Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

67a SEDUTA

MERCOLEDI 3 MAGGIO 2000

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

Indice degli interventi

PRESIDENTE
PACE
BIELLI (Dem. di Sin.-L’Ulivo), deputato
DE LUCA Athos (Verdi-l'Ulivo), senatore
MANCA (Forza Italia), senatore
MANTICA (AN), senatore
SARACENI (Misto-Verdi), deputato

 

La seduta ha inizio alle ore 20.35.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.

Invito il senatore De Luca Athos, segretario f.f., a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

DE LUCA Athos, segretario f.f., dà lettura del processo verbale della seduta del 21 marzo 2000.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

 

COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE

PRESIDENTE. Comunico che, dopo l’ultima seduta, sono pervenuti alcuni documenti il cui elenco è in distribuzione e che la Commissione acquisisce formalmente agli atti dell’inchiesta.

Informo altresì che il dottor Mario Scialoja, il dottor Tindari Baglione e la dottoressa Maria Antonietta Calabrò hanno provveduto a restituire, debitamente sottoscritti ai sensi dell'articolo 18 del regolamento interno, i resoconti stenografici delle loro audizioni rispettivamente del 14 e del 21 marzo 2000, dopo avervi apportato correzioni di carattere meramente formale.

Avverto infine che, in relazione alla preventivata rogatoria internazionale destinata all'audizione del signor Ilich Ramirez Sanchez (alias Carlos), il Ministero della giustizia ha comunicato, in data 21 aprile 2000, che sono stati presi da parte delle autorità italiane gli opportuni contatti con il corrispondente Ministero francese.

 

INTEGRAZIONE DELL'UFFICIO DI PRESIDENZA: VOTAZIONE PER L'ELEZIONE DI UN SEGRETARIO

PRESIDENTE. Rendo noto che il Presidente della Camera ha comunicato che l'onorevole Mauro Zani ha rassegnato le sue dimissioni dalla Commissione a causa di sopravvenuti e pressanti impegni derivanti dal suo incarico politico. In attesa della imminente sostituzione dell'onorevole Mauro Zani e della conseguente reintegrazione del plenum, ritengo opportuno il rinvio della votazione anche a causa dell'assenza di molti colleghi impegnati nei concomitanti lavori parlamentari.

 

INCHIESTA SUGLI SVILUPPI DEL CASO MORO: AUDIZIONE DEL DOTTOR LANFRANCO PACE

Viene introdotto il dottor Lanfranco Pace

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca nell'ambito dell'inchiesta sugli sviluppi del caso Moro l'audizione del dottor Lanfranco Pace che ringrazio per essere presente in questa sede. Scusandomi per il ritardo con cui ha avuto inizio l'audizione mi auguro che lo svolgimento dei lavori parlamentari consenta una maggiore presenza di commissari anche nel corso dell'audizione. E' comunque chiaro che ciò che lei ci dirà sarà oggetto di meditazione e valutazione anche dei membri questa sera non presenti.

Le ragioni per cui abbiamo deliberato, nell'ambito dell'inchiesta sul caso Moro, l'audizione del dottor Pace sono ovviamente note ai colleghi. Il dottor Pace è uno dei tramiti attraverso cui, nel tentativo di salvare la vita di Moro, si sviluppa la nota trattativa tra gli esponenti del PSI e delle Brigate rosse, in particolare con Valerio Morucci ed Adriana Faranda. La realtà di questa trattativa è emersa lentamente all'acquisizione giudiziaria e parlamentare. Se non sbaglio, inizialmente il dottor Pace aveva addirittura contestato di aver mai incontrato Morucci per tutto il 1978 mentre Morucci e Faranda ammettevano un unico incontro, di cui peraltro asserivano carattere sostanzialmente casuale con il dottor Pace ed il professor Piperno nel periodo tra il 20 ed il 27 aprile. Lentamente invece, sia attraverso memorialistica della Faranda sia anche attraverso quello che ci è stato detto in sede di audizione da Morucci ma, in particolare, dalla Faranda, delle nostre conoscenze attuali fa parte l'idea che questo contatto fu molto più intenso fino ad aver coperto sette o otto incontri. La versione originaria della Faranda finiva anche per combaciare con quello che alla Commissione Moro era stato riferito dall'onorevole Bettino Craxi, il quale aveva detto di un incontro con il dottor Pace; però, ne aveva minimizzato l'importanza, sostenendo che il dottor Pace, in realtà, non sembrava avere nessuna carta in mano che potesse seriamente far sperare nell'apertura di una trattativa con i carcerieri di Aldo Moro.

La prima domanda che vorrei porre è la seguente: dottor Pace, a tanta distanza di anni può descriverci meglio questi incontri, chiarirne il numero, le modalità con cui si svolsero e, soprattutto, chiarire l'inquadramento degli incontri? Quali erano, cioè, i suoi rapporti da un lato con Morucci e Faranda, cioè con quella parte delle Brigate rosse più vicina alle posizioni di Potere operaio; dall'altro quale era il vostro rapporto con il Partito socialista e quali furono i limiti di questo contatto? Il contatto, cioè, tra voi e i brigatisti riguardò soltanto Morucci e Faranda o addirittura aveste contatto con il gruppo che teneva prigioniero Moro? In particolare, il professor Piperno (che dovremmo sentire dopo di lei) in una recente intervista a Bianconi de "La Stampa", ha detto di aver incontrato addirittura Moretti e di aver discusso con lui delle ragioni dell'esecuzione di Moro; quindi del collegamento dell'esecuzione al fallimento della trattativa. Per la verità, per come era scritto sul giornale, sembrava quasi che il professor Piperno avesse detto di aver incontrato Moretti prima dell'esecuzione; però poi ho sentito Bianconi che ha chiarito che si trattava di una infedeltà della trascrizione dell'intervista perché Piperno era stato invece preciso nel dire che aveva incontrato Moretti successivamente all'uccisione di Moro. Questo tramite arrivò mai a consentire un contatto diretto tra gli esponenti del PSI e gli uomini delle Brigate rosse? Il brigatista pentito Carlo Bossi, in un'intervista apparsa su "L'Espresso" per iniziativa del giornalista Ennio Remondino, parla addirittura di un incontro diretto tra l'onorevole Claudio Signorile e Mario Moretti. Abbiamo sentito a lungo l'onorevole Signorile in occasione di una interessante audizione e di questo non ci ha riferito. Però, ha dato una versione dei suoi rapporti con Piperno che finisce per combaciare con quanto riferito dalla Faranda; sul fatto cioè che non si trattò di un contatto soltanto episodico ma che rientrava nell'ambito di una vera e propria trattativa che aveva in quel momento anche un preciso contenuto ed una precisa collocazione politica.

PACE. Gli incontri con Moretti e Gallinari sono stati tutti successivi all'epilogo della vicenda Moro. Ritornerò su questo, eventualmente rispondendo ad altre domande per chiarire che il contatto che fu, in parte casualmente, stabilito tra il Partito socialista ed una parte delle Brigate rosse, tramite me e Piperno, riguardò direttamente quella parte delle Brigate rosse che era più vicina all'ala movimentista del Partito armato e che si sapeva favorevole ad una soluzione positiva del sequestro Moro. Quindi, l'incontro con la direzione strategica delle Brigate rosse avvenne in un secondo momento, quando le Brigate rosse minacciarono rappresaglie nei confronti di Morucci e Faranda; quando cioè l'ala movimentista uscì dalle Brigate rosse. Come nacque l'iniziativa - che non è stata poi una trattativa - mia e di Piperno in una vicenda che sicuramente sfuggiva ad ogni ipotesi di ogni nostro controllo? Dalla consapevolezza che un epilogo negativo, tragico della vicenda Moro ci avrebbe riguardato più o meno tutti; non soltanto il livello dello scontro militare tra l'apparato statale da una parte e le Brigate rosse ed altre formazioni terroristiche dall'altro, ma anche l'insieme dell'area di movimento e che quindi, volente o nolente, saremmo stati indirettamente chiamati in causa. Questa è una prima considerazione di ordine politico; la seconda questione era di ordine umanitario: l'immagine di questo uomo prigioniero, sottoposto alla pressione psicologica terribile per cinquantacinque giorni era un'immagine che cercavamo di allontanare dal comune sentire o dai valori di una parte della sinistra rivoluzionaria di allora. Vi ricordo che nelle sentenze in cui la magistratura francese ha rifiutato l'estradizione nei confronti miei e di Piperno per il sequestro dell'omicidio dell'onorevole Moro c'è questa citazione specifica che dice che "Le Brigate rosse, pur agendo in un fine politico, avevano violato la Convenzione di Ginevra, convenzione internazionale cui devono attenersi tutti gli eserciti combattenti regolari ed irregolari; per cui giustiziare un prigioniero dopo averlo tenuto per cinquantacinque giorni è un atto particolarmente inumano". Quindi, questa accezione era presente fin da allora nel nostro spirito; ci sembrava folle, infatti, che un’organizzazione che pretendeva essere comunista-rivoluzionaria arrivasse a questo tipo di efferatezza, laddove se Moro fosse stato ucciso il giorno del sequestro probabilmente l’atto sarebbe stato tollerato, accettato e anche in parte condiviso da larghe fette del movimento rivoluzionario di allora. E’ chiaro che il protrarsi di una situazione di disperazione umana e di pressione psicologica molto forte ha fatto sì che in qualche modo ci si sentisse stimolati ad intervenire anche per ragioni morali. Questo tipo di intervento è stato relativamente semplice e aggiungo che sul suo buon fine io ero abbastanza scettico – il professor Piperno dirà poi la sua –. Conoscendo il movimento del ‘77 meglio di Piperno, in quanto ne avevo fatto parte più a lungo di lui, sapevo che questa azione armata era comunque dettata da una logica di morte e, quindi, un epilogo positivo della vicenda sarebbe stato assolutamente poco probabile.

Inoltre, voglio ricordare che fino a metà aprile - era forse il 20 aprile - non si è mossa foglia nel sistema politico e il blocco posto ad ogni forma di trattativa con le Brigate rosse ci sembrava assolutamente monolitico. Fu l’iniziativa dell’onorevole Craxi e dell’onorevole Signorile che portò evidentemente il Partito socialista, per ragioni nobili e anche un po’ meno nobili, ma sostanzialmente per motivi politici, a scalfire tale blocco e a proporre la sperimentazione di vie alternative. In questo quadro fummo contattati e in quell’occasione io mi pronunciai dicendo che una soluzione diversa da quella che era scritta ed evocata nei volantini delle Brigate rosse mi sembrava molto poco probabile.

PRESIDENTE. Lei incontrò personalmente Craxi in via del Corso?

PACE. Incontrai Craxi all’hotel Raphael due volte, ma solo dopo aver visto l’onorevole Signorile. L’incontro con Craxi nacque dal fatto che casualmente incontrai a piazza Navona l’onorevole Landolfi il quale espresse qualche perplessità sulle capacità dell’onorevole Signorile di fare da tramite con l’allora direzione del PSI e quindi mi disse che, se c’erano degli spiragli, conveniva vedere direttamente Craxi. Con una certa riluttanza, quindi, mi diressi all’hotel Raphael dove incontrai direttamente l’onorevole Craxi.

PRESIDENTE. Che frequenza avevano i rapporti con Morucci e Faranda?

PACE. I rapporti con Morucci e Faranda iniziarono subito dopo l’inizio degli incontri con Signorile perché comunque si decise di fare tutto quello che era nelle nostre possibilità per individuare un terreno di trattativa e giungere ad una soluzione positiva e io ripresi contatto con quelli che sapevo essere i compagni delle BR dell’ala movimentista, quella che in qualche modo si presentava più permeabile ad un discorso politico. Pertanto, contattai chi di dovere ma non chiedetemi come, quando, perché o con quali mezzi; infatti gli stessi magistrati si sono chiesti che cosa mai fossero queste università italiane nelle quali si poteva incontrare chiunque, il brigatista o l’appartenente a Prima linea. Effettivamente era così e una persona che si trovava in quel calderone di sommovimenti sociali più o meno violenti finiva per conoscere tutti. La stessa cosa accade anche nel Parlamento dove voi parlamentari conoscete tutti gli appartenenti ai vari Gruppi. Facevamo quindi leva su quella conoscenza della geografia interna che si acquisisce con una lunga frequentazione. Così incontrai l’ala movimentista delle Brigate rosse. Come ho già detto ai magistrati rimasi molto colpito dall’atteggiamento iniziale di Morucci e Faranda, un atteggiamento di chiusura. Anche loro dissero che in qualche modo la decisione era stata presa e che se non ci fossero state significative concessioni da parte dello Stato per quanto riguardava la liberazione dei brigatisti detenuti, la vita dell’onorevole Moro era "giocata". Rimasi colpito da questa durezza del neofita perché conoscevo Morucci e Faranda da tempo e sapevo che non pensavano esattamente ciò che invece pensava parte dei brigatisti del Nord. Pertanto, lentamente, discutendo insieme, siamo giunti alla conclusione che uccidere Moro sarebbe stato un errore politico per tutti. Da allora Morucci e Faranda in qualche modo si sono messi in moto all’interno della loro organizzazione per spingerla ad una soluzione diversa da quella che poi è stata adottata. E’ anche chiaro che il loro peso all’interno dell’organizzazione era cruciale per alcune questioni logistiche, ma relativamente marginale per le questioni politiche; il peso di gente come Moretti, Gallinari, è stato largamente preponderante.

PRESIDENTE. Ciò che lei ha riferito in merito all’università non mi sorprende, anzi mi sembra estremamente realistico, molto italiano.

Dal rapporto che lei ebbe con Morucci e Faranda, che dalle sue dichiarazioni sembra si sviluppò in più di un incontro dal momento che ha sostenuto di averne rimosso l’iniziale posizione di durezza per far penetrare in loro un ragionamento politico sull’inopportunità politica dell’uccisione di Moro, lei ha avuto l’impressione che nel frattempo o anche prima ci siano state altre trattative che si siano sovrapposte o intrecciate in quella che voi conducevate? Ritengo che voi studiavate i comunicati delle Brigate rosse e nel comunicato n. 4 è scritto che le Brigate rosse rifiutavano trattative segrete o misteriosi intermediari. Dal momento che penso che Moretti non scrivesse parole senza senso ma che al contrario le pesasse, mi domando a cosa si è potuto riferire tutto questo.

PACE. Probabilmente, come si suol dire, Moretti conosceva i suoi polli e sapeva benissimo che nell’Italia del compromesso permanente si sarebbero subito improvvisati moltissimi mediatori. Tra l’altro, alcune di queste trattative erano note anche allora; l’avvocato Guiso aveva dichiarato che avrebbe fatto tutto il possibile esercitando pressioni su Curcio, su Franceschini e sugli altri detenuti. Si parlava allora anche di un contatto tra membri dell’Autonomia di Roma e il senatore Vitalone.

PRESIDENTE. Tra Pifano e Vitalone.

PACE. Si trattava di notizie più o meno attendibili. Fin dall’inizio la nostra impressione fu che un’organizzazione terroristica, particolarmente le Brigate rosse, non poteva praticare il doppio linguaggio: sostenere di rifiutare le trattative dichiarando che l’unica trattativa era quella pubblica tramite i comunicati e al tempo stesso accedere a trattative segrete. Ciò per molte ragioni di tipo materiale, organizzativo, logistico, perché la vicenda era complicata e malgrado all’epoca fossero comunque sopravvalutati, anche loro avevano paura per la sopravvivenza dell’organizzazione stessa ed avevano previsto varie possibili soluzioni tra cui anche lo scontro armato nel caso in cui la polizia fosse giunta al covo dove era sequestrato l’onorevole Moro. C’era quindi una certa fibrillazione e si era diffusa una sensazione di fragilità all’interno delle Brigate rosse. Allo stesso tempo, però, esisteva il rifiuto di entrare in questi giochi, in questa specie di muro di gomma della possibile trattativa in cui ogni volta era necessario spostare l’ago della bilancia, arte che le Brigate rosse probabilmente non possedevano.

PRESIDENTE. Questo lo capisco ma proprio perché l’Italia e l’università erano quello che erano, in fondo la capacità che avevano avuto gli esponenti socialisti di entrare in contatto con parte delle Brigate rosse tramite lei e Piperno poteva essere esercitata attraverso altri tramiti dalle persone più diverse e per gli interessi più diversi.

PACE. Questo non lo so

PRESIDENTE. I servizi di sicurezza non avrebbero avuto grosse difficoltà attraverso l’università ad entrare in contatto con le varie componenti del partito armato.

PACE. Ma non ci sono riusciti. Mi pare che a tutt’oggi la prova provata che si sta cercando da venticinque anni per dimostrare che il sequestro e l’omicidio dell’onorevole Moro siano stati il disegno di non so quale servizio non c’è.

