Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

68a SEDUTA

GIOVEDI' 18 MAGGIO 2000

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

indi del vice presidente GRIMALDI

prima parte

seconda parte

 

Prima parte

Indice degli interventi

PRESIDENTE
PIPERNO
MANTICA (AN), senatore

 

La seduta ha inizio alle ore 17.15.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.

Invito il senatore PARDINI, segretario f.f., a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

PARDINI, segretario f.f., dà lettura del processo verbale della seduta del 3 maggio 2000.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

 

COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE

PRESIDENTE. Informo preliminarmente che in data 5 maggio 2000 il Presidente della Camera dei deputati ha chiamato a far parte della Commissione il deputato Antonio Attili, in sostituzione del deputato Mauro Zani, dimissionario.

Comunico che, dopo l’ultima seduta, sono pervenuti alcuni documenti il cui elenco è in distribuzione e che la Commissione acquisisce formalmente agli atti dell’inchiesta.

Comunico altresì che il dottor Lanfranco Pace ha provveduto a restituire, debitamente sottoscritto ai sensi dell'articolo 18 del regolamento interno, il resoconto stenografico della sua audizione del 3 maggio 2000, dopo avervi apportato correzioni di carattere meramente formale.

Rendo noto che il dottor Silvio Bonfigli ha fatto pervenire un suo elaborato sulla vicenda dell'arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini avvenuto in Pinerolo l'8/9/1974 e sull'opera di infiltrazione nelle Brigate rosse di Silvano Girotto.

 

SULL'ORDINE DEI LAVORI

PRESIDENTE. Do la parola all'onorevole Manca che ha chiesto di intervenire sull'ordine dei lavori.

MANCA. Signor Presidente, ho chiesto di intervenire sull'ordine dei lavori riferendomi in particolare ai recentissimi sviluppi del caso D'Antona, con le polemiche che l'hanno accompagnato che, secondo me, ci offrono un motivo in più perché la nostra Commissione - che, come tutti sappiamo, si è interessata del caso poco meno di un anno fa producendo un documento molto apprezzato e meditato - sia tenuta al corrente per quanto attiene tutti gli aspetti della vicenda con riferimento particolare ovviamente alla consistenza del pericolo, che sembra si stia profilando, di una rinascita d'azione da parte delle frange eversive di sinistra. Ovviamente mi guardo bene dal chiedere che la Commissione travalichi il suo campo d'azione e sottragga, quindi, alla magistratura i compiti istituzionali, suoi propri. Chiedo solo che a noi, come Commissione, vengano comunicati dagli organi competenti, con la riservatezza ovviamente che il caso può richiedere, gli aspetti politici, le prospettive di azione e di contrasto da parte delle forze dell'ordine e, soprattutto, la risposta all'esigenza di sicurezza dei cittadini. Ove dovessero esserci delle obiezioni faccio presente, e ricordo alla Presidenza e a tutti noi, che in più di una occasione la Commissione ha ascoltato magistrati e funzionari su indagini in corso senza che ciò sollevasse problemi o obiezioni di principio.

PRESIDENTE. Prima di dare ad altri la parola per intervenire sull'argomento premetto il mio punto di vista che è quello di tenere distinti i due profili: da un lato, la prosecuzione dell'attività indagativa in corso sia per individuare gli autori dell'omicidio D'Antona, sia in una prospettiva più ampia per valutare se nella riorganizzazione di questa nuova galassia di gruppuscoli della sinistra estrema ed antagonista non vi siano già profili di rilevanza penale; cosa che, come i colleghi sanno, per la verità ritengo da tempo. Nell'arco di questo periodo ritengo che abbiamo ben fatto a non tenere sedute di aggiornamento e di approfondimento delle indagini soprattutto per quanto riguardava l'omicidio D'Antona. Si tratta di indagini, come abbiamo appreso dai giornali, estremamente delicate, in cui le esigenze di cautela e di riservatezza sono spesso essenziali per l'ottenimento di un buon risultato delle indagini. Abbiamo acquisito l'ordinanza del dottor Lupacchini e mi sembra che, soprattutto in alcune lunghe note dell'ordinanza che ricostruiscono l'insieme del fenomeno, l'impostazione che la Commissione aveva già dato nell'estate scorsa viene pienamente confermata sia per ciò che riguarda la derivazione di queste nuove organizzazioni dalle vecchie, sia in particolare per quanto riguarda la possibilità che il tratto di congiunzione tra nuove ed antiche emergenze sia costituito da alcuni irriducibili che facevano parte della storia finale, soprattutto toscana e romana delle Brigate rosse, che tuttora non sono stati assicurati alla giustizia. Avrete letto quella dichiarazione per certi versi terribile, Morucci su "La Repubblica", laddove si dice che in realtà con l'uccisione di D'Antona il discorso delle BR è ripreso da dove l'avevano interrotto, cioè dall'uccisione di Ruffilli. Nella relazione che abbiamo approvato parlavamo di un tragico heri dicebamus; quindi, mi sembra che come inquadramento del fenomeno non vi siano grosse novità rispetto a quello che noi già sapevamo. Vi è, però, un aspetto che rientra in ciò che la Commissione potrebbe fare proprio nell'esercizio dei suoi poteri parlamentari: è il profilo della fuga di notizie. Di fronte ad un giudice istruttore che non esita a definire istituzionale la rottura del segreto, un ministro dell'interno che si dice sicuro che la rivelazione del segreto è stata dolosa, ci sono indubbiamente aspetti di rilevanza politica per cui penso che la Commissione possa, se non addirittura debba, interessarsi al problema. Se non fosse intervenuto l'onorevole Manca avrei fatto la seguente comunicazione: a seguito di ulteriori richieste provenienti soprattutto dai colleghi del Polo che riguardano vicende del passato nonché altre audizioni avevo deciso di convocare per il 25 maggio alle ore 13 l'Ufficio di Presidenza. Se vogliamo però anticipare la convocazione dell'Ufficio di Presidenza oggi, prevedere un'audizione del Ministro o di un sottosegretario dell'interno o l'audizione, se fosse disponibile, del dottor Lupacchini soprattutto sui profili del segreto istruttorio, non ho naturalmente motivi per manifestare alcuna contrarietà; anzi, mi sembra sia una delle iniziative che possiamo intraprendere. Dobbiamo, però, decidere se affrontare questo argomento ora o procedere all'audizione del professor Piperno e rinviare qualsiasi decisione alla prossima settimana considerato anche che un momento di controllo parlamentare ci sarà. So che il Ministro dell'interno è stato chiamato a rispondere su atti di sindacato parlamentare su questo aspetto. Penso che la Commissione abbia comunque un suo retroterra informativo che la mette in migliori condizioni rispetto ad altri momenti parlamentari per valutare tali aspetti. In realtà, tutta la storia del contrasto storico alle Brigate rosse - che poi riguarda aspetti di cui ci stiamo occupando - conosce una serie di momenti di schizofrenia istituzionale - non uso l’espressione "doppio Stato" per non irritare qualche mio critico -, cioè, istituzioni che da un lato combattevano il terrorismo e dall’altro finivano per assumere iniziative spesso informative o disinformative che frenavano tale azione di contrasto. Se rileggete la relazione del dottor Bonfigli, del cui deposito ho dato annuncio, riscontrerete in essa ulteriori elementi di riflessione in questo senso. Vorrei poi ricordare episodi noti, come la pubblicazione dei verbali della collaborazione di Peci o come l’articolo che apparve su "La Nazione", che dava notizia della collaborazione di Mortati sul caso Moro. Non saremmo quindi in presenza di novità, sarebbe però gravissimo che in un quadro nazionale completamente diverso da quello degli anni ’70 e dei primi anni ’80 fenomeni di questo genere si riproducessero e non fossero invece esemplari di una caratteristica che conosciamo bene, cioè della scarsa attitudine a "tenere" che caratterizza in Italia il segreto istruttorio. Il segreto istruttorio da noi "tiene" normalmente poco; il fatto però che Lupacchini affermi: "Non esito a definire istituzionale…" e il Ministro: "Sono certo che sono dolosi…" pongono un problema che riporterebbe a queste esperienze del passato di cui penso che la Commissione si debba interessare.

TARADASH. Signor Presidente, vorrei innanzi tutto ringraziare il collega Manca per aver sollevato la questione. Mi sembra opportuna una nostra riflessione su come procedere, proprio partendo da questa vicenda. Dico subito che secondo me non è questa una sede che ci consente di "tirarla troppo per le lunghe". A mio parere dobbiamo però prevedere la convocazione di un Ufficio di Presidenza abbastanza impegnativo, cioè scadenzato in modo tale da consentire una riflessione sul ruolo della Commissione in questo frangente. La legge istitutiva affida alla Commissione il compito di accertare lo stato attuale della lotta al terrorismo in Italia, le responsabilità riconducibili agli apparati statali eccetera. Dalla lettura dei giornali mi sembra di capire che gli aspetti che caratterizzano questa vicenda sono almeno due: non soltanto quello della fuga di notizie ma anche quello del coordinamento tra le forze di polizia.

PRESIDENTE. E’ vero, la sua osservazione è molto esatta.

TARADASH. Per quanto riguarda la fuga di notizie il caso è veramente incredibile, nel senso che essendo stato preannunciato l’arresto del telefonista dobbiamo ringraziare quest’ultimo per non essere scappato, se è lui; è stato trovato tranquillamente a casa sua, forse non legge i giornali. Si tratta comunque di una vicenda incredibile se l’arrestato è effettivamente il telefonista. Sotto il profilo del coordinamento leggiamo di contrasti molto duri tra polizia e Carabinieri. Da quanto si legge mi sembra di vedere una polizia più sensibile a certe esigenze volte ad offrire comunque una soluzione. Sulla procura di Roma non ho francamente gli elementi per pronunciarmi, ma non mi sembra che questa abbia svolto una grande funzione di riordino dei problemi in una fase di questo genere. Ci troviamo di fronte ad un personaggio che è stato arrestato e sul quale pende un’accusa gravissima, ma anche molti dubbi al momento attuale. Credo quindi che gli apparati dello Stato, si può dire dal primo all’ultimo, non facciano una bella figura in questa vicenda. Si legge anche del dissenso che vi sarebbe tra Ministro e Sottosegretario. Insomma, è una vicenda complessa che va posta sotto osservazione. Siamo noi che dobbiamo farlo? Se non siamo noi, non lo facciamo; in caso contrario dobbiamo però farlo seriamente, dedicandoci veramente a questa vicenda con il massimo del nostro impegno. Vorrei quindi che in sede di Ufficio di Presidenza si decidesse qual è la nostra competenza e, se la competenza è nostra, che la si esercitasse appieno.

PRESIDENTE. Il problema è quando convocare questo Ufficio di Presidenza: lo facciamo giovedì prossimo o lo anticipiamo?

TARADASH. Facciamolo il prima possibile.

