pienamente monitorati. Su questo vorrei che la sua risposta, se possibile, distinguesse fra un monitoraggio da parte dell'intelligence italiana, degli apparati di sicurezza italiani e l'individuazione di un monitoraggio da parte dei servizi stranieri. Con riferimento al primo periodo, innanzitutto vorremmo sapere se è vero, come risulta dalle carte processuali, un vostro rapporto con il mondo orientale, in particolare se è vero che alcuni di voi furono addestrati in campi della Cecoslovacchia e se è vero che abbastanza presto, quando entraste in azione, foste invece intercettati da servizi segreti occidentali, in particolare da servizi segreti israeliani. Con riferimento a quest’ultima domanda (ieri ne abbiamo riparlato citando la sentenza-ordinanza del giudice Imposimato nel processo Moro-bis) ci sono le testimonianze di Peci che vanno in questa direzione e c’è la testimonianza di Bonavita -ho rintracciato in questi giorni da fonte giornalistica la registrazione di un colloquio tra Galati e Dalla Chiesa, in cui addirittura il primo afferma che nel 1975 i servizi segreti israeliani vi avrebbero offerto la possibilità di liberare i capi storici delle Brigate rosse che erano in carcere assumendosi la responsabilità di fingersi le Brigate rosse per simulare un attacco al carcere per liberarvi.

Vorrei una sua prima risposta su tutto questo; quindi, relativa fragilità e permeabilità, sensazione di essere stati immediatamente monitorati dagli apparati di sicurezza italiani, rapporti con il mondo orientale e contatti con gli apparati di sicurezza occidentali, in particolare con quelli israeliani.

FRANCESCHINI. Risponderò in maniera progressiva alle domande che il Presidente mi ha posto.

La prima domanda riguarda la relativa debolezza delle BR. Sulle BR è stata costruita, io credo, una mitologia sia a Sinistra, che a Destra. Da una certa Sinistra è stata costruita una mitologia che, o le dava per inesistenti – questo soprattutto la Sinistra riformista e il Partito Comunista negli anni ‘70 – oppure, dall’altra parte, le dava come un’entità fortissima e assolutamente imprendibile. Anche a Destra c’è stata una lettura delle BR come un’organizzazione in parte legata a settori del Partito comunista, sempre degli anni ’70, cioè l’ala Secchia che veniva da un certo tipo di resistenza, oppure anche in parte legata al KGB e ai Servizi dell’Est. In realtà, le BR, per come almeno le ho conosciute, io credo che non siano state nulla di tutto questo. Adesso sono ormai passati quasi trenta anni da questo fenomeno, però, tutto sommato, io psicologicamente lo vivo come se non fossero passati così tanti anni, anche perché è un fenomeno ancora tutto da capire. Certamente sono un fenomeno nato dalla crisi sociale del nostro paese. Questo è indubbio, cioè non c’è un mago con una bacchetta magica che ordina e nascono le Brigate rosse. Le Brigate rosse nascono dal movimento del 1968-1969, il movimento delle lotte di fabbrica – adesso non sto qui ad entrare nei dettagli perché poi queste analisi sono state fatte a iosa, io credo – quindi sono certamente un fenomeno endogeno che ha un suo senso sociale collocato in un’epoca, però sono un fenomeno certamente limitato, anche se collocato in quell’epoca.

Cioè, in genere, l’operazione che è stata fatta negli anni successivi è stata quella di ridurre tutto il movimento, che allora veniva chiamato extraparlamentare, al terrorismo, riducendo poi tutto il terrorismo alle Brigate rosse; anche questa è un’operazione assolutamente sbagliata, fatta anche da una parte di quello che fu il movimento extraparlamentare dell’epoca. Senza entrare nei dettagli, certamente la scelta della violenza e dell’opzione armata come scelta antistatale ed anti-istituzionale caratterizza un movimento vastissimo, o almeno molto ampio, negli anni 1968-1969. Cioè, riguarda certamente Potere operaio, Lotta continua ed Avanguardia operaia; sto parlando della Sinistra perché poi c’è anche tutto un movimento extraparlamentare a Destra, però ovviamente la scelta e la differenza tra questi gruppi, tra queste formazioni, è semplicemente nei modi e nei tempi di utilizzo della violenza, non nell’opzione della violenza. Questo è l’elemento che ci accomuna tutti. Poi, all’interno di questa scelta, di questa complessità c’erano settori che noi chiamavamo più militanti di altri, cioè che rispetto alla scelta della lotta armata agivano in maniera più o meno diretta. Anche qui, però, quei movimenti che di fatto si sono posti su terreno della lotta armata erano estremamente complessi. Ormai nessuno forse si ricorda più che è esistita Prima linea.

PRESIDENTE. Ce lo ricordiamo benissimo. Nella mia proposta di relazione distinguevo molto, infatti, ciò che eravate voi da ciò che era Prima linea.

FRANCESCHINI. Prima linea, anche numericamente, è stata un’organizzazione molto più forte delle Brigate rosse; questo potete andarlo a vedere anche dagli atti giudiziari. E’ stata più effimera, forse, ed ha avuto un arco di sviluppo molto più breve e condensato. Ciò per dire che in questo periodo il ventaglio era estremamente complesso e certamente coinvolgeva migliaia di giovani, il che non vuol dire, come hanno detto alcuni, una generazione; questa è certamente una grossolana inesattezza. Però, certamente in una generazione è entrato questo tipo di scelta in rapporto con fasce consistenti di giovani di quella generazione. Questo secondo me è il quadro che comunque va tenuto presente, anche per capire poi il tipo …

PRESIDENTE. Mi consenta un’interruzione; ma se voi non eravate un cubo di acciaio, tanto meno lo era Prima linea.

FRANCESCHINI. Certo.

PRESIDENTE. Cioè, rispetto alla vostra forma di compartimentazione, di organizzazione per cellule eccetera, quelli sembravano proprio dei dilettanti.

FRANCESCHINI. Certo.

PRESIDENTE. Quindi, il problema noi lo vediamo con voi, perché è evidente che nel momento in cui riusciamo a risolvere il problema del perché non vi hanno fermati, poi la risposta del perché non hanno fermato gli altri viene da sé, è più facile. Diciamo che vi vediamo come il momento di relativa maggiore efficienza in quel sistema.

FRANCESCHINI. Certamente le Brigate rosse poi sono diventate il terrorismo e la lotta armata perché c’è stato il sequestro Moro e la sua uccisione, che è stato il fatto più alto ed emblematico dal punto di vista militare e politico. Però questo per dire che c’era una complessità di quegli anni, e proprio perché c’era tale complessità sociale poi è stato possibile, secondo me, compiere anche operazioni di eterodirezione. Cioè, non si può eterodirigere una realtà se questa non esiste, cioè, non esiste indipendentemente dai soggetti che la vogliono eterodirigere. Cerco di spiegarmi. Io in questo romanzo che citava il senatore Pellegrino ad un certo punto faccio parlare un presunto generale dei Servizi, che cerca di spiegare a me, al personaggio, come ha funzionato questa operazione di eterodirezione. E questo signore dice: "Lei viene dall’Emilia e dalla pianura padana; tenga presente un grande fiume come il Po. Il fiume esiste, è un fatto naturale. Questo fiume ovviamente in certi periodi dell’anno straripa, produce distruzioni eccetera. I contadini delle sue parti cosa hanno imparato a fare? Non è che hanno inventato il Po, perché questo esisteva. Hanno imparato ad utilizzare gli aspetti anche negativi per loro del Po, gli straripamenti, eccetera, in funzione positiva per loro, cioè per trasformare quella che è una forza negativa in forza positiva". Ecco, lui diceva che quella secondo lui era la chiave interpretativa. Cioè, il movimento di quegli anni della lotta armata è un fenomeno sociale e proprio in quanto tale, come fenomeno quasi naturale da un punto di vista sociale, può essere utilizzato all’interno di certi giochi.

La seconda domanda riguarda i rapporti con i servizi interni o comunque internazionali. Per quel che mi riguarda, su questo argomento ho fatto una lunga riflessione, anche perché io le Brigate rosse le ho vissute direttamente, da persona che ci stava dentro, dalle origini fino al 1974. Poi, nel 1974 sono stato arrestato e quindi la mia riflessione è divenuta indiretta. Però certamente, dal 1970 al 1974, noi, dal punto di vista ufficiale, abbiamo avuto comunque due infiltrati, Marco Pisetta, che è morto, e il famoso "fratello Mitra" che mi ha pure fatto arrestare. Ho fatto una riflessione elementare: dal 1974 al 1984, cioè nei dieci anni successivi, apparentemente nelle Brigate rosse non vi sono più infiltrati; solo dagli anni ’80 c’è il fenomeno cosiddetto dei pentiti, ma gli infiltrati, le cosiddette "spie" sembrano non esistere più. Questa mia riflessione mi porta a dire (siccome ho conosciuto anche compagni dell’epoca successiva): non è che l’organizzazione dopo il 1974 sia diventata chissà che cosa; e comunque rispetto all’infiltrazione sono difficili le difese. Quindi assolutamente non è credibile che nei dieci anni che vanno dal 1974 al 1984, un decennio, non vi siano stati infiltrati nell’organizzazione. Tuttavia dal punto di vista giudiziario non c’è traccia di infiltrati.

PRESIDENTE. Qui la interrompo e così procediamo più velocemente, in modo che possono intervenire i colleghi. Lei, recentemente, sia pure attraverso una deduzione, avrebbe individuato un altro infiltrato, tale Rocco, cioè Francesco Marra, che partecipa al sequestro Sossi e poi è l’unico che tutto sommato la fa franca. La mia domanda è: poi Marra l’ha querelata?

FRANCESCHINI. No. Qui diventa interessante. Partendo da quella mia riflessione, a un certo punto ho incominciato a documentarmi leggendo gli atti della "Commissione Moro", come si chiamava allora, e cercando più informazioni possibili sulle affermazioni dei pentiti. Anche qui vorrei aprire una piccola parentesi: io ho sviluppato una mia idea, una tesi, che è la seguente.

Penso che quello del pentitismo sia un fenomeno che abbia un suo valore sociale, reale. Cerco di spiegarmi in maniera molto precisa: certamente, la lotta armata alla fine degli anni ’70 si è avvitata su se stessa, ha vissuto una crisi spaventosa. E’ chiaro che questa crisi di progetto politico e anche esistenziale diventa crisi dei singoli soggetti che hanno vissuto questa lotta armata. Per cui, è fuori di dubbio che da tale crisi scaturisca un fenomeno di crisi di identità e anche di pentimento. Però sono anche assolutamente convinto che il pentitismo sia stata una forma attraverso la quale alcune forze "dello Stato" – diciamo così – in qualche modo hanno trovato la maniera di salvare dal punto di vista giuridico-legale gli infiltrati. Non voglio dire che tutti i pentiti erano infiltrati, però certamente in mezzo ai pentiti ci sono degli infiltrati.

FRAGALA’. Anche nella mafia è stato così.

FRANCESCHINI. Probabilmente … Può essere: siccome spesso i giudici che hanno operato su di noi li ritroviamo nell’antimafia, eccetera, penso che le tecniche che hanno imparato, applicato o sperimentato con noi siano estese ad altre organizzazioni comunque di grande criminalità , perché anche noi, da un certo punto di vista, eravamo una organizzazione ad alta criminalità.

PRESIDENTE. Eravate un’organizzazione criminale.

FRANCESCHINI. Sì, era per usare una terminologia che ha riferimenti mafiosi.

PRESIDENTE. Le motivazioni erano diverse.

FRANCESCHINI. Per tornare al discorso di prima, due elementi mi hanno fatto riflettere: uno attuale, recentissimo, e un altro del passato. Quello del passato è il seguente. "Fratello Mitra" – lo conoscete, quindi non entro nei dettagli, questo ex frate che fece arrestare me e Curcio nel 1974 – quando venne in aula come teste nel 1978 al processo contro di noi (è una cosa che ha colpito tutti, non solo me), di fronte a domande specifiche degli avvocati che gli chiedevano come mai lui, che era riuscito a raggiungere Curcio e Franceschini, venne "sputtanato", cioè come mai non continuò nella sua opera di infiltrazione, rispose: "Avrei dovuto compiere dei reati: non avevo assolutamente intenzione di compiere reati, anche perché se commettevo reati" – siamo nel 1974 – "avrei dovuto finire in galera". Allora non esisteva la legge sui pentiti: "se faccio una rapina, è una rapina, mi danno il minimo della pena ma mi danno sempre degli anni". Questo era il ragionamento che faceva questo personaggio. Diceva che se quel giorno fosse venuto con noi, saremmo andati a fare una rapina; il che è chiaramente falso. Quel giorno non avremmo portato l’ex frate a fare una rapina.