PRESIDENTE. Su questo sono d’accordo, non vorrei che lei equivocasse. Non penso affatto – almeno questa è la mia idea – che ci siano stati servizi che abbiano diretto le Brigate rosse e che siano stati quindi i mandanti del sequestro, anche se questa fu la tesi che, ad esempio, nella scorsa legislatura fu avanzata da uno dei collaboratori più stretti di Moro, Luciano Guerzoni. Io mi meraviglierei però se, avvenuto il sequestro e durante la prigionia di Moro, i servizi non si siano attivati per cercare di entrare in contatto con le Brigate rosse e per determinare, l’uno o l’altro dei possibili esiti del sequestro. Così come è molto realistica la descrizione che lei ha fatto dell’università italiana, mi sembrerebbe molto irrealistico che nell’Italia di allora questo non sia avvenuto.

PACE. Signor Presidente, il problema è relativamente semplice. Se i Servizi avessero voluto infiltrare le Brigate rosse, avrebbero dovuto farlo fin dal 1969, ma siccome la lungimiranza non mi sembra che sia la qualità maggiore dell’establishment di questo Paese, mi permetto di dubitare di questa ipotesi. E’ vero che nell’università si trova di tutto, ma se è vero che io posso arrivare a conoscere, incontrare o chiedere di incontrare una determinata persona, il "signor X", che esce fresco fresco dai Servizi, non ha possibilità di trovare nessuno perché tutti diffiderebbero di lui. C’è un ruolo di schermo intorno alle organizzazioni armate, fatto dai movimenti di massa o da una parte di essi, che peraltro si è poi ritrovato in altri episodi tormentati di quegli anni, che fa sì che le notizie circolino solo in un ambito riservato, discreto e paradossalmente non escano al di fuori di questo. Mi permetto anche di ricordare ai commissari l’estrema debolezza della rete di intelligence dello Stato, perché se questa rete fosse stata lungimirante e potente, probabilmente avrebbe saputo del sequestro Moro, avrebbe avuto qualche soffiata, qualche idea del fatto che qualcosa si stesse preparando. Quando il Presidente del Consiglio Andreotti sostiene di aver capito il 16 marzo…

PRESIDENTE. La singolarità di tutto ciò è che andando ad accedere, come oggi ci è possibile, agli atti del Ministero dell’interno, ci accorgiamo che quel mondo dell’università e quello del partito armato che lei ha descritto era notissimo agli apparati del Viminale. Ad esempio, una relazione del vice questore Provenza del 1972 su Potere operaio è estremamente precisa. Ci sono indicazioni che fanno riferimento al suo nome e a quello del Piperno. Eravate tutti più o meno noti e conosciuti.

PACE. Questa è una dimostrazione del fatto che non funziona.

PRESIDENTE. Qualcuno di voi era addirittura latitante. La mia domanda è la seguente. Non vi sorprendeva il fatto di non essere oggetto nemmeno di pedinamenti.

PACE. Mi scusi, signor Presidente, chi era latitante?

PRESIDENTE. Morucci e Faranda.

PACE. Morucci e Faranda erano latitanti e prendevano le precauzioni del caso.

PRESIDENTE. Lei però era noto come una persona che faceva parte di questo mondo. Un suo pedinamento avrebbe potuto portare a Morucci e Faranda.

PACE. Questo l’ha detto anche Craxi ed è una sciocchezza perché un mio pedinamento sarebbe stato visto.

PRESIDENTE. Se fatto male.

PACE. In che senso?

PRESIDENTE. Intendo dire che sarebbe stato scoperto se fatto male. Un pedinamento fatto bene è un’altra cosa.

PACE. Vi sono strade di Roma in cui è impossibile eseguire un pedinamento. Mi riferisco a strade di quattro chilometri con delle curve a gomito nelle quali il pedinamento è impossibile a meno di non disporre di un elicottero o comunque di mezzi adeguati.

PRESIDENTE. Mi sembra di capire che la sua risposta debba intendersi nel senso che lei aveva delle accortezze per cui non era possibile un suo pedinamento.

PACE. Gli stessi interlocutori che io vedevo mi imponevano di prendere precauzioni. Stiamo parlando di questioni basilari per chi svolge il mestiere del terrorista. Come lei certamente sa, signor Presidente, se c’è una persona che ha i documenti in regola è il terrorista. E’ più probabile che in questa Commissione alcuni parlamentari abbiano documenti scaduti piuttosto che li abbia un terrorista. Il terrorista lo fa di mestiere e può certamente farlo più o meno bene; in linea di massima, però, a quel livello si cercava – cercavano di farlo questi miei interlocutori – di farlo nel miglior modo possibile in modo da escludere questa eventualità.

PRESIDENTE. Registro il suo punto di vista.

PACE. Questa è una faccenda molto tecnica che per alcuni aspetti è anche molto banale e oggi come oggi priva di qualsiasi interesse, però è bene che ci si cali nelle modalità di funzionamento di un’organizzazione clandestina terroristica, i cui militanti la mattina sono soliti svegliarsi alle sette, leggere "La Caccia", "L’enciclopedia delle Armi", "Diana" e non solo "Il Corriere della Sera", "Il Manifesto", "L’Unità". Successivamente, dalle ore sette alle ore nove, spostano le macchine che hanno rubato i mesi precedenti, cambiano le targhe, eccetera, insomma un movimento illegale sotterraneo di cui la società civile normale neanche si accorge. Erano dei professionisti dell’illegalità che come tali hanno cercato di fare quello che a loro stessi era stato insegnato.

PRESIDENTE. Pochi mesi dopo Dalla Chiesa fornisce al Ministero dell’interno delle relazioni in cui racconta che in pochi mesi era riuscito ad infiltrare le BR.

PACE. Quali? Non credo quelle di Roma; di altre non posso dire, ma non mi sembra che sia questo il punto. E’ possibile che tutti abbiano infiltrato tutto, ma tutte queste tracce io non le vedo.

PRESIDENTE. Il problema non è che fossero infiltrati, ma che fossero infiltrabili e non lo siano stati.

PACE. A mio parere non erano infiltrabili. Il reclutamento avveniva sulla base di una selezione che aveva luogo all’esterno di questa organizzazione armata. Prima di fare entrare nelle loro file sotto qualsiasi forma, di regolare o di irregolare che dir si voglia, si svolgevano determinati procedimenti di selezione che maturavano altrove. Non è un caso che l’unico "infiltrato" sia stato frate Girotto nel 1973-’74, in un’epoca in cui intorno al partito armato non c’era questo diffuso movimento di violenza e di contestazione.

PRESIDENTE. E se lei fra qualche tempo venisse a sapere che le Brigate rosse verso la fine del 1978 o agli inizi del 1979 erano infiltrate?

PACE. Non ci credo e non ci crederei nemmeno se lei mi portasse il colonnello "Popov" dei servizi segreti bulgari e lui stesso mi dicesse personalmente di aver conosciuto Moretti nel 1972 e di avergli dato un certo ordine.

PRESIDENTE. Il mio richiamo non faceva riferimento al sequestro Moro, ma ad un’infiltrazione avvenuta in un momento immediatamente successivo.

PACE. Signor Presidente, so che questa è stata una vecchia costante del Partito comunista di allora, vale a dire di pensare che le Brigate rosse fossero eterodirette.

PRESIDENTE. Le ho già detto che io non lo penso.

PACE. Capisco che con il tempo il pensiero possa evolvere, ma è altrettanto innegabile che le Brigate rosse sono state, che lo si voglia o no, autoctone, endogene, figlie del cattivo album della sinistra italiana e basta.

PRESIDENTE. Personalmente l’ho scritto diverse volte. Però, come c’è stato detto dall’onorevole Signorile, non è pensabile che vivessero isolate dal mondo di allora. Non è pensabile che un gruppo terrorista rapisca in Italia il principale uomo politico italiano e che gli apparati esistenti non si attivino, che non tirino le giacche chi da una parte chi dall’altra, chi per ottenere certi vantaggi chi per ottenerne altri. Il fatto che poi questi tentativi non abbiano avuto effetto, ritengo che personalmente sia la cosa più probabile. Il fatto che siano intrecciati in maniera tale da paralizzarsi a vicenda e da far precipitare le cose, questo mi sembra quasi altrettanto probabile. In ogni caso la mia domanda era un’altra. Del problema del processo a Moro e di questi contatti con Morucci e Faranda cosa ci può dire?

PACE. A cosa fa riferimento? All’interrogatorio?

PRESIDENTE. Sì, all’interrogatorio. Quello di cui parlavano i comunicati.

PACE. In sintesi, pur essendo di tutt’altro genere la ragione dei nostri incontri, mi dissero che il presidente Moro collaborava, che stava parlando e che accusava i suoi colleghi di partito, in particolare Andreotti; di non capire l’atteggiamento della Democrazia cristiana e come mai un partito estremamente flessibile e capace di adattarsi ai minimi movimenti conflittuali della società, fosse diventato improvvisamente rigido. Peraltro, ricordo che subito dopo la fine infausta del sequestro Moro ci fu un altro sequestro in cui la Democrazia cristiana e, in parte, anche lo Stato trattarono, mi riferisco al sequestro Cirillo. Pertanto questa linea di intransigenza nel sequestro Moro fu scelta per ragioni politiche, anche condivisibili e comprensibili, ma fu appunto una scelta politica.

Vorrei però ricordare due questioni perché si capisca bene lo scarto che c’è tra il livello di iniziativa del partito armato nel 1978 (stiamo parlando di un’epoca lontana, ormai preistorica) e il livello statuale. Giulio Andreotti nella trasmissione di Zavoli "La notte della Repubblica", che ho risentito con anni di ritardo perché all’epoca ero a Parigi, ha detto che mai, in quanto Presidente del Consiglio, avrebbe potuto immaginare, il 15 marzo, che una personalità del calibro di Moro potesse essere oggetto di un attentato terroristico. Mi chiedo che visione del Paese avesse il Presidente del Consiglio dell’epoca dopo che per anni erano stati uccisi magistrati, poliziotti, guardie carcerarie, giornalisti e così via: perché immaginare che l’uomo politico fosse al di sopra del novero dei bersagli possibili. La seconda domanda riguarda lo svolgimento concreto del sequestro Moro: la mattina del 16 marzo, quando scatta l’allarme e le forze dell’ordine istituiscono posti di blocco in tutta Roma a cominciare dal raccordo anulare, Moro era già nella "prigione del popolo". C’è dunque uno scarto notevole…

PRESIDENTE. Tra l’impreparazione e la geometrica potenza.

PACE. Le pare poco?

PRESIDENTE. Le hanno mai parlato delle rivelazioni che Moro preannunciava come possibili nella sua lettera a Cossiga, cioè questioni rilevanti per la segretezza dello Stato?

PACE. No, non credo che le avesse fatte.

PRESIDENTE. Dopo la rottura tra Morucci e Faranda e il gruppo dei "signori della guerra", quando avete incontrato questi ultimi cosa vi hanno detto della mancata pubblicazione della documentazione Moro o della gestione e della fine delle carte del sequestro?

PACE. Dissero che non c’era nulla di particolare da far sapere che già non si sapesse, che era la conferma del ruolo centrale della Democrazia cristiana nel sistema imperialistico mondiale. Ripetevano le frasi fatte che erano state dette prima ancora del sequestro. Lei sa che ci sono meccanismi compulsivi e coattivi per cui la giustificazione ex post è la stessa di quella di prima. Ricordo che gli incontri con quelli che lei chiama "i signori della guerra", per ritornare sullo stato di slabbramento dell’intelligence, avvenivano nei caffè del centro. Una volta che incontrai Moretti accanto a me c’era il giudice Alibrandi del tribunale di Roma. Una delle persone più ricercate in tutta Europa - certo irriconoscibile anche perché le fotografie di cui i servizi e gli organi di polizia potevano disporre risalivano a molto tempo prima - se ne poteva andare tranquillamente per le strade del centro.

PRESIDENTE. Tornando alla domanda: delle carte non vi hanno detto niente.

PACE. No, non dissero niente, soltanto questo fatto della conferma della loro ipotesi...

PRESIDENTE. Perché nel fumetto di "Metropoli" l’interrogante è senza volto?

PACE. E’ un’immagine romanzesca classica che viene dalla tradizione cinematografica e letteraria sul terrorismo.

PRESIDENTE. La domanda è in questo senso: le risulta che effettivamente l’interrogatorio lo conduceva Moretti, che abbiano partecipato altre persone, che le domande che venivano rivolte a Moro erano predisposte da altre persone?

PACE. No.

PRESIDENTE. L’onorevole Signorile, al quale devo dare atto di non aver ripetuto frasi fatte nel corso dell’audizione (niente è più lontano dalla verità delle frasi fatte, che alla fine mostrano la trama, si usurano, non significano più nulla), ci ha riferito che, a suo avviso, in quel fumetto l’interrogante non è effigiato perché l’interrogatorio di Moro fu collettivo, nel senso che ci poteva essere una persona che poneva le domande ma più intelligenze le preparavano.

PACE. Lei mi sta dicendo che le sto rispondendo con frasi fatte. Lei immagina che in un’organizzazione terroristica, che ha la "strizza" nel cervello, che già ha problemi a mantenere un prigioniero per cinquantacinque giorni, c’è un via vai di persone che vanno a interrogare?

PRESIDENTE. No, ho detto una cosa diversa, che Moretti le domande le portava già scritte. Ce lo ha detto anche Maccari.

PACE. Le portava scritte perché è una persona che si documenta e quindi scriveva le domande. Siamo sempre al solito, sono trascorsi venticinque anni, potremmo andare avanti per altri venticinque, la verità sarà sempre più obliqua, sghemba e assolutamente inafferrabile: o arriviamo alla conclusione che erano venticinque "sciancati" che, però, hanno effettivamente messo in ginocchio lo Stato italiano, che a sua volta ha mal diretto, mal organizzato e gestito la vicenda oppure questa ricerca è inutile.

PRESIDENTE. Su questo non ho alcun dubbio: le Brigate rosse sono un fenomeno italiano, sono una parte della storia della sinistra italiana.

PACE. Ho incontrato in carcere Gallinari, figlio di questo popolo come ce ne sono pochi. Non so se la Commissione ha avuto il tempo e il piacere di ascoltare Prospero Gallinari.

PRESIDENTE. E’ tra quelli che non è voluto venire. Abbiamo sentito però Maccari che è un personaggio simile.

PACE. Figlio di un contadino povero della bassa emiliana: penso che non ce ne siano più, comunque allora esistevano. Faceva 20 chilometri, andata e ritorno in bicicletta, per andare a leggere "L’Unità" nel bar del paese più vicino. Minacciò di strangolare il padre perché aveva picchiato la sorella più grande impedendole di andare a ballare. Ha ucciso il padre, in senso metaforico, molto presto. Militava nella Federazione di Iotti e a 17–18 anni è entrato nelle Brigate rosse. Mi ha raccontato in carcere, ancora con la benda in testa perché era stato ferito ed aveva avuto mezza calotta cranica asportata, che quando ha sequestrato Moro guardava dal buco della serratura e pensava: "Quello chi è? Moro. Io, Prospero Gallinari, ho Moro in mano" o capiamo questo oppure tutto il resto è poca cosa, noia ripetitiva. L’onorevole Signorile può dire quello che vuole, ma questa è la ragione scatenante delle Brigate rosse, la loro forza, il fatto che quella era una parte dell’Italia di allora, una parte del Partito comunista che credeva nella grande utopia, che il giorno di gloria e felicità sarebbe arrivato e a questo ha sacrificato la vita.

PRESIDENTE. Lei faceva parte della redazione o comunque era vicino al mondo che pubblicava "Metropoli"?

PACE. Veramente l’ho cofondata io.

PRESIDENTE. Quell’articolo "Oroscopone" che significato aveva?

PACE. Attorno a questo abbiamo giocato in tutti i modi possibili e immaginabili ma non può credere veramente che ci sia stata una capacità anticipatoria o di lettura tra le righe di cose che anche allora risultavano persino a noi, che eravamo quanto meno contigui, oscure. E’ stato un fatto editoriale, abbiamo cercato di trattare in modo diverso con fumetti, giochi e così via…

PRESIDENTE. Per quanto riguarda i fumetti è chiarissimo. Devo dire che è estremamente realistico, tutto ciò che è scritto nel fumetto corrisponde esattamente a quanto lei stasera ci sta dicendo, corrisponde esattamente alla versione che è stata ricostruita dell’intera vicenda, comprese le telefonate a Bartolomei, l’intervento su Fanfani, è una storia di una precisione assoluta, scandita ai minuti. L’unico particolare su cui lei mi ha risposto in un certo modo e invece Signorile ha dato una risposta che ha una sua logica, che il personaggio che conduce l’interrogatorio non ha il viso effigiato a differenza di tutti gli altri per cui Signorile somiglia a Signorile, Moretti non somiglia a Moretti e Morucci non somiglia a Morucci (e si capisce anche perché), chi fa le domande non è effigiato. Tuttavia, sempre su "Metropoli" è comparso l’articolo "Oroscopone"; l’ho letto una decina di volte, ma non ne ho capito neanche una parola. Vorrei sapere se avete volutamente scritto un articolo senza dargli un senso. Quale era il suo senso editoriale?