FRAGALA’. Signor Presidente, sono d’accordo su quanto è stato detto adesso e quindi non lo ripeterò. Ritengo che questa vicenda gravissima merita a mio avviso – e lo sosterrò anche in sede di Ufficio di Presidenza –, oltre ad una riflessione della Commissione, anche iniziative politiche da parte di quest’ultima per venirne a capo. C’è poi un vecchio copione che riguarda la fuga di notizie che tutti noi conosciamo. Le notizie non hanno "gambe", non fuggono; vengono fuori perché i loro custodi hanno interesse a farle venire fuori: in questo caso è chiaro che questa fuga di notizie ha avuto il fine di avvertire ed allertare coloro che erano evidentemente nel mirino delle indagini. Vorrei richiamare l’attenzione di tutti i commissari presenti su un allarme che nacque proprio in una seduta di questa Commissione quando fu ascoltato il prefetto Andreassi, quando questo affermò che era nota alla polizia l’identità degli autori dell’omicidio D’Antona, ma che non vi erano le prove per arrestarli; da ciò ne nacque una polemica con delle successive precisazioni dello stesso prefetto Andreassi, le quali evidentemente non hanno cambiato il cuore del problema. Quest’ultimo fa riferimento al fatto che nella vicenda del barbaro assassinio del professor D’Antona alcuni esponenti della sinistra antagonista si sono messi immediatamente in clandestinità, subito dopo che sono iniziate le indagini. Quindi, la denuncia del dottor Lupacchini, perché si tratta di una vera e propria denuncia quella contenuta nell’ordinanza di applicazione della misura cautelare, deve farci rendere conto di tutta una serie di responsabilità che partono dal momento stesso in cui sono iniziate le indagini. Da quel momento è iniziata la fuga delle notizie che ha consentito ad una serie di sospettati, di accusati o di indagati di allora, di darsi immediatamente alla clandestinità. Credo quindi che sia necessario che su questa vicenda la Commissione decida di assumere delle iniziative nel prossimo Ufficio di Presidenza, che io auspico sia anticipato a martedì. Poi naturalmente davanti alla Commissione, che in pratica è l’organo parlamentare che ha il dovere istituzionale di occuparsi di queste cose, dovranno immediatamente essere auditi il ministro dell’Interno e il sottosegretario Brutti, nonché il comandante generale dell’Arma dei carabinieri, il generale Siracusa.

PRESIDENTE. Se non ci sono osservazioni resta stabilito che a partire da martedì prossimo si procederà secondo un nuovo ordine del giorno nell’ambito del quale, secondo le disponibilità che verranno assicurate, procederemo all’audizione del dottor Andreassi e del dottor Lupacchini. Inoltre, per le ore 19 dello stesso giorno verrà convocato l’Ufficio di Presidenza.

 

INCHIESTA SUGLI SVILUPPI DEL CASO MORO: AUDIZIONE DEL PROFESSOR FRANCO PIPERNO

Viene introdotto il professor Franco Piperno.

PRESIDENTE. Nell’ambito dell’inchiesta sugli sviluppi del caso Moro all’ordine del giorno è oggi prevista l’audizione del professor Franco Piperno che ringrazio per aver partecipato. Non penso di dover spiegare né a voi, né al professor Piperno, quali sono le ragioni di questa audizione. Inizialmente avevamo deliberato un’audizione unica per il dottor Pace e il professor Piperno che, però, per una difficoltà nell’incrociare gli orari non è stato possibile realizzare. Anzi, per la verità avremmo voluto sentire prima il professor Piperno e poi il dottor Pace. Come sempre mi limiterò ad alcune domande lasciando poi ai colleghi l’approfondimento di argomenti relativi all’audizione.In ogni caso, come da accordi presi, il senatore Mantica su una domanda che porrò, è sin da ora autorizzato ad intervenire con domande di precisazione. Professor Piperno, per un migliore ordine dei nostri lavori, vorremmo chiederle innanzitutto di sintetizzare brevemente – mi rendo conto che può sembrare contraddittorio dal momento che parliamo di vicende che comunque si inseriscono in un difficile momento della vita nazionale, vicende che ne hanno rappresentato momenti di grande importanza – alla Commissione l’esperienza di Potere operaio, di cui lei è stato il fondatore a partire dal 1969 e poi nei suoi sviluppi temporali - in particolare il noto convegno di Rosolina -, in modo da poter meglio inquadrare quali fossero all’epoca della vicenda Moro i rapporti tra il gruppo storico fondatore di Potere operaio, l’area dell’autonomia operaia e le Brigate rosse. In questo modo potremo meglio inquadrare il rapporto che lei ebbe anche con esponenti del Partito socialista italiano ai fini di aprire un’interlocuzione con le Brigate rosse che potesse evitare che il sequestro Moro si concludesse tragicamente come invece è accaduto. Confido nella sua capacità di comprendere che stiamo parlando di questioni in gran parte note.

PIPERNO. Potere operaio è stato un gruppo politico che aveva - come del resto dice il nome - una sorta di filosofia politica operaista e quindi era portatore di un progetto politico di tipo pubblico e di massa. Da questo punto di vista ci siamo subito trovati in contrasto con le Brigate rosse che, peraltro, hanno una genesi quasi contemporanea alla nostra. Benché non si chiamassero fin dall’inizio BR, esistevano già a partire dalla fine del 1968-‘69 con altre denominazioni e con una strategia che definirei, almeno per quanto riguarda gli inizi, di tipo castrista-guevarista, in cui si mescolavano tonalità che potrei definire populiste e cristiane nello stesso tempo. Quindi, dal punto di vista della filosofia politica o più modestamente del pensiero politico, la cosa più lontana dalle tradizioni alle quali noi ci richiamavamo, vale a dire quelle dell’anarco-sindacalismo francese e italiano. Mi riferisco agli ideali dell’inizio del secolo, al socialismo francese della fine degli anni quaranta e ai Quaderni Rossi, quindi a testi e approfondimenti relativi a problematiche lontanissime dall’impostazione delle BR. Tuttavia riconosco che vi è stata sempre una certa osmosi tra i gruppi della sinistra. E’ anche possibile che fin dall’inizio vi fossero dei militanti che passavano da una posizione ad un’altra. Per quanto riguarda il gruppo dirigente di Potere operaio questo non è mai successo, almeno finché c’è stato Potere operaio. Questa organizzazione, infatti, si scioglie nel 1974, e solo dopo alcuni suoi militanti entrano nelle Brigate rosse giungendo anche a ricoprire ruoli significativi al suo interno. In ogni caso non si è mai trattato del gruppo dirigente di Potere operaio. Signor Presidente, se lei mi rivolge qualche domanda specifica riesco ad essere più preciso nelle risposte, altrimenti i fatti sono così lontani che è come parlare di Risorgimento.

PRESIDENTE. In realtà, stiamo assistendo in piccolo alla riproduzione dello stesso schema. All’interno dell’arcipelago dell’antagonismo sociale si muovono gruppi distinti che sono spesso in un rapporto di forte contrapposizione, anche ideale, che attiene soprattutto alla scelta dei mezzi più che ai fini. Quindi, nella comunanza dei fini stabiliscono tra loro rapporti di osmosi – come ha detto poc’anzi – che attengono alle singole vicende individuali e, anche indipendentemente da queste, rapporti di assistenza e comunque di interlocuzione e comunicazione.

PIPERNO. Si riferisce all’omicidio D’Antona?

PRESIDENTE. Mi riferisco a quello che si sta riproducendo adesso, ma in particolare all’esperienza del passato.

PIPERNO. Signor Presidente, il punto è che lo scenario è completamente cambiato. Anche quando ricorrono gli stessi nomi non si tratta mai della stessa cosa. Del resto, Potere operaio nel richiamarsi alla tradizione anarco-sindacalista – penso, ad esempio, alle teorie di Sorel – intendeva coglierne solo alcuni riferimenti. Non dobbiamo dimenticare però che il clima rispetto al periodo fine Ottocento inizi Novecento era completamente diverso. Credo, peraltro, che anche nel caso del tragico omicidio D’Antona, la riedizione della sigla BR non significhi molto; è un po’ come quando Craxi si richiamava a Turati. Ci sono ovviamente degli elementi ideali, ma questi sono marginali rispetto alla sostanziale differenza di situazione, e, direi anche, di qualità degli uomini, nonché della selezione che la storia in un caso ha operato e nell’altro no. In genere, i brigatisti del tempo della mia giovinezza erano personalità che avevano attraversato delle fasi collettive, vale a dire personalità che partecipavano alla situazione italiana con una forte passione civile. Il fatto che abbiano praticato l’omicidio non li accomuna ad altri che pure praticano l’omicidio, ma che sono completamente estranei a questo tipo di esperienze. Credo che sarebbe un enorme errore pensare ad elementi di continuità basati unicamente sull’uso della violenza o dell’omicidio politico. Tutto questo senza essere collocato nel quadro specifico e proprio, finisce con il non dare alcuna indicazione rilevante.

PRESIDENTE. Lei confermerebbe questo giudizio anche qualora venisse accertato - come viene ipotizzato - che nei nuclei ricostituiti vi sia una continuità soggettiva almeno con la fase finale delle BR?

PIPERNO. Confermerei il mio giudizio perché in ogni caso coloro che hanno scelto di praticare la lotta armata non hanno affatto attraversato talune fasi storiche collettive del nostro paese, paragonabili a quelle degli anni ’70 e in quanto tali la qualità politica di questa nuova leva è irrilevante. Quindi, da questo punto di vista, penso che sia più facile che si tratti di disperati. Naturalmente della disperazione c’è sempre. Quando mi capita di vedere che un malfattore riesce a sottrarsi alla polizia dopo aver provocato dei danni posso avere – lo confesso – un moto di simpatia per il malfattore, proprio perché si ribella. Tuttavia la qualità di chi ha operato all’interno dello scontro sociale e, in questo senso, ha fatto parte della storia drammatica del paese è completamente diversa rispetto a quella di chi decide di agire in un certo modo perché disperato o emarginato. Penso, tra l’altro, che vi siano molti motivi in Italia per ribellarsi: ce ne erano prima, ce ne sono ora e, a mio giudizio, ce ne saranno anche in futuro e non solo nel nostro paese.

PRESIDENTE. Mi scusi, ma la mia domanda era un po’ diversa. Se alla base della riorganizzazione dei gruppi vi fossero le stesse persone - non mi riferisco al nucleo storico delle Brigate rosse ma ai protagonisti della fase finale delle BR (seconda metà degli anni ’80) - lei confermerebbe il suo giudizio?

PIPERNO. Sì. Ritengo che sia un fatto assolutamente marginale e accidentale. E’ come se Pace decidesse oggi di militare in un’organizzazione politica.

PRESIDENTE. Una sorta di continuità individuale, ma in un contesto completamente diverso da non creare legami tra le due cose. Sciolto Potere operaio, il gruppo che si riunisce intorno a "Metropoli" che rapporti aveva con l’area di Autonomia operaia? C’erano delle distinzioni?

PIPERNO. Sì. Il sottotitolo di quella rivista era "per un’autonomia possibile", il che denotava una contrapposizione con quella che veniva chiamata l’Autonomia operaia organizzata, vale a dire quelli che pensavano di ricostituire una nuova organizzazione politica sotto le vesti dell’autonomia. Tutta la rivista polemizza con posizionisimili.

PRESIDENTE. Le posizioni di Negri?