Un’altra cosa interessante mi colpiva. Nella nostra impostazione egli sarebbe dovuto diventare il nostro addestratore militare, per cui lo avremmo condotto alla Cascina Spiotta (dove poi fu uccisa Mara Cagol) e lì, nel giro di alcuni mesi, di fatto avrebbe conosciuto o frequentato tutti i quadri che noi allora chiamavamo "regolari" dell’organizzazione. E questa cosa lui la sapeva almeno tre mesi prima. Siccome lui – questo è certo – era in contatto con Dalla Chiesa almeno da un anno prima, mi sembra strano che i Carabinieri si siano "giocati" l’opportunità che avevano di prendere tutta l’organizzazione nel giro di pochissimi mesi. Allora, la prima riflessione è che forse "fratello Mitra" andava reso pubblico perché forse c’era qualcos’altro; cioè, non è che gli interessasse molto, le cose di "fratello Mitra" forse le conoscevano già; in quel momento propagandisticamente interessava arrestare me e Curcio. Ma è un discorso più complesso. La prima riflessione, dicevo, è la seguente: "fratello Mitra" affermava di non aver voluto più andare avanti perché altrimenti avrebbe dovuto commettere dei reati e non voleva finire in galera. La seconda riflessione, che ho fatto solo una settimana fa – vi sembrerà strano, ma secondo me ci sono delle grosse connessioni – riguarda un’intervista di Farina, il sequestratore sardo, al "Corriere della Sera". In quella intervista, secondo me, Farina introduce una categoria che per me è illuminante. Il giornalista gli pone una serie di domande sui Carabinieri (poi si capisce il riferimento al generale Delfino) che volevano che si infiltrasse nel mondo del banditismo sardo. Gli chiede: "Cosa volevano da lei, insomma, farle fare l’infiltrato?". Lui risponde: "No, mi volevano far fare l’agente destabilizzante". Questa secondo me è una definizione – messa in bocca ad un bandito sardo - che viene dall’epoca del terrorismo. Probabilmente all’epoca nostra esistevano agenti speciali (che potevano essere Carabinieri o gente ricattata), agenti che avevano questo compito; dice Farina che lui avrebbe dovuto farlo rispetto alla malavita comune, avrebbe dovuto accelerare i sequestri di persona in una certa direzione, in modo tale che le forze dell’ordine sapessero esattamente in quale direzione si andava, e potessero fare brillanti operazioni se non anche di peggio, cioè giochi più sporchi. Questa è la seconda riflessione: io credo che esistessero degli agenti destabilizzanti.

Una delle ingenuità, mia in particolare ma posso dire nostra (però nell’epoca è inquadrabile), era la seguente: paradossalmente ero più legalista dei Carabinieri. Spiego cosa voglio dire. Io pensavo che Carabinieri, Polizia eccetera infiltrassero le persone in mezzo a noi per impedirci di compiere dei reati. Io credevo fermamente questo; ma non solo io, ci credeva la mia organizzazione. L’idea era che ti mettono l’infiltrato perché vogliono sapere cosa stai facendo e poi, prima che arrivi a concludere il fatto delittuoso, ti bloccano. Per noi, la verifica per vedere se uno era infiltrato o meno consisteva nel compiere con lui atti delittuosi.

PRESIDENTE. Metterlo alla prova.

FRANCESCHINI. Sì, metterlo alla prova. Se veniva con me a fare delle rapine e le rapine funzionavano, era ovvio che la persona era affidabile. Non avevo altri modi di misura, allora (a parte i discorsi sulla coscienza politica, eccetera). Tuttavia – ho trovato le prove del fatto e adesso vi do le prove giuridiche di quello che dico – c’erano soggetti che invece non avevano il compito di impedire che noi commettessimo dei reati; anzi, ho verificato che questi soggetti erano quelli più scatenati nel compiere reati: se era per loro dovevi compiere continuamente delle stragi. Questo era l’aspetto più inquietante, dal mio punto di vista. Se fossero esistiti soggetti di questo tipo al nostro interno allora, è fuor di dubbio che non li avremmo mai scoperti, ma probabilmente questi soggetti avrebbero potuto benissimo diventare addirittura dei capi! E’ semplicissimo: attraverso arresti pilotati e così via. Quindi, un’organizzazione che nasce in un certo modo alla fine può trovarsi ad avere una testa ben diversa rispetto al punto di partenza. Qui arrivo alla domanda del presiedente Pellegrino su Marra. Riflettendo su queste cose mi sono andato a prendere le deposizioni dell’unico pentito del cosiddetto nucleo storico, Alfredo Bonavita.

PRESIDENTE. Questo si pente prima di Peci?

FRANCESCHINI. No successivamente, anche se non dopo moltissimo tempo, un anno dopo circa. Vedo che il dottor Nordio, qui presente, mi sta guardando attentamente. Comincio quindi a leggermi tutta la documentazione, anche perché poi Alfredo Bonavita mi accusava rispetto ad un duplice omicidio a Padova. Vi è tutta una storia di due missini a Padova, per cui ero interessato a capire esattamente le dinamiche. Leggendo le dichiarazioni sul sequestro Sossi, ho rilevato che lui fa una ricostruzione dettagliatissima di tale sequestro, con tutti i particolari. Poiché io stesso ero uno degli organizzatori del sequestro, con altre 18 persone, ed è un dato che voglio sottoporre alla vostra riflessione.

PRESIDENTE. Glielo chiederò dopo.

FRANCESCHINI. Marra fa una ricostruzione dettagliatissima, ripeto, dei soggetti, dando nomi e cognomi dei singoli e le funzioni e fa un solo errore: mette tra i sequestratori, cioè tra quelli che materialmente avevano preso il magistrato, Mario Moretti. Invece quest’ultimo non aveva preso parte a quest’azione; quindi era un errore che lui non poteva compiere per un semplice motivo: vi era una nostra regola secondo la quale il comitato esecutivo come si chiamava allora, cioè il gruppo di direzione, era formato da un certo numero di compagni, eravamo in quattro a quell’epoca, di cui tre impegnati nell’azione del sequestro Sossi mentre uno doveva restare fuori. Io, Mara e Renato eravamo impegnati nell’azione Sossi, Moretti era fuori, quindi non poteva compiere un errore di questo tipo; sapeva benissimo di Moretti. Lui stesso era uno dei sequestratori materiali, non poteva non sapere il nome degli altri. Lui stranamente lascia fuori una sola persona. Cioè vi è una sola persona che non compare in tutto questo, è una persona che peraltro non è mai comparsa in nessun’inchiesta giudiziaria su di noi. Allora, la mia prima riflessione fu questa: probabilmente poiché questa persona non è mai stata arresta, ha famiglia e via dicendo lo vuole salvare. Poi però, continuando a leggere e a documentarmi vedo che lui ha fatto tranquillamente arrestare una serie di persone che avevano famiglia e che addirittura erano innocenti, non c’entravano nulla, per coprire mogli di pentiti perché poi si mettevano d’accordo chiaramente tra di loro per coprirsi, eccetera; quindi, mi sembra che anche questa ragione morale fosse assolutamente inesistente, pertanto, doveva essere un altro il motivo. Per me un dettaglio apparentemente insignificante diventava una cosa importantissima. A questo punto trovo una serie di documenti. Faccio vedere poi…

PRESIDENTE. Quindi, lei da questo trae il convincimento che Marra poteva essere un infiltrato. Lo dice molte volte in diverse occasioni pubblica: Marra la minaccia di querelarla ma non l’ha querelata.

FRANCESCHINI. No, scusi, signor Presidente, c’è un passaggio. A questo punto io vengo interrogato per questioni di destra, cioè per la strage di Brescia, come teste dal capitano Giraudo dei carabinieri nell’inchiesta del dottor Salvini. Vi è tutta una serie di questioni complicatissime nelle quali non starò ad entrare nel dettaglio. In questo interrogatorio vi è un problema di rapporti eventuali tra destra e sinistra, tra noi e queste dimensioni della destra o i possibili infiltrati della destra tra noi.

PRESIDENTE. Torniamo a Marra.

FRANCESCHINI. Siccome avevo dubbi su questo Marra anche perché lui aveva un passato di un certo tipo (un passato di parà non chiaro da un certo punto di vista) dico al capitano Giraudo: io le dico un nome, lei faccia un’inchiesta su questo nome e verifichi se quello che le sto dicendo è vero o falso. I carabinieri – non so se Giraudo o chi – vanno a prendere Francesco Marra e questi come prima cosa dice ai Carabinieri: alt, fermi un attimo. Sì, certo io conoscevo Curcio e Franceschini perché vivevano nel mio quartiere, Quarto Giano a Milano; frequentavano il quartiere, però io con le BR non c’entro nulla, anzi io ero un agente informatore del commissariato di Musocco e dei Carabinieri. Questo lo dice lui. Io ho visto un verbale, una paginetta dove lui dice queste cose. Allora, il punto chiave è questo. Io ho dichiarato agli atti – e l’ho dichiarato anche pubblicamente – che lui era un brigatista; era uno che con me ha fatto almeno cinque rapine, che ha fatto una serie di azioni che potrei elencare; ha sequestrato Sossi ed era uno di quelli che voleva ammazzarlo. Quindi, non è vero che lui non era un brigatista: lui certamente era un agente destabilizzante. Infatti mi diceva….

PRESIDENTE. Scusi se la interrompo. Va bene, questo lo abbiamo capito. Lei però a questo punto ha ammesso qualche dubbio sulla genuinità delle dichiarazioni di Bonavita. Devo riconoscere che Bonavita è una delle fonti che anche la sentenza, non solo l’ordinanza di Imposimato, citano su questi rapporti iniziali tra voi e il Mossad. Questo è un fatto che si può confermare o meno. Foste effettivamente avvicinati subito da uomini dei servizi israeliani?

FRANCESCHINI. Io non ho mai incontrato uomini dei servizi israeliani. Posso confermare che subito dopo il sequestro del magistrato Sossi persone di Milano entrarono attraverso un certo giro in rapporto con noi proponendoci un contatto con degli agenti israeliani.. La cosa più inquietante, e riterrei più interessante era che la proposta che ci veniva fatta era questa: noi non vogliamo dirvi le cose che voi dovete fare. Cioè, a noi ci va benissimo quello che voi fate. Ci interessa che voi esistiate. Il fatto stesso che voi esistiate, qualunque cosa voi facciate a noi va benissimo. E spiegarono tramite questo intermediario anche le motivazioni politiche di questa loro posizione. Dissero che siccome vi era ovviamente un problema di area mediterranea e di paesi leader, da un punto dal punto di vista dei rapporti degli americani, nel controllo dell’area, nella misura in cui l’Italia era destabilizzata, più l’Italia era destabilizzata più era inaffidabile, più Israele diventava paese affidabile per tutte le politiche mediterranee.

PRESIDENTE. Questo coincide al cento per cento con le dichiarazioni di Peci e Bonavita.

FRANCESCHINI. Sì perché è Bonavita che è stato anche uno degli intermediari. Io riferisco cose che ho sentito da Bonavita e da altre persone. La cosa inquietante è questa. Loro dicevano: noi vi forniremo i nomi delle persone che si infiltrano in mezzo a voi, vi daremo soldi, vi daremo armi e voi fatene quello che volete. Cioè noi non vogliamo condizionare le vostre azioni, non vogliamo che voi…..

PRESIDENTE. Non vi diedero dei nominativi?

FRANCESCHINI. Ci diedero i nominativi di due operai della FIAT (uno della Fiat Rivalta), che dicevano che erano infiltrati in mezzo a noi. Infatti noi andammo a verificare questi due operai, che esistevano ed erano anche due del giro delle Brigate di fabbrica.

PRESIDENTE. Quindi questo è un punto per rispondere alla domanda: il rapporto con la Cecoslovacchia.

TARADASH. I soldi e le armi arrivarono poi dai servizi segreti?