PACE. Presidente, non lo ricordo. Onestamente non ricordo neanche di averlo letto. Se me lo mostra, lo leggo e le rispondo subito.

PRESIDENTE. Le leggo alcune frasi che ho in precedenza appuntato: "Il nemico colpisce nell’ombra. Non lo riconosci mai prima. C’è questa lettera C che mi attira" - perché è una specie di maga che fa le carte e poi parla - "La C batte. Chiama tutti i mazzetti. I tre non sono niente, sono una pagliuzza, una piccola paglia. Allora parla perché è dentro, cerca dei favori. Di nuovo la lettera C, anzi CC. Forse sono le iniziali. Forse è amico dell’accusatore. Non si capisce bene".

PACE. Mi sembra un articolo mal riuscito.

PRESIDENTE. Se non vuole significare niente, è pessimo.

PACE. All’epoca non vi era l’abitudine di lanciare segnali in codice né ad amici, né ad avversari o ad alleati. Quindi, mi sembra un’iniziativa editoriale mal riuscita.

PRESIDENTE. Ho finito di rivolgere domande al nostro ospite. Pertanto do la parola al senatore Manca.

MANCA. Dottor Pace, vorrei riprendere brevemente alcuni punti già toccati dal presidente Pellegrino, perché alcune sue risposte non mi convincono, se non altro perché lei dimostra, a differenza di altri o di alcuni di noi, troppa convinzione e sicurezza in certe affermazioni. Faccio un esempio: lei ha detto con la massima sicurezza che, a suo giudizio, la questura non aveva infiltrati. Eppure, a noi risulta che ci sono diversi rapporti, come quello del 13 marzo 1972, che citano episodi e considerazioni relative a vostre riunioni strettamente riservate. Quindi, si deve dedurre che avevano queste notizie solo se c’erano infiltrati, altrimenti non potevano riferirsi ad una palla di vetro. Anche per quanto riguarda i pedinamenti, lei ha detto che Roma si presta a non essere pedinati. Tuttavia, le posso assicurare che, se davvero una persona vuole pedinare un’altra, nonostante Roma, ci si riesce. Quindi, anche il fatto che lei non prendeva precauzioni mi sembra…

PACE. Non ho detto…

MANCA. No, mi scusi ma lei ha detto che ha preso precauzioni e che erano tali che poteva sfuggire a qualsiasi professionista di pedinamenti. Ha detto questo. Ha anche accennato che la capacità investigativa dello Stato era pressoché nulla. Dico tutto questo in merito alle sue sicurezze perché confondiamo modi di valutare questi aspetti con altri, con i suoi. Per esempio, non abbiamo trovato la capacità investigativa così assente; o meglio, la deficienza dello Stato nelle forze di polizia non era così rilevante come in altre parti, quali la magistratura. Allora, poiché dobbiamo soprattutto ricostruire quegli anni per rilevare i motivi in base ai quali non sono stati individuati gli autori delle stragi, vorremmo che lei ci parlasse maggiormente di questi aspetti per poter delineare effettivamente il quadro generale. Mi meravigliano le sue certezze. A parte la eterodirezione delle Brigate rosse, su cui lei si è già pronunciato, vorrei sapere se ritiene veramente che non c’erano dei "generali" al di sopra dei "colonnelli". Intendo per generali qualcuno al di sopra di Moretti e via dicendo. C’era davvero solo Moretti? Come lei sa, ci stiamo muovendo in questa direzione anche perché un Capo dello Stato ha sollevato il dubbio che al di sopra dei colonnelli, che erano noti, ci potessero essere dei generali.

Vorrei poi andare più sullo specifico. Vorrei sapere come mai lei continuò ad incontrare Morucci anche dopo il suo arresto nell’aprile 1978 e non lo ritenne così pericoloso.

PACE. Parla dell’arresto di Morucci?

MANCA. No, del suo arresto. Inoltre, vorrei sapere se lei era a conoscenza del fatto che il padre di Giuliana Conforto, ossia Giorgio Conforto, era in sostanza un agente del KGB. Le rivolgo un’ultima domanda. Ci sono state riunioni di Potere operaio a via Gradoli…

PACE. Di Potere operaio?

MANCA. Sì. Marcello Squadrari ha riferito che in un appartamento situato in via Gradoli, nel febbraio 1978, si svolse una riunione di elementi di Potere operaio passati a Lotta armata. Quindi, dobbiamo ritenere che molte persone appartenenti a Potere operaio fossero a conoscenza dell’esistenza del covo di via Gradoli; questa volta mi riferisco al covo delle Brigate rosse, al famoso covo di via Gradoli e alla famosa seduta spiritica. Le chiedo di rispondermi a queste domande che le ho rivolto.

PACE. Rapidamente, per la questione degli infiltrati, ripeto che non è che la DIGOS non avesse suoi uomini e suoi nuclei di intervento anche nelle università e nelle sedi del movimento dell’epoca. Dal 1968 al 1978 avevano compilato liste, avevano elenchi e sapevano con una certa precisione chi militava, dove e via dicendo. Quello che nego è il fatto che avessero una capacità di intelligence o di penetrazione nei compartimenti più segreti del partito armato. Se questo fosse vero, sicuramente non sarebbero stati presi alla sprovvista. Peraltro, le aggiungo per chiarezza che le forze dell’ordine all’epoca erano più preoccupate dell’ordine in piazza che delle manifestazioni del partito armato, che in qualche modo sembrava una specie di catastrofe naturale. Giustamente, in parte anche politicamente, avevano capito che quello era il pesce che nuotava nell’acqua e che il problema era l’acqua. Chi ha visto filmati del 1977 sa quale clima si respirava nelle principali città italiane, in particolare a Roma, città nella quale c’era una manifestazione violenta un sabato sì e l’altro pure. Quindi, è questo che inquietava maggiormente le forze dell’ordine. E’ chiaro che, non potendo affrontare avversari su tutti i fronti, probabilmente avranno sottovalutato azioni di infiltrazione. Fatto sta che - a mio parere - non ce ne erano, come ho detto poc’anzi.

Non torno sull’argomento dei pedinamenti, perché a volte non funzionano nemmeno quando li fa la CIA. Può sempre succedere che qualcuno scappi ad un pedinamento e, quindi, si figuri all’epoca, nella quale si avevano mezzi relativamente rudimentali. Comunque, ripeto che l’azione illegale riposa sul controllo del territorio. Questa è una delle chiavi di volta teorica. Ci sono comunque dei colli di bottiglia in cui passare, nei quali passi tu e non passa il nemico. E’ questo che mi imponevano di fare ogni volta ed era una rottura di scatole – scusate l’espressione – infinita, perché dovevo prendere diciotto autobus, cambiare tredici volte direzione, passare per le strade ad U, un disastro. Tuttavia, era all’epoca, dal loro punto di vista, un modo efficace.

Continuo a pensare che non ci fossero "generali". Non l’ho mai creduto e non lo crederò mai. Penso che, per quel che è stato di importante dal punto di vista simbolico ma povero dal punto di vista teorico, un personaggio come Moretti sia largamente sufficiente a fare quello che ha fatto; non ha bisogno né di mentori né di padri putativi.

Per quanto riguarda il mio arresto, si trattò innanzitutto di un fermo di 48 ore nell’ambito di una retata generale che fecero subito il 16 o il 17 marzo – non ricordo le date - o a metà aprile. Fummo portati in duecento e rilasciati quasi tutti. Quindi, si trattò puramente di un fatto di routine.

Per quanto riguarda il padre della Conforto, ho appreso dell’esistenza di tale persona dal dossier Mitrokhin. Quindi, penso che anche questa sia una coincidenza come, in parte, via Gradoli. Via Gradoli, è stata effettivamente la sede nella quale avrebbe vissuto colui che ha organizzato la colonna romana delle Brigate rosse – si parla dell’inizio del 1978 – e avendo lui reclutato ex militanti di Potere operaio… Tenga presente che Potere operaio si è sciolto nel 1973. Pertanto, si parla di gente che aveva militato in Potere operaio, che era ancora favorevole allo sviluppo della lotta armata e che, però, aveva avuto altre esperienze e che poi è finito esattamente a fare le riunioni a via Gradoli, dove poi è avvenuto quello che è avvenuto.

MANCA. Vorrei chiederle una specie di consulenza a proposito della famosa seduta spiritica che ormai è consolidato tale non fu. Vi sono solo tre persone al mondo che continuano a crederci, due le abbiamo ascoltate, la terza non siamo riusciti a sentirla. Secondo lei si è trattato della notizia del covo di via Gradoli data da qualcuno? Si è mai posto questa domanda, vista la sicurezza delle sue considerazioni e valutazioni?

PACE. E’ una delle domande che mi sono posto e a cui non ho trovato risposta. Però è comprensibile che qualcuno, a conoscenza non tanto di una base ma del fatto che lì abitasse qualche persona importante, lo abbia indicato. Può essere qualcuno che aveva frequentato l’appartamento fin dal 1978 e che probabilmente per ragioni di coscienza o di dissenso politico ha preferito dare questa soffiata in modo mascherato. Se però dobbiamo dimostrare che lo Stato poteva arrivare alla sede dove era Moro, credo che non sarebbe stato possibile neanche da via Gradoli.

MANCA. Però le cose potevano svolgersi in modo diverso se qualcuno avesse riferito alla polizia di aver saputo questo nome.

PACE. Da quanto si è saputo dopo e secondo quanto mi è stato confermato in carcere da esponenti delle BR, era previsto un piano se la polizia fosse arrivata a via Montalcini. L’ordine era di sparare e di immolarsi, una cosa estranea alla tradizione del movimento operaio, una decisione da ultimo assedio, una decisione che comunque era stata presa dall’esecutivo.

PRESIDENTE. Ha mai riflettuto sulle modalità della scoperta del covo di via Gradoli? Quanto alla seduta spiritica, la sua lettura in questo caso coincide con la nostra.

PACE. Fa parte del lato romanzesco della vita di Moretti, nel senso che non si riesce ad ammettere che sia stato quello che è stato...

PRESIDENTE. Non mi attribuisca cose che non ho detto.

PACE. Non sto facendo questo; sono cose che in parte si dicevano anche nel movimento. Per fare un esempio, anche all’indomani dell’assassinio del commissario Calabresi, si disse che erano stati i tedeschi della RAF tanto era stato fatto bene. E’ una abitudine molto italiana. Non si poteva ammettere che Moretti fosse una primula rossa inafferrabile e quindi per forza veniva visto come una specie di Pollicino che lasciava indizi per essere preso. Molti terroristi hanno pulsioni suicidarie, ma in questo caso mi pare si tratti di un normale episodio della vita quotidiana; tra l’altro Moretti è scappato all’ultimo momento.

PRESIDENTE. Il problema è sapere se è stato lui ad aprire la doccia, o qualcun altro per farlo prendere.

PACE. Era l’unico a frequentare l’appartamento, oltre alla Balzerani. Non vedo quale agente dei servizi segreti sarebbe in grado di sopportare dieci anni di carcere, bisognerebbe pagarlo miliardi o poi liberarlo.

PRESIDENTE. Rimane la spiegazione di Scialoja secondo la quale si erano accorti che il covo "scottava" e volevano farlo scoprire in maniera eclatante per evitare che qualcuno ci potesse andare da fuori non sapendo che era stato scoperto.

PACE. Mi stupisce che Scialoja abbia detto questo perché in certe organizzazioni nessuno va da nessuna parte e si presenta all’improvviso e lo stesso vale per via Gradoli.

PRESIDENTE. Resta il problema della contemporaneità tra la scoperta del covo e il falso comunicato sul lago della Duchessa.

PACE. Quella del lago della Duchessa mi pare un’altra "bufala", una specie di ballon d’essai servito per vedere come avrebbe reagito l’opinione pubblica di fronte ad un epilogo tragico del sequestro.

PRESIDENTE. Però non sappiamo chi l’ha fatto.

PACE. Allora si diceva che fosse una cosa fatta artatamente dai servizi segreti o da ambienti loro vicini. Di certo non era nell’interesse delle BR.

Sul covo di via Gradoli non vedo perché farlo trovare con armi, indicazioni, tracce. Si tenga presente che la prima generazione delle BR fu spazzata via proprio grazie a quanto ritrovato nel covo dove era la Cagol.

PRESIDENTE. Il problema è che se non ha una spiegazione logica, è comunque inverosimile la situazione descritta nel verbale di ingresso nel covo. A che serviva una doccia piantata contro una mattonella, lasciata aperta per far cadere l’acqua al piano di sotto? La descrizione di come si rivela questa perdita è inverosimile, può darsi sia frutto della irrazionalità della realtà. Comunque, prima di arrendersi è giusto porsi qualche domanda.

PACE. Però tenga presente che molte persone abituate alla vita clandestina, dopo un po’ "scoppiano" e ci sono veri e propri atti autopunitivi. Adriana Faranda, prima di farsi arrestare, una delle ultime volte che l’ho vista, era assolutamente in uno stato psicologico particolare, era molto colpita, voleva vedere la figlia, aveva una nostalgia feroce della vita di prima. Non si scherza con la psiche, quando si arriva a forme di contorcimento violento, possono accadere cose del genere. Nel caso di Moretti forse è meno vero, mi sembrava più solido, però può anche essere. Del resto, quando fu arrestato, disse che era stanco di scappare.

PRESIDENTE. Però, due anni dopo.

DE LUCA Athos. Grazie per aver accettato questa audizione, anche perché dal suo tono sembra che lei ritenga inutile questo continuo indagare su una questione che ritiene chiusa da tempo. Sembra per lei inutile questo nostro accanimento nella ricerca di altre ragioni che non ci sono perché tutto è chiaro e semplice. Credo dunque che per lei sia faticoso rispondere alle nostre domande.

Preso atto di questo, lei dà per scontate alcune cose con una sicurezza che io e molti altri non condividiamo. Vorrei tornare su alcuni punti importanti per cercare di capirli. Lei ha escluso la possibilità di pedinare per le strade di Roma una persona. E’ una questione che induce a riflettere. Lei ha detto che si sono alcune strade dove non è possibile fare un pedinamento. Credo che in tutto il mondo un’intelligence adeguata e preparata sia in grado di fare queste cose. Suona francamente singolare che questo a Roma non potesse avvenire, in un momento in cui lo Stato era appunto impegnato, almeno ai massimi livelli, nella ricerca della verità. E’ questa una questione che getta qualche ombra sulla spontaneità e sulla sincerità delle sue affermazioni; è come se lei questa vicenda la volesse in qualche modo liquidare. Le dico onestamente – ci tengo a dirglierlo – che è difficile pensare che fosse impossibile effettuare un pedinamento a Roma; mi sembra un’affermazione tutta da dimostrare.

Vorrei poi sapere – lei probabilmente lo ha già detto e lo dà per scontato - come avvenne il contatto con i socialisti e in quale circostanza. Lei ha mai avuto preoccupazione che da questo contatto potesse derivare a lei qualche rischio? E le ragioni per cui lei questo rischio lo metteva nel conto sono quelle che ci ha detto all’inizio, cioè umanitarie eccetera? E se questo rischio era invece da escludere, vorrei saperne il perché, considerando la situazione abbastanza particolare del nostro paese.

Inoltre, lei pensa che l’ipotesi di finanziamenti a "Metropoli" da parte del centro studi CERPET, che credo siano avvenuti anche in altre occasioni, abbia un fondamento? Lei ha mai collaborato con il CERPET, che sembra avesse la sede nello stesso edificio dove voi eravate?

Lei ha disegnato chiaramente il quadro: cioè questi erano fatti così, venivano da questa esperienza e si sono trovati a gestire questa cosa così eccezionale e la polizia, quindi le nostre forze dell’ordine e il nostro intelligence erano del tutto improvvisati e comunque incapaci di fronteggiare una situazione del genere, non erano abituati eccetera. Secondo lei, ci sono responsabilità politiche in questa vicenda, cioè dello Stato nel tentativo di salvare Moro? Cioè è possibile che Moro non venne salvato e le indagini non furono fatte non per negligenza, ma perché ad un certo punto non si voleva salvare quest’uomo? Vorrei una sua opinione su questo aspetto.