PIPERNO. Non solo. Anche quelle di via dei Volsci. Allora vivevo a Roma e quindi mi viene in mente via dei Volsci, ma questa attitudine a ricostituire ogni volta un’organizzazione non riguardava soltanto via dei Volsci, ma anche i compagni del Veneto e di Bologna. Comunque, il dibattito politico era soprattutto con loro. Noi eravamo più vicini ad altri gruppi, tra cui anche i bolognesi, in particolare Berardi, soprannominato Bifo, che peraltro credo abbia partecipato all’esperienza di redazione della nostra rivista.

PRESIDENTE. Qual era il rapporto con le Brigate rosse, a parte i brigatisti che provenivano dal vostro gruppo, con i quali avevate rapporti, a parte Morucci e Faranda?

PIPERNO. Non avevamo rapporti. Parlo per me, il caso di Pace lo avete già esaminato e quindi non parlo per lui. Non avevamo alcun rapporto con Morucci e Faranda. Pace, credo, in vita sua ha militato nelle Brigate rosse per un certo periodo ma è un fatto che riguarda solo lui. Come ho già detto davanti ai giudici, noi stessi non sapevamo che Pace, sia pure per un periodo limitato, avesse militato nelle BR. Non c’era alcun rapporto tra noi e le BR. In particolare, non sapevo neanche di Morucci; sospettavo che avesse qualche legame, ma né io né gli altri due amici che lavoravano alla rivista sapevamo che Pace fosse entrato nelle BR, altrimenti avremmo avuto un comportamento più prudente nell’affiancarlo a quelle trattative.

PRESIDENTE. Dato questo quadro di insieme, come si sviluppa la trattativa, che è l’aspetto che interessa la Commissione? E’ stato contattato dagli esponenti del PSI o è lei che ha preso l’iniziativa?

PIPERNO. Non mi sarebbe mai venuto in mente.

PRESIDENTE. Lei conferma che avvenne tutto tramite il direttore de "L’Espresso"?

PIPERNO. Sì, esattamente. Inizialmente attraverso Paolo Mieli, che era stato studente all’epoca del ’68 ed era una delle persone con cui noi, dal punto di vista amicale, eravamo rimasti in contatto. Poi, è l’allora direttore de "L’Espresso" a prendere in mano la vicenda. Io ho incontrato l’onorevole Signorile a casa del dottor Zanetti. Non ricordo più la data, forse tra la fine di marzo e i primi di aprile, anzi successivamente perché tutto questo avviene dopo l’arresto di quella che allora era mia moglie, Fiora Pirri, che viene arrestata ed accusata di aver partecipato alla strage di via Fani. Faccio questa piccola premessa per rimarcare che una delle ragioni per cui alla fine mi sono tuffato in questa vicenda, che sapevo non avrebbe portato del bene alla mia vita, era che reputavo assolutamente intollerabile il fatto che Fiora fosse stata arrestata ed accusata di aver partecipato alla strage di via Fani. Naturalmente, non era la sola ad essere stata arrestata ed accusata di questo; secondo la polizia, secondo la DIGOS di allora, a via Fani c’era praticamente un corteo perché avevano emesso mandati di cattura per oltre sessanta-settanta persone di cui conoscevano i nomi. Nel caso di mia moglie l’indizio, o meglio, la prova, come dicevano loro, si basava sul fatto che da un identikit risultava che una delle donne, forse la sola, che avesse partecipato alla strage di via Fani, aveva gli occhi a mandorla; e mia moglie aveva quella caratteristica. La cosa mi sembrava grave non solo perché ovviamente mi colpiva negli affetti, ma anche per l’irresponsabilità del modo di condurre le indagini, che era un incitamento ad un ulteriore reclutamento nelle BR.

PRESIDENTE. E’ un problema anche attuale, se conviene più andare a largo raggio e determinare così una radicalizzazione o fare interventi più mirati e selettivi.

PIPERNO. Credo ci fosse una riedizione delle tecniche antiguerriglia, quindi l’idea che bisognasse prosciugare l’area.

PRESIDENTE. Come si sviluppa questo contatto?

PIPERNO. Ho ricevuto alcune telefonate da Mieli con il quale ho avuto anche un incontro. Stavo per partire per gli Stati Uniti, dove avevo avuto una borsa di un anno al MIT, alla quale tenevo moltissimo. Poi, all’inizio di aprile era stata arrestata mia moglie e avevo capito che sarebbe stato difficile: insieme alla sua famiglia ero uno dei pochi che potesse vederla in carcere. Avevo spiegato a Mieli che, appena Fiora fosse uscita, speravo di poter partire e quindi non avevo voglia di mettermi in questa storia. Mieli era stato particolarmente insistente; conoscevo Zanetti già dal ‘68 per cui, alla fine, ho pensato di incontrarlo perché mi sembrava importante che quelli del PSI capissero ciò che le BR rappresentavano, che non erano frutto dell’ingerenza di qualche potenza straniera, fosse il KGB o la CIA. La cosa più preoccupante, secondo me, era che non solo i politici, almeno quelli di sinistra che avevo avuto modo di frequentare, ma anche le autorità inquirenti non si rendevano affatto conto, così come era stato negli anni precedenti, di cosa stava succedendo. Passava così una spiegazione super semplificata, e quindi occultante, circa il fatto che si trattava di una qualche congiura degli stranieri, sia perché Moro era filocomunista sia per altri motivi. Ognuno spiegava non con quello che era successo sotto i suoi occhi, a casa sua, con i suoi figli, in quegli anni, ma dando una interpretazione ideologica da guerra fredda; sicché ognuno ributtava sull’altro la responsabilità di quella drammatica situazione che era venuta a determinarsi. A mio parere era già chiaro nel 1968-‘69 che c’era una situazione che andava dritta verso quella direzione.

PRESIDENTE. Come si è sviluppata la trattativa: Zanetti la fa incontrare con Signorile e questo cosa le chiede in particolare?

PIPERNO. Credo di aver spiegato a Signorile come stavano le cose: per i brigatisti era indispensabile uscire da quella specie di vicolo cieco in cui si erano incagliati; e non si trattava tanto di chiedere un riconoscimento politico quanto di fare un gesto, che, peraltro, non si chiedeva ai rappresentanti dello Stato, ma alla Democrazia cristiana. Alla fine, era sembrata sufficiente un’iniziativa di Fanfani, che non era il segretario della DC e, mi pare, neanche il Presidente del Senato (avendo ricoperto molte cariche, non ricordo quale carica avesse allora); quello che contava era che Fanfani avesse un grosso peso politico nella DC per cui una iniziativa sua che andasse nel verso non di concedere ai brigatisti ciò che la legge non permetteva di concedere, ma semplicemente di aprire una discussione con loro, era sufficiente, se non a salvare Moro, certamente a impedire che si consumasse il delitto nel tempo breve. Gli avvenimenti si sono svolti in questi termini.

PRESIDENTE. Questa è un’analisi che lei faceva senza aver avuto ancora contatti con le BR?

PIPERNO. Non avevo avuto contatti diretti con le BR, ma essendo vissuto in Italia pensavo che le cose stessero così, le informazioni che avevo mi permettevano di dare un giudizio di questo tipo. Del resto, avvertii l’onorevole Signorile che questo era quello che io pensavo. Ciò che io sostenevo sembrava plausibile perché nel frattempo si erano verificati diversi episodi, compreso quello del lago della Duchessa. Per me era stato facile riconoscere il comunicato del lago della Duchessa come redatto dai fascisti o dai servizi segreti, ma certamente non proveniente dalle BR, pur non avendo con queste alcun contatto diretto.

PRESIDENTE. Il contatto fu stabilito tramite Pace?

PIPERNO. Non solo tramite Pace. Naturalmente io non ricordo attraverso quali altre persone fu stabilito il contatto, ma non si trattava solo di Pace. A noi interessava far pervenire non ad un’ala delle BR, ma a tutte le BR la possibilità di uscire da quella situazione tramite un intervento di Fanfani.

PRESIDENTE. Fu fatto subito il nome di Fanfani?

PIPERNO. Subito risultò chiaro che non era possibile pensare di scarcerare delle persone perché comunque i comunisti non ne volevano sentire parlare e i democristiani, in quella particolare situazione, erano praticamente in mano dei comunisti. Era chiaro però che era possibile "bypassare" questo intoppo facendo intervenire direttamente non le autorità dello Stato ma un personaggio autorevole come Fanfani. Non credo che all’inizio si fosse pensato a Fanfani; probabilmente Signorile aveva suggerito un altro nome. Era chiaro però che i brigatisti non volevano assolutamente che Craxi facesse da mediatore nella vicenda. Loro avevano uno schema geometrico, estremamente semplificato, in base al quale tutto dipendeva dagli Stati Uniti e in Italia, in particolare, tutto dipendeva dalla DC; pertanto, i brigatisti volevano un rapporto diretto con la Democrazia cristiana. Da questo punto di vista l’onorevole Signorile aveva compiuto degli sforzi e aveva operato dei sondaggi prima di indicare dei nomi, in modo da non indicarli a vuoto. Ricordo perfettamente che, in ultimo, era stato fatto il nome di Fanfani il quale era disponibile a fare una dichiarazione.

PRESIDENTE. Come si stabilì il contatto con le BR?

PIPERNO. Si stabilì attraverso le assemblee e i militanti di cui non ricordo i nomi, ma anche se li ricordassi non li farei perché ho assunto un impegno d’onore al quale non intendo rinunciare nella maniera più assoluta.

PRESIDENTE. Si trattava di militanti di Potere operaio, delle BR o di persone borderline?

PIPERNO. Erano persone borderline.

PRESIDENTE. Come nacque l’interlocuzione? Non solo attraverso Pace, Morucci e Faranda?

PIPERNO. Non solo tramite loro, ma anche attraverso militanti del movimento che avevano contatti con i brigatisti che non erano di Roma. A Roma il contatto con le BR era possibile tramite dei militanti che erano appartenuti a Potere operaio e che noi conoscevamo, ma proprio per questo gli altri brigatisti nutrivano sospetti nei confronti di tali soggetti che provenivano da Potere operaio. Tant’è vero che dopo l’omicidio di Moro ho avuto un incontro diretto con Moretti per spiegare il tutto.

PRESIDENTE. Di questo incontro lei ha parlato a Bianconi nell’ultima intervista su "La Stampa".

PIPERNO. Quando è morto Craxi, ma ne avevo già parlato prima.

PRESIDENTE. Questo mi sembra importante rispetto allo schema che, forse per difetto di informazione, avevo prima. Quindi, voi non avete lavorato su un’ala trattativista delle Brigate rosse?

PIPERNO. Noi abbiamo lavorato su tutte le BR perché era l’unica possibilità.

PRESIDENTE. Lei quindi potrebbe dire che se Fanfani avesse pronunciato il suo discorso lo stesso Moretti sarebbe stato disponibile a liberare Moro?

PIPERNO. Questo non potrei dirlo con sicurezza. In prigione ho incontrato Gallinari, con il quale non avevo all’inizio un grande rapporto; e il carcere, dove abbiamo giocato a scacchi per mesi, ci ha avvicinati. Gallinari proveniva da un’esperienza assai lontana da quella di Potere operaio e dagli incontri e dalle discussioni che ho avuto con lui in carcere ho maturato l’idea che non era affatto certo che Moro si sarebbe salvato. Ciò che posso confermare è che Moro non sarebbe stato ucciso nel maggio ’79; ma, dopo averci riflettuto e dopo tutti gli incontri, non saprei dire cosa sarebbe accaduto successivamente. Fanfani poi non pronunciò il suo discorso, ma fece parlare Bartolomei.