FRANCESCHINI. Il punto è questo: ai miei tempi non arrivarono. Noi rifiutammo ovviamente….

PRESIDENTE. E’ pacifico: sia Bonavita che Peci dicono che furono rifiutati.

TARADASH. Dato che la fonte è sempre Bonavita, vi è un riscontro obiettivo?

FRANCESCHINI. Non c’è solo la fonte Bonavita.

PRESIDENTE. C’è quella di Peci.

FRANCESCHINI. Non solo quella di Peci. Ce ne sono certamente altre: cioè queste cose io non le ho sapute solo da Bonavita. Questo è il punto. Potrebbe chiederlo a Renato Curcio. Chiunque potrebbe confermarlo. Fu discussa all’interno delle colonne questa proposta. Fu discussa al nostro interno. Non è una proposta che rimase all’interno di due o tre persone. I rapporti con la Cecoslovacchia: questo è un altro dei punti che vorrei fosse chiarito, perché siccome in qualche modo mi riguarda….

PRESIDENTE. Anzitutto vorrei sapere la sua posizione. Lei è stato a Praga sicuramente, ma è stato in questo campo di addestramento?

FRANCESCHINI. Io sono stato a Praga per la prima volta in vita mia l’anno scorso in agosto perché ho detto voglio andare a Karlovy Vary, che è un posto bellissimo.

PRESIDENTE. Prima non c’era mai stato?

FRANCESCHINI. No, mai.

PRESIDENTE. Ci sono fonti processuali che parlano di un suo soggiorno a Praga.

FRANCESCHINI. C’era un magistrato che mi sembra si chiamasse De Ficchy che aveva aperto un’inchiesta sui rapporti tra BR e servizi e gli dissi: sono disponibile a darle tutta la mia collaborazione, qualunque cosa lei voglia per chiarire questa vicenda. Voglio che questa vicenda sia chiarita.

PRESIDENTE. Altri brigatisti del nucleo storico sono stati in campi di addestramento in Cecoslovacchia?

FRANCESCHINI. Per quello che ne so io, certamente Pelli no. Lo dico perché si fa il nome di Pelli con Franceschini, e Pelli purtroppo è morto. Sfido chiunque a provare il contrario, anzi sarei proprio curioso che si chiarisse, perché può anche darsi che qualcuno ci sia stato.

PRESIDENTE. Tutta la storia che lei ha raccontato degli israeliani mi sembra estremamente logica. Sarei sorpreso che non fosse avvenuta, ma sarei estremamente sorpreso di sapere che voi non siete stati in qualche modo addestrati in campi, voi delle BR. Noi tra poco acquisiremo la documentazione in base alla quale pare che sono stati addestrati uomini dell’ETA, dell’IRA, dell’OLP. Mi sembra che siamo pienamente nella logica dei servizi orientali: destabilizzare democrazie occidentali attraverso aiuti a gruppi terroristici che sicuramente operavano, e che, proprio per la vostra non impermeabilità, se vi si voleva contattare, eravate contattabili.

FRANCESCHINI. Una risposta possibile è questa. C’è una figura chiave in quegli anni, che è Gian Giacomo Feltrinelli, il quale certamente aveva rapporti con Praga, questo è fuori di dubbio; aveva rapporti con i paesi dell’Est, aveva rapporti con Cuba. Lui, ad esempio, andava a Cuba passando per Praga, perché credo che in quegli anni fosse l’unico modo possibile per andare a Cuba. Feltrinelli è certamente una figura chiave in quegli anni, 1970-1971, fino alla sua morte, che secondo me è probabile non sia una morte accidentale. Questa è un’altra riflessione che ho fatto già da allora; probabilmente non è una morte accidentale. Ci sono due morti che avvengono nel giro di brevissima distanza temporale: una è quella di Secchia, in Sudamerica, che sembra sia stato avvelenato, e l’altra è quella di Feltrinelli, pochissimi mesi dopo. Può essere casuale questo fatto; certamente c’erano dei rapporti politici stretti tra Secchia e …

PRESIDENTE. Un certo Marco Foini, detto Armando, detto Corto Maltese.

FRANCESCHINI. Secchia lavorava per la fondazione Feltrinelli in quegli anni, quindi c’era un rapporto storico-editoriale-politico tra i soggetti che certamente non erano d’accordo… Una riflessione: quando Feltrinelli salta sul traliccio, la famosa notte – adesso non mi ricordo la data esatta – del 1972, il giorno dopo cosa doveva succedere a Milano? Nessuno si ricorda? Iniziava il congresso del Partito Comunista, congresso che poi portò all’elezione di Berlinguer come segretario. Lui voleva far saltare questi due grossi tralicci per togliere la luce a Milano. Se avesse funzionato l’operazione, quella notte Milano sarebbe rimasta al buio, il congresso del Partito Comunista non si sarebbe tenuto; immaginate cosa significava dal punto di vista psicologico-emotivo un fatto del genere sui delegati del congresso.

FRAGALA’. Quindi, sarebbe stato attribuito alla Destra.

FRANCESCHINI. Non lo so, probabilmente sarebbe stato attribuito forse alla Sinistra, al Gap, anzi, credo che probabilmente l’avrebbe…

PRESIDENTE. Lei pensa che lo avrebbe rivendicato?

FRANCESCHINI. Probabilmente, credo di sì, anche perché lui altri attentati di questo tipo li rivendicò. C’era certamente una parte del Partito Comunista che non era d’accordo con le scelte che Berlinguer stava facendo.

PRESIDENTE. Secchia sicuramente non era d’accordo.

FRANCESCHINI. Secchia sicuramente non era d’accordo. Per quello dico, certamente, se c’è da andare a vedere dei rapporti o delle relazioni con i paesi dell’Est, probabilmente bisogna passare… anche perché io credo che come – questa è una riflessione che anticipo – certamente la politica di Moro poteva dar fastidio agli americani, poi Berlinguer…

PRESIDENTE. Un momento, altrimenti non è ordinata l’audizione.

FRAGALA’. Quindi Secchia e Feltrinelli da chi sarebbero stati uccisi?

FRANCESCHINI. Questo non lo so, purtroppo bisognerebbe andarlo a scoprire. Secchia si diceva in quegli anni che era stato avvelenato dalla CIA, la fantomatica CIA; credo siano state trovate tracce di un certo veleno nelle ossa quando hanno fatto le perizie, perché lui in un viaggio in Sudamerica (nell’estate o nella primavera del 1972, adesso non ricordo) morì improvvisamente.

FRAGALA’. Morì un anno dopo Feltrinelli?

FRANCESCHINI. No, prima; alcuni mesi prima.

PARDINI. Vorrei un chiarimento. Lei prima, a proposito dei rapporti con i servizi segreti israeliani, disse che questo invio poi non si concretizzò. Vorrei sapere la ragione per cui non si concretizzò, perché questi vi offrivano sopra un piatto di argento un sacco di cose, soprattutto la mappa degli infiltrati che credo fosse la cosa più interessante.

FRANCESCHINI. Il motivo è molto semplice, bisogna tenere presente una serie di elementi. Nel 1974 io avevo neanche 27 anni, il più vecchio di noi era Curcio che aveva una trentina d’anni; noi eravamo veramente dei ragazzini da un certo punto di vista molto moralisti: per me accettare una cosa del genere era autodistruttivo al massimo, era la mia morte, era inaccettabile una proposta del genere. Visto a posteriori, non avevamo il senso della politica: che vuol dire anche accordi, vuol dire dimenticarsi l’etica; tant’è che alcuni compagni venuti dopo di noi ci hanno anche criticato come degli ingenui. Non potrei escludere che ciò che noi abbiamo rifiutato fu poi accettato in altra maniera, questo è fuori di dubbio. Vi è di certo solo una cosa: che noi rifiutammo questo rapporto e dopo breve tempo fummo arrestati. Cioè, fummo arrestati, in particolare io e Curcio, perché, ovviamente, avendo rifiutato un rapporto di questo tipo (ci ho riflettuto dopo) è chiaro che alla fine ti devono far fuori, perché vuol dire che sei incontrollabile totalmente.

PRESIDENTE. D’altra parte il sospetto di lavorare per il Re di Prussia era, come dire, mitridatizzato dalla cultura leninista dell’arrivo di Lenin a Mosca sul vagone piombato. Faceva parte della mitica del movimento.

TASSONE. Lei ha detto che, secondo lei, Feltrinelli è stato ucciso. Questa è una sua ipotesi, però noto una certa contraddizione: Feltrinelli è andato lì sui tralicci perché doveva bloccare l’erogazione dell’energia elettrica per il congresso del Partito Comunista Italiano, lui è andato lì, per cui è possibile, anzi è stato accertato, che si è trattato di un incidente: perché altrimenti, come ipotesi, quale potrebbe essere il mandante oppure l’autore dell’assassinio di Feltrinelli? Erano i danneggiati della mancanza di erogazione dell’energia elettrica? Lui è andato lì, non è che l’hanno portato. Soltanto per chiarire, è più plausibile un incidente, perché lui è andato lì perché aveva questo scopo, questo obiettivo, lei l’ha detto, per cui noto una certa contraddizione.

FRANCESCHINI. Lui è andato lì certamente per compiere questo attentato. Vi furono due nuclei: uno doveva compiere l’attentato in un traliccio e l’altro alla parte opposta della città. Tutti e due gli attentati fallirono, solo quello di Feltrinelli fu mortale e lì c’è un fatto strano. Adesso ricordo delle cose che già allora pensavamo. Il timer era in realtà un orologio, nel cui quadrante veniva inserito un chiodo e veniva tolta la lancetta dei minuti; la lancetta delle ore, girando, nel momento in cui toccava il chiodo faceva scoppiare la bomba. La cosa strana è che nell’orologio di Feltrinelli, invece della lancetta dei minuti, venne tolta la lancetta delle ore. Non l’aveva fatto lui il timer, l’aveva fatto un’altra persona, il famoso Gunter, che non si è mai riuscito a capire chi fosse, era uno della Valtellina, un tipo strano, comunque il famoso Gunter. Per cui c’è quest’altra persona che non si è mai riuscita a rintracciare. Oltretutto c’è una storia interessante su Gunter, perché viene dalla Brigata di Dio, cioè partigiani bianchi. Potrebbe essere un personaggio con degli aspetti inquietanti, però sembra che sia morto.

PRESIDENTE. Potrebbe essere lui il collegamento fra Fumagalli e Feltrinelli di cui parlò anche Arcai e che è stato ripreso da Delfino nel libro?

FRANCESCHINI. Potrebbe essere. Io ci ho riflettuto perché proveniva da quelle zone ed aveva una storia simile a quella del Fumagalli.

TASSONE. Il partigiano bianco si è poi convertito?

PRESIDENTE. E’ già stata avanzata in questa Commissione una ipotesi di possibili collegamenti fra Feltrinelli e il MAR di Fumagalli. Infatti, il traliccio su cui salta in aria Feltrinelli è a 300 metri di distanza dall’officina di Fumagalli. Ma se ci inoltriamo in questo campo di ipotesi non procediamo più.

MANTICA. Perché fallì l’altro attentato?

FRANCESCHINI. Sempre per colpa dell’orologio che non funzionò; però in quel caso la lancetta era quella delle ore.

PRESIDENTE. Per colpa dello stesso timer muore la donna all’ambasciata americana ad Atene; nello stesso arco temporale è stato compiuto un attentato all’ambasciata americana che è poi fallito ma durante il quale muore l’attentatrice, sempre per colpa di questo tipo di timer che era quindi un po’ pericoloso. Nel romanzo da lei scritto – che io ho letto, e credo lo abbiano fatto anche molti altri commissari – naturalmente rienumera tutti i dubbi rimasti irrisolti in ordine al sequestro Moro, aggiungendone anche altri; uno riguarda la ragione per cui i brigatisti indossano divise dell’Aeronautica e lei avanza l’ipotesi che una divisa serve a sottrarsi al fuoco amico e quindi fra gli attentatori poteva esserci qualcuno non interno al gruppo delle Brigate rosse che necessitava di un dato visibile per evitare di sbagliare bersaglio. Inoltre, lei riflette sul perché viene scelta la Renault 4 e sostiene che questa all’epoca era una delle macchine più facilmente rintracciabili e il portabagagli era accessibile dall’abitacolo; quindi avanza l’ipotesi che mentre era stato concordato uno scambio, Moro viene ucciso dall’interno dell’abitacolo, a sorpresa, e quindi eliminato.