PACE. Le conseguenze non solo le ipotizzavo ma le temevo; ero quasi certo che, morto Moro, lo Stato avrebbe dato un giro di vite ulteriore e che quindi in qualche modo tutto quello che si sarebbe trovato nel mezzo tra il partito armato e lo Stato sarebbe stato spazzato via. E’ esattamente quello che è avvenuto. Cioè, non si può ammettere che uno Stato democratico possa resistere a lungo con un doppio antagonismo ed una doppia conflittualità, da una parte nei confronti dell’apparato clandestino e, dall’altra, del movimento di massa. Quindi, l’uno o l’altro andava "sbaraccato"; siccome si fa prima a sbaraccare gente che non si nasconde e che vive legalmente alla luce del sole, sapevo benissimo che ci avrebbero fatto fuori. Ricordo l’operazione "7 aprile" messa in moto dai magistrati di Padova, che letteralmente spazzò via tutto quello che poteva essere considerato il gruppo dirigente dell’autonomia. Quindi, di questo avevamo perfetta consapevolezza ed era una delle ragioni che mi portarono a vincere anche il mio pessimismo di fondo e ad "immischiarmi" in questa vicenda. Altrimenti, onestamente, avrei fatto come molti "Salomoni" e come molti "sepolcri" imbiancati di questo paese, che hanno detto "né con lo Stato, né con le BR" oppure "o con gli uni o con gli altri" e poi se ne sono stati a casa.

Per quanto riguarda le responsabilità politiche, diciamocelo: c’è una responsabilità di tipo politico-pedagocico anzitutto a sinistra. Lei leggerà su "L’Espresso" in edicola venerdì i verbali segreti della segreteria del Partito comunista di allora in cui si afferma che le lettere di Moro erano vere, che Moro era in grado di intendere e di volere e che quello che era scritto nelle lettere corrispondeva esattamente al suo pensiero. Cioè, il contrario di quello su cui hanno basato la propaganda nelle fabbriche, negli uffici e nelle università e la loro scelta politica di non cedere al terrorismo.

PRESIDENTE. Sono d’accordo con lei, ma perché oggi si commette l’errore omologo e opposto? Perché oggi, nel momento in cui si dice che nella lettera di Moro sono scritte delle cose queste vengono tutto sommato cancellate e messe da parte dicendo che non è importante, che chissà cosa voleva dire Moro, e che si tratta di frasi fatte? Perché quanto scritto nei comunicati delle Brigate rosse non deve essere preso nel suo significato? Perché quando Moretti parla di misteriosi intermediari, si considera questa locuzione una frase fatta che non significa niente? Io penso invece che Moro abbia scritto quanto pensava, che era perfettamente cosciente e che abbia lanciato dei segnali precisi e che Moretti abbia fatto la stessa cosa.

PACE. Su questo sono assolutamente d’accordo con lei, lo sottoscrivo. Così come noi pensavamo che Moro era politicamente e culturalmente estremamente più sottile e preparato dei suoi carcerieri…

PRESIDENTE. Ma allora perché non si ammette che quelle domande cui Moro risponde non potevano essere di Moretti? Cosa interessava a Moretti che Medici era il presidente della Montedison e come aveva assunto tale carica? Se si legge quel memoriale con attenzione ci si accorge che risponde ad un tipo di interlocuzione che è innanzi tutto varia. Alcune delle domande sono tipicamente della cultura – che non trascuro – di Moretti, però qualche altra domanda è fatta da persone che avevano altro tipo di formazione ed altro tipo di interessi. Perché ci dobbiamo chiudere? Fermo restando che la storia principale è quella che racconta lei, cioè che le Brigate rosse erano un fatto italiano, che lo Stato italiano era "smandrippato", che non funzionava bene, che hanno rapito Moro nella loro logica e che lo hanno processato e condannato secondo il loro codice e lo hanno poi, ai fini di uno scontro interno, ucciso - perché questo rientrava nella loro logica militarista - perché poi deve essere inverosimile che tutto ciò sia avvenuto nell’Italia di quegli anni, quindi con tutte le interrelazioni che c’erano, con una serie di persone - ce ne ha parlato Maccari - che frequentavano le Brigate rosse e che avevano un’altra formazione ed un’altra cultura e che hanno potuto chiedere che a Moro venissero poste certe domande perché in questo modo lui forse sarebbe stato messo in difficoltà e qualcosa avrebbe raccontato? Che c’è in questo di inverosimile? Che c’entra con il mito del "grande vecchio"? Lei è stato uno dei leader del partito armato: quante volte ha sentito raccontare la storia del treno di Lenin? Vedo che lei sorride; questa storia fa parte di quella cultura: nessun rivoluzionario non mette in conto di essere strumentalizzato, però, se è bravo, sa che può capovolgere il rapporto di strumentalizzazione. Non si può essere accusati di dietrologia ogni volta che si cerca di entrare in questo ambito, che costituisce poi il poco che resta di non conosciuto. La ringrazio di aver sorriso alla mia battuta; una serie di amici che vengono da quel mondo mi avranno raccontato questa storia almeno quindici volte.

PACE. Presidente, è come il racconto di Borges sulla carta geografica dell’imperatore di Cina, cioè possiamo tranquillamente rifarla uguale. Però la realtà di allora era sicuramente talmente complicata da far pensare anche a degli echi di influenza e di suggestione e, perché no, a cose che stanno dietro. Però il nocciolo della questione qual è? Che appunto questi erano quello che si è rivelato dopo, cioè un gruppo di rivoluzionari di professione, italiani, con radici italiane…

PRESIDENTE. Su questo non c’è dubbio.

PACE. Per esempio è anche probabile - questo non ho mai avuto occasione di chiederlo né a lui, né a Gallinari - che la frase cui lei si riferisce del comunicato numero quattro di Moretti sia un modo per dare uno sberleffo esattamente a quanto stavamo timidamente cominciando a fare. E’ anche probabile che Moretti considerasse Morucci poco più di un furiere; quindi se Morucci gli va a dire che forse c’era un contatto con i socialisti tramite Pace e Piperno si possono, se si conosce il personaggio, immaginare le reazioni di Moretti. Quindi è probabile che abbia inserito nel comunicato l’espressione "oscuri intermediari" come per dire: siamo noi le Brigate rosse, trattiamo alla luce del sole. Non ho nessuna difficoltà ad ammettere ciò; non so a quale data corrisponda il comunicato n. 4 ma posso anche essere d’accordo con lei. Non ci trovo peraltro nulla di scandaloso. Quello che so è che effettivamente dopo Moretti e Gallinari mi dissero che alla fine credevano e speravano in un intervento risolutivo della Democrazia cristiana come ebbe modo Moretti medesimo di chiederlo e, confortato anche dalle notizie che arrivavano attraverso i socialisti per cui Fanfani si sarebbe mosso, alla fine anche loro in parte speravano in un intervento ed in una soluzione diversa. Quando vi fu poi la dichiarazione di Bartolomei si capisce di per sé che la cosa era chiusa.

Per quanto riguarda le responsabilità politiche vi è una responsabilità che oggi si può anche dire inevitabile nel senso che probabilmente il Partito comunista non aveva scelta; doveva per forza difendere le sue terre, la sua cultura, la sua riserva di caccia dall'infiltrazione terroristica. E' chiaro che se avesse dato legittimità al partito armato nelle fabbriche, negli uffici, nei posti di lavoro di allora vi sarebbero state complicazioni serie per il Partito Comunista. Quindi è probabile che abbiano fatto l'unica scelta possibile; però è altrettanto vero che l'hanno fatto mentendo sulla natura del fenomeno terroristico in Italia, sulla capacità di intendere e di volere di Moro e su tutto il resto. Vi sono state anche altre responsabilità tanto che il Ministro dell'interno mi sembra si sia dimesso; quindi, vi è stata - e non sono io a dirlo - una sottovalutazione da parte delle forze dell'ordine e del fenomeno del suo potenziale pericolo.

Le confermo, onorevole senatore De Luca, che per quanto lei possa essere scettico, non ero pedinato da nessuno.

DE LUCA Athos. Questo vogliamo sapere.

PACE. Per quale motivo avrebbero dovuto pedinarmi essendo un cittadino normale? Se avessero fatto pedinare me la cosa sarebbe morta lì; li avrei portati in giro per Roma e non li avrei più visti: per organizzare tali pedinamenti sarebbe stato necessario un dispiegamento di forze di mezzi che l'intelligence italiana non aveva. I servizi segreti sono questi. Non abbiamo di fronte il servizio segreto israeliano o francese o americano. In Italia abbiamo servizi segreti abituati per anni un po’ a tutto. Come sono stati presi questi in contropiede dall'esplosione del fenomeno così si è rivelato che non disponevano di mezzi e di uomini sufficienti per affrontare il terrorismo.

PRESIDENTE. Perché i Servizi dell'Est ma anche i nostri servizi alleati dovevano restare indifferenti al rapimento di Moro?

PACE. Una cosa è ammettere che sullo scacchiere italiano agiscono molti servizi segreti, alcuni potenti altri meno, alcuni bravi ed altri meno, e che ognuno ha interesse ad utilizzare anche la variabile terroristica. Questo fa parte della real politik ed è ovvio; altra cosa è dire che dietro quella vicenda vi è l'interesse specifico e determinato di un servizio segreto.

PRESIDENTE. Non lo penso affatto.

PACE. La CIA ovviamente avrà mandato un rapporto dicendo che tutto le avrebbe fatto gioco, ciò perché Moro era colui che voleva l'alleanza con i comunisti; il KGB avrà mandato un rapporto in cui diceva che era con le Brigate rosse perché facevano fuori certi personaggi indebolendo il sistema. Vi sono tante ragioni per prendere posizione. I bulgari hanno detto la loro così come gli israeliani che avevano cercato, peraltro, già di contattare i brigatisti rossi cercando di utilizzarli. Ognuno ha usato quel fenomeno per propri specifici fini. Per gli israeliani voleva dire avere una via per colpire i palestinesi e i brigatisti hanno rifiutato.

PRESIDENTE. Lei pensa che un leader intelligente come Moretti abbia potuto giocare anche la carta di ciò che Moro gli aveva detto in questi rapporti più che la libertà stessa di Moro?

PACE. Non credo questo. Moretti ha posto domande confuse pari alla sua conoscenza dei meccanismi statuali istituzionali, tra cui anche la nomina di Medici alla Montedison e Moro ha fornito le sue risposte di sempre. Leggendo quel memoriale si ha la sensazione del ragno che costruisce una tela attorno al nulla. Non vi è una informazione di importanza internazionale che esce da queste trecento-quattrocento pagine. Mi dica un'informazione importante e nuova per noi che emerga dalla lettura del memoriale.

PRESIDENTE. Dalla Chiesa dice di aver trovato un rapporto su una serie di informazioni del sistema di difesa NATO e riteneva pericoloso che fosse finito in altre mani.

PACE. Il generale Dalla Chiesa doveva giustificare la sua esistenza, le leggi speciali, l'eccidio di Genova e la legge sui pentiti che costituiscono effettivamente il grimaldello intelligente anche se feroce che lo Stato ha usato. Sa meglio di me che senza i pentiti quel fenomeno sarebbe durato cinque anni di più; senza la strage di Genova sarebbe durato tre anni di più. Con questi strumenti ha chiuso la vertenza in due anni e mezzo. Dalla Chiesa ha fatto il suo dovere di servitore dello Stato anche se con metodi che l'altra parte del movimento avrebbe preferito non fossero mai stati impiegati e che si arrivasse prima del precipizio.

DE LUCA Athos. Che cosa ci può dire circa il CERPET?

PACE. Forse lei ha un ricordo confuso ma il CERPET, un centro studi normale di cui oltre a me facevano parte altri amici, laureati in statistica, sociologia, matematica e fisica, fu fatto prima: abbiamo effettuato ricerche vere, non inventate, tra cui anche alcune pubblicate. Nei locali del CERPET poi, visto che eravamo sempre gli stessi, abbiamo ospitato per ragioni di economia e risparmio, le riunioni della rivista "Metropoli". Non una lira del CERPET è andata a "Metropoli", salvo il fatto di mettere a disposizione una stanza per svolgere le riunioni, visto che eravamo sempre gli stessi (Maesano, Castellano, Virno, Piperno e qualcun altro). Non si è mai posto il problema di finanziare la rivista con i soldi del CERPET che invece servivano a mala pena a farci vivere professionalmente. Questo è stato ampiamente documentato. Mi sembra che i magistrati hanno chiuso questa parentesi avendo avuto risposte pienamente soddisfacenti alle domande che anche loro si erano poste.

BIELLI. Il collega De Luca le ha ricordato il CERPET; lei ha dato qualche risposta. Mi pare che Landolfi in un'audizione dice che dal punto di vista culturale e politico era un uomo di destra mentre voi avevate una cultura molto diversa.

PACE. Landolfi era un uomo di destra?

BIELLI. E' una affermazione di Landolfi e, nella stessa occasione, riferendosi a lei dice che, a differenza di altri, lei avrebbe votato per il PCI anche nel 1979. Le parole erano: facevano i furbi e poi alla fine votavano per il PCI.

PACE. Ho sempre votato così fino a quando mi sono recato alle urne. Ero comunista all'età di quattordici anni.

BIELLI. Non capisco per quale motivo rimproverasse tanto quella cultura prima se poi votava nello stesso senso. Quali erano, inoltre, i suoi rapporti con Landolfi?

PACE. Landolfi era un amico personale; lo avevo conosciuto prima del movimento del '77. Era amico di amici comuni. E' sempre stato molto incuriosito da ciò che dicevamo e che scrivevamo. Ci siamo incontrati con una certa regolarità, a cena ogni tanto; lui era autonomista, manciniano e socialista; mi sono un po’ stupito che dicesse di essere di destra. Comunque è vero che ho sempre votato comunista fino al ‘76; poi non ho più votato. Appartengo ai disillusi della sinistra italiana. Non ho l'ambizione né la presunzione di essere avanti o indietro; votai con la massa dei giovani italiani nel 1976. Il PCI arrivò quasi a superare la Democrazia cristiana; Berlinguer disse che era necessario fare il compromesso storico. Non si rese conto del carattere esplosivo di quella sua dichiarazione e ce ne rendemmo conto noi nel febbraio 1977 quando ci ritrovammo 10.000 giovani venuti da varie parti di Roma con le pistole sotto le giacche a vento che volevano fare la rivoluzione. L’Italia cambiò allora, cioè un anno e mezzo prima del sequestro Moro e le Brigate rosse non avrebbero effettuato tale sequestro se non ci fosse stato il ‘77. E’ bene che voi riflettiate su questa considerazione.

Per le Brigate rosse non esisteva solo il problema di regolare i conti con lo Stato e di cercare ingenuamente di liberare Curcio, Franceschini e il nucleo storico ma c’era anche l’ambizione di prendere la leadership di migliaia di giovani. Ricordo che nel 1977 anche le ragazzine di quindici anni nei cortei aprivano le loro file quando si passava davanti alle armerie per permettere ai ragazzi con i caschi, gli elmetti e i passamontagna di saccheggiarle e di prendere i fucili a pompa e le pistole; le ragazze poi richiudevano il corteo. Questo era il clima dell’Italia del ‘77. Ovviamente, di fronte a questo le Brigate rosse hanno pensato che alzando il tiro avrebbero preso la leadership di tutto e si sarebbero poste alla testa di un movimento sovversivo; infatti, pensavano veramente che la rivoluzione fosse dietro l’angolo e che dopo il sequestro Moro la reazione del movimento e, in generale, della classe operaia sarebbe stata di tipo insurrezionale. Questo è stato il grande strafalcione, la grande miopia, il chiasma ottico delle Brigate rosse.

PRESIDENTE. La grande illusione.

BIELLI. Con gli appoggi esterni che venivano loro offerti era più facile perseguire tale illusione; lei ha ricordato quel periodo e c’era un’aria intorno a loro che in qualche modo permetteva di coltivarla.

PRESIDENTE. E’ quello di cui ci ha parlato Maccari: in quegli anni la borghesia italiana cominciava a domandarsi cosa sarebbe successo se avesse vinto Moretti.

PACE. Ma non avevano capito che erano due violenze diverse; questo è l’errore di Curcio e di Moretti, comprensibile per Curcio perché era in carcere, ma Moretti non ha capito che la violenza del movimento era diversa dalla sua.

BIELLI. Le vorrei porre una domanda che nasce dalle audizioni svolte da questa Commissione. Noi siamo costretti a parlare spesso dei covi dei brigatisti, come quello in via Monte Nevoso o quello in via Gradoli, che tornano sempre nelle varie dichiarazioni. Lei questa sera ha dimostrato una grande conoscenza del fenomeno del terrorismo tanto che personalmente ritengo che lei possa essere un ottimo consulente della Commissione stragi; la sua conoscenza del fenomeno è infatti superiore a quella di altri che avrebbero voluto insegnarci qualcosa.