PRESIDENTE. Lei riscontrò da più canali la disponibilità delle BR ad accettare l’interlocuzione con qualche grande esponente della DC?

PIPERNO. Sì; riscontrai la loro disponibilità ad ascoltare cosa avessero da dire gli esponenti della Democrazia cristiana e – andava da sè – a non uccidere l’ostaggio nel frattempo.Tale disponibilità delle BR era da noi conosciuta attraverso diversi canali ed è per questo che abbiamo condotto fino in fondo questo tentativo pur essendo assolutamente coscienti del fatto che prima o poi si sarebbe rovesciato – come è accaduto – contro di noi.

PRESIDENTE. Si trattava poi dello stesso consiglio che l’esperto americano diede nell’ambito del comitato di crisi costituito al Viminale, cioè aprire una trattativa non ufficiale, non istituzionale, per prendere tempo e dare tempo alla polizia di agire.

PIPERNO. Ritengo anche che i brigatisti fossero pressati dall’azione investigativa anche se l’azione della polizia italiana non era di particolare intelligenza. Tuttavia, chi ha vissuto in quel periodo a Roma può ricordare che le forze dell’ordine erano presenti. Pertanto, a mio parere, una delle ragioni a favore della trattativa consisteva nella possibilità per le BR di sganciarsi.

PRESIDENTE. Nel frattempo, nella concitazione di quei giorni, la vicenda fu scandita dai comunicati delle BR che segnarono le tappe del processo cui Moro veniva sottoposto. Le fu riferito niente dei contenuti di tale processo? Avete assunto informazioni? Sapevate cosa diceva Moro, se parlava o meno?

PIPERNO. Noi non sapevamo più di quanto fosse pubblicato sulla stampa. Ciò di cui eravamo sicuri era che Moro fosse vivo, anche all’epoca del comunicato del lago della Duchessa che rappresentò il momento più drammatico. Successivamente si verificò un altro episodio. All’inizio di maggio, forse il 5, fu emanato un nuovo comunicato in cui venne usato il gerundio "eseguendo". Anche quello fu un momento drammatico. In entrambi i casi, in base alle informazioni di cui disponevamo e che provenivano da più fonti, io ho dato per certo – assumendomi la responsabilità di questo – che Moro fosse vivo.

PRESIDENTE. Nel famoso fumetto di "Metropoli" voi date una rappresentazione per immagini del processo a Moro abbastanza vicina a quella che poi si è saputo essere la realtà. Moro prima venne sottoposto verbalmente ad una serie di domande rivolte direttamente da Moretti – in base a quanto abbiamo accertato – poi, dal momento che questa modalità di svolgimento dell’interrogatorio non sembrava fornire risultati utili, furono predisposte domande scritte a cui poi Moro doveva rispondere e alle quali, in pratica, ha risposto con il memoriale. Maccari ci ha detto che Moretti arrivava con le domande già preparate, già predisposte e quindi le passava al presidente Moro prigioniero. Nel fumetto di "Metropoli" tutto questo è rappresentato per immagini e tutti i personaggi hanno un viso: Signorile, Bartolomei e Fanfani sono abbastanza riconoscibili; ovviamente Moretti, Morucci e Faranda non sono riconoscibili, però hanno un viso. Invece chi fa le domande è senza volto.

PIPERNO. Penso che noi abbiamo tentato di celare l’idiozia delle BR dietro un personaggio senza volto. Le BR, come ho detto prima, erano davvero convinte che si potesse interrogare Moro e scoprire i legami con gli Stati Uniti. C’era un livello di analfabetismo politico nel gruppo dirigente delle BR che faceva paura e che peraltro secondo me traduceva la situazione ingarbugliata del paese.

PRESIDENTE. Però Moretti, Morucci e Faranda avevano un volto, anche se non erano riconoscibili. Perché proprio colui che fa le domande non ha un volto?

PIPERNO. Il fumetto non l’ho fatto io, ma un disegnatore molto bravo, il quale ha assistito alle nostre discussioni in redazione e, sulla base di queste, ha realizzato il fumetto. Credo che la cosa stesse a significare appunto una specie di carattere anonimo di quelle domande, anche perché a noi sembrava particolarmente sbagliato da parte delle BR impostare il rapporto come se Moro fosse un esecutore degli ordini che venivano dagli Stati Uniti. Le BR si aspettavano davvero che Moro potesse rivelare dei segreti, come "quel giorno mi ha chiamato il Presidente e mi ha detto che a quello dovevamo fare questo". C’era una specie di inconsistenza non solo del mondo politico ufficiale, ma anche del mondo che si ribellava a quest’ultimo e secondo me era tradotta bene da quelle domande. A proposito di Tangentopoli, noti che le BR non si sono accorte che Moro diceva apertamente di aver ricevuto finanziamenti che erano illegittimi.

PRESIDENTE. Perché dice che non se ne sono accorti? Se Moro lo afferma così chiaramente, non è possibile che non se ne siano accorti. In realtà glielo chiedono e Moro risponde. Il fatto che non se ne siano accorti è una delle strane verità che circolano in Italia e non si sa su cosa si basi. La domanda, semmai, è un’altra, cioè perché non hanno utilizzato questa informazione.

PIPERNO. Le dico che loro hanno completamente sottovalutato questo aspetto, perché si aspettavano delle rivelazioni di altro tipo, da romanzo giallo; ad esempio le BR erano interessate a sapere perché quel palestinese - non ricordo il nome - fosse stato liberato all’epoca in cui Moro era al Governo, se questa decisione venisse o meno dagli Stati Uniti. Invece, tutti gli aspetti relativi alla politica italiana, che erano clamorosi, secondo me i brigatisti li sottovalutavano semplicemente perché davano per scontato che i partiti rubassero. Dando per scontato ciò, quel tipo di notizie non interessava loro niente. Questa è un’impressione che ho avuto discutendo, in carcere e fuori (non oggi, ma vent’anni fa), con quelli che erano stati protagonisti. Perciò le dico questo.

PRESIDENTE. Durante la trattativa, non ebbe mai informazioni sui contenuti dell’interrogatorio?

PIPERNO. No, fuorché ciò che emergeva attraverso le lettere di Moro oppure i comunicati delle BR.

PRESIDENTE. Quindi lei ha già risposto alla domanda sul motivo per cui i brigatisti hanno questo comportamento singolare, cioè non utilizzano per niente il memoriale.

PIPERNO. Credo che si trattasse di una vera e propria inconsistenza politica da parte dei brigatisti, di un’incapacità di capire perché accecati da un’ideologia terzomondista, secondo cui gli ordini arrivavano dagli Stati Uniti. Loro erano interessati a scoprire quel segreto, che ovviamente non c’era, perché non c’era bisogno che gli ordini venissero dagli Stati Uniti per comportarsi male; bastava la qualità nostrana.

PRESIDENTE. Invece il giornalista Scialoja, che abbiamo audito, non ha escluso che lei possa essere stato la fonte di alcune informazioni sul contenuto del memoriale, in particolare di brani del memoriale che non sono stati ritrovati.

PIPERNO. Io?

PRESIDENTE. Se vuole, le faccio leggere quella parte del resoconto stenografico dell’audizione di Scialoja.

PIPERNO. No, mi fido, ma non so in base a cosa io avrei dato questa informazione.

PRESIDENTE. Scialoja nell’ottobre del 1978 pubblica degli articoli su "L’Espresso", non appena viene ritrovata la copia del memoriale in via Monte Nevoso.

PIPERNO. Posso sapere cosa dice grosso modo? Oppure mi riformuli la domanda. Ho sempre detto quello che sapevo.

PRESIDENTE. Come lei sa, c’è il problema di capire se questo memoriale, nelle copie ritrovate a via Monte Nevoso (l’una a dieci anni di distanza dall’altra), sia stato ricostruito interamente o se ci siano parti mancanti. L’idea che ci potessero essere nel memoriale parti che poi non sono state mai più ritrovate (e quindi potrebbero non averne mai composto il contenuto) viene lanciata, tra gli altri, da Scialoja nell’immediatezza del ritrovamento. Egli afferma che non tutte le carte sono state passate dal Ministro dell’interno alla magistratura e in particolare mancherebbero delle parti, dove per esempio si parlava di azioni del Servizio israeliano in Italia, compiute avvalendosi di clausole di trattati segreti. A Scialoja abbiamo chiesto come potesse dire con estrema precisione (perché il brano viene riportato quasi fra virgolette) che nel memoriale c’era questa pagina, che poi non farebbe parte di ciò che è stato acquisito in sede giudiziaria. Scialoja risponde: "In realtà erano notizie che circolavano, ma le mie fonti possibili possono essere il professor Piperno o il dottor Di Giovanni".

PIPERNO. Allora sarà Di Giovanni! Ho incontrato sia Gallinari sia Moretti ed ho chiesto loro, poiché avevano promesso alle masse la rivelazione della verità, perché non avevano fatto circolare queste notizie. In entrambi i casi – e io mi fido sia di Gallinari, sia di Moretti – ho avuto una risposta di questo tipo (anche se non ricordo esattamente in che termini dal punto di vista sintattico), cioè che ciò che era scritto là dentro era completamente irrilevante, non valeva la candela. Questo mi tornava perfettamente rispetto alla loro impostazione, già da prima del delitto Moro.

PRESIDENTE. Perché invece nei comunicati affermano esattamente il contrario? Si sottolinea l’estrema importanza delle cose che Moro diceva.

PIPERNO. A mio parere perché si ripromettevano, di interrogatorio in interrogatorio, di arrivare a qualcosa dove ci fosse – per così dire – della carne, che per loro era questa dipendenza dal SIM, cioè dallo Stato imperialista delle multinazionali. Poi, cammin facendo, non solo hanno constatato lo spessore della personalità dell’ostaggio, ma anche il carattere un po’ ridicolo dell’obiettivo che si prefiggevano in quegli interrogatori. A me sembra che sia andata così. Posso aver detto a Scialoja ciò che ho appena detto a lei. Non lo ricordo più, ma può darsi benissimo che abbia comunicato a Scialoja, Zanetti e ai dirigenti politici che ho avuto modo di incontrare questa stessa valutazione che ho fatto. Quindi, da questo punto di vista, può darsi che Scialoja, ricostruendo, abbia detto che questa informazione gliel’ho data io. Adesso non voglio smentire Scialoja.

PRESIDENTE. Della dialettica interna alla DC, Signorile le riferiva?

PIPERNO. Penso di sì, ma non ricordo, né mi sembrava interessante.

PRESIDENTE. C’è un punto su cui abbiamo concentrato la nostra attenzione. Dalle lettere di Moro risulta che egli conosceva una posizione più aperta verso la trattativa assunta da Misasi. Personaggi della DC ci hanno detto che questo aspetto li sorprendeva e che aveva fatto loro pensare che ciò provasse l'esistenza di un canale di ritorno. La posizione di Misasi, infatti, non era mai stata esplicitata né diventata pubblica. La Faranda, in occasione della sua audizione, ci ha detto che questa informazione potrebbe essere transitata tramite Pace o lei e che proveniva dai socialisti.