Il senso complessivo del romanzo è che nell’ambito dell’uccisione di Moro, attraverso un personaggio che visibilmente lei individua in Moretti, funziona una organizzazione che a me sembra facilmente identificabile nella scuola di lingue Hyperion di Parigi. Tralasciando il romanzo, può fornirci qualche ulteriore informazione su questa scuola? Come nasce l’Hyperion? Chi era Corrado Simioni? E’ vero che aveva avuto un sodalizio giovanile anche con l’onorevole Craxi e che fu espulso dal Partito socialista? Risponde a verità che Simioni abbia soggiornato alcuni anni a Monaco di Baviera – a suo dire – per studiare teologia? Perché lei ha dato corpo a questa possibile ipotesi?

FRANCESCHINI. Per una serie di miei indizi e di conoscenze personali che ho dei soggetti, sono assolutamente convinto del fatto che abbia funzionato un meccanismo che ora cercherò di spiegare. Al di là dei dettagli, credo che i magistrati, giustamente, abbiano il compito di trovare delle prove rispetto a certe affermazioni. Infatti, a Venezia è stata compiuta dal giudice Mastelloni una inchiesta sui "Superclan", inchiesta che poi ha fatto in modo che fossero tutti assolti, ovviamente. Quindi, da questo punto di vista, loro sono risultati tutti innocenti. Conoscendo i soggetti, le azioni da loro compiute, confrontandole con dichiarazioni successive da loro fornite, sono portato a pensare che una mia certa ipotesi sia assolutamente vera. Cercherò di spiegarla con un esempio. All’epoca, negli anni ’70, esistevano le Brigate rosse. Le Brigate rosse erano una organizzazione che tutti conosciamo e avevano un centro di direzione, dirigenti che la gestivano e che si trovavano in alto. Ovviamente, non tutti i compagni di brigata conoscevano i dirigenti ma c’era un rapporto di fiducia reciproca determinato dalla pratica, dall’ideologia. Esisteva poi quello che noi chiamavamo il movimento, organizzato in collettivi ed in varie strutture. Molti nostri compagni di brigata erano all’interno di queste strutture e, da un certo punto di vista, erano degli infiltrati nei collettivi di fabbrica o di quartiere che in termini più generali venivano definiti "Autonomia". Questi nostri compagni infiltrati schedavano le persone – utilizzo volutamente questo termine – interne ai collettivi, passavano tutte le informazioni all’organizzazione e cercavano di orientare la politica dei collettivi in una certa direzione che era quella poi voluta dall’organizzazione stessa, contattavano le persone dei collettivi che loro ritenevano le più affidabili da un punto di vista rivoluzionario e poi proponevano loro di entrare nell’organizzazione. I compagni che svolgevano queste funzioni non si sentivano degli infiltrati ma si ritenevano, giustamente, dei rivoluzionari e consideravano le Brigate rosse una organizzazione rivoluzionaria; i collettivi, come tali, erano ad un gradino più basso. Pertanto, il fatto che un soggetto svolgesse queste operazioni nei collettivi era motivato da un punto di vista politico ed egli quindi non si sentiva un infiltrato ma un dirigente rivoluzionario.

Questo è il modello che vi propongo. Pensate ad una organizzazione che si muove a livello europeo, a cui fa riferimento una serie di soggetti che come compito hanno quello di orientare le organizzazioni di lotta armata esistenti nei vari paesi. Questa organizzazione ha con le varie strutture come le Brigate rosse, cioè l’IRA o la RAF, lo stesso rapporto che i nostri compagni avevano con i collettivi. Chiaramente, coloro che facevano parte di questa superorganizzazione non si sentivano degli infiltrati all’interno delle Brigate rosse, o strutture simili, perché erano assolutamente convinti che la funzione da loro svolta era rivoluzionaria; è chiaro che è ben più rivoluzionaria una organizzazione che si muove a livello europeo, con un certo tipo di rapporti, di addentellati, piuttosto che una organizzazione limitata all’ambito nazionale. Spesso ci viene chiesto se ritenevamo che un certo soggetto fosse un agente di polizia, ma non è così. Ad esempio, la figura di Moretti può essere compresa solo all’interno di un contesto di questo tipo, sia ben chiaro; quindi, non può essere considerato come un agente di polizia ma come un militante che ragiona in un certo modo, pensa in un certo modo e opera in un certo modo. Ho fatto questo esempio, ma se ne potrebbero fare altri; potrei citare anche Gallinari. A mio avviso, questa è la chiave interpretativa.

Ritengo certamente che uno dei centri, se non forse il centro di questa grande operazione sia la scuola Hyperion. Stranamente, in tutte le inchieste giudiziarie ci si muove in ogni direzione ma non si può mai arrivare lì. Anche l’inchiesta condotta a Padova dal giudice Calogero fu bloccata a causa di una fuga di notizie relative proprio all’Hyperion; il Corriere della sera pubblicò la notizia che il giudice Calogero aveva inviato agenti di servizio per indagare sulla scuola Hyperion e, a quel punto, i servizi segreti francesi ruppero ogni rapporto di collaborazione con quelli italiani e l’indagine quindi terminò. Pertanto, è sempre stata attuata una certa protezione nell’ambito di questo filone.

Corrado Simioni, che io ho conosciuto benissimo, ha una storia politica di questo tipo. Innanzitutto, era nel Partito socialista insieme a Craxi ed avevano circa la stessa età. Faceva parte della corrente autonomista del Partito socialista milanese da cui fu espulso nel 1963 per indegnità morale (riferisco dati che mi sono stati raccontati proprio da lui per cui andrebbero tutti verificati). Io gli chiesi se per essere espulso dal Partito aveva per caso rubato la cassa, ma egli mi rispose che si trattava di una questione di donne; tra lui e Craxi c’era una concorrenza per donne, poi non so se questo corrisponde a verità. Sta di fatto che negli anni 1964-’65 Simioni scomparve dall’Italia e – sempre sulla base di dichiarazioni che mi rese – si recò a Monaco, in un istituto di cui non ricordo il nome, per studiare teologia e latino. Infatti, mi resi conto della sua preparazione e gli chiesi se per caso aveva studiato da prete e lui mi rispose di aver studiato teologia a Monaco. Me ne parlò come un fatto di interesse culturale, intellettuale, niente di strano. Poi ricompare in Italia col movimento studentesco nel 1968. Comincia a gironzolare all’interno del movimento, proponendo ai vari leader o agli studenti un quotidiano del movimento, per il quale diceva di avere i soldi e gli strumenti. Questo era il suo progetto. Diceva di essere un giornalista della Mondadori: sono notizie che andrebbero verificate. Lo conosco bene perché poi fondò insieme a Curcio il Collettivo politico metropolitano. Io a quei tempi ero a Reggio, ero uscito dalla FGCI e dal Partito comunista e avevamo fondato un collettivo nella nostra città. Entrammo in contatto con questo collettivo politico metropolitano e lo conobbi attraverso il CUB della Pirelli. Poi però i rapporti si deteriorarono velocissimamente. Con lui già si parlava di lotta armata: era uno di quelli che spingeva di più verso la lotta armata, tant’è che l’occasione della rottura tra Curcio e me da una parte e lui e il suo gruppo dall’altra avviene nel settembre 1970, di fronte ad alcune sue proposte che ritenevamo assolutamente avventuriste, come si diceva allora, totalmente demenziali, diremmo oggi. La prima proposta che fece all’inizio di settembre fu di uccidere il principe Borghese, invitato ad un comizio in piazza a Trento da Avanguardia Nazionale. Diceva di aver già preparato tutto: aveva i cecchini e si doveva andare lì ad ucciderlo. Siamo nel settembre 1970. La cosa, peraltro mi ha fatto suonare un campanello di allarme visto che proprio in quel periodo c’era stato il golpe. Comunque, fin lì, all’epoca, ammazzare un fascista, un ex repubblichino…

PRESIDENTE. Avevate già pensato al nome Brigate rosse?

FRANCESCHINI. Eravamo agli inizi di settembre e il nome era Brigata rossa.

Il fatto veramente inquietante era che la colpa dell’assassinio di Valerio Borghese doveva ricadere su Lotta continua che andava formandosi allora. Aveva una teoria del "tanto peggio, tanto meglio": l’unica via rivoluzionaria era la lotta armata e questi gruppi semilegali costituivano un freno. Bisognava fare l’attentato e sbarazzare il campo da Lotta continua che si stava formando. La proposta gli venne rifiutata. La seconda proposta era connessa al viaggio di Nixon in Italia alla fine di settembre. Ci propose di uccidere due ufficiali della Nato a Napoli: diceva di avere preparato tutto, anche se poi non si capiva mai chi fossero queste persone che, dietro di lui, avevano preparato tutto. Noi non dovevamo farlo: dovevamo essere d’accordo con lui a gestire le operazioni in un certo modo. Rifiutammo anche questa proposta e decidemmo di bruciare la macchina di un capo reparto della Siemens. Dicevamo che le sue proposte erano follie, che bisognava partire dalle fabbriche e così decidemmo l’azione contro il capo della Siemens. Su questo ci fu una rottura tra noi e lui e il suo gruppo. Noi chiamavamo questo gruppo "Superclan", nel senso di superclandestino.

PRESIDENTE. Quindi "supeclan" è un abbreviativo riferito alla clandestinità?

FRANCESCHINI. Loro pensavano addirittura ad una clandestinità di terzo livello: avrebbero dovuto infiltrare tutti i gruppi della sinistra e della destra per poi orientarli in un certo modo.

FRAGALA’. Anche quelli di destra?

FRANCESCHINI. Probabilmente lo avranno fatto anche a destra. Loro comunque operarono in Italia fino al 1973-1974, poi sciolsero questa organizzazione e se ne andarono a Parigi dove aprirono l’Hyperion. Successivamente, quando sono venute fuori queste cose su di lui, Simioni concesse una intervista all’Espresso al giornalista Scialoja, l’unica intervista che ha fatto, alla fine degli anni ‘Ottanta, primi anni ’90. Nell’intervista lui risponde dando un quadro di sé assolutamente irreale: dice di essere sempre stato un pacifista, un intellettuale, di non aver avuto nulla a che fare con Curcio e Franceschini che erano due terroristi. Una ricostruzione al contrario: potete credermi o non credermi, ma io lo conosco e tutto quello che lui dice nell’intervista è falso. Ma la cosa inquietante dell’articolo, che vi inviterei a cercare, è che esso appare corredato da un un’unica foto nella quale si vede Papa Giovanni Paolo II, l’Abbé Pierre e tra i due Simioni. Il messaggio era chiaro. Il punto è che in questo gruppo certamente ci sono altri personaggi interessanti che forse tutti, voi, i magistrati, hanno sottovalutato. Duccio Berio era il braccio destro di Simioni: suo padre era un famoso medico milanese, ebreo, a suo dire legato ai servizi israeliani. Ho quasi la certezza che il canale attraverso cui fummo contattati passava per questa persona. C’era poi una francese, del giro di "Mani tese", Françoise Tuscher, che era la nipote dell’Abbé Pierre. Quest’ultimo era un personaggio importantissimo in Francia nell’attività di volontariato, che aveva fatto la resistenza insieme a De Gaulle, era uno dei suoi uomini di fiducia sin dalla partenza dall’Algeria. Inoltre Duccio Berio era il genero di Malagugini: sua moglie, Silvia Malagugini era la figlia di Alberto, uno dei boss della giustizia nel Partito comunista.

FRAGALA’. Era il Violante di allora.

FRANCESCHINI. Questo nome non lo trovate mai nell’inchiesta, eppure si tratta di una persona che va a Parigi al seguito di Duccio Berio. Il nome non esce mai, ci si ferma. Anche qui ci sono dei dettagli un po’ inquietanti, di cui ho già parlato pubblicamente. Dopo il sequestro Amerio, siamo nel dicembre 1973…

PRESIDENTE. Lei attribuisce a Simioni l’attentato alla casa del principe Borghese del 13 dicembre 1970, che viene rivendicata alle Brigate rosse di Roma? Cinque giorni dopo il golpe militare, del quale allora nessuno sapeva niente? Non si sapeva neppure che c’era stato.