PACE. Altre mie consulenze non sono state molto felici.

BIELLI. Ad ogni modo, lei sicuramente conosce il fenomeno terroristico. Il covo di via Gradoli fa in qualche modo riferimento all’ingegner Ferrero, marito di Silvana Bozzi, il quale ha avuto modo di lamentarsi del fatto che lo chiamiamo continuamente in causa come colui che ha affittato l’appartamento. L’ingegner Ferrero ha fatto intendere di volere che l’area dell’Autonomia - con la quale egli afferma di essere stato in contatto - pronunci una specie di dichiarazione chiarificatrice con la quale si confermi che è stata quest’area a spingerlo a compiere tale operazione. Alla luce di questa premessa, lei conosce l’ingegner Ferrero e Silvana Bozzi?

PACE. No. Probabilmente se li dovessi incontrare li riconoscerei ma non riesco ad assegnare i nomi ai volti; si conoscevano molte persone all’epoca. Non vorrei però ritornare all’esame del singolo dettaglio perché sono passati molti anni. Inoltre, le Brigate rosse affittavano le cosiddette basi secondo una tecnica mutuata da tutti i movimenti di guerriglia: inizialmente pagavano anticipatamente mesi o anni di affitto, scegliendo appartamenti posti al primo piano per la facile via di fuga, ma quando fu disposto l’obbligo di iscrizione catastale scelsero la forma dell’acquisto con compromesso transitorio.

BIELLI. Non è questo il caso di via Gradoli.

PACE. Altro non saprei dire.

BIELLI. Lei quindi non conosce Silvana Bozzi.

PACE. No.

BIELLI. La Bozzi è una collega della Conforto e quando in questa Commissione si nomina la Conforto si innesca una serie di meccanismi che porta a Mosca. La mia domanda, comunque, aveva un significato riferito a questi personaggi.

Alcuni pentiti hanno espresso sul suo conto affermazioni alquanto pesanti e hanno teso a dire che dalla fine del 1977 all’inizio del 1978 lei in qualche modo ha fatto parte della colonna romana legata alle Brigate rosse. Ovviamente lei dirà che questo non corrisponde a verità. Aggiungo che il 3 aprile 1978, nel corso di una retata di autonomi - cui lei ha fatto riferimento dicendo che eravate circa duecento ma dai dati di cui dispongo si parla di circa quaranta unità - lei fu arrestato insieme agli altri. Successivamente a quell’arresto, non ci fu seguito alcuno nei suoi confronti né da parte della polizia né da parte della magistratura. Lei ha affermato che era una persona qualunque ma non mi sembra che fosse così. Io sto facendo solo una considerazione perché non sono tipo da esprimere giudizi e non mi permetterei mai di farlo. Infine, se quanto da me sostenuto fa parte di un quadro credibile, lei come ha potuto continuare ad incontrare Morucci anche successivamente a questo arresto? In una situazione in cui Morucci era ritenuto uomo pericoloso non riteneva lei stesso estremamente pericoloso il fatto di incontrarlo? Inoltre, lei questa sera ha dichiarato che si poteva girare tranquillamente per Roma perché il pedinamento era molto difficile. Come faceva ad essere sicuro di non essere pedinato, alla luce delle questioni da me citate che, se non sono veritiere, ovviamente decadono? Ad ogni modo, come ha fatto a ritenere che Roma potesse essere così agibile per lei tanto da non correre il rischio di essere pedinato?

PACE. Mi sembra che i fatti mi abbiano dato ragione. A meno che lei non ammetta che io stesso sia un uomo dei Servizi, i fatti mi hanno dato ragione.

BIELLI. In questa Commissione ho imparato a non fidarmi di nulla e di nessuno. Dal punto di vista personale posso anche ritenere che lei affermi cose giuste ma comunque ho imparato a non fidarmi perché ho sentito cose che mi hanno sorpreso.

PACE. Fa anche bene.

BIELLI. Prendo però atto di quello che lei dice.

PACE. Consideri che sono trascorsi ventitre anni e ci sono stati cinque processi. E’ inutile cercare l’araba fenice. Il 3 aprile io non fui arrestato ma fui solo fermato. Rimasi a San Vitale poi ci fecero trascorrere una notte a Regina Coeli e l’indomani ci scarcerarono. Questo fece parte di quel livello di intelligence di cui si parlava prima: la DIGOS prese i verbali dei facinorosi e mi inserirono tra questi. Ricordo che vennero a prendermi a casa; il mio cane aveva partorito dodici cuccioli che avevo chiuso in bagno e io dissi alla polizia di non aprire la porta di quella stanza. I poliziotti, allarmati perché convinti di avere trovato Moro, aprirono la porta del bagno e furono "assaliti" da dodici cuccioli di pastore tedesco. Eravamo a quei livelli.

Nel 1977 ci fu uno scontro praticamente quotidiano all’interno delle università tra le ali dure dell’Autonomia e coloro che sostenevano che la violenza poteva anche essere praticata ma che rompere le vetrine della Banca d’America e d’Italia a largo Argentina tutti i sabati tutto sommato faceva il gioco delle assicurazioni senza determinare effetti politici. Io ero tra i sostenitori di questa seconda linea e questo venne interpretato dalle Brigate rosse come un occhietto che io potevo rivolgere per una violenza più sofisticata, scientifica. Alla fine del 1977, nel settembre, dopo la pausa estiva, quindi alla fine del movimento, le Brigate rosse aprirono il reclutamento delle altre colonne o delle altre brigate rispetto a quelle che andava costruendo Moretti. Mi invitarono quindi ad una serie di riunioni che all’ordine del giorno ponevano la discussione sull’imperialismo, sul SIM, sugli Stati Uniti e sulla Democrazia cristiana, sul cuore dello stato. Io che sono sempre stato operaista ho detto loro quello che pensavo. Tra l’altro, erano quasi tutti ex compagni di Potere operaio, mi riferisco a Balzerani, Faranda, Seghetti ed altri, ai quali cercavo di spiegare come mai fossero passati dalle tre M, da Mann, Mahler e Musil al SIM (Stato imperialista delle multinazionali) e all’attacco al cuore dello Stato che notoriamente non ha cuore. Io dicevo loro: "guardate che il cuore non c’è". Si è svolta una serie di seminari, di incontri cui hanno partecipato dieci o quindici persone.

PRESIDENTE. L’unica cosa che c’era erano in effetti le multinazionali.

PACE. C’erano le multinazionali che con lo Stato nazionale avevano poco a che vedere. Alla fine di novembre, a conclusione di questi seminari "riservati", nel senso che non si svolgevano presso l’aula grande di lettere ma presso l’aula piccola nel sottosuolo, dissi che mi sembrava che ci fosse una discrepanza teorica e pratica abbastanza importante e che comunque non se ne faceva niente. Loro in qualche modo puntavano non tanto sul fatto che entrassi, in quanto più o meno intellettuale o qualcuno che interveniva in assemblea, ma solo di reclutarmi in quanto terrorista a tempo pieno. Questo significava fare il salto nella clandestinità.

PRESIDENTE. In quello stesso periodo reclutano Maccari, almeno per quanto c’è stato detto dallo stesso Maccari.

PACE. Maccari però, pur appartenendo probabilmente a quello stesso periodo, godeva di una considerazione particolare perché aveva un radicamento territoriale fortissimo. Era molto conosciuto nel suo quartiere ed era considerato come un grande proletario che aveva svolto varie lotte nel suo quartiere, qualità che io non possedevo essendo notoriamente un "debosciato".

BIELLI. Lei partecipava a questi seminari, a questi incontri. Si trattava quindi in qualche modo di un’attività politica e con un minimo di osservazione sarebbe stato possibile identificarla tra coloro che rispetto ad una certa cultura politica si schieravano in un certo modo. Con riferimento alle vicende che lei ha ricordato prima nell’incontrare il Morucci lei ha pensato di non essere pedinato. Come è possibile che lei non avesse questa preoccupazione?

PACE. La preoccupazione non dovevo averla io, ma eventualmente coloro che mi incontravano. All’epoca essere "fermati", come si diceva allora, e trattenuti per quarantott’ore era quasi una norma. Ci fermarono in diciotto del consiglio nazionale di Potere operaio per una ruota di scorta che due persone stavano rubando a piazza Farnese accanto a noi. Erano cose che succedevano per cui non c’era niente di scandaloso. Semmai sarebbe stato in qualche modo preoccupante se avessero avuto delle cose specifiche su di me, ma siccome su di me non esisteva nulla di specifico; il problema era di chi mi incontrava che evidentemente cercava delle opportune garanzie, non perché ero stato fermato ma perché ero più o meno conosciuto come estremista. Si riteneva quindi che fosse opportuno prendere le opportune precauzioni. Continuo a ripetere, e se volete possiamo ripercorrere il tragitto insieme, che vi posso dimostrare come si fa a non farsi pedinare a Roma. E’ molto faticoso e bisogna partire due ore prima dell’appuntamento previsto, però ci sono dei percorsi urbani per coloro che conoscono bene il territorio di Roma – e questi lo conoscevano bene perché vi ricordo per esempio che da via Fani a via Montalcini in fondo alla Portuense riuscirono ad attraversare mezza Roma in meno di un quarto d’ora senza "beccare" neanche un semaforo rosso. Tutto il percorso era studiato per non trovare semafori rossi. Ci vuole un minimo di conoscenza della metropoli, cosa che costituisce la base di vita per colui che vi vive in modo illegale. Mi sembra quasi di dire una cosa banale.

Quando poi avvenne la scissione con il Morucci, una scissione in realtà molto modesta, ma comunque tale che se ne andarono dalle BR con armi e bagagli, lì ebbi modo di incontrare gli altri, quelli che il Presidente chiama i "signori della guerra", che avevano una velleità da tribunale popolare. Mi vennero a dire che se i fuggiaschi non fossero tornati con le armi o comunque non riconsegnavano armi e soldi li avrebbero giustiziati per alto tradimento. Per ragioni di amicizia e, in qualche modo, di dovere nei confronti di due compagni che si erano comunque battuti e avevano perso all’interno dell’organizzazione, dissi a Moretti che lui non era in grado di giustiziare nessuno. Ammisi con lui che Morucci aveva fatto una leggerezza portando via le armi e che quella era una pratica da clan mafioso. Il fatto di portare dei mitra e poi di riprenderli mi sembrava una pratica mafiosa. Feci in modo che Morucci riconsegnasse una parte delle armi e la vicenda finì così. Incontrai poi altre volte Moretti e Gallinari e parlando sempre degli esiti del sequestro Moro spiegai loro che avevano fatto un grave errore e che la faccenda rappresentava un aggravamento della situazione per tutti e che la conflittualità sociale ne avrebbe subito un colpo.

PRESIDENTE. Anche dopo l’ottobre del 1978 riesce a focalizzare la situazione?

PACE. Certamente.

BIELLI. Molti dei terroristi fuoriusciti dall’Italia sono andati in Francia, che a quanto pare è un Paese molto ospitale. Chi va in Francia con difficoltà rientra in Italia per espiare delle colpe, se ne ha commesse. In Francia, quando pensiamo al fenomeno dei terroristi, c’è qualcosa di più corposo; si è parlato di una colonna esterna alle Brigate rosse che sembra fosse organizzata in Francia. Qualcuno ha affermato che lei potrebbe essere stato se non a capo almeno un personaggio di primo piano, nel senso che in questa colonna esterna alle Brigate rosse lei avrebbe giocato un ruolo non secondario. Si parla spesso di questa scuola di lingue in Francia, l’Hyperion; ci sa dire qual è la sua opinione su questa scuola di lingue, cosa ne pensa e se era a conoscenza del fatto che esistesse una sezione anche in Italia e se lei abbia avuto dei rapporti con la sezione italiana dell’Hyperion.

PACE. No. So che l’Hyperion era stata evocata a più riprese perchè uno dei fondatori di questa scuola era uno dei vecchi amici di Curcio e probabilmente della prima ondata del collettivo politico metropolitano, la sinistra marxista-leninista di Milano, che mi pare si chiami Corrado Simioni o un nome simile. Il fatto che questa persona sia andata via dall’Italia e abbia fondato un liceo linguistico, non vuol dire che lui rappresenti la vera colonna mentre quelli che sono rimasti sono finti. E’ esattamente il contrario. Quelli che sono rimasti e hanno continuato a battersi sono diventati in qualche modo i veri brigatisti mentre lui è un signore che ha organizzato questo liceo linguistico. Si è ritrovato più volte immischiato in inchieste di parte italiana, con domande di rogatoria e altro fino al momento in cui c’è stato un grande movimento di opinione guidato dal famoso Abbé Pierre che ha chiesto di lasciare in pace Simioni e l’Hyperion perché non se ne poteva più. A quel punto la vicenda si è conclusa. Quanto ai terroristi che sono venuti, sono stati valanghe, ma il mio ruolo, dal 1981 è stato anzitutto volto ad assicurarci le spalle. Facemmo in modo di accreditare presso il Ministero dell’interno francese tutti i fuoriusciti italiani che intendevano vivere tranquillamente e legalmente in Francia e rifarsi una vita. Tenga presente che per molti andare in Francia e tornare in Italia era il sogno, usare cioè la Francia come base logistica per continuare ad operare in Italia. Non le dico cosa è stato: con altri rifugiati, in particolare Antonio Bellavita, una delle vittime della prima ondata (scappato nel 1976), che si era ricostruito una vita in Francia, che non aveva commesso alcun crimine di sangue, ma solo reati associativi, fondammo l’associazione dei rifugiati italiani, insieme a giuristi e avvocati, perciò tutti quelli che man mano arrivavano e che volevano rifarsi una vita fornivano il loro nominativo al Ministero dell’interno che li iscriveva in questa lista. Era l’unico nostro viatico, perché non si poteva avere il passaporto dell’associazione dei rifugiati perché occorreva provenire da un paese del Sudamerica o dell’Est. L’Italia era un paese democratico, la Francia lo riconosceva come tale ma, al tempo stesso, non voleva estradare i rifugiati. Innanzi tutto la convenzione bilaterale (mi pare del 1825) esclude l’estradizione per ogni reato anche grave, anche di sangue, commesso per un fine politico, in particolare riguarda i reati degli anarchici, dei socialisti e dei comunisti, quindi per tutto ciò che è associazione sovversiva, banda armata, insurrezione armata contro lo Stato, omicidio politico e così via l’estradizione non è possibile. Anche persone condannate all’ergastolo con sentenza definitiva non sono state estradate in Italia: questo vorrà pur dire qualcosa, è uno spunto di riflessione. Apro e chiudo subito una parentesi: non c’è stato alcun paese al mondo che abbia estradato rifugiati o fuoriusciti italiani, di destra e di sinistra, riconsegnandoli alla magistratura italiana. Vale per il Canada, per la Grecia, per l’Inghilterra, per il Giappone…

PRESIDENTE. Il Nicaragua.

PACE. Parlo di paesi relativamente democratici. Quindi ci sarà anche un problema.

PRESIDENTE. Lei dà dell’Hyperion una lettura esattamente opposta a quella che ci ha fornito Franceschini. Lei afferma che l’Hyperion era quello che sembrava, invece Franceschini ne ha parlato come di una tecno-struttura, possibile momento di incrocio tra terrorismi di opposto colore.

PACE. Ci vogliono fatti. Non sono mai stato all’Hyperion, il francese lo conoscevo. Se mi dice dei fatti… Non possiamo continuare a dare giudizi… Mi sembrava una cosa di basso profilo, un piccolo posto dove andavano pochi studenti.

PRESIDENTE. Ritengo sia lei che Franceschini due fonti informate, persone che hanno conosciuto Simioni, che hanno conosciuto quel mondo, che hanno avuto una serie di relazioni, registro che rispetto a questa realtà le valutazioni sono opposte.

PACE. Quello che potrei sottoscrivere è un giudizio un po’ diverso: Hyperion come luogo di contatto tra organizzazioni del terzo mondo legate quantomeno ad una parte della sinistra socialista francese, protette per un periodo anche da consiglieri del Primo ministro o del Presidente della Repubblica, ma non certo come crocevia di organizzazioni terroristiche. Tenga presente che i francesi sono estremamente vigilanti. Quando tra i rifugiati italiani ci fu lo scontro sulla necessità di lasciar perdere azioni violente, ci fu una specie di rissa continua ma soltanto in quattro continuarono a fare azioni violente: tre furono arrestati e uno ucciso dalla polizia francese. Ricordo che il dibattito era questo: se siamo in Francia oggi, se siamo scappati ci sarà anche una ragione e vale la pena di riflettere sui motivi di questa sconfitta anziché continuare a dire che l’imperialismo è una lotta senza quartiere, tra l’altro la Francia ci accoglie sul suo territorio facendoci vivere una seconda vita, consentendoci di sposarci e fare figli, perciò meglio rispettare la legge come Lenin in Svizzera. Per far passare questo ci sono voluti due anni, non è stato facile.