PIPERNO. Ricordo, a proposito di Misasi, di aver incontrato l'onorevole Mancini, il quale non era a conoscenza dei miei contatti con Signorile, malgrado sia un mio buono amico; attualmente lui è sindaco e io sono un suo assessore. La ragione per la quale non dissi a Mancini dei miei contatti con Signorile è che pensavo che la cosa in quel periodo dovesse essere tenuta riservata. Parlammo però spesso della storia di Moro e ricordo che Giacomo Mancini tornò più volte sul fatto che quegli appelli di Moro a Misasi sembrassero indicare l'esistenza di un altro possibile giro e - spero di ricordare bene - sospettò addirittura che potessero esserci elementi appartenenti alla mafia. Per quanto ne sapevo cercai di smentire tale ipotesi poiché non mi tornava in alcun modo la possibile presenza della mafia in questa storia. Nel caso dell'onorevole Mancini credevo che tale ipotesi fosse dovuta ad un sospetto nei riguardi della capacità della mafia di infiltrarsi nel mondo politico; onestamente questo è l'unico aspetto che ricordo relativamente a Misasi non conoscendo a fondo il mondo della DC; in particolare non conoscevo né conosco l'onorevole Misasi.

PRESIDENTE. Avete avuto nell'arco di questo periodo l'impressione che vi siano state altre trattative che si sovrapponevano alla vostra?

PIPERNO. Penso che dei dirigenti romani della DC avessero utilizzato altri canali per arrivare ai brigatisti e che questo fosse un giro completamente diverso dal nostro, collegato al mondo de "L'Espresso", per via di una amicizia o di una certa familiarità comunque con questa rivista risalente al periodo del '68. Credo vi fossero stati dei tentativi della DC di avere rapporti o informazioni tramite esponenti di Autonomia. Onestamente, però, signor Presidente, non saprei dire di più su questo argomento.

PRESIDENTE. Nel comunicato n. 4 Moretti scrive di rifiutare trattative segrete e misteriosi intermediari. Pace ci ha riferito che probabilmente il misterioso intermediario era lei anche se, a mio parere, sembrerebbe difficile che Moretti le abbia attribuito questa qualifica.

PIPERNO. Ovviamente sarebbe opportuno chiederlo a Moretti. Penso che sussistesse un sospetto, come avrò modo di dire se mi interrogherà successivamente a proposito del mio incontro con lui, dei brigatisti secondo il quale in realtà una parte dei militanti di Potere operaio erano entrati nelle Brigate rosse per egemonizzarle e condizionarle. Che questo fosse un chiodo fisso, in particolare di Moretti, è vero; quindi, poiché vi è sicuramente stata una grossa discussione al loro interno, è possibile che in quel comunicato, che peraltro non ricordo più, vi fosse un'allusione al rifiuto di qualsiasi trattativa.

PRESIDENTE. Nell'intervista a "La Stampa" parla anche di contatti con uomini del PCI e specifica che, a suo avviso, all'interno della posizione rigida assunta dal PCI esistevano delle dissonanze. Potrebbe specificare meglio?

PIPERNO. Anche se non hanno assunto una posizione pubblica al riguardo, penso che alcuni dirigenti del PCI fossero più cauti in quella specie di campagna di contro guerriglia che la segreteria del PCI, attorno a Berlinguer, aveva messo in piedi. Vi erano sicuramente dei dirigenti del PCI più critici, non solo romani ma anche altri.

PRESIDENTE. Ci potrebbe dire con chi ha avuto contatti?

PIPERNO. Non posso dire cose che riguardano altri. In Italia non si guarda a queste cose da un punto di vista storico. Vi è sempre qualche procuratore pronto a ricominciare. A meno che non siano queste stesse persone a deciderlo, onestamente non me la sento di farlo io.

PRESIDENTE. Non credo che nessun procuratore possa ritenere di aprire una indagine sul fatto che qualche uomo del PCI non era d’accordo sulla linea della fermezza, che abbia parlato con lei di questo e che, semmai, le abbia detto di vedere cosa sarebbe stato possibile fare.

PIPERNO. Nessuno mi ha detto questo.

PRESIDENTE. Barca, per esempio, in occasione della sua audizione, ci ha fatto capire in modo abbastanza trasparente che non era del tutto d’accordo con la linea della fermezza e che nutriva delle perplessità in merito.

PIPERNO. Non ho incontrato Barca. Non posso fare nomi perché mi sembrerebbe di tradire un impegno assunto in un periodo difficilissimo. Non potrei farne neanche per persone che hanno commesso dei delitti; a meno che queste persone non decidano di precisare le loro posizioni non posso di certo farlo io per loro.

PRESIDENTE. Vero è che a tanti anni di distanza è facile ragionare a mente fredda; sembrerebbe quindi che da diverse fonti scaturisca che la linea giusta, che non corrispondeva né a quella della fermezza né a quella della trattativa nel senso della liberazione dei prigionieri, in realtà non era emersa. Si trattava di mantenere per quanto possibile aperta una interlocuzione che avrebbe però avuto un senso se le azioni degli apparati di sicurezza avessero dato qualche speranza di poter ritrovare la prigione e liberare l'ostaggio. Altrimenti, tutto questo sarebbe stato sterile; prima o poi le cose sarebbero finite come sono finite. Su questo aspetto la Commissione si interroga a fondo. Personalmente non credo al "grande vecchio"; non credo ad una eterodirezione delle Brigate rosse; penso che le BR fossero la punta avanzata di un movimento molto ampio - mi riferisco alla prima domanda - con un forte radicamento sociale che coinvolgeva gran parte di una generazione intera italiana. Trovo, però, che nella ricostruzione della vicenda Moro in particolare non si riesce ad uscire dalla prigionia del già detto e ripetuto una serie di volte. Per esempio, non credo affatto alla sua ricostruzione della vicenda delle carte di Moro. Da quanto ho potuto capire leggendo su Moretti, costui doveva essere sufficientemente intelligente per comprendere l'importanza di quanto Moro gli aveva detto. Penso quindi che intorno alle carte di Moro si sia giocata una partita molto più complessa e complicata; lo stesso Moro che interloquisce su questo dichiara di poter dare informazioni gravi sotto il profilo politico e della sicurezza dello Stato nella prima lettera a Cossiga. Tutto questo è provato dai documenti: Moretti ci dice nel comunicato che Moro aveva dato queste informazioni e, in parte, nelle carte ritrovate ne abbiamo avuto conferma perché - come giustamente diceva anche lei - Moro nella vicenda delle carte parla di Gladio sia pure in maniera sfumata; racconta una serie di problemi. Analisi testuali porterebbero a dire che il memoriale non è stato trovato per intero e sorgerebbe il problema di che cosa c'è nelle parti mancanti. Certo è che del memoriale si è trovata soltanto una copia e mai l'originale; né tantomeno le altre copie. La cosa strana è che, salvo che in via Monte Nevoso, nelle varie perquisizioni che altri covi brigatisti hanno subìto, non si è mai trovata una sola delle carte di Moro. Tutto questo fa sorgere una serie di dubbi, che non attengono però alla storia delle Brigate rosse e a quella storia del movimento, ma a quanto avveniva dall’altra parte, cioè a cosa succedeva dalla parte dello Stato. Personalmente penso che questo sia l’aspetto della vicenda che deve essere ancora capito e percepito meglio. Purtroppo su di esso non c’è la collaborazione dei brigatisti, che spesso non danno spiegazione di alcune illogiche contraddizioni in cui cadono e che invece assumono un senso soltanto se pensiamo che una parte della storia non sia ancora conosciuta. Per esempio, Moretti afferma che durante il sequestro Moro il comitato esecutivo delle Brigate rosse si riuniva, almeno all’inizio, a Firenze, mentre Azzolini lo esclude; per cui non si capisce bene Moretti chi andava a trovare a Firenze. In questa aria di dubbio si inserisce un articolo che appare su "Metropoli". Mi riferisco all’articolo "Oroscopone", in ordine al cui significato vorrei che lei innanzi tutto ci desse una spiegazione.

PIPERNO. Non ne ho idea, non l’ho nemmeno letto.

PRESIDENTE. Pace ci ha detto la stessa cosa, cioè che lui non ne sa niente. Io ho letto la rivista…

PIPERNO. Lei è uno dei pochi.

PRESIDENTE. …non ho letto tutti i numeri, ma solo i primi, e vi ho riconosciuto una certa dignità culturale. Ovviamente, moltissime delle cose che vi sono scritte non le condividevo allora e tantomeno oggi, però qui si legge, ad esempio, che "l’Oroscopone" è la sorte delle "vittime" del blitz Calogero. Quindi, il giornale si interroga su quello che sarebbe stato l’esito di quell’inchiesta e parlano Aldo Natoli, Carmelo Bene, Alberto Arbasino, Giorgio Bocca, Ruggero Orlando, Eco, Montanelli, Forattini e Benigni. Questo la dovrebbe dire lunga su quella che era l’Italia di quegli anni; ne abbiamo parlato altre volte e in questo le do pienamente ragione, certamente nessuno conosce più nessuno. Forattini afferma che lui è un disegnatore e di queste cose non se ne occupa; Bocca fa un ragionamento più articolato. C’è poi un articolo di una maga Ester, che letto così è un articolaccio, una cosa indegna senza senso, a meno che non fosse un modo con cui voi ritenevate di interloquire e di lanciare una serie di messaggi cifrati e ascolterò con interesse le domande di Mantica su questo punto, però in esso si parla di grande capo, di accusatore.

PIPERNO. Posso sapere di che numero si tratta?

PRESIDENTE. E’ il numero due.

PIPERNO. Noi eravamo in prigione; è semplicemente questa la ragione per cui non l’abbiamo letto.

PRESIDENTE. Ma poi l’avete letta la rivista.

PIPERNO. Ma, scusi, è una rivista di cinquanta pagine. Noi facciamo ancora delle riviste ed io non leggo mai le riviste che faccio.

PRESIDENTE. Lei però conosceva la redazione; vorrei quindi che lei desse uno sguardo, seppur veloce, a questo articolo e cercasse di spiegarmene il senso.

PIPERNO. Sa, a "Metropoli" c’era una componente che potrei dire profondamente irrazionalista. Non penso che ci sia alcun segreto, né che avrebbe avuto un senso cercare di mandare messaggi in quella maniera. Se si volevano mandare messaggi a qualcuno era possibile farlo tramite canali non pubblici. Escludo quindi che vi sia un messaggio cifrato, conoscendo il carattere "random" di quella redazione, per cui alle volte c’erano delle persone, altre volte persone diverse. Quest’articolo, che fra l’altro non mi pare granché, lo attribuirei più alla qualità redazionale della rivista piuttosto che a dei progetti politici significativi.

PRESIDENTE. Ma lei non ci potrebbe dare nemmeno indicazioni su chi l’ha scritto?

PIPERNO. Guardi, io ero in prigione; non ne ho la minima idea. L’unica cosa che escluderei è che sia stata una donna.