FRANCESCHINI. Non lo posso dire. Aveva una sua organizzazione e relazioni che non conoscevo, non ero assolutamente in grado di conoscere…Un ultimo dettaglio sulla storia dell’Hyperion, che forse può essere inquietante: nel dicembre 1973, facemmo il sequestro Amerio, che era un dirigente del personale della Fiat di Torino: fu il primo sequestro rilevante, perché durò tutta una settimana; prima c’era stato quello di Macchiarini, durato soltanto alcune ore. Noi gestimmo tutto il sequestro contro il compromesso storico. Apparve su Rinascita un articolo di Berlinguer che lanciava il compromesso storico e noi interpretammo il contratto Fiat di quell’epoca come la prima verifica di questa possibile strategia di compromesso storico. Pochi mesi dopo la fine del sequestro, nel gennaio 1974, attraverso Piero Morlacchi, che era un compagno di Milano, clandestino, legato al PCI, che aveva due fratelli che lavoravano all’Unità, uno come giornalista e l’altro come tipografo, ci contattarono dicendoci di consegnarci ai magistrati perché ormai le cose si facevano pesanti e ci sarebbero stati arresti in massa. Quindi, io e Morlacchi dovevamo consegnarci. Questa informazione ci veniva dal PCI, ovviamente; poiché noi due eravamo considerati compagni di fiducia e affidabili, mentre gli altri non si sapeva chi erano, ci proponevano di consegnarci (anche perché è ovvio che il nostro arresto poteva coinvolgere il PCI per la nostra storia personale) ai magistrati, in particolare a Di Vincenzo, e di nominare come avvocato Alberto Malagugini, che quindi doveva essere il tramite di questa operazione. Noi ci rifiutammo di consegnarci, mentre i componenti del "Superclan" si consegnarono: Simioni e gli altri andarono dal magistrato, fecero non so quali dichiarazioni, chiusero tutti i loro conti con l'Italia e se ne andarono a Parigi. Queste cose le so con certezza.

TARADASH. Il magistrato Di Vincenzo era legato al PCI?

FRANCESCHINI. Sì, tant'è vero che Dalla Chiesa nel 1975 lo fece dimettere dalla magistratura, credo anche per questo motivo.

FRAGALA'. Attualmente fa il notaio a Napoli. Era l'uomo di fiducia del PCI nella magistratura di Milano.

TARADASH. Vorrei porre una domanda sull'Hyperion. Nel rapporto del CESIS del 1983, si afferma che l'Hyperion era lo strumento del KGB. Vorrei conoscere la sua opinione a tale proposito. Inoltre, vorrei sapere se le Brigate rosse hanno mai avuto collegamenti diretti o indiretti col KGB, magari attraverso l'Hyperion stesso. Nel 1978 Savasta e Moretti, se non sbaglio, dicono che l'Hyperion fece da tramite con l'OLP per le forniture di armi alle BR. Vorrei sapere se c'erano stati contatti precedenti al suo arresto.

FRANCESCHINI. Ovviamente, noi vedevamo questi dell'Hyperion, che allora non si chiamava così e che noi chiamavamo "Superclan", come il fumo negli occhi. Noi ritenevamo Simioni e gli altri di quel giro come dei provocatori nel vero senso della parola, però non sapevamo al servizio di chi. Potevano benissimo essere al servizio del KGB, come anche della CIA. Per come l'ho conosciuto, Simioni più che altro era un avventuriero. Ci sono anche delle psicologie interessanti, secondo me. Infatti, lo prendevo in giro…

PRESIDENTE. Ma il personaggio che ha perduto i capelli e che lei descrive nella parte finale del libro è lui o Salvoni?

FRANCESCHINI. E' Salvoni, ma su questo c'è anche molta invenzione. Come personaggio, lo attribuivo al film di Pontecorvo con Marlon Brando, della fine degli anni '70, "Queimada". Lui era esattamente l'inglès, cioè Marlon Brando. Secondo me, era proprio quella figura, anche psicologicamente, colui che da una parte intriga con la rivoluzione, gli piace, gli interessa, perché vuole mettere in discussione le cose, che comunque non è un pacifico ed è una persona intelligente; dall'altra, però, se ci sono cause di forza maggiore, ti abbandona anche al tuo destino. Secondo me era questa la chiave di lettura psicologica. Se devo dare un'interpretazione politica dell'Hyperion, lo vedo come una sorta di camera di compensazione tra una serie di servizi. Cioè, credo (ma adesso non voglio anticipare le domande che eventualmente mi farete) che la chiave di lettura è Yalta, come diceva Pecorelli (e ritengo che Pecorelli sia una delle bussole più interessanti per orientarci nelle nostre vicende). Quindi, la chiave di tutto sono gli accordi di Yalta, il rispetto di questi accordi, il fatto che i singoli Stati nazionali non potevano trasbordare rispetto a certe linee. Credo che l'Hyperion sia uno strumento di Yalta, di questa politica di potenza; che poi fosse fatta da Est o da Ovest era un dettaglio forse insignificante, perché ciò che era importante erano gli accordi…

PRESIDENTE. In effetti una figura come l'Abbé Pierre, anche con i suoi rapporti con il Vaticano, è difficilissimo da riportare per intero alle intelligence orientali. Mi sembra più un uomo dell'altra sponda, un luogo di intreccio e di equilibrio. La fotografia di Salvoni compare fra quelle che vengono mostrate in televisione appena viene rapito Moro, poi però viene sottratta. Lei conferma che l'Abbé Pierre era zio della moglie di Salvoni?

FRANCESCHINI. Salvoni era regolarmente sposato con Françoise Tuscher. Ho convissuto con loro nei primissimi tempi che erano a Milano, all'inizio del '70. Lui era il nipote acquisito dell'Abbé Pierre. Stranamente, c'è questa foto sua tra i famosi diciassette o diciotto ricercati, che poi è il motivo per cui l'Abbé Pierre viene immediatamente in Italia e va a parlare con Zaccagnini. Poi non so se ci ha parlato o meno, voi lo sapete meglio di me.

PRESIDENTE. Fu aperta una succursale dell'Hyperion in via Nicotera 26 durante il sequestro Moro: le consta?

FRANCESCHINI. Sinceramente ho appreso dagli atti della Commissione che c'è questo fatto inquietante, cioè che nell'autunno del 1977 aprono - e la cosa interessante è questa - alcuni uffici dell'Hyperion in Italia in via Angelico, mi sembra, e anche questo palazzo è simile a quello di via Gradoli. Poi si scopre che è pieno di appartamenti legati ai servizi, che come a via Gradoli erano di agenzie import-export.

PRESIDENTE. C'erano società commerciali.

FRANCESCHINI. Aprono questo ufficio lì, che resta aperto fino alla fine del giugno 1978. Quindi anche in questo caso è un arco di tempo particolare. Sempre da ciò che ho letto negli atti della Commissione precedente, questi personaggi gironzolavano per l'Italia con dei tesserini per gli abbonamenti a "Nuova polizia" e quando venivano fermati tiravano fuori il tesserino come "abbonatori" alla rivista "Nuova polizia". Direi che questo è abbastanza interessante, perché è chiaro che un poliziotto che vede un tesserino di questo tipo pensa che comunque si tratti di un collega.

PRESIDENTE. Bellavita ha fatto parte anche di un Centro di ricerche e investigazioni socio-economiche (CRISE) che operava a Parigi. Questo le risulta?

FRANCESCHINI. Ho conosciuto Bellavita nel 1972-1973 ed era direttore della rivista "Controinformazione", che in qualche modo era il nostro braccio legale.

PRESIDENTE. Ma era un BR?

FRANCESCHINI. All'epoca era un BR, tant'è che è stato condannato ed è fuggito a Parigi dopo la scoperta del covo di Robbiano di Mediglia, e da allora vive all'estero.

PRESIDENTE. E su questo Centro?

FRANCESCHINI. Non ho notizie.

PRESIDENTE. Come stava accennando prima, lei nel suo libro paragona il sequestro Moro al sequestro Sossi e ritiene abbastanza inverosimile che il numero dei partecipanti all'azione di via Fani sia stato soltanto di nove persone. Vuol dire qualcosa su questo aspetto alla Commissione?

FRANCESCHINI. Secondo me, il sequestro Moro ancora adesso è pieno di fatti inspiegabili o inspiegati, innanzitutto, in base alla mia esperienza, per quello che dicevo prima. Sono uno degli organizzatori del sequestro Sossi, che era abbastanza facile da compiere, nel senso che era una persona che si muoveva senza scorta, e il rapimento fu effettuato di sera in una viuzza. Semmai, si presentavano problemi per la via di fuga, ma non tanto per la presa del soggetto. Comunque, per compiere questa operazione, noi eravamo diciotto persone, stando anche a ciò che dice Bonavita nella sua ricostruzione. Quindi, mi sembra assolutamente improponibile che un'operazione militare complessa come quella di via Fani sia stata compiuta da nove o da dodici persone, perché poi le versioni di Morucci sono cambiate.

PRESIDENTE. Nel tempo ci sono state addizioni successive.

FRANCESCHINI. Sicuramente, per quello che consta alla mia esperienza, è una serie di piccoli dettagli, però ce ne sono tantissimi.

PRESIDENTE. Tornando non alla ricostruzione e all'ipotesi, ma ai fatti lei ci conferma quello che ci ha detto ieri Guiso, cioè che il gruppo storico delle Brigate rosse riteneva un errore da parte delle BR l’uccisione di Moro e un errore da parte dello Stato il rifiuto della trattativa, perché sarebbe bastato un piccolo cedimento, ci diceva ieri Guiso, anche la liberazione condizionale per atto autonomo dell’autorità giudiziaria di un unico brigatista, per aprire una via di uscita diversa al sequestro?

FRANCESCHINI. Noi chiedevamo ancora di meno, questo è anche documentabile dagli atti del processo. Cioè, Guiso era il nostro avvocato e contemporaneamente era il tramite diretto con Craxi. Credo che fosse vero, era quello che lui ci diceva. Per cui aveva questo rapporto. Noi gruppo storico avevamo in carcere tramite lui questo rapporto diretto con Craxi. Ovviamente eravamo per la trattativa, anche perché ci sembrava assurdo chiudere con l’uccisione dell’ostaggio; era negativo da tutti i punti di vista, non solo da quello politico ma anche da quello etico. Io ricordo che il dramma più grosso che ho vissuto era il seguente: io sono in carcere e lo Stato non mi ammazza; noi invece ammazziamo nel nostro carcere Moro, quindi anche da un punto di vista etico questo Stato è certamente meglio dell’altro Stato che io vorrei affermare. Cioè io questa la vivevo come contraddizione anche personale. Dal punto di vista politico lo ritenevamo un errore; pensavamo che comunque bisognasse trovare delle vie alla trattativa e fino alla vicenda del falso comunicato n. 7 del lago della Duchessa e Via Gradoli sembrava aperta una possibilità di trattativa, anche dal punto di vista dei nostri compagni fuori, con i quali avevamo un rapporto non tramite Guiso ma tramite Sergio Spazzali che adesso credo sia morto.

PRESIDENTE. E’ morto; ne abbiamo parlato anche ieri con Guiso.

FRANCESCHINI. Noi avevamo un rapporto diretto con i compagni fuori. Anche da quello che ci diceva Sergio Spazzali sembrava che i compagni fossero positivamente favorevoli perché Moro diceva delle cose interessanti; sembrava tutto estremamente positivo. Poi accade la vicenda del comunicato del lago della Duchessa e di via Gradoli e lì c’è un cambiamento repentino direi proprio di clima psicologico anche rispetto ai compagni…

PRESIDENTE. Questo mi interessa di più delle ricostruzioni e delle ipotesi. Quindi, il comunicato del lago della Duchessa in realtà funziona non solo come lo legge Moro, cioè come una macabra messa in scena dell’epilogo tragico ma sembra quasi essere un segnale per dire che l’epilogo deve essere questo: è una lettura possibile?

FRANCESCHINI. Io credo che il comunicato del lago della Duchessa vada associato alla scoperta di via Gradoli; cioè l’operazione è la stessa ed è stata compiuta dagli stessi soggetti anche perché proprio dal punto di vista dell’ora avvengono insieme il 18 aprile alle 9-9,30 della mattina.