BIELLI. Mi pare che, anche nell’interrogatorio del 28 aprile 1980 davanti al giudice istruttore Amato, lei ha parlato di un aiuto fornito a Morucci e Faranda, affermando di aver procurato loro un altro alloggio presso una persona che ha detto in quella deposizione di non voler nominare, ma che comunque è estranea a qualsiasi area politica. Molte volte lei questa sera ha precisato che sono trascorsi ventitre anni, i suoi ricordi sono molto significativi, non ci sono molti buchi, ma qualcosa deve essere visto in un’ottica diversa. Proprio perché sono trascorsi tutti questi anni le chiedo quel nome, in seduta segreta. Capirà che, come Commissione stragi, possiamo commettere anche degli errori nel senso che a volte perseguiamo cosiddette piste che non hanno ragione. Questo perché, spesso, quando emerge qualcosa di significativo troviamo un ostacolo, un muro di fronte al quale qualcuno dice che sono passati ventitre anni e non si può dire, oppure di non dirlo per scelta politica. Se sono trascorsi tutti questi anni non è possibile cominciare a riscrivere la storia d’Italia in maniera diversa, fare una scelta diversa, che va oltre il presente?

PACE. Il suo intento è lodevole, ma perché cominciare proprio da questo?

BIELLI. Le assicuro che ho provato anche con altri, ne può essere certo.

PACE. Non le dirò mai il nome per una ragione semplice. Morucci e Faranda vennero da me una notte, me li ritrovai alle 4,30 di mattina sotto casa, stravolti perché avevano fatto il percorso Roma-Reggio Calabria più volte. Lei sa come avvenne la storia: Moretti disse loro di andare nella casa che avevano in montagna non so dove, Abruzzo o Molise, per riflettere e fare autocritica. Morucci e Faranda non andarono, pensando che si sarebbero fatti ammazzare dalla maggioranza dell’organizzazione, scrissero nella casa in cui stavano "No al confino di polizia", quindi vissero questa vicenda come un’azione punitiva, presero soldi e armi e se ne andarono. All’inizio del sequestro Moro Morucci era ricercato solo per renitenza alla leva e ciò fino a buona parte del 1978; le accuse scattarono dopo. Non sapendo dove andare, si recarono alla stazione, presero un treno per Reggio Calabria e percorsero la tratta Roma-Reggio Calabria e viceversa per tre volte. Alla fine vennero sotto casa mia, alle 4,30 di mattina, uno appostato sotto gli archi di via Giulia, dietro l’istituto Gramsci, l’altro che si avvicinava, e ho dovuto trovare una situazione di emergenza estrema perché non potevo dire loro di scappare…

BIELLI. Lei consentirà anche la mia richiesta, non si tratta di curiosità.

PACE. Le spiego perché non ho mai fatto quel nome e mai lo farò: feci un’azione scorretta, a questa persona, che era un mio amico, che non ha mai fatto politica e appartiene a un altro mondo, è una persona estremamente timida e riservata; non dissi la verità, il rischio a cui andava incontro, proprio perché era una situazione disperata. Quindi, la seppe l’indomani perché parlò con i suoi ospiti e rimase di sasso. Mi disse che ero un pazzo. Gli chiesi umilmente scusa e li portai via. Da allora è cominciato un lavoro di affitta-camere che mi sono dovuto sobbarcare perché nessun altro lo voleva fare. Arrivai in questo modo alla Conforto. Feci il giro dei miei amici e un po’ li sistemai. Chiesi dopo un po’ a Franco Piperno di aiutarmi e lui mi suggerì la Conforto, che era una sua amica laureata in fisica. Ovviamente avevo una libertà di azione relativamente limitata, nel senso che non potevo dire nomi e cognomi delle persone perché queste non mi autorizzavano. Non potevo dirle che le portavo Morucci e Faranda, perché mi avrebbero risposto negativamente. Però dissi a tutti la verità, ossia che si trattava di due compagni ricercati molto pesanti e ciò, nel nostro gergo, vuol dire che si tratta di persone che hanno crimini di sangue o comunque fatti gravi sulle spalle.

Dissi questo alla Conforto, ma sto parlando dell’inizio del mese di novembre del 1978. I patti erano che lei li avrebbe tenuti per quindici giorni. Morucci e Faranda sono stati arrestati a casa della Conforto sei mesi dopo. E’ successo evidentemente che nacque fra di loro una relazione tale di amicizia e di fiducia per cui loro stessi chiesero autonomamente alla Conforto, cinque mesi dopo, di ospitarli nuovamente. Quindi si trattò di una loro iniziativa. Io li portai dalla Conforto nel mese di novembre – non ricordo con precisione le date, ma si trattava dell’autunno – e quello fu uno dei primi rifugi che trovai loro. Dopo di che ho saputo che erano tornati dalla Conforto. Ricordo anche che litigammo, perché dissi loro – anche Piperno glielo disse – che, se volevano, potevamo aiutarli a farli fuggire in Somalia o dovunque, ma a condizione che lasciassero non solo le armi ma ogni velleità di rifare in Italia organizzazioni armate. Tuttavia, poiché questi continuavano a trafficare, dopo aver lasciato le Brigate rosse, con le frange marginali armate dell’autonomia, la cosa ci sembrava insostenibile. Quindi, non faccio quel nome perché veramente è stata una tragedia anche personale.

PRESIDENTE. Capisco le ragioni in base alle quali lei non ci fa il nome. D’altra parte, il prefetto Andreassi non ci ha detto nemmeno attraverso quale fortunata combinazione la polizia riesce ad arrivare a Morucci e Faranda. Vorrei sapere se, in tutto il periodo della caduta del covo di via Monte Nevoso, le parlavano della decapitazione di mezzo vertice delle Brigate rosse.

PACE. Devo dire che sembrava a tutti la cronaca di una morte annunciata. Ci si aspettava che la testa dell’organizzazione cadesse, perché non poteva resistere ancora tanti anni in clandestinità. Ci sembrava che dal 1979 in poi, grazie in parte anche all’azione dei magistrati di Padova, al fatto che avessero tolto molta acqua nel vaso in cui nuotavano i pesci, lo Stato avesse ripreso il sopravvento. Si trattava soltanto di una questione di tempo.

PRESIDENTE. Soprattutto con i poteri straordinari che erano stati dati a Dalla Chiesa nei primi giorni di settembre.

PACE. Ho detto prima che la legge dei pentiti, che considero…

PRESIDENTE. Per quanto riguarda il ritrovamento delle carte?

PACE. Penso che sia andata in questo modo. Lei si metterà a ridere, ma penso che veramente… Lei si riferisce alla seconda?

PRESIDENTE. No, mi riferisco al ritrovamento delle copie delle carte di Moro.

PACE. Secondo me, le Brigate rosse non hanno mai dato importanza al verbale di Moro. Continuo a pensare che non esiste un secondo verbale, che non è stato purgato, che non ci sono parti compromettenti. Probabilmente su questo pecco io di ingenuità, perché poi ad un certo punto nei gialli troppo complicati si lascia perdere. La mia impressione è che le Brigate rosse in qualche modo avevano bisogno solo di una specie di ultimo conforto per…

PRESIDENTE. Recentemente abbiamo saputo che le carte di Moro erano state dattiloscritte e distribuite all’interno dell’organizzazione per fare una specie di dibattito politico sul senso complessivo del sequestro e sulla sua gestione. Gli originali sono stati distrutti e una copia di queste carte è stata trovata nel covo di via Monte Nevoso. Quello che è singolare è che si è attivata una nostra riflessione su dove sono finite le altre copie oltre che gli originali e sul motivo in base al quale in tante irruzioni nei covi, nelle perquisizioni e via dicendo, non un solo foglio delle copie sia stato trovato. Ho chiesto informazioni alla procura di Roma, che è impegnata nel Moro-sexties, per sapere se risultava che da qualche altra parte si fosse trovata almeno una sola fotocopia di un foglio di quelle copie; ho ricevuto la risposta che la Procura ha chiesto informazioni ai ROS e alla polizia per sapere se si è trovata qualche altra fotocopia. Tutto questo, a voler essere minimalista, lascerebbe supporre un ordine partito dal restante vertice delle Brigate rosse, o da tutte loro, di distruggere tutte le copie e di non lasciarne in giro nemmeno una. Altrimenti, i carabinieri le hanno fatte sparire dove sono arrivati.

PACE. Se le hanno lasciate a via Monte Nevoso, non capisco… Se dalle carte di via Monte Nevoso non si evince nulla…

PRESIDENTE. E’ una singolarità.

PACE. Probabilmente le discussioni si svolgevano per colonna e non erano rimaste tante colonne. E’ probabile che ci fosse un’altra fotocopia, forse due al massimo e che le hanno distrutte, altrimenti nei cosiddetti covi si troverebbero archivi pieni di documenti. Spesso si tratta di spiegazioni banali.

PRESIDENTE. Con molta pazienza siamo anche riusciti a rintracciare la trascrizione di una famosa intervista fatta da Bellavita all’uomo che aveva parlato per primo con il tassista Rolandi, che era una delle vecchie insistenze dell’onorevole Fragalà.

MANTICA. Devo dire con tutta onestà che, pur essendo di parte antagonista alla sua, ho ritrovato che molte delle cose da lei dette, dottor Pace, descrivono abbastanza bene un mondo che ha attraversato – per così dire - gli anni Settanta. Per quanto riguarda il rapporto con la DIGOS, i pedinamenti e via dicendo, sono molto d’accordo quando lei afferma che sostanzialmente esisteva soprattutto una preoccupazione per ciò che avveniva nelle piazze o per le turbative dell’ordine pubblico che non per quello che accadeva all’interno di sedi, di covi o di associazioni. Tuttavia, ho sempre avuto un dubbio e devo dire che anche l’episodio recente ricordato dal presidente Pellegrino, che è molto meno simpatico di come lo ha raccontato…

PRESIDENTE. Quale episodio?

MANTICA. Lo racconto perché è giusto che lo conoscano anche i colleghi. Ad un certo punto la Commissione stragi ha chiesto a Catanzaro e a Torino se esistono dei documenti, dei nastri, dei verbali. Riceve ufficialmente la risposta che non è vero e che non ci sono più. In una risposta ci viene detto che, durante un trasferimento degli archivi dei carabinieri, poiché c’era molta carta, alla domanda che cosa poteva essere distrutto – banalizzo, ma questa è la sostanza – fu risposto di distruggere quello che si voleva, perché non importava niente a nessuno. Ho presentato un’interrogazione per chiedere al Ministro dell’interno e al Ministero della giustizia il nome di quel capitano dei carabinieri e per sapere in base a quale criterio ha deciso di distruggere i documenti trovati in una base delle Brigate rosse ed è successo un putiferio. Si è scoperto così che i documenti non sono mai stati distrutti, che si trovano nell’archivio dei ROS e che lo sapeva la procura di Torino. Ho saputo in questi giorni che anche la procura di Catanzaro ha trovato i documenti e che si è ricordata di averli ricevuti. Quindi, nutro qualche dubbio sul funzionamento degli apparati dello Stato.

PACE. Le copie di via Monte Nevoso?

MANTICA. No, le copie dei documenti trovati a Robbiano di Mediglia, nei quali forse non c’è nulla, ma probabilmente si trattava di documentazioni raccolte dalle Brigate rosse anche attraverso Controinformazione, quindi Bellavita. Ci sono delle versioni delle Brigate rosse su piazza Fontana e su altre questioni. Può darsi che siano importanti o meno, ma questo ancora non lo sappiamo. La certezza è che una base documentale finisce nei meandri degli apparati dello Stato e alla fine – guarda caso – si trova nell’archivio dei carabinieri e non da un’altra parte.

Lei sa che la Commissione ha il compito di trovare le ragioni sostanzialmente politiche del perché non si è arrivati a individuare i responsabili di stragi e delitti. D’altra parte occorre avere molta accortezza anche rispetto al presente. Sembra infatti, o sembrava fino a poco tempo fa, che alcuni fenomeni fossero finiti, ma poi c’è stata l’uccisione del professor D’Antona. Io ho la convinzione che vi sia uno strano modo dello Stato italiano di gestire i rapporti con frange antogoniste o, comunque, con alcune realtà politiche di destra e di sinistra che non accettano le regole del gioco. Mi riferisco al fatto di pensare che, ai fini della gestione del potere, queste aree possano più o meno essere usate e, in questo senso, l’attività di intelligence viene svolta con fotografie "polaroid", poi si scende nel dettaglio e, se conviene si opera, altrimenti non si opera, in qualche caso si lasciano sviluppare alcuni fenomeni, in altri casi si facilitano. Vi è cioè da sempre questo criterio di usare aree antagoniste ai fini della gestione del potere. Tanto è vero che, quando si vuole, certi fenomeni si colpiscono, alcune vicende si chiudono, si usano persone come Dalla Chiesa o i ROS o il capitano Giraudo o altri personaggi. Comunque, nel momento in cui si decide di realizzare un obiettivo, giusto o sbagliato, con leggi di emergenza o speciali, lo si raggiunge. Non è vero che l’apparato di intelligence è inefficiente o incapace, lo è nella misura in cui non c’è una volontà precisa per fare in modo che la difesa dello Stato sia sempre assicurata. I miei colleghi erano stupiti del fatto che prima ridevo, ma pensavo al fermo di polizia del professor Pace. Io, dal 1958 al 1965 non ho saputo cosa fossero gli ultimi giorni di aprile, perché venivo fermato sempre il 23 aprile, tanto che chiedevo quante sigarette dovevo prendere per avere un’idea se sarebbe stato un fermo di 48 o 96 ore. Il 23 aprile arrivava il maresciallo della DIGOS, che era diventato un amico di famiglia al quale chiedevo appunto quante sigarette dovevo portare con me.

Lei è, non dico ancora parte di quel mondo, ma un attento lettore e conoscitore. Voglio chiederle se secondo lei questo vizio dello Stato c’è ancora. Cioè, si arriva al covo di Milano perché le BR stanno facendo una rapina e poi si scopre che i telefoni cellulari erano sotto controllo da circa sette mesi. Allora si colpisce solo quando fa comodo? Solo perché hanno compiuto una rapina? Si dice che forse non hanno nulla a che fare con la rapina di via Lombroso dove vi erano tre ex di Prima linea. Secondo lei, questa conduzione del rapporto con le aree antagoniste all’interno del sistema politico permane ancora? Si tratta di aree che possono diventare potenzialmente pericolose e che lo Stato si riserva di colpire? E’ un problema che ci interessa perché sull’omicidio D’Antona alcune dichiarazioni del prefetto Andreassi ci hanno lasciato abbastanza perplessi. Anche in questo caso brutalizzo per dire che ci è stato fatto capire che forse si sa chi sono gli assassini, ma che non si interviene perché bisogna trovare i mandanti.

PRESIDENTE. Non si capisce dove finisce la logica di lasciare le briglie sul collo per dare un colpo definitivo e dove la tolleranza nasconde fini diversi.

MANTICA. Seconda domanda. Il 21 gennaio Piperno, in una intervista a "La Stampa" oltre a parlare dei rapporti con Craxi e Signorile, dichiara che vi furono incontri (non so se solo di Piperno o anche suoi) con esponenti del Partito comunista italiano con i quali vi erano rapporti da tempo. Anche lei ha avuto questi rapporti? Può dire eventualmente i nomi di questi dirigenti?

Un’altra questione. Lei ha molto parlato di acqua e di pesci. Credo abbia descritto abbastanza bene questo tipo di mondo in cui si incrociano e passano i tipi più strani e impensabili, dai rivoluzionari seri a chi la rivoluzione la fa nei salotti che poi diventa anche più pericoloso. Però, ci sono episodi che riguardano anche la sua vicenda che potrebbero interessarci. Vorremmo capire se l’intreccio complicato e complesso intorno alle BR rendeva anche queste ultime permeabili alle strumentalizzazioni. Lei ha detto che "Metropoli" non ricevette finanziamenti. E’ vero che Stefano De Stefani, presidente delegato della Skoda Italia, finanziò nel 1979 "Metropoli" con 70 milioni? Stefano De Stefani è anche cognato di Feltrinelli e aveva rapporti e legami politici con Feltrinelli, era al crocevia di molti movimenti di liberazione africani, ha vissuto molto tempo in Angola.

PACE. "Metropoli" era la sommatoria di più componenti: c’erano i romani, i milanesi che avevano loro contatti e può darsi abbiano raccolto fondi da questo De Stefani. La fonte principale era costituita da lavori illegali, da forme di autofinanziamento attraverso piccole rapine che si facevano in questa specie di autonomia diffusa, di illegalità presente nel nord, perché a Roma non era così. Ciò in parte è stato acclarato anche dai magistrati. Ci sono poi state anche vendite importanti con cui abbiamo ottenuto finanziamenti, siamo arrivati a vendere 30.000 copie. Però la parte essenziale del finanziamento proveniva da piccole rapine e furti ad opera di centinaia di compagni.