MANTICA. Signor Presidente, volevo fare delle domande al professor Piperno solo relativamente a "Metropoli". L’altro giorno il dottor Pace, nel corso della sua audizione, ha fatto una dichiarazione in questa Commissione che nessuno di noi ha preso sul serio; ad un certo punto, alla domanda "come si finanziava ‘Metropoli’" ci ha risposto tranquillamente "con rapine". Devo dire che la cosa ci ha lasciato, dopo, un po’ perplessi.

PRESIDENTE. Anche durante.

PIPERNO. Penso che sia una boutade.

MANTICA. No, lo ha detto seriamente; lo ha detto così seriamente e tranquillamente, come se ci avesse detto che andava al supermercato a comprare la carne, che al momento nessuno di noi ha afferrato il senso di tale affermazione.

PRESIDENTE. Potevamo, ad esempio, domandargli chi fossero i rapinati.

PIPERNO. Io penso che si tratti di una boutade. Conosco Pace, e "Metropoli"; credo che si tratti di una boutade.

MANTICA. Le mie domande sono relative soprattutto a quest’articolo di cui parlava prima il Presidente, perché penso che lei ci possa aiutare. Faranda e Morucci collaborarono al primo numero di "Metropoli". In viale Giulio Cesare, a casa della Conforto, tra gli oggetti personali dei due brigatisti viene trovata una macchina da scrivere che ha battuto alcuni degli articoli del primo numero della rivista; quello del famoso fumetto. Questo è affermato dalla sentenza del primo processo Moro.

PIPERNO. E’ falso. Sa, nei processi si affermano tante cose false. E’ falso, totalmente falso. E’ escluso: non hanno collaborato. Non solo non scrivono sulla rivista, ma non sono neanche utilizzati come fonti.

MANTICA. Quindi, il fatto di presentarsi alla professoressa Conforto come collaboratore della rivista "Metropoli"…

PIPERNO. Io non li ho mai presentati.

MANTICA. Anche questo è scritto nella prima sentenza del processo Moro…

PIPERNO. Nella prima sentenza del processo Moro io sono condannato a dieci anni. Scusi, lei conosce l’Italia?

MANTICA. Sì, però qui noi dobbiamo stabilire se le sentenze…

PIPERNO. Lo so, però lei non si limiti al primo processo. Nel primo processo eravamo stati tutti condannati per aver ucciso Moro.

MANTICA. Siamo convinti che questo è uno strano paese, però, se le sentenze della magistratura non sono fonte di informazioni ed altre fonti di informazioni non se ne hanno, alla fine è difficile capire. Comunque, io le ho fatto una domanda e lei ha risposto che si tratta di cosa assolutamente non vera. Quello che è strano è che nel fumetto c’è una protagonista femminile, Anna, un’insegnante, che è anche un personaggio di cui parla dopo Elfino Mortati.

PIPERNO. Chi è Mortati?

PRESIDENTE. Elfino Mortati è un uomo dell’estrema sinistra toscana che uccide, forse non in maniera premeditata, un notaio a Prato, a questo punto si dà alla latitanza e si rifugia a Roma – lui non era romano – presso due uomini delle BR, che lui non conosce per nome ma per soprannome; il soprannome della donna è Anna.

MANTICA. Elfino Mortati afferma di incontrare questa Anna in tre basi del centro dove si discuteva…

PRESIDENTE. Vorrei dirle che noi non andiamo "dietro alle lucciole"; Elfino Mortati è il protagonista di una vicenda che somiglia a quella di questi giorni. Lui è un uomo che inizia a collaborare con la magistratura, con Fiore e Imposimato; poi, il giornale "La Nazione", di Firenze, pubblica un articolo in cui dà la notizia di questa collaborazione e quella collaborazione si interrompe.

MANTICA. Il professor Piperno mi ha risposto che non sa nemmeno chi sia Elfino Mortati, evidentemente il particolare che egli riconosce Anna e che identifica anche Moretti e Triaca nelle stesse basi… La domanda era volta a conoscere se lei sapeva di tale questione e mi ha già risposto di no. Parliamo di questo articolo. Vorrei sapere perché lei dice che non è scritto da una donna.

PIPERNO. Semplicemente perché ho letto "maga Ester" e credo che questo sia un camuffamento redazionale.

MANTICA. Questo articolo viene scritto mentre siete in carcere e quindi nessuna delle domande che le sto rivolgendo è finalizzata a capire se l’articolo l’ha scritto lei, il professor Pace o il professor Toni Negri.

PIPERNO. Il professor Negri con noi non ha mai collaborato.

MANTICA. Non è questa la domanda che le volevo rivolgere. Ciò che desta curiosità è che questo articolo, che viene pubblicato mentre vi trovate in carcere, fa una serie di previsioni su quando voi uscirete dal carcere. Si dice esplicitamente che la vostra liberazione sarebbe avvenuta entro due anni e che se ciò non fosse avvenuto si sarebbe dovuto affrontare il nodo del "grande capo" delle BR che appartiene alle "carte vecchie". Sulla questione "carte vecchie"–"carte nuove", la questione è aperta. Con il termine "carte vecchie" possiamo intendere personaggi storici dell’area delle Brigate rosse. Si dice anche – sempre in questo articolo – che il "grande capo" è russo, che è un gran signore che alla fine, però, si rivelerà un grande nemico delle BR. Si dice inoltre che ha a che fare con la lettera "c". Così è scritto, non mi sto inventando nulla. Secondo questo articolo si tratterebbe di un personaggio in grado di mandare un memoriale o una lettera. Quanto è scritto ha tutto il sapore non di un articolo scritto a caso. È vero che poi è necessaria anche un’interpretazione, ma così è scritto. E’ vero che si tratta di un articolo che ha quasi il sapore di un ricatto o comunque di una provocazione e che presenta elementi casuali, ma è un fatto che dopo pochi mesi lei e Scalzone siete fuori, mentre Negri uscirà successivamente, comunque entro i due anni, diventando deputato al Parlamento. Questo identikit di questo personaggio, della lettera "c", del grande russo, prosegue e si fa riferimento a musicisti noti o meno noti. Guarda caso, mettendo insieme tutto ciò che è scritto in quell’articolo, che casualmente gioca tra "carte vecchie" e "carte nuove", viene fuori la figura di un certo Igor Markevitch il cui cognome, avendo sposato una Caetani, inizia con la lettera "c". Se questa persona appartiene all’area dell’irrazionalità ciò sarebbe ben strano visto che si tratterebbe di un articolo irrazionale, di fantasia, in cui però una serie di elementi tendono a coincidere. Pur non credendo alla storia di Igor Markevitch, vorrei però capire come sia possibile che nell’ambito di una rivista politica di grande spessore si scherzi su un personaggio che compare anche da altre parti. Per combinazione è musicista, è russo, la lettera "c" corrisponde al cognome Caetani, riceve le carte di Moro e quindi è informato esattamente del memoriale Moro. Lei comprende che la curiosità diventa forte perché l’irrazionalità dovrebbe coincidere con una paurosa casualità. Lei, dal momento che l’articolo non è stato scritto da una donna, è ancora convinto, dal momento che le ho ricordato alcuni passaggi che peraltro può facilmente ritrovare nell’articolo che le è stato sottoposto…

PIPERNO. Il musicista risulta dall’articolo?

MANTICA. Nell’articolo si parla di musicisti noti e meno noti.

PIPERNO. Però, immagino che si parli anche di altre professioni relative all’edilizia o al mestiere dello spazzino. Ex post, dal momento che si parla di due "c", bisognerebbe trovare, oltre al cognome Caetani, a cosa si riferisca l’altra "c".

PRESIDENTE. In Italia le uniche due "c" sono quelle che fanno riferimento ai carabinieri. La domanda del senatore Mantica è tesa a conoscere chi sia questa persona. Qual è il senso di un articolo che contraddice completamente la sua visione delle cose?

MANTICA. Evidentemente nella sua realtà qualcuno la pensava in maniera diversa.

PIPERNO. Non credo, anzi credo che si trattasse di una presa in giro. Se lei scorre gli articoli di stampa di quel periodo si troverà senz’altro alla presenza del "grande vecchio". Questo è uno sbeffeggiare un modo di comportarsi non solo degli apparati investigativi, ma anche dei politici italiani; cosa che viene confermata dalla sua domanda.

MANTICA. In precedenza le avevo chiarito che non credo all’ipotesi di Igor Markevitch ed è proprio per questo motivo che mi ha incuriosito molto più del normale il fatto che invece un giornale come "Metropoli", di una certa serietà politica, scherzando o – come lei sostiene – prendendo in giro, invece descrive un personaggio che per combinazione corrisponde per molti versi a questa figura.

PIPERNO. Corrisponde, perché lei ne dà un significato ex post.

MANTICA. Certamente questo significato lo posso dare ex post, perché allora non avrei certamente capito che il riferimento era a Igor Markevitch. Io però non facevo neanche parte dell’area vicina alle Brigate rosse, ne tantomeno avevo rapporti con qualcuno che faceva parte delle colonne delle Brigate rosse.

PIPERNO. Neanche noi. Nello stesso periodo uscì sul giornale "Il Male", al quale anch’io collaboravo, un articolo in cui si descrive il "grande vecchio". Le chiedo di acquisire agli atti questo numero del giornale anzidetto in cui si descrive la figura del "grande vecchio". Una nuova presa in giro per chi pensa che dietro ad un movimento, che è al tempo stesso tragico ma radicato nella società italiana, sia da individuare una specie di trama da giallo. Credo che sia sbagliato leggere un articolo di questo genere in termini di ricostruzione di un giallo, credo che sia un errore. Lo penso davvero.

MANTICA. Stranamente però l’autore, che poteva descrivere vicende e personaggi di fantasia, alla fine in realtà descrive e dà l’identikit di un personaggio specifico.

PIPERNO. Mi scusi, ma a mio modo di vedere non fornisce un identikit. È lei che risale ad una persona che ha sposato una donna il cui cognome inizia con la lettera "c", per far tornare lo scenario.

MANTICA. Di Igor Markevitch, tra l’altro, se ne parla. Non è un nome che viene fatto qui per la prima volta.

PIPERNO. È vero che si parla della lettera "c", ma nel cognome russo la lettera "c" non compare. Pertanto, lei in buona fede, è costretto a ricorrere al fatto che questo personaggio ha sposato un’altra persona.

MANTICA. Come spiega che si faccia riferimento ad un russo, peraltro musicista.

PIPERNO. Non è difficile capire perché si parli di un russo. Tutto l’atteggiamento dell’epoca tende a farlo pensare.

MANTICA. Mi scusi, ma in quel periodo si parlava più della CIA che del KGB.

PIPERNO. Non sono d’accordo. Lo stesso Craxi, su suggerimento del generale Dalla Chiesa, sosteneva apertamente che a suo parere la vicenda proveniva da Praga e ancor prima era imputabile ai russi. È un’affermazione che ricordo perfettamente. Mi ricordo anche che nei giornali, non solo in quelli che per impostazione si avvicinavano alla destra ma anche in quelli vicini al Partito socialista italiano, si accennava esplicitamente alla possibilità che a tirare le file fosse qualche personaggio o qualche istituzione legata ai paesi dell’Est.