PRESIDENTE. Questo mi sembra più interessante delle ipotesi, perché di ipotesi ne possiamo fare anche noi tante, però restano tali. Cioè, rimaniamo sui fatti.

FRANCESCHINI. Anche su questo ci ho ragionato a lungo. Vorrei soffermarmi un attimo su alcune riflessioni.

PRESIDENTE. Prima che lei parli le faccio una mia riflessione su Gradoli. Noi ci siamo innanzitutto domandati cosa ha potuto significare per chi abitava in via Gradoli il blitz nel paese di Gradoli. Sembra chiaramente un messaggio che viene fatto per dire: "State attenti, questo covo comincia a bruciare". Il modo con cui il covo viene abbandonato, perché non viene scoperto ma viene sostanzialmente abbandonato con una doccia aperta che allaga l’appartamento sottostante, sembra quasi un abbandono del covo ed insieme un segnale di ricezione del messaggio. Questa ricostruzione come le sembra?

FRANCESCHINI. Da come l’ho vista io stando in carcere e riflettendoci anche successivamente, lì certamente c’è un messaggio preciso ai brigatisti che diceva: "Vi abbiamo individuato". Tenete presente che quella era la casa di Moretti e lui la mattina alle 7,30 era uscito ed aveva preso un treno per recarsi a Firenze dove c’era la riunione del comitato esecutivo. Questo lo hanno detto a me.

PRESIDENTE. Questo risulta per certo, lo ha detto anche Moretti.

FRANCESCHINI. Lo hanno detto anche a me, anche Lauro Azzolini eccetera. In pratica, loro all’una accendono la televisione, c’era il telegiornale e Moretti dice: "Cavolo, ma quella è casa mia. Pensa te, questa mattina sono uscito da lì e se non vedevo la televisione tornavo lì e mi arrestavano".

PRESIDENTE. Invece non è vero, perché se non avessero aperto la doccia non li avrebbero presi.

FRANCESCHINI. Perché probabilmente non è Moretti che ha aperto la doccia. Comunque lì chiaramente è un messaggio preciso, secondo me, ai brigatisti, a quelli che avevano Moro, per dire: "Noi vi abbiamo individuato, potremmo prendervi quando ci pare". Quindi, di lì inizia qualcosa. Non so cosa inizia ma lì c’è una svolta. Io questa l’ho vissuta e me la ricordo bene in carcere. Cioè, i messaggi che ci arrivavano dai compagni fuori dopo via Gradoli sono: "Qui non c’è più niente da fare, dobbiamo chiudere". Noi gli dicevamo: "Va beh, ma se Moro ha detto delle cose interessanti cominciate a renderle pubbliche, come noi avevamo fatto con Sossi".

PRESIDENTE. Grosso problema su cui anche noi ci siamo interrogati a lungo: perché non viene pubblicato il memoriale? Secondo me uno dei luoghi comuni che circola, e che poi diventa una verità, è che Moro non avesse detto niente alle Brigate rosse. Se uno invece si legge, solo per le cose che interessano a noi, le pagine sulla strategia della tensione, vede come lui ricostruisce la strategia della tensione con tutti gli imbrogli di vario genere.

FRANCESCHINI. Credo che Moro sia morto perché ha detto un sacco di cose alle Brigate rosse. Se no non …

PRESIDENTE. Quindi lei conferma questa mia valutazione, che sarebbe stato devastante in realtà e fortissimo per il movimento la pubblicazione di quel memoriale. Diciamo devastante per il sistema ed estremamente produttivo per il movimento.

FRANCESCHINI. E credo che su quel memoriale sia stata fatta una contrattazione sotterranea, certamente, che non era relativa alla liberazione di prigionieri politici o roba del genere ma tutt’altra cosa, ad esempio il salvacondotto. Lo dice anche Moro in una lettera. Io nel libro dico, riferendomi alla frase "che almeno uno possa…" che quell’uno ovviamente non era riferito a lui ma, è chiaro, a qualcun altro che doveva essere salvato.

PRESIDENTE. Lui dice che una vita si salva se qualcuno va all’estero.

FRANCESCHINI. E non credo nemmeno sia riferito a Moretti. Il discorso è certamente più complesso, perché credo che nel comunicato del lago della Duchessa ci siano dei messaggi trasversali.

PRESIDENTE. Il messaggio più semplice è che Moro deve morire.

FRANCESCHINI.. Certamente, ma io credo che ci siano anche dei messaggi interni.

PRESIDENTE. Perché l’altra coincidenza è che solo tre giorni dopo il PSI rompe il fronte della fermezza – questo forse ce lo dovrà dire Signorile – e ufficializza la posizione della trattativa, come se anche il PSI si fosse reso conto che se non si rompeva il quadro politico della fermezza non c’era ormai più niente da fare; era tutto deciso. Questa è una lettura credibile della vicenda.

FRANCESCHINI. E’ credibile.

FRAGALA’. Non poteva essere un messaggio al marito della…duchessa?

FRANCESCHINI. Non so nemmeno che sia; c’è una duchessa? Se lei sa chi è la duchessa…

PRESIDENTE. Qui rientriamo nel campo delle ipotesi. Colleghi, stiamo ai fatti perché secondo me ha ragione Guiso: i fatti parlano. Poi possiamo ricostruire scenari più ampi in cui i fatti si inseriscono, però i fatti in sé hanno una loro eloquenza. Piaccia o non piaccia.

DE LUCA Athos. Lei sapeva dove si facevano le riunioni a Firenze?

FRANCESCHINI. Questo è un altro punto; sono quei piccoli dettagli inquietanti, come Marra. In carcere soprattutto Azzolini e Bonisoli mi raccontavano tranquillamente questi particolari, che cioè a Firenze c’era una base strategica, come la chiamavano loro, dove si riunivano e lì Moretti arrivava con i comunicati già fatti e gli altri del comitato esecutivo li leggevano, facevano alcune correzioni eccetera. Per cui per me era acquisito questo fatto che esistesse questa base a Firenze. A un certo punto al dottor Vigna, che venne ad interrogarmi quando uscirono i primi capitoli del libro "La borsa del Presidente", che prima uscirono a puntate su "Cuore", io dissi che alla presentazione di queste puntate avevo detto che trovavo incredibile il fatto che a Firenze non abbiano mai trovato questa base, questo era l’aspetto incredibile. Stando agli atti giudiziari c’è un borsello perduto da Lauro Azzolini su un autobus, da questo borsello arrivano addirittura a Milano ad una fermata di metropolitana e da lì partono ed arrivano alla casa…

PRESIDENTE. Questa è una riflessione che i colleghi mi dovranno dare atto di aver espresso molte volte: è incredibile che la traccia di Via Monte Nevoso parte da Firenze, porta, attraverso un percorso di una inverosimiglianza quasi assoluta, a Via Monte Nevoso a Milano mentre a Firenze il borsello non porta da nessuna parte.

FRANCESCHINI. Io dicevo a Vigna: "Ma avete provato nelle fermate dell’autobus precedenti?". Però, ormai era così abbattuto. Fin qua la cosa mi sembrava strana, però la cosa che diventa interessante, anche qui come piccolo dettaglio, è che Moretti scrive questo libro con la Rossanda e la Mosca, io lo vado a leggere, e trovo tutta una parte consistente del libro che è fatta contro di me, sostenendo che non esiste la base di Firenze e che loro invece si riunivano in un paesucolo della Liguria che adesso non ricordo.

FRAGALA’. Loro dicono che si riunivano a Bordighera.

FRANCESCHINI. Comunque tutta una parte consistente di questo libro è per contestare questo fatto che loro si riunivano a Firenze. A me sembrava allucinante e mi chiedevo cosa vi fosse a Firenze. Poi, Morucci, che anche agli atti aveva dichiarato varie volte che pure lui sapeva di questa storia di Firenze (sebbene probabilmente non conoscesse il luogo), in un’intervista a "Panorama" o a "L’Espresso", fatta nel ventennale del sequestro Moro, en passant, tra le varie cose afferma: non è vero quello che dice Franceschini, che esiste una base a Firenze, non è mai esistita; anzi, si riunivano a Bordighera. Anche lui si è messo d’accordo.

PRESIDENTE. Qui ha detto esattamente il contrario. Ci ha detto che una delle cose che potremmo sapere dalle BR, se parlasse la "sfinge" Moretti, è dove si riuniva il comitato esecutivo a Firenze, chi era il padrone di casa, diciamo l’ospite attivo (poi è uscita fuori questa parola "anfitrione") e chi era l’irregolare che batteva a macchina i manoscritti di Moro.

DE LUCA Athos. Su queste cose che ha detto il Presidente, può dirci qualcosa?

FRANCESCHINI. Anch’io mi sono sempre posto queste domande. Questa di Firenze è come la storia di Marra, sono quei piccoli dettagli, quei buchi che se uno riesce a riempire probabilmente trova la via per rispondere a tantissime domande. Questa è una mia idea, io lo chiamo il teorema di Al Capone: Al Capone credo sia l’unico che sia morto in carcere, che si è fatto un ergastolo perché non ha pagato le tasse; gli americani non potevano incastrarlo sugli omicidi , perché mica era scemo, su quello si tutelava …

PRESIDENTE. Il film "Gli intoccabili" lo abbiamo visto tutti.

FRANCESCHINI. Per quanto riguarda una operazione complessa come quella di Moro, secondo me bisogna partire da dettagli apparentemente insignificanti: probabilmente lì si trovano le tracce di qualcosa di interessante. Così sul sequestro Sossi, partendo da un dettaglio insignificante sono arrivato a trovare un soggetto come Marra.

FRAGALA’. Era un ex militante del PCI.

FRANCESCHINI. Così diceva a me, credo che fosse vero. Ex militante del PCI, ex paracadutista negli anni ’60 …

DE LUCA Athos. Ha una storia un po’ …

FRANCESCHINI. Complicata.

PRESIDENTE. Quindi la traccia porta a via Monte Nevoso, doppio ritrovamento delle carte eccetera; nasce il sospetto, anche giudiziario (negli atti del processo Andreotti che si celebra a Palermo e negli atti del processo per l’omicidio Pecorelli che si celebra a Perugia) che il generale Dalla Chiesa non abbia consegnato per intero le carte che furono ritrovate nel covo. A questo proposito c’è un episodio che la riguarda. Quando foste arrestati, nel 1974, è vero che avevate un carteggio intercorso tra Edgardo Sogno e il giudice Adolfo Beria d’Argentine che però non risulta fra il materiale sequestrato?

FRANCESCHINI. E’ stata un’altra delle cose emerse al processo di Torino del 1978. Durante il sequestro Sossi compimmo due azioni: una alla sede del CRD (Comitato di resistenza democratica) a Milano e un’altra al Centro Sturzo (mi sembra che si chiamasse così) a Torino. In queste due "perquisizioni", soprattutto in quella a Milano presso il CRD, portammo via una documentazione, consistente in un elenco di persone che avevano partecipato ad un convegno sulla riforma dello Stato in senso gollista che si era tenuto a Firenze credo nel 1973-1974 …

PRESIDENTE. Capisco a cosa si riferisce.

FRANCESCHINI. Vi era una serie di relazioni fatte a questo convegno. A una di tali relazioni (riguardava le modifiche alla Costituzione eccetera) era allegato questo documento anonimo, una lettera che ricordo ancora cominciava con: "Caro Eddy". Diceva: "Ti ho mandato le

cose che mi chiedevi, ti prego, leggile tu al convegno: sai, per la mia posizione non posso venire, non posso espormi …". Era Beria d’Argentine che all’epoca credo fosse procuratore di Milano o una roba del genere. Quando fummo arrestati io e Curcio, questi documenti li avevamo in macchina, anche perché volevamo renderli noti pubblicandoli in una specie di libretto. Questi documenti sono scomparsi. Al processo, nel 1978, parlo di questi documenti e chiedo alla corte di far venire Edgardo Sogno e Beria d’Argentine in aula e di svolgere un confronto per vedere se erano vere queste cose che dicevo io. Vennero in aula e confermarono: Beria d’Argentine disse che era vero, era amico di Sogno dai tempi della "Franchi", un’organizzazione in cui erano stati insieme durante la Resistenza, c’era un rapporto di amicizia, lui aveva scritto questa lettera …

PRESIDENTE. Il punto che mi interessa è che questa documentazione è scomparsa.