MANTICA. Avete avuto rapporti con Azione Rivoluzionaria di Gianfranco Faina?

PACE. Personalmente no, però Faina ha fatto parte di quell’area di Autonomia o anarco-sindacalista con cui alcuni compagni di Milano avevano contatti. Noi di Roma non li avevamo. Io ho lavorato nel cosiddetto progetto "Metropoli" alla costruzione della rivista insieme a degli art director professionisti i cui nomi sono già stati fatti in sede giudiziaria; tra l’altro, c’era il grande Pasquale Prunas, oggi deceduto, che era l’art director de "Il Messaggero", il quale disegnò il logo. Era cioè la prima rivista fatta con ambizioni professionali o professionistiche nell’area del movimento e ciò evidentemente ci dava molta soddisfazione. Poi c’era qualche giornalista professionista che ci aiutava. Abbiamo fatto un giornale un po’ meno noioso di quelle pagine di piombo classiche che si facevano all’epoca.

Io penso che ci sia stato uno scarto sistematico tra il livello del conflitto e il livello dello Stato. E’ lo stesso fenomeno che individuava Pasolini nel 1968 e che lo faceva simpatizzare con i poveri poliziotti vestiti di pannolenci. Ovviamente io stavo con gli studenti, però capisco quello che voleva dire Pasolini. Lui coglieva uno stato di arretratezza e di povertà delle forze dell’ordine rispetto ad una logica conflittuale che ormai in qualche modo le aveva scavalcate. Penso che questo scarto si sia mantenuto fino ad oggi e che sia a tutt’oggi valido. Non nel senso che ci sono dei conflitti più forti dello Stato, non penso questo; penso però che lo Stato a tutt’oggi non abbia acquisito mezzi di intelligence, di investigazione e di risoluzione dell’ordine pubblico e delle vicende criminali degni di un paese moderno. Cito come esempio la circostanza che non esiste un caso di cronaca nera risolto dalle forze di polizia in cui non vi sia stata la figura del pentito. Cioè, la legge sui pentiti ha avuto un effetto dirompente sull’esplosione della bolla terrorista, però, al tempo stesso, ha abituato magistrati e poliziotti a trovarsi il piatto servito. Come mai molti fatti di cronaca nera gravi, ed importanti, con omicidi e delitti, rimangono insoluti e poi, appena c’è il pentito, questi vengono risolti? Ciò vuol dire che c’è comunque un’arretratezza generale delle forze dell’ordine rispetto al livello di controllo necessario. Non dico, ed anzi lo escludo, che ci possano essere ripetizioni di fenomeni quali quelli del terrorismo degli anni ‘60. Come lei sa, purtroppo, è possibile che tre persone si mettano insieme, decidano di uccidere una quarta persona e ci riescano tranquillamente. Però l’omicidio D’Antona non è il segno di un fenomeno che rinasce, è l’impronta di un fatto possibile che purtroppo è accaduto. Ma non credo proprio ci sia un altro fenomeno terroristico, penso invece all’esistenza di forme conflittuali legate alla marginalità urbana, ai centri sociali, su cui i giovani stanno già mostrando un’intelligenza ed un uso delle tecnologie più sviluppate rispetto alle forze dell’ordine. L’ultimo corteo del Leoncavallo e dei centri sociali, con i copertoni, le maschere chimiche, i telefonini e le radio trasmittenti mi sembra più sofisticato delle cose che si facevano nel 1977 e la polizia mi sembra ancora inadeguata; questo è un semplice giudizio da osservatore. Se non intervengono e non perseguono è per mancanza di volontà politica, penso che questo sia acclarato. Spesso c’è proprio un’insipienza tecnica che io ritrovo tranquillamente negli anni, avendo tra l’altro visto da vicino il funzionamento del sistema francese. Quest’ultimo è a volte più burocratico, però funziona molto di più sulle soffiate e sulle spie: i pentiti li gestiscono i poliziotti direttamente; non hanno fatto una legge e quindi, come ovunque nei paesi civili, il pentito collabora e finisce lì. Inoltre, la polizia ha una capacità di intervento estremamente maggiore, ovviamente anche legata al fatto che la Francia ha avuto bisogno dei Servizi della sua storia, mentre in Italia i servizi segreti sono serviti essenzialmente a fini di lotta politica interna, sono stati piegati da una parte e dall’altra; salvo alcune rare aperture verso il mondo arabo non mi sembrano una potenza agente sullo scacchiere internazionale. Quindi sono stati ripiegati all’interno, da qui fenomeni di deriva, di corruzione o di depistaggio; mentre in altri paesi sono stati effettivamente importanti, hanno fatto delle azioni politico-militari al servizio dello Stato e dei vari Governi e quindi hanno una storia che qui non c’è.

MANTICA. Posso seguire la sua logica, però il fatto che ancor oggi i Servizi o le strutture di sicurezza non dispongano di tecnologie e sistemi di efficienza adeguati credo sia un commento quasi generale: credo lo sappia anche il Ministro dell’interno. Non sarà mancanza di volontà politica, però il fatto che non si provveda in maniera adeguata fa pensare che qualche motivo evidentemente esiste. Faccio un esempio che non riguarda il terrorismo. Per comprare un blindato alla Guardia di finanza al fine di combattere il fenomeno dei contrabbandieri in Puglia ancora oggi occorrono mesi, bisogna fare la gara di appalto eccetera; non è mancanza di volontà politica ma certamente è uno strano modo di intendere la sicurezza dello Stato o quantomeno di garantire la sicurezza dei cittadini sul territorio dello Stato.

PACE. Mi fa piacere che lei lo dica, ma mi sembra un problema che riguarda più voi che me. Le posso rispondere con una frase fatta, come dice il Presidente: io ho sempre l’impressione che in Italia sia difficilissimo fare le riforme. Cioè, la minima riforma costa lacrime e sangue. Mi ricordo una bella frase della Rossanda che, riguardo al movimento della "Pantera", che sarebbero stati i nostri fratelli minori che stavano manifestando per la riforma dell’università e dei licei, disse: "Poveri ragazzi, non sanno che forse è più facile fare una rivoluzione che ottenere la riforma dell’università e dei licei". Siamo a questo punto. Quanto lei dice è solo lo specchio ultimo delle difficoltà di questo nostro paese.

MANTICA. Lei ha mai conosciuto Casimirri?

PACE. No, era di Potere operaio ma non l’ho mai conosciuto.

MANTICA. Le chiedo questo perché quel famoso 3 aprile del 1978 in cui lei fu fermato fu anche perquisita la casa di Casimirri.

SARACENI. Vorrei tornare con una domanda di dettaglio su un argomento che è stato molto approfondito, sul quale forse è meglio non lasciare ombre, se possibile. Mi riferisco alla questione dei pedinamenti. Da una parte lei ha dato una, a mio avviso, convincente spiegazione delle faticosissime cautele che venivano assunte in occasione degli incontri, dall’altra, però, se ho capito bene, lei ha affermato che gli incontri sono avvenuti anche in un bar del centro. Ciò apparentemente crea una contraddizione. Cioè da un lato c’è un grande atteggiamento di cautela e di consapevolezza del rischio di pedinamento, dall’altro, c’è un incontro ad un bar del centro. Vorrei che lei ci desse una spiegazione di questa circostanza che a me sembra apparentemente una contraddizione.

PACE. Ha ragione onorevole Saraceni, c’è una contraddizione, ma questa è dovuta al fatto che le Brigate rosse si mossero in modo ovviamente diverso durante e dopo il sequestro Moro. Cioè, la loro preoccupazione maggiore durante il sequestro Moro era, evidentemente, di evitare ogni forma di contatto esterno, tant’è che i carcerieri di Moro erano praticamente segregati con lui 24 ore su 24. C’era quindi un’attenzione quasi ossessiva ai problemi della sicurezza durante il sequestro. E’ ovvio che dopo si sono un po’ allentate le redini, però aggiungo che quando incontrai Moretti e Gallinari il quartiere in cui l’incontro avvenne, non dico che era controllato, ma ad ogni incrocio c’era un brigatista più o meno pronto ad intervenire e si vedeva ad occhio nudo; anche quelli si vedevano come si sarebbero visti i poliziotti.

SARACENI. Cioè in funzione di tutela dell’incontro?

PACE. Sì, con metodi penso mutuati poi dai tupamaros, che poi in realtà sono quelli usati da decenni dalla mafia.

SARACENI. Da un lato, quindi, c’era questo atteggiamento di estrema cautela, ma dall’altro, se capisco bene, anche una sorta di atteggiamento di sfida. Perché incontrarsi in un bar del centro?

PACE. Probabilmente, come sempre, una persona in regola può passare tranquilla attraverso una perquisizione, un controllo di polizia. E' risaputo da tutti i servizi, tanto che quando cercano i terroristi non lo fanno certo in base ai documenti. Lui quindi si sentiva a suo agio nella città che conosceva e comunque era scortato e protetto da un certo numero di suoi compagni e l'incontro è avvenuto nel centro. La mia impressione è che l'organizzazione avesse raggiunto il limite di rottura dal punto di vista strutturale: a pensarci bene, tenere un prigioniero di quel calibro, di quella importanza politica per cinquantacinque giorni per una organizzazione armata è un peso notevole, ragionando ovviamente in schemi puramente militari. Per loro persino andare a mettere un volantino presso una cabina telefonica costituiva un rischio.

SARACENI. Ciò non impedì però ulteriori e ripetute azioni armate nonché assassini dolorosissimi successivi che durarono fino ai primi anni ‘80. Lei ha detto che l'azione che ha mosso sia lei che altri a prendere delle iniziative nasceva dalla consapevolezza, contemporanea al manifestarsi del fenomeno, del carattere distruttivo delle BR rispetto al movimento. Vorrei ricevere una conferma del fatto che questa consapevolezza non è un'acquisizione postuma ma contemporanea all'accadimento dei fatti; quei fatti cioè avrebbero distrutto una certa sinistra.

Ho un ricordo un po’ diverso di un contesto che esigerebbe almeno un chiarimento, un approfondimento: la parte garantista della sinistra ma antiterrorista, quella parte della sinistra cioè che diceva di non accettare magari i metodi vissuti come violazione delle garanzie individuali nell'area dell'autonomia, delle università - ricordo le assemblee - non era ben vista; proprio quella sinistra che faceva questa analisi secondo la quale pensava che le BR, il partito armato, distruggeva la sinistra, era considerata un nemico quasi alla stregua della scelta statalista del PCI. All'interno del movimento dell’Autonomia vi era un atteggiamento fortemente giustificazionista rispetto alle BR. Non era facile cioè per gente di sinistra, convinta però che il terrorismo fosse effettivamente distruttivo, andare in un'assemblea di questo tipo e parlare in questi termini perché veniva immediatamente messo nel novero dei nemici. Ve ne sono di esempi di persone di questo tipo che sono state messe nel mirino; per fortuna non tutti sono stati poi attinti dai colpi. Nell'area dell’Autonomia questa sinistra, da un lato antistatalista per come si comportava lo Stato in termini di repressione, era vista più come un nemico che come un alleato. Vorrei approfondire questo punto.

PACE. Fa parte della tradizione comunista considerare i riformisti come i peggiori nemici. Nella tradizione massimalista rivoluzionaria del comunismo vi è anche il fatto di individuare in chi cerca di riformare le cose un nemico più che un alleato. E' una specie di peccato originale in cui peraltro noi tutti siamo caduti sempre.

SARACENI. E' vero innanzitutto che questa consapevolezza del carattere distruttivo c'era nell'area in cui lei si riconosceva?

PACE. C'era, ma sussisteva anche un fascino per la potenza delle Brigate rosse.

SARACENI. La famosa geometrica potenza.

PACE. Non esito ad ammetterlo: dava un'impressione di potenza dispiegata, come si diceva all'epoca. Ovviamente non eravamo così sciocchi da pensare che bastasse sparare alla funzione per disarticolarla come credevano ingenuamente i brigatisti. La storia si è incaricata di smentire questo. Però, è vero che l'azione sistematica di distruzione di una serie di articolazioni dello Stato dentro un ribollire di violenza, - quello di cui parla lei in realtà è il discrimine sulla "violenza sì violenza no"-, quando dice della poca simpatia che suscitava nei ranghi dell'autonomia una ipotesi garantista democratica vuol dire anche questo; anzitutto, bisognava far parlare la violenza ovviamente a livelli diversi. Però, il brigatista era più in sintonia con i giovani che volevano a tutti i costi lanciare bottiglie molotov contro la polizia o sparare addirittura, che non il garantista. Infatti è finita come è finita. Va detto anche che quelli più vecchi come me, che ancora frequentavano queste aree universitarie per ragioni strettamente politiche, venivano insultati da giovani che si identificavano soprattutto in un leader come Pifano. Costui parlava e agiva al tempo stesso a livello di ciò che poteva fare e sapeva di poter assumere politicamente. Quindi, era il vero leader politico, militare del movimento di massa. Tutti i ragazzotti con i caschi e con i passamontagna andavano dietro la parola d'ordine dell'autonomia, della violenza autonoma per definizione. Noi eravamo più scettici; pensavamo che in questo panorama l'innesto ed il partito armato avessero un effetto esplosivo e che comunque al termine lo Stato italiano non poteva resistere: o passavamo noi, cosa poco probabile, o passava lo Stato. Non si poteva durare anni e anni con milioni di ore di sciopero, 50.000 attentati l'anno e cinquanta morti l'anno per terrorismo. Quindi, vi era un livello di conflittualità che non poteva durare. La domanda semmai è come mai si sia arrivati lì. E' una domanda che viene fatta poco frequentemente. L'Italia è stato l'unico Paese occidentale in cui l'onda lunga del '68 si è trasformata in guerra civile strisciante; che lo si voglia dire o no l'ammissione che vi sia stata una guerra civile va fatta anche per chiarezza nei confronti delle generazioni future.

SARACENI. Per fortuna in dimensioni ridotte dobbiamo dire.

PACE. Tanto ridotte non direi. Schematizzando si può dire che c’è stato un momento in cui i nuovi conflitti potevano essere riassorbiti da una opposizione intelligente così come è successo in Francia ed in parte anche in Germania, dove il fenomeno terroristico è stato ridotto alla sola espressione della Baader Meinhof, rappresentata da trenta persone. Però, il movimento con i Verdi da una parte ed in Francia la sinistra extra parlamentare hanno preso strade diverse anche perché hanno trovato nel sistema politico delle sponde riformistiche intelligenti. Noi della generazione del '68 abbiamo cercato queste sponde; non le abbiamo però trovate. Quando parlavo prima del voto al PCI fino al 1974, '75 e '76 per alcuni di noi vuol dire che di fronte abbiamo avuto un muro.

PRESIDENTE. Questa probabilmente era l'intuizione di Moro, così come traspare dal memoriale.

PACE. Onestamente malgrado l'omaggio che va reso al presidente Moro va detto che sembrava anche qui esserci un'enorme melassa in cui non si capiva bene che cosa di nuovo c'era. La cosa terribile è questa capacità di cucire tutto insieme e non si capisce il perché.

PRESIDENTE. E' come se Moro avesse nell'occasione tragica intuito che si era sbagliato nel non dare al movimento una sponda riformista intelligente.