MANTICA. Dal momento che lei porta la Faranda e il Morucci dalla Giuliana Conforto…

PIPERNO. Senatore Mantica, le ho già detto che non li ho portati. Inoltre, le ripeto che sebbene ciò sia scritto nella prima sentenza, in quella definitiva queste dichiarazioni scompaiono e ne potete aver riscontro dagli atti processuali.

MANTICA. Lei Giuliana Conforto la conosceva?

PIPERNO. Sì, la conoscevo.

MANTICA. Lei non sapeva che era figlia di un noto agente del KGB?

PIPERNO. Conoscevo Giuliana perché conoscevo suo marito, un fisico che lavorava in un laboratorio accanto al mio, molti anni prima che si determinassero queste vicende. All’epoca, quando ho conosciuto il marito della Conforto che si chiamava Massimo Corbò, ero iscritto alla FGCI. Ho conosciuto Giuliana, oltre ad un astronomo che oggi lavora a Bologna, un certo Renzini, tramite suo marito. Giuliana era loro amica. Solo successivamente ha sposato il Corbò. Io l’ho conosciuta quando era la sua fidanzata. Poi lei e Corbò sono andati in Mozambico e li ho rivisti soltanto molti anni dopo perché lei cercava un lavoro presso l’università, avendo una formazione di carattere matematico o fisico. Comunque non credo che vi siano difficoltà a stabilire chi ha scritto l’articolo in questione, basta chiedere alla redazione di "Metropoli".

MANTICA. Ci può dire chi erano i redattori?

PIPERNO. Sicuramente c’erano Paolo Virno, Zapelloni, Accascina e Stefania Rossini che lavora a "L’Espresso". Ripeto, credo non sia difficile stabilire chi sia l’autore. Inoltre, a proposito del fumetto, consiglierei agli onorevoli indagatori di rivolgersi direttamente all’autore del fumetto. Trattandosi di un disegnatore che continua a lavorare, è più facile chiedere direttamente a lui se quelle notazioni grafiche nascono da una discussione basata su una nostra conoscenza del modo di muoversi dei brigatisti.

MANTICA. Chi è questo disegnatore?

PIPERNO. Madaudo.

MANTICA. L’altra domanda che volevo rivolgerle è la seguente. A lei sembra possibile che per un dissenso, per quanto importante, interno alle Brigate rosse queste volessero uccidere Morucci e la Faranda? Secondo lei, qual è il motivo che porta non semplicemente ad una frattura ma addirittura ad una condanna a morte di Morucci e Faranda da parte delle BR? Può trattarsi – a suo avviso – di un motivo legato soltanto al dissenso esistente nell’ambito della strategia relativa alla conduzione del rapimento Moro o vi possono essere altri motivi, quali l’interrogatorio Moro, l’originale del memoriale Moro o comportamenti di altro tipo?

PIPERNO. Quanto al memoriale Moro, mi preme ribadire la mia opinione, tra l’altro suffragata da incontri con i massimi dirigenti delle Brigate rosse. Questi ultimi, venti anni fa, ritenevano quel documento privo di significato politico e perciò hanno evitato di pubblicarlo. Escludo, pertanto, che nelle lettere e nel memoriale di Moro vi siano rivelazioni significative dal punto di vista delle BR. Il fatto che i partiti rubassero era noto in Italia in maniera diffusa e noi ne eravamo pienamente consapevoli. Se ci avessero detto che la DC aveva preso i soldi dalla Montedison, la cosa non avrebbe sortito alcun effetto. Per noi, infatti, prendeva soldi non solo dalla Montedison, ma da tutti quanti. Per i brigatisti il fatto che Moro accenni al finanziamento illecito dei partiti, magari per una mitologia ideologica diffusa in quegli anni, non era una notizia; per noi non significava niente. Davamo per scontato che "La Voce Repubblicana", venduta in quattro copie, fosse finanziata da qualcuno. Eravamo sicuri di questo, come lo era qualsiasi italiano che non fosse abbagliato dall’ipocrisia istituzionale. E’ questa la ragione per cui i brigatisti, dal loro punto di vista, hanno ritenuto irrilevante quel tipo di informazione.

MANTICA. Visto che lei sostiene che il documento Moro, dal punto di vista delle BR, non fosse fonte di grandi informazioni, a suo giudizio quali possono essere i motivi per i quali, da parte dell’ala militarista, si arriva alla condanna a morte di Morucci e Faranda?

PIPERNO. Innanzi tutto non è vero che Morucci e Faranda furono condannati a morte dalle BR. Piuttosto, il problema è che i brigatisti sospettavano che dietro l’ingresso nelle BR di un gruppo di ex militanti di Potere operaio ci fosse una decisione politica del vecchio gruppo di Potere operaio finalizzata a egemonizzare almeno la loro colonna romana. E’ questa la ragione del mio incontro con Moretti. L’incontro nasceva dalla necessità di escludere questo fatto che, naturalmente, rendeva difficile la situazione di Morucci e Faranda; in quel momento essi erano giustamente braccati dalle forze dell’ordine ma, contemporaneamente, rischiavano di essere braccati anche dai brigatisti. Tuttavia, per quanto mi risulta, non si è mai parlato di condanna a morte. Il problema era che Morucci e Faranda non avevano più a disposizione un luogo dove poter vivere, dormire e mangiare, giacché i rifugi dei brigatisti erano loro preclusi e, d’altro canto, erano oramai noti come latitanti delle BR. Quindi, vivevano una situazione estremamente drammatica, ma non mi risulta che i brigatisti li abbiano condannati a morte e personalmente lo escluderei visto che fino ad allora non era mai successo.

PRESIDENTE. Lei sui documenti Moro non ha fatto altro che ripetere la verità ufficiale. Noi ci siamo conosciuti in altre occasioni e so che lei è un intellettuale di una certa finezza. Penso pertanto che lei condivida il mio pensiero quando affermo che uno dei doveri degli intellettuali è proprio quello di diffidare delle verità ufficiali, soprattutto quando vengono contraddette dai documenti. Moro scrive che può fare delle rivelazioni importanti. Moretti in un comunicato afferma che erano state fatte delle rivelazioni importanti, quindi fa la scelta di non pubblicarle per diffonderle attraverso i membri dell’organizzazione clandestina. Certamente il sistema era estremamente preoccupato di quanto Moro potesse rivelare alle BR, tant’è che con un banale espediente di contro-informazione monta la verità ufficiale – anche quella non vera – che Moro in realtà non aveva niente da rivelare alle Brigate rosse. Abbiamo audito il responsabile dei servizi segreti che ci ha riferito come questa notizia fu montata. In sostanza, l’ammiraglio Martini ci ha fatto capire che la notizia non era vera. Sono i documenti che smentiscono questa verità ufficiale. L’ammiraglio Martini sostiene che in realtà Moro fece rivelazioni importanti che i brigatisti non avevano cultura per capire, o politicamente non erano interessati. La verità ufficiale non ci spiega però perché gli originali non si trovano.

PIPERNO. Anche il fatto che Cesare fu pugnalato da Bruto è la verità ufficiale. Quest’ultima non va negata per principio.

PRESIDENTE. Il problema è che la verità ufficiale è smentita.

PIPERNO. E’ smentita in base a delle interpretazioni.

PRESIDENTE. Non da interpretazioni, ma da quanto scrivono Moro e Moretti.

PIPERNO. Moro scrisse quelle cose per minacciare i suoi colleghi affinché lo liberassero.

PRESIDENTE. Lei ritiene che una persona che ha ricoperto tutti gli incarichi di governo, da Presidente del Consiglio a Ministro degli esteri, e che era Presidente del maggior partito italiano non avesse nulla di importante da rivelare?

PIPERNO. Penso che avesse cose importanti da dire. Ma si trattava di rivelazioni di natura politico-istituzionale, come ad esempio l’illecito finanziamento dei partiti.

PRESIDENTE. Potevano essere anche le clausole segrete di un trattato NATO.

PIPERNO. A mio parere è difficile che Moro conoscesse le clausole dei trattati.

PRESIDENTE. Pensi che erano talmente preoccupati di ciò che Moro avesse potuto rivelare alle Brigate rosse che, nell’ipotesi in cui fosse stato liberato, avevano elaborato un piano di sicurezza per tenerlo chiuso in clinica per una settimana affinché nessuno potesse parlargli. Gli apparati di sicurezza erano interessati a sapere ciò che aveva rivelato.

PIPERNO. Non ho mai frequentato gli apparati di sicurezza e quello che mi sembra più rilevante non è cosa facevano gli apparati di sicurezza italiani, ma cosa faceva il mondo politico, cioè il vero interlocutore di Moro. Gli interlocutori di Moro in prigione non erano i servizi segreti, ma la DC e il PCI.

PRESIDENTE. Questo è vero, però gli manda a dire di stare attenti. Nella prima lettera Moro non scrive che deve essere salvato per ragioni umanitarie, ma nell’interesse dello Stato. Su questo punto la lettera di Moro è testuale. Quale era l’interesse dello Stato? Lo collegava a ciò che avrebbe potuto dire nell’interrogatorio.

PIPERNO. Penso si riferisse a cose che tutto il mondo politico conosceva e non a particolari clausole dei servizi segreti, anche per la statura, onestamente, del personaggio. Questo è quello che penso e mi sembra che, dopo vent’anni, questa ricostruzione sia più che plausibile. Con ciò non escludo che ci siano vuoti o possibili interpretazioni alternative ma, salvo che si attenda il quinto segreto di Fatima, è chiaro che in qualsiasi processo delle dimensioni di quello di Moro c’è qualcosa che non torna, è inevitabile. In questo caso conosciamo gli assassini, coloro che hanno preparato l’agguato, che l’hanno gestito, non c’è nella storia della Repubblica italiana, del nostro Paese, un delitto di cui si conoscono così tante cose. Credo che l’insieme della dinamica sia assolutamente chiaro; poiché però non sono né un giudice né un investigatore do per scontato che ci siano aspetti che non tornano, ma credo che questi si troverebbero in qualsiasi processo.

PRESIDENTE. Per la verità, il resto della storia delle BR è molto più chiaro della vicenda Moro. Lei conosceva ovviamente l’architetto Michelangelo Caponetto di Firenze?

PIPERNO. Certo, è stato anche mio amico, ma non lo vedo da tanto tempo.

PRESIDENTE. Che ruolo aveva in Potere operaio?

PIPERNO. Era il responsabile di Firenze di Potere operaio, almeno lo è stato per qualche tempo.

PRESIDENTE. Esclude che Moretti abbia potuto avere con lui rapporti a Firenze quando vi si recava per incontrare Azzolini?

PIPERNO. Lo escluderei completamente, conoscendo l’atteggiamento politico di Michelangelo Caponetto. Quando all’interno del nostro movimento si erano posti problemi di rapporto con nuclei che praticavano la lotta armata, non solo le BR, egli aveva escluso qualsiasi tipo di rapporto in maniera anche assai veemente e, secondo me, un po’ cieca, nel senso che la lotta armata era per noi un fenomeno altrettanto vero del fatto che c’erano i golpisti in Italia, quindi era un fenomeno di cui tener conto.