FRANCESCHINI. Sì, scompare. La ricordo ancora perché l’ho guardata, c’era circa un migliaio di nomi. L’elemento più interessante era un tabulato con moltissimi nomi (ufficiali, certamente alte personalità dello Stato). Poi, quando è uscita la storia della Loggia P2 ho pensato che forse c’entrava qualcosa.

PRESIDENTE. Io trovo in questo, ovviamente nulla di irregolare, e neppure nulla di scandalizzante o di incredibile. Un ufficiale dei Carabinieri sequestra una documentazione che si può prestare a speculazioni politiche o a manovre destabilizzanti: probabilmente ne parla al Ministro, sa a chi la deve consegnare, non la consegna alla magistratura. La storia delle vicende su cui indaghiamo è piena di cose di questo genere: spesso note e dichiarate, spesso soltanto intuibili e non pienamente dichiarate. La storia di questa Commissione è piena di elenchi che non si sono trovati. Chi erano tutti i gladiatori? Chi erano gli "enucleandi" del piano Solo? Era quello l’apparato di sicurezza del PCI? Era monitorato da De Lorenzo oppure no? Quale era la vera lista della P2? Nel libro di Delfino, che so che anche lei ha letto, si avanzano determinate ipotesi, e anche sulla lista della P2 mi sembra che si lanci un messaggio chiarissimo, si afferma che circa mille nomi non sono stati conosciuti: il che fa pensare che potrebbero essere noti. Lei voleva consegnarmi un documento: lo vuole fare?

FRANCESCHINI. E’ sempre riferito ad una curiosità. Vorrei farvi vedere una copertina

Mostra la copia di una copertina della rivista "Tempo".

PRESIDENTE. Senza teatralizzare: Franceschini ci consegna la copia di un articolo che noi abbiamo già, l’intervista di Maletti al "Tempo", in cui si parla della possibile "fase 2" delle Brigate rosse, di come le Brigate rosse sarebbero potute diventare quel movimento che, dice Maletti, a questo punto di sinistra ha soltanto il nome. Se non sbaglio è proprio quella l’intervista. Ma nelle carte che noi abbiamo non c’è questa copertina in cui si vede Moro prigioniero. E’ "Tempo" illustrato, il giornale di Jannuzzi direttore, l’unico giornale in cui il segreto senza fine di Gladio, Jannuzzi lo dichiara pubblicamente. La copertina reca il timbro del 15 giugno 1976. Lo acquisiamo con questa copertina, l’ho visto diverse volte questo articolo, ma la copertina non l’abbiamo.

FRANCESCHINI. A parte l’intervista di Maletti, c’è una cosa interessante che vi leggerei se abbiamo due minuti di tempo. In alto c’è l’intervista a Maletti, dove si dice che è Maletti. Poi c’è un articolo scritto da Jannuzzi – lei lo sa, io l’ho detto direttamente a Jannuzzi …

PRESIDENTE. Abbiamo fatto colazione insieme questa mattina, sappiamo chi è Jannuzzi.

FRANCESCHINI. Nell’articolo dice delle cose sul sequestro Sossi: è Maletti che le dice, ma ovviamente non fa il nome di Maletti. Secondo me sono interessanti. Per la storia di Marra io sono partito esattamente da questo articolo. Lo ricordo per dire come tante volte certi articoli di redazione cervellotici – come diceva il buon Pecorelli – in realtà hanno detto delle verità principali. Maletti-Jannuzzi scrive di questo Miceli che allora era capo dei Servizi, che convoca una riunione dei Servizi a cui partecipa Maletti, e spiega il piano che hanno in testa: "Dopo un breve preambolo sulla situazione di stallo che si era creata fra i rapitori di Sossi che volevano la scarcerazione dei loro "compagni" … e il Governo e il procuratore Coco che non li volevano scarcerare, Miceli passò bruscamente all’ordine del giorno: bisogna rapire Lazagna, disse. L’avvocato Giovanbattista Lazagna, spiegò rapidamente all’uditorio esterrefatto, è il vero capo delle Brigate rosse. Noi lo prendiamo, lo rinchiudiamo in un posto sicuro, lo facciamo parlare con tutti i mezzi più convincenti, gli facciamo rivelare dov’è il covo in cui i suoi brigatisti nascondono Sossi, e andiamo a liberare il giudice. Detto e fatto, il generale diede immediatamente disposizioni perché intanto si predisponesse la "prigione": "ne dovete preparare almeno due", spiegò …"

PRESIDENTE. Su questo abbiamo interrogato Maletti e una delle domande che gli abbiamo rivolto è proprio questa. Comunque, continui pure, signor Franceschini.

FRANCESCHINI. Continuo a leggere: "Ne dovete preparare almeno due: una a Roma e una nella stessa Liguria o almeno in Toscana. Qualcuno tra i più forniti e i più zelanti partì subito per la ricerca e l’approntamento delle prigioni. Le piante e le fotografie relative sono ancora negli archivi del SID e l’ammiraglio Casardi farà bene a stare attento a che non vengano fatte sparire quando questo articolo sarà di pubblica ragione se non vuole finire in galera come il suo predecessore". Qui sarebbe interessante verificare se negli archivi del SID si trovano le piante di possibili prigioni approntate a Roma o in Toscana, e questo confermerebbe ulteriormente quello che dice l’articolo che è interessante per quello che dice poi."Ma tra gli ufficiali rimasti, dopo il primo momento di imbarazzo e di sconcerto, si manifestarono prima delle resistenze e poi la contestazione. La cosa era già enorme di per se stessa - ci ha detto uno di loro ricostruendo quelle ore drammatiche - ma solo più tardi capimmo l’enormità di tutto l’affare e cosa c’era veramente dietro. Cosa c’era dietro? Sul momento, spiega, avevamo preso per buone, pur disapprovando, le motivazioni di Miceli: un’offensiva contro le Brigate rosse per tentare di strappare loro Sossi. In realtà le cose stavano molto diversamente. Una volta che noi avessimo rapito Lazagna, la sua scomparsa sarebbe stata indicata all’opinione pubblica come la prova migliore delle sue responsabilità e dei suoi legami con le brigate rosse. Lazagna che non lo conosceva non ci avrebbe mai potuto indicare il nascondiglio in cui era tenuto Sossi. Questo nascondiglio sarebbe stato invece scoperto da qualcuno che invece conosceva. Sarebbe stato cercato e si sarebbe sparato e dentro avrebbero trovato i cadaveri dei brigatisti, il cadavere di Sossi e il cadavere di Lazagna". Quindi, pensate che Lazagna era vice presidente dell’Anpi e a cosa questo avrebbe significato, quale piano politico ci stava dietro. Non credo che Miceli s’inventi una cosa del genere se non c’è qualcuno che politicamente….

FRAGALA’. Chi c’era dietro Miceli? Moro.

PRESIDENTE. Infatti, il processo a Moro e il perché si processa: sette anni di stragi.

BONFIETTI. Lei, signor Franceschini, nel suo libro "Mara, Renato ed io", che anch’io ho letto, racconta dell’episodio del suo arresto e di quello di Renato Curcio avvenuto l’8 settembre del 1974. Ricorda di una telefonata anonima che ricevette da Levati tre giorni prima, nel corso della quale l’interlocutore gli suggeriva di avvisare Curcio che la domenica mattina sarebbe stato arrestato e descrive la successione degli eventi e lascia trasparire i suoi sospetti su Mario Moretti puntualizzando che la telefonata anonima a suo avviso non poteva non venire da ambienti ben introdotti nell’arma dei Carabinieri. In questi anni ha fatto nuove riflessioni su questo punto? Può aggiungere qualcosa a queste sue convinzioni e spiegarci meglio il suo convincimento che ha espresso in quel libro?

FRANCESCHINI. Le riflessioni sono ancora quelle perché non ho trovato nuove risposte. Ritenevo assurdo che ci fosse stato un fatto del genere, che noi fossimo stati salvati. In realtà la notizia era vera.Quindi, a quel punto mi è venuta una serie di riflessioni. Mi dicevo: è assurdo il comportamento di alcuni compagni. Quando l’unica volta che in carcere ebbi modo di incontrare Moretti, gli dissi questa cosa lui mi risposte dicendo: ma io non ricordo niente. Tu ti ricordi perché ti hanno arrestato, ma io non ricordo proprio nulla di allora. Questa fu la sua risposta, che mi colpi moltissimo perché mi sembrava impossibile che fosse così. Però, purtroppo, non ho altre riflessioni se non quelle che forse gli stessi soggetti, i servizi israeliani con quei discorsi di salvarci comunque, probabilmente. Ci ho riflettuto varie volte: se noi fossimo stati salvati, cosa sarebbe successo alla carriera di Dalla Chiesa e dei nuclei speciali che lì si temprarono. Dalla Chiesa aveva chiuso ovviamente. Questo mi sembra ovvio dal punto di vista della carriera politica sul terrorismo, se allora noi ci fossimo salvati. Quindi , probabilmente vi era una lotta politica all’interno. Non so ma è difficile per me dare delle risposte a questo problema. Certamente la telefonata ci fu; c’era qualcuno che sapeva da giovedì che Curcio avrebbe dovuto essere arrestato domenica e l’informazione era anche precisa perché io non dovevo essere a quell’appuntamento. Quindi sapevano che Curcio avrebbe dovuto essere solo a quell’appuntamento, ma poi, per una serie di problemi, ci andai anch’io, per cui l’imbeccata era precisa, ripeto, le indicazioni erano precisissime.

PRESIDENTE. Però se io accetto l’ipotesi ricostruttiva, per quello che riguardava la posizione di Moretti, non sarebbe possibile una lettura più riduttiva, senza farne un infiltrato? Voi in fondo eravate un movimento politico. In tutti i movimenti politici si lotta per la leadership e in genere il numero uno si deve guardare le spalle dal numero 2 e il numero 2 dal numero 3. Non può essere che per esempio Moretti si lascia catturare perché voleva assumere il comando del Brigate rosse?

FRANCESCHINI. Certo può essere benissimo. Tant’è che è quello che poi è successo di fatto nel giro di pochi mesi. Senza dubbio le ipotesi sono varie, diverse sono le possibilità.

PRESIDENTE. Le faccio un’altra domanda che sta nello stesso ordine di idee. Non può essere che i segnali di via Gradoli vengano da Morucci perché questi voleva assumere il comando delle Brigate rosse e quindi voleva far catturare Moretti?

FRANCESCHINI. Anche questo in via ipotetica è possibile perché certamente la casa di via Gradoli era conosciuta da Morucci perché era stata abitata da quest’ultimo prima di Moretti, quindi era la casa a sua disposizione. Il conflitto che si era acceso sulla sorte di Moro, una volta che era prevalsa l’idea di Moretti, giustifica una rottura così traumatica – lei conosce il costume delle BR – per cui poi Morucci e la Faranda lasciano le Brigate rosse perché capiscono di essere stati condannati e in qualche modo si fanno catturare con le armi, cioè questo tipo di comportamento di Morucci e della Faranda sembra nutrito dal sospetto che Moretti potesse pensare che loro non si fossero soltanto limitati a contrastare dall’interno la linea di Moretti, ma avessero fatto qualcosa di più, e poteva essere un tradimento. E’ possibile in via ipotetica. Questo bisognerebbe chiederlo a Morucci. Gli ha fatto questa domanda?

PRESIDENTE. Morucci è stato molto riduttivo su questo contrasto tra lui e Moretti, salvo poi lanciare quei segnali che sappiamo.

FRAGALA’. Morucci ha molto stile

BONFIETTI. Pensando anche all’audizione di ieri sera dell’avvocato Guiso, vorrei rivolgere una domanda a lei, signor Franceschini, che nel 1974 si trovava nella stessa condizione di Curcio perché eravate in carcere. Sentivate Guiso e riferivate a lui l’interpretazione dei documenti che via via l’avvocato vi portava, lo aiutavate a capire. Voi dall’interno in quel momento ed in tempo reale avevate la stessa sensazione di Guiso e di molti altri, al di fuori del carcere e delle Brigate rosse, nella società di una volontà precisa dello Stato di non cercare con solerzia la prigione di Moro e quindi di arrestare coloro che stavano compiendo quel misfatto oppure davate un’altra lettura?