PACE. Certo. Non è normale che un Paese come l'Italia, la sesta potenza industriale del mondo, abbia ancora dei fuoriusciti. Ogni volta che veniva un dirigente politico italiano in Francia ci vergognavamo per il nostro Paese. Non è normale che ci siano quattrocento italiani sparsi nel mondo che non possono tornare. E' il segno di qualcosa che non si è potuto controllare, cavalcare e nemmeno voluto capire e che finalmente si risolve per consunzione, cioè per morte naturale. Non riesco a vedere un'altra spiegazione. Ho letto gli editoriali di Scalfari sul fatto che non vi è mai stata una guerra civile in Italia, che la guerra civile è stata dichiarata da quattro criminali irresponsabili; non può essere così. Se le Brigate rosse disponevano a Torino, alla Mirafiori, di duecento simpatizzanti operai che davano loro i nomi dei capi reparto che impedivano loro di fare qualsiasi cosa e i brigatisti bruciavano le loro auto e sparavano alle loro gambe, non si può non parlare di guerra civile. Giuliano Ferrara, nella sua onestà, mi racconta quale era il clima all'epoca in cui era segretario della federazione di Torino vissuto dalla parte di chi doveva difendere l’ordine repubblicano. Dai racconti dei giovani di estrema destra che ho incontrato e conosciuto dopo ho capito che cos'era una guerra civile vissuta da chi era costretto a subirla. Noi non potevamo più andare a piazza Euclide a prendere un gelato ma loro non potevano andare in nessun altro quartiere di Roma senza il rischio di farsi prendere a martellate in testa. Vi era effettivamente un clima di guerra civile, probabilmente ereditato da una vertenza non chiusa dall'epoca della liberazione; sicuramente alimentata da utopie non risolte; però c'era. Che questa situazione debba essere risolta mi pare un segno di civiltà che hanno già mostrato altri Paesi. Ricordo che Giscard D'Estaing, che pure era un liberale quando è stato eletto nel '74, ha per prima cosa graziato quel giovane della Gauche proletariènne che aveva ucciso il vigilantes della Renault il quale aveva a sua volta ucciso un manifestante nel 1971. E' chiaro che è necessario uno Stato autorevole per fare questo. Loro ne disponevano, ne dispongono ed in parte hanno limitato i danni; perché anche lì una generazione di giovani era pronta a passare alla guerra civile. Li hanno fermati in tempo negli anni 1973-'74, esattamente gli anni in cui è mancata in Italia la sponda riformista che poteva frenare questo movimento e trasformarlo in una forza positiva, propositiva e non solamente distruttiva ed autodistruttiva. Questo ovviamente è il quadro politico; è chiaro poi che le vittime sono le vittime ed ognuno piange le sue.

SARACENI. Il rifiuto della trattativa per la salvezza di Moro in generale è una proiezione di questo muro? Inoltre, più specificatamente dice qualcuno che alla fine non si arrivò ad una possibile soluzione positiva quasi per un disguido nella comunicazione; che cioè si era stati lì lì per avere un pronunciamento da parte del Consiglio Nazionale della DC, se non ricordo male, che non ci fu perché non arrivò in tempo alle BR la notizia che c’era la disponibilità del Consiglio nazionale della DC a dare un segnale. Vorrei che lei esprimesse una valutazione sulla questione della trattativa e, in particolare, su questo episodio specifico.

PACE. Per quanto riguarda la trattativa, la scelta di campo che fece allora il Partito socialista fu una scelta politica abile.

PRESIDENTE. L’onorevole Signorile ce ne ha spiegato anche il senso riconoscendo che non solamente intervenivano motivi umanitari nei confronti di Moro ma che esisteva anche la necessità da parte del Partito socialista di crearsi uno spazio di iniziativa politica.

PACE. "Primum vivere", come diceva il Craxi dell’epoca. Il Partito socialista era ai minimi storici e nel momento in cui per la prima volta si salda l’incontro tra DC e PCI per il Partito socialista si apre una straordinaria opportunità di prendere la testa di un movimento variegato che comprendeva allora parte della sinistra cattolica, i radicali, la sinistra extraparlamentare, Lotta continua, il Manifesto, cioè un ribollire che ammontava all’incirca al 25 per cento dell’elettorato.La seconda volta che ho visto Craxi ho avuto l’impressione che avesse già incassato la sua cambiale, che avesse già vinto il suo jackpot, e che quindi in qualche modo fosse meno interessato ad indirizzare la sua linea e a fare tutto il possibile per salvare la vita di Moro. Craxi mi chiese infatti qualcosa che io non potevo assolutamente fornirgli, cioè un biglietto autografo di Moro. Mi disse che per fare pressioni sul Capo dello Stato, su Fanfani o su chiunque altro aveva bisogno di una prova provata che Moro fosse vivo. Io gli risposi che la prova provata consisteva nel gerundio "eseguendo" cioè, se avessero voluto uccidere Moro, lo avrebbero già fatto. Dissi che le Brigate rosse avevano emesso quella sentenza e che si lasciavano un margine di tempo come extrema ratio per una soluzione della vicenda. Craxi mi ribadì che aveva bisogno di una prova scritta e che non poteva impegnarsi nei confronti del capo dello Stato e del senatore Fanfani sulla base di un gerundio; mi chiese quindi un biglietto autografo di Moro sul quale fosse scritto "misura per misura". Gli risposi che nessuno era in grado di portargli quel biglietto. In quella occasione capii che dal punto di vista lucido, ma anche cinico del politico di razza la vicenda era chiusa anche per Craxi e che la liberazione o meno di Moro era un epifenomeno rispetto all’obiettivo centrale che era quello di avere dato al Partito socialista una audience molto più ampia e di avere rotto in qualche modo il blocco tra democristiani e il Partito comunista. Io ho avuto questa impressione, ma il ritmo poi si accelerò e quello che doveva essere l’intervento di Fanfani si trasformò in una presa di posizione di Bartolomei. Sarebbero state necessarie ore per spiegare a un brigatista chi fosse Bartolomei.

SARACENI. Questo è stato l’episodio specifico.

PACE. L’episodio specifico fu che Fanfani si era impegnato a parlare al Consiglio nazionale della DC il martedì. Quando però le Brigate rosse emisero il comunicato n. 9 era chiaro che a quel punto per la vita dell’organizzazione contavano anche le ore. Si aspettava comunque un segnale da parte della Democrazia cristiana per il giorno di domenica e quando si apprese che il segnale consisteva nell’intervento di Bartolomei, ripreso in decima notizia al telegiornale della sera, il quale avrebbe dichiarato che probabilmente durante il Consiglio nazionale Fanfani avrebbe fatto delle aperture ai terroristi…

PRESIDENTE. Il segnale fu troppo debole.

PACE. Fu un non segnale, signor Presidente. Ovviamente le Brigate rosse pensarono che erano tutti dei cialtroni e immagini la conclusione cui giunse Moretti. Tutto questo poi fa impressione quando si ragiona su questioni che implicano anche la vita umana. Se si esamina però l’essenza dei fenomeni e degli avvenimenti, questo è ciò che è accaduto.

Io continuo a pensare che Moro poteva essere salvato e il suo assassinio poteva essere comunque ritardato. Sarebbero stati necessari segnali forti che se la maggioranza del Paese avesse voluto avrebbe potuto dare anche quindici giorni o tre settimane prima. Era evidente che le Brigate rosse aspettavano un segno di riconoscimento politico ed era sufficiente leggere i volantini. Era poi altrettanto evidente che a loro non interessava assolutamente la liberazione di Curcio, di Franceschini e degli altri: le Brigate rosse volevano ciò che hanno detto i giudici francesi e cioè che si riconoscesse che erano un esercito in guerra anche se non rispettavano neanche la Convenzione di Ginevra. Le Brigate rosse volevano ottenere lo status di "esercito combattente per la libertà" e se qualcuno glielo avesse dato la macchina si sarebbe fermata. La questione però era complicata perché non si poteva assegnare loro questo status: intervenivano le pressioni da parte delle famiglie delle vittime, l’intero clima creato dalla strage di via Fani. Un problema ormai noto e più volte ricordato.

SARACENI. Qualcuno ha affermato che la macchina non si sarebbe fermata ma che al contrario sarebbe aumentata in velocità e in potenza.

PACE. Questo non lo so. La mia opinione è che il Partito comunista non poteva fare altrimenti. Il PCI sapeva di che cosa si trattava e aveva il pericolo in casa, ma la Democrazia cristiana è lo stesso apparato dello Stato che pochi anni dopo pagò il riscatto per Ciro Cirillo. In quel caso è vero che sembra un attentato meno brigatista e più malavitoso, che sembra esserci un imprinting dal delitto comune e che non c’è il ricatto al cuore dello Stato né tanto meno alcuna messa in scena macabra, però si tratta comunque di uno Stato che c’è e che tratta. D’altro canto lo stupore di Moro…

PRESIDENTE. Poi c’è il sequestro D’Urso.

PACE. Comunque, dai racconti che mi hanno fatto, il momento forse di massimo sbandamento dell’organizzazione terroristica fu quando intervenne Paolo VI. Possiamo dire ciò che vogliamo, ma le parole del Papa ebbero un impatto vero sulle Brigate rosse. Era l’unica persona che li trattava in quel modo dicendo loro "mi inginocchio umilmente davanti a voi uomini delle Brigate rosse". Era l’unico che ne riconosceva il carattere anzitutto umano.

PRESIDENTE. E a quel "senza condizioni" inserito nel messaggio loro dettero importanza negativa? Questa è una delle cose che ci dice Guerzoni. Se il Papa non avesse scritto "senza condizioni" probabilmente l’impatto sarebbe stato diverso.

PACE. Questo non lo so, però bisogna considerare che molti di loro erano di estrazione cattolica. Impressionò anche me e rimasi di sasso quando ascoltai la dichiarazione del Papa, uno dei massimi vertici di espressione dell’umanità di questo secolo. Ci vuole proprio la grandezza di un Papa per fare una dichiarazione del genere. Per mettersi in ginocchio, umilmente, di fronte a terroristi che hanno insanguinato il paese, ci vuole un senso della missione pastorale veramente elevato ed effettivamente questo fatto li lasciò per un buon periodo scioccati. Se a quel punto fosse intervenuta una minima apertura politica, intelligente, fatta di poche cose che la gente potesse condividere e capire, sicuramente si sarebbe innescato un processo coattivo che dall’esterno li avrebbe spinti lentamente…

SARACENI. Mi pare di capire che secondo la sua opinione non ci fu una determinazione da parte della DC a che Moro venisse ucciso. Fu più questa incapacità di gestire la situazione e non una volontà determinata. Il penalista direbbe che non fu un dolo intenzionale.

PACE. Onorevole Saraceni, lei sa meglio di me che se ci fosse una volontà determinata e cattiva saremmo già un passo avanti. La mia impressione è che ci trovassimo di fronte invece alle lacrime sincere dell’onorevole Zaccagnini. Pur avendo vissuto questa vicenda in un contesto e con un ruolo diversi, ho avuto l’impressione di impotenza generalizzata. Dall’onorevole La Malfa che gridava che ci voleva la pena di morte fino ai pianti di Zaccagnini, mi è sembrata una specie di Caporetto di una classe politica. Se dovessi rifare la storia del nostro Paese, non esiterei a sostenere che la prima Repubblica è morta proprio quel giorno. Il funerale di Moro, la famiglia che non vuole il funerale ufficiale e tutta l’Italia dei potenti schierata davanti ad una bara vuota, da un punto di vista simbolico ha un forte significato. In politica, non sono io a dovervelo dire perché siete tutti maestri in questa materia, i simboli sono decisivi. Chi ricorda la manifestazione pomeridiana del 16 marzo a San Giovanni in cui democristiani e comunisti sventolando insieme bandiere bianche e bandiere rosse manifestarono contro dei comunisti, e quindi contro altre bandiere rosse che avevano sequestrato un democristiano e quindi una bandiera bianca favorevole all’alleanza tra bandiere bianche e bandiere rosse; provi a spiegare la cosa ad uno straniero! E' qualcosa di incomprensibile e di incomunicabile, l’avvitamento su se stesso di un sistema che non ha più vie d’uscita. E non poteva che seguire questa lunga deriva. Ai miei figli questa vicenda la racconterò in questo modo.

PRESIDENTE. Prima di concludere vorrei fare un commento a quanto ho ascoltato. Penso anch’io che il PCI dall’inizio non potesse fare diversamente. D’altra parte agli atti della Commissione c’è anche una lettera dell’allora Ministro dell’Interno inviata poi al Presidente del Senato in cui racconta che per tempo Bufalini gli aveva detto che la determinazione del PCI era che non poteva esserci alcuno spazio per delle trattative e che Moro dal punto di vista del PCI poteva per questo motivo già considerarsi morto.

Come mi dice anche lei c’è poi il problema del perché questa impotenza si trasmette e diventa un’impotenza dell’intero sistema. Alle cose che lei ha detto, e che io in parte condivido, aggiungerei due elementi. Probabilmente esistevano aspettative che non si sono realizzate. Personalmente ritengo che il Presidente del Consiglio fosse convinto che non le parole del Papa, ma la diplomazia vaticana avrebbe potuto ai primi di maggio portare alla liberazione di Moro. Da parte del Ministro dell’interno si faceva invece affidamento su altro. Come scrisse Pecorelli vi erano elementi che gli facevano pensare che Moro sarebbe stato ritrovato nei primi giorni di maggio vivo e non morto e probabilmente le sue dimissioni sono anche un prezzo personale che viene pagato a questa disillusione.

Inserisco queste notazioni che ho voluto lasciare a verbale in una riflessione più complessiva. Penso che la storia delle Brigate rosse sia conosciuta e che anche la complessiva storia del partito armato sia nota e che corrisponda in grandissima parte a quello che lei ha descritto. Quello che non si riesce a capire bene – e su ciò sono in gran parte d’accordo con il senatore Mantica –, che non si riesce ancora a ricostruire bene è invece ciò che avveniva dall’altra parte. Ci sono spazi di nebulosità che non possono essere tutti spiegati con la disorganizzazione dello Stato, nell’attività degli apparati, della politica, di tutto ciò che le Brigate rosse combattevano, vale a dire di quelli che stavano dall’altra parte delle barricate. Non può essere spiegato tutto con la disorganizzazione e con la debolezza dello Stato. Recentemente abbiamo appuntato la nostra attenzione sull’operazione di via Monte Nevoso, che era descritta nei verbali di polizia giudiziaria in maniera un po’ approssimativa. Quando abbiamo capito bene come si è svolta non abbiamo potuto fare a meno di riconoscere che si è trattato di un’operazione di indagine giudiziaria di straordinaria efficacia. Indizi molto esili trovati in un borsello vengono in pochissimi giorni e con grandissima rapidità sviluppati fino a portare all’individuazione del covo brigatista di via Monte Nevoso. Ci sono questi momenti di estrema efficacia, anche se è vero che una delle caratteristiche del nostro popolo è quella di funzionare male tutti insieme, avendo però individualmente esempi di grande efficacia. Penso che quest’altra parte della storia non si riesca ancora a conoscere, anche se capisco, ma non approvo, le ragioni della reticenza da parte di coloro che ne furono i protagonisti.

Dalla Chiesa parlando alla Commissione Moro pone il problema di chi ha recepito gli originali delle carte di Moro. Tempo fa in seduta segreta è emerso il ricordo di una confidenza di uno degli uomini di Dalla Chiesa, che riteneva che un’altra cordata dei carabinieri fosse venuta in possesso degli originali che, per motivi non istituzionali, teneva conservati. Quello che non riesco a capire è il patto di silenzio, che lega molti di voi che stavate dalla parte del partito armato, nel non raccontare poi ciò che avveniva in questa zona grigia del rapporto con gli avversari naturali. Questo porta poi a delle contraddizioni nella ricostruzione complessiva della storia e che risultano inspiegabili. Per quale motivo il Moretti sostiene che il comitato esecutivo delle Brigate rosse si riuniva a Firenze e che in quella località incontrava Azzolini e Bonisoli, mentre Azzolini sostiene che lui a Firenze non c’è mai andato perché andava a Rapallo. Perché su questo punto, che pure non sembrerebbe decisivo nella storia, c’è questo contrasto e perché continua? Noi, parlo a titolo personale ma penso di interpretare il pensiero dei presenti, non cerchiamo "grandi vecchi", non pensiamo ad ipotesi di eterodirezione, ma riteniamo che ci siano ancora questioni non conosciute che riguardano in gran parte non il partito armato, non le Brigate rosse, se non nei limiti in cui queste furono coinvolte. Mi riferisco ad altre trattative, possibilità di utilizzare quanto Moro aveva detto: probabilmente questo sì ha creato intralci, ha contribuito, con la stasi politica, a portare la vicenda verso l’esito tragico con cui si concluse.

Riconosco altresì che noi, in tutti questi anni, non abbiamo avuto la capacità di dare una soluzione politica a quanto avvenuto in Italia negli anni ‘70-‘80 probabilmente perché continuiamo a pagare prezzi ad una stagione precedente, nodi che sono rimasti non risolti sin dalla nascita della Repubblica. Questo in qualche modo ci ha complessivamente indebolito. Un’operazione politica di quel tipo avrebbe agevolato e reso forse inutile quella che potremmo chiamare l’operazione verità. Ma forse il successo dell’operazione verità avrebbe potuto creare le condizioni per l’operazione politica. L’operazione politica esula dai compiti di questa Commissione, l’operazione verità fa parte dei nostri compiti ma continuiamo a trovare notevoli ostacoli nel tentativo di adempiervi anche perché spesso ciò che pensiamo o che diciamo viene, a volte in buona fede, altre volte meno, frainteso e alterato.

Forse c’è qualcosa che abbiamo già trovato, e di cui non ci siamo accorti. Ogni tanto ho l’impressione che siamo molto vicini a qualcosa che abbiamo già percepito ma che non riusciamo a capire fino in fondo.

La ringraziamo dell’audizione. Ringrazio i colleghi e dichiaro conclusa la seduta.

La seduta termina alle ore 23,40.

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