FRANCESCHINI. E’ quello che mi aveva chiesto anche prima il presidente Pellegrino, ma poi non ho finito la risposta; adesso cerco di rispondere anche a lei. Noi dentro eravamo appunto per la trattativa e – come dicevo – proponemmo addirittura a Guiso che, secondo noi, era un possibile terreno di trattativa semplicemente la chiusura del carcere dell’Asinara, nemmeno la liberazione di un prigioniero, perché quello poteva essere ormai un obiettivo politicamente non più perseguibile. Infatti c’è anche un nostro comunicato – adesso non ricordo il numero – dove c’è un programma di chiusura dell’Asinara. Quello voleva essere un segnale. Quindi, questa era la nostra idea. Forse ci sopravvalutavamo, però l’idea che avevamo noi in carcere, noi al processo era: se ci danno anche solo un segnale dal punto di vista dello Stato politicamente significativo, tipo: "chiuderemo l’Asinara", noi prenderemo posizione pubblica – noi che stavamo dentro – a favore della liberazione dell’ostaggio. Quindi, secondo noi diventava impossibile a quel punto per i compagni fuori ucciderlo; cioè, diventava veramente una situazione di stallo per loro, dovevano mollarlo inevitabilmente. Noi non abbiamo avuto mai una risposta nemmeno su questo terreno. Mi sono sempre chiesto se veramente volevano salvare la vita di Moro; mi sono sempre chiesto se, al di là di cercare o meno la prigione, dall’altra parte – non so dire chi stava dall’altra parte – si voleva veramente salvare la vita di Moro, perché noi avevamo spiegato – e Guiso forse ve lo ha confermato – in maniera dettagliata questo tipo di atteggiamento che eravamo disposti a prendere, cioè anche rompere con i compagni. Però ci voleva un segnale minimo di dire: abbiamo ottenuto qualcosa di politicamente significativo, che era la stessa logica che avevamo utilizzato durante il sequestro Sossi, cioè non liberarono nessuno però ci fu la corte d’assise d’appello di Genova che disse che dovevano essere liberati. Poi è ovvio che non li liberarono perché Taviani, Coco, eccetera… Ecco, noi chiedevamo una cosa del genere, neanche di liberare qualcuno ma di dire: chiudiamo l’Asinara, cioè voltiamo pagina, quindi un minimo di trattativa.

PRESIDENTE. Il mancato rispetto del patto è la ragione dell’omicidio Coco.

FRANCESCHINI. Esatto, rispetto a Sossi.

BONFIETTI. E voi in quel momento, verso la fine o quella che pensavate poteva essere dopo il lago della Duchessa, dopo via Gradoli, la fine anche del sequestro Moro, per come poi andò in effetti a finire, non avete pensato che potevate, nonostante il nulla che avevate come risposta dall’altra parte, fare un appello – quello che diceva lei prima – che chiarisse la vostra eticità politica e quindi il non avallo della fine che invece altri stavano perseguendo e che voi non approvavate? Cioè, non credevate che una vostra parola comunque dal carcere potesse avere un effetto?

FRANCESCHINI. Sì, infatti secondo me abbiamo fatto un errore politico gravissimo non facendo questo; è una riflessione successiva. Tenga presente che noi comunque eravamo dei brigatisti, non sto parlando di persone… noi eravamo dei brigatisti, eravamo quelli che erano stati costruiti come capi storici, ci sentivamo quindi delle responsabilità politiche, diciamo così. Certamente – riflettendoci dopo – avremmo dovuto prendere una posizione di quel tipo, comunque chiedere la liberazione di Moro. Allora però, per noi – ci ho riflettuto a lungo – era inconcepibile una posizione del genere, sarebbe sembrata una resa totale da parte nostra.

BONFIETTI. Non vi sentivate di spiegare queste cose voi, essere quelli che avevano provato quanto meno a spiegare che lo Stato non voleva liberare Moro e che quindi gli altri venivano utilizzati dallo Stato in questo tipo di omicidio; questa riflessione non la potevate fare voi?

FRANCESCHINI. Tenga presente che questa riflessione è successiva. Dentro, ognuno di noi ha sempre dei dubbi, delle cose che tiene in un cassetto; poi avvengono degli eventi che in qualche modo ti costringono ad aprire i cassetti e a fare delle riflessioni. Queste riflessioni sull’utilizzo nostro da parte di certe strutture comincio a maturarle dal 1982 in poi, quando decido di uscire dall’organizzazione e quindi di cominciare a ragionare con la mia testa al di fuori di certi schemi. Comunque è stata una riflessione – e chi ha seguito le nostre vicende, voi della Commissione lo potete vedere anche – molto difficile e dura da parte mia. Io sono l’unico - credo - di questa organizzazione che ha maturato pubblicamente una riflessione del genere. Io conosco tantissimi altri compagni che sono arrivati anche prima di me a certe conclusioni, però che pubblicamente… cioè sono io che ho deciso di assumermi certe responsabilità. E su questo sono stato attaccato violentemente – voi probabilmente lo avete documentato – ma non solo dalla Rossanda, dai miei compagni… dai soggetti più strani sono stato attaccato per una posizione di questo tipo. Quando io ero in carcere…

FRAGALA’. Anche calunniato.

FRANCESCHINI. E anche calunniato. Un dettaglio che può essere interessante: quando ero in carcere, un tale che si chiamava Remigio Cavedon, che allora era direttore o vice direttore del quotidiano "Il Popolo", credo che adesso sia del CCD o qualcosa del genere, non so bene che cosa…

PRESIDENTE. Vicino all’onorevole Flaminio Piccoli.

FRANCESCHINI. Ecco, comunque era il portaborse di Flaminio Piccoli, segretario personale o qualcosa del genere. Questa persona aveva un permesso personale per frequentare le carceri, per cui era il tipo che entrava nelle varie carceri – parlo dal 1986 in avanti – e ci contattava un po’ tutti: Lauro Azzolini, noi, eccetera. Diceva di essere un DC di sinistra; io ero convinto e pensavo: questi qua ovviamente saranno interessati a sapere la verità, per cui il mio approccio con lui era come quello che ho con voi adesso, cioè di dire: io ho certi dubbi, ho certe cose che penso, eccetera. Mi rendevo conto che lui era il muro. Addirittura ci sono degli articoli, che io ho conservato, di Cavedon su: "Il Popolo" in prima pagina dove mi attacca violentemente. Io ero in semilibertà e disse addirittura che mi dovevano togliere la semilibertà per queste mie posizioni che avevo assunto. Addirittura arrivò, non lui direttamente ma la famosa suor Teresilla, che era una suora - anche scherzando, dicevo che era dei Servizi segreti vaticani (Ilarità), ci saranno anche quelli oltre agli altri - era proprio una del Vaticano. Lei, molto più ingenuamente, una volta mi disse: "se tu hai qualcosa da dire scrivilo e dallo a me che lo faccio avere a chi di dovere, non star lì a dirlo ai giornalisti, ai magistrati, dallo a me, poi state tranquilli e buoni che arriverà l’amnistia". Questa cosa mi ha colpito perché poi Morucci lo faceva davvero. Ho scoperto dopo dagli atti che Morucci scriveva e le cose arrivavano a Cossiga tramite suor Teresilla, ci sono atti giudiziari su questa roba.

PRESIDENTE. Questo è accertato. Il famoso memoriale Morucci-Faranda.

FRANCESCHINI. Di Morucci, dove dice i nomi dei due famosi che non aveva mai detto ai magistrati, per cui chiaramente Cossiga era uno che sapeva; chissà cosa sa? Cioè, c’era questa rete nelle carceri di ricerca della verità, ma non per la magistratura o per lo Stato, ma per dei gruppi di potere, dei soggetti… ed è documentata questa cosa…

FRAGALA’. Suor Teresilla… anche a Scalfaro?

FRANCESCHINI. A Scalfaro, sì, sì; lei aveva tutti i suoi giri. E’ ancora attiva credo, ogni tanto la vedo, così per caso, e frequenta ancora le carceri. Adesso sarà con i mafiosi, con i pentiti di mafia… (Ilarità).

BONFIETTI. Sul libro di Flamigni: "Convergenze parallele" abbiamo letto che dopo una riunione a Milano, sempre a proposito di Moretti appunto, nel gennaio 1976 egli volle trascorrere la notte nell’abitazione di Curcio, di cui Moretti non conosceva il recapito, e due giorni dopo la polizia fece irruzione nell’appartamento e fu arrestato per la seconda volta Curcio, che era evaso per l’appunto poco tempo prima dal carcere di Casale Monferrato. Sempre secondo il libro del senatore Flamigni, Curcio dopo l’episodio le avrebbe detto: "mi sono convinto che Moretti è una spia, è lui che mi ha fatto arrestare". E’ vera questa affermazione, la conferma?

FRANCESCHINI. La confermo e vorrei sfatare un altro dei luoghi comuni che ci riguardano. E’ stata costruita una interpretazione anche pubblica – e Curcio in questo ha le sue responsabilità – da cui sembra che io abbia sempre pensato che Moretti fosse una spia. Non è vero. La prima persona che mi ha detto questo è stato Renato e sono pronto a sottopormi ad un confronto con lui e a documentarlo, anche perché ricordo esattamente il luogo e il momento in cui questo è avvenuto.Nel 1976 eravamo alle Carceri Nuove di Torino, al VI braccio, secondo piano; ricordo i dettagli perché quell’episodio fu molto sconvolgente per me. Renato era appena stato arrestato per la seconda volta ed il processo si aprì e si chiuse rapidissimamente perché avvenne l’omicidio di Coco. Ci troviamo tutti lì ai primi di maggio; Renato ha una spalla ingessata a seguito di uno scontro a fuoco che aveva portato al suo secondo arresto. Ci vediamo durante l’ora d’aria che è un modo per stare insieme; è la prima volta che ci vediamo, è la prima volta che vedo gli altri compagni e in quella occasione, per la prima volta, vengo a conoscenza della telefonata. Fino a quel momento non avevo mai incontrato nessuno perché ero stato uno dei primi arrestati, non avevo mai querelato…ero evaso e non avevo mai incontrato nessuno che poteva raccontarmi la vicenda della telefonata di cui vengo a conoscenza in quella occasione, e questo mi lascia assolutamente perplesso. Discutiamo tra noi e mi rendo conto che Renato non parla e ha la faccia distrutta; ho pensato che probabilmente quel suo atteggiamento fosse da attribuire al dolore per la morte di Mara o al dolore fisico. Al termine di questa riunione durante l’ora d’aria ci dirigiamo verso il VI braccio, al secondo piano e, prima di entrare in cella, Renato mi ferma perché deve dirmi qualcosa di importante. Quindi, prima di entrare in cella, facciamo una passeggiata e Renato mi dice – e lo fa con una espressione sconvolta - di avere la certezza che Mario è una spia e mi racconta l’episodio poi citato da Flamigni. Non so, a questo punto, se tale interpretazione può essere vera ma tant’è che su questa affermazione è stata aperta una inchiesta relativa a Moretti.

MANTICA. Da voi?

FRANCESCHINI. Sì, da noi. Una fu aperta da Semeria che già dall’esterno aveva il sospetto che Mario fosse una spia, per una serie di case che erano cadute a Milano. Pertanto, all’interno del comitato esecutivo dell’organizzazione c’erano stati degli scontri durissimi tra Semeria e Moretti, proprio in ordine a questi episodi, perché Semeria esplicitamente aveva dichiarato che una delle opzioni possibili era che Moretti fosse una spia. Renato, per carattere, aveva sempre cercato di tenersi fuori da questi scontri ma l’episodio che era accaduto proprio a lui lo confermava. Pertanto, inviamo una relazione sulla vicenda ai compagni che si trovavano all’esterno ma Semeria già lo aveva fatto da un altro carcere; io riferisco le informazioni ai compagni Bonisoli e Lauro i quali aprono una istruttoria che non porta ad alcun risultato. Moretti stesso ne ha parlato nel suo libro.Pertanto, la prima persona che ha il sospetto su Moretti non sono io e quanto questo fosse vero non lo so. Per quanto mi riguarda, la prima persona è Renato Curcio ma anche Semeria aveva avuto dei sospetti, già alcuni mesi prima, per episodi di cui non conosco i dettagli.

Fine prima parte

prima parte

seconda parte

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