PRESIDENTE. A Firenze vi servivate della Rotografica fiorentina?

PIPERNO. E’ possibile, ma non lo so dire con precisione perché non mi sono occupato direttamente del giornale. Credo che, dai tempi di Feltrinelli, abbiamo cambiato tipografie almeno dieci volte.

PRESIDENTE. Dunque non mi sa dire niente sulla Rotografica fiorentina?

PIPERNO. Posso dirle sicuramente che a un certo punto il giornale è stato stampato a Firenze ma in quale tipografia non lo so, come non so quali fossero quelle di Milano o di Roma.

PRESIDENTE. Un’ultima domanda. Penso che lei si sia pentito di quelle famose tre parole "la geometrica potenza", non perché non lo pensasse ma perché a volte non vale la pena di dire tutto ciò che si pensa. In realtà, abbiamo ascoltato Morucci, Maccari: dalla loro versione dell’organizzazione militare delle Brigate rosse, dello stesso svolgimento dell’agguato, l’idea della geometrica potenza non viene fuori. Ci parlano di mitra che non sparano, di un gruppo di fuoco scarsamente addestrato, che si addestrava in maniera molto artigianale, ma molta di quella verità ufficiale, di cui abbiamo il dovere istituzionale, secondo me, di dubitare perché altrimenti faremmo bene a non occuparci più del caso Moro, muove proprio da questa idea che le Brigate rosse fossero un gruppo militare clandestino estremamente organizzato, il "cubo d’acciaio" di cui parlava Gallinari. Questo aspetto della verità c’è stato confermato da Pace al quale abbiamo posto il problema di come mai, sia pure tramite Zanetti, i socialisti riescono ad entrare in contatto con voi, come mai in quel periodo non venivate sorvegliati dalla polizia. Lei ci ha ricordato che sua moglie era stata addirittura arrestata: un pedinamento suo o di Pace avrebbe potuto portare le forze dell’ordine sulle tracce di Morucci e Faranda.

PIPERNO. Nel mio caso lo escludo. Non ho mai visto Morucci e Faranda.

PRESIDENTE. Pace però ha escluso addirittura una possibilità di pedinamento perché ci ha detto che non avevamo idea di come fossero organizzate le Brigate rosse, nel senso che seguivano rigorose tecniche antipedinamento, questo benché Signorile ci abbia detto che quando incontrava il professor Piperno era pedinato.

PIPERNO. Era pedinato perché era del PSI; era un pedinamento rivolto ad altro.

PRESIDENTE. Le voglio spiegare perché questo tipo di verità non mi convince. Abbiamo indagato su come è stato scoperto il covo di via Monte Nevoso, la verità ufficiale non era quella vera perché, in realtà, c’era stata un’indagine di polizia molto più complessa di cui fanno parte pedinamenti di Azzolini, che durano circa un mese e che vengono svolti dai carabinieri con tale professionalità che addirittura si portano le mogli per non dare l’impressione ad Azzolini di essere pedinato. Il vero problema che ci poniamo è questo: se gli apparati di sicurezza avrebbero potuto fare più e meglio per salvare Moro e fino a che punto alla rigidità del sistema politico non si sia accompagnata all’interno degli apparati una voglia di non fare fino in fondo. Questa è la risposta che la Commissione, come organismo parlamentare, dovrebbe dare dopo tanti anni: si è fatto tutto ciò che si poteva fare, le Brigate rosse erano veramente questo cubo di acciaio, era veramente impossibile pedinare il dottor Pace per arrivare a Morucci e Faranda, che li avrebbero portati a via Gradoli e quindi a Moretti e a via Montalcini? A tanti anni di distanza che giudizio dà di questi aspetti?

PIPERNO. Ogni Paese ha i servizi segreti che si merita.

PRESIDENTE. Spesso la parola servizi segreti diventa una di quelle formule dietro cui si nasconde la realtà: i servizi segreti sono la polizia e i carabinieri; soprattutto nel 1978 erano composti da queste forze. Sono quindi gli apparati di sicurezza nel loro insieme.

PIPERNO. Ho avuto tra le mani nel 1978 un documento del Comandante della legione dei carabinieri di Roma in cui ricostruiva il mondo cosiddetto dell’eversione, con un errore tra l’altro di lingua italiana perché semmai si trattava del mondo della sovversione. Ma il problema è il tipo di informazione che quel carabiniere inviava alle autorità politiche giudiziarie. Quel documento confermava la totale ignoranza da parte dei carabinieri: era citato come uno dei capi della sovversione a Roma il professor Modugno, una gran brava persona del tutto innocua.

PRESIDENTE. E’ un mio caro amico.

PIPERNO. Come ho constatato anche quando hanno inviato i documenti per la mia estradizione dalla Francia e dal Canada, i carabinieri raccoglievano le stesse informazioni che erano scritte sui giornali. Il mio sospetto è che addirittura spesso copiavano quanto c’era scritto sui giornali. Il livello era di questo tipo e solo per questo si è proceduto ad arresti di massa che, a mio parere, non hanno favorito il superamento di quegli anni drammatici: le persone condannate sono state oltre 5000, quelle arrestate oltre 50.000. Trovo particolarmente significativo non quello che è avvenuto durante il sequestro Moro ma il fatto che, una volta ucciso Moro, a Roma ho potuto incontrare tranquillamente Moretti, questo è veramente significativo anche del modo di muoversi della polizia italiana. Nessuno dei numerosi giudici che ho incontrato nella mia vita mi ha mai chiesto un particolare sull’unica cosa forse riprovevole, e comunque pericolosa, che penso di aver fatto come cittadino, e cioè incontrare, a due mesi dalla morte di Moro (era luglio), il capo delle Brigate rosse a Roma; non c’è stata alcuna autorità, neanche questa, che mi abbia chiesto ciò.

PRESIDENTE. Era l’ultima domanda che volevo porle. Ci descriva questo incontro e i suoi contenuti. Noi abbiamo deciso di ascoltarla proprio dopo la pubblicazione della sua intervista rilasciata al giornale "La Stampa".

PIPERNO. Signor Presidente, questo l’ho già detto nel corso di quell’incontro in Puglia al quale ha partecipato anche lei e lo si può ritrovare anche nel "pastone" de "L’Espresso" fatto nel giugno 1979; l’ho detto più volte anche durante gli interrogatori effettuati dai magistrati. Questo dato però sembrava non interessare nessuno mentre tutti quanti sembravano fare riferimento al fumetto pubblicato su "Metropoli". Io ho incontrato Moretti dopo l’uccisione di Moro da un lato perché si poneva il problema di Morucci e Faranda e dall’altro per una sorta di curiosità non effimera che io avevo in merito alle modalità con cui si era svolta la dinamica in quel lungo mese tra aprile e maggio. In particolare, volevo accertarmi - poiché non ne ero sicuro - che fosse loro arrivato quello che, attraverso Signorile, era il messaggio della DC, o meglio di una parte della DC rappresentata da Fanfani. Nel corso di quell’incontro ho avuto conferma sia del fatto che le BR avevano ricevuto il messaggio sia del fatto che avevano ritenuto non significativo e anche incomprensibile il messaggio lanciato dal senatore Bartolomei la domenica immediatamente precedente l’assassinio di Moro. Quel messaggio era incomprensibile anche per me. Ricordo di avere ascoltato un sunto del discorso di Bartolomei mandato in onda dal primo canale RAI durante il telegiornale delle 23 e, solo perché conoscevo l’intera vicenda ho potuto capire che quel discorso conteneva un riferimento di apertura nei confronti della BR (apertura volta a conoscere cosa volevano i brigatisti); per chiunque altro, però, il messaggio risultava incomprensibile e le BR non lo hanno ritenuto sufficiente per rinviare l’esecuzione.

PRESIDENTE. Dove vi siete incontrati?

PIPERNO. Ci siamo incontrati nei dintorni di piazza Cavour. Non ho organizzato io quell’incontro, ma altre persone.

PRESIDENTE. Ci può dire chi fossero?

PIPERNO. Probabilmente l’ingegner Pace ha maggiori conoscenze in merito. Non sono stato io ad organizzare l'incontro; credo sia stato organizzato dai brigatisti. Io mi sono recato a piazza Cavour con Pace e il luogo dell’incontro mi ha sorpreso.

PRESIDENTE. Si trattava di un bar?

PIPERNO. No, era una casa. Le caratteristiche della casa e dei nostri ospiti – che peraltro non conoscevo - traduceva una certa trasversalità della presenza dei brigatisti a Roma, una capacità di muoversi nella città che rifletteva quanto avevo detto, con espressione dannunziana, a proposito della "geometrica potenza". Io non sapevo che i loro mitra si erano inceppati, ma ciò che dall’esterno colpiva delle BR non era una straordinaria tecnica di clandestinità ma l’impegno straordinario di militanti che provenivano da diverse estrazioni sociali e la determinazione con cui tali militanti mettevano a rischio loro stessi, i loro familiari e l’entourage che vi era dietro. Era questo, a mio avviso, significativo delle BR ed il loro punto di forza non era tanto quello di avere inventato particolari tecniche di clandestinità ma il fatto di essere ben radicati a livello di società civile, all’interno della società italiana; ricordo che in una sola notte il generale Dalla Chiesa arrestò ottanta operai della Mirafiori.

PRESIDENTE. Lei quindi sta dicendo che quell’incontro è avvenuto in una casa alto-borghese?

PIPERNO. Sì.

PRESIDENTE. Ovviamente non può fare i nomi.

PIPERNO. Non li so e se li sapessi non li farei perché mi lega un elemento di lealtà e di coscienza che per me è superiore a qualsiasi legge.

PRESIDENTE. Lei oggi ha posto uno dei problemi di fronte ai quali si trova la Commissione. Giorgio Bocca ha scritto che è noto che della direzione strategica delle Brigate rosse facevano parte noti intellettuali che però non avevano grande importanza perché disquisivano sul mondo mentre la direzione militare del movimento apparteneva ad Azzolini, Moretti ed altri. A molti anni di distanza probabilmente il paese avrebbe il diritto di sapere chi erano questi noti intellettuali, questi alto-borghesi che ospitavano i capi brigatisti, se non altro per ricostruire meglio la storia del paese e quanta parte della società italiana stava facendo i conti su una eventuale vittoria di Moretti e una sconfitta dello Stato.

PIPERNO. Signor Presidente, questo è possibile ma in una diversa atmosfera del paese. Non è possibile ricostruire i fatti con riferimento a luoghi e persone nel momento in cui alcuni soggetti sono ancora in prigione e altri non hanno scontato la pena.

PRESIDENTE. Le do atto che questo è un problema di fronte al quale si trova la stessa Commissione. Noi ci domandiamo se l’operazione perdono possa essere funzionale all’operazione verità o se, in realtà, ad ostacolare l’operazione perdono è proprio il fatto che, sia pure in aree marginali, resta una serie di dubbi che impediscono di capire chi verrebbe perdonato e per che cosa. Spero che lei apprezzi tutto questo nella sua delicatezza politica.

PIPERNO. Il mio sforzo di memoria sarebbe di natura completamente diversa se io non fossi messo di fronte ad un rischio di coinvolgere deputati, magari anziani, dell’ex PCI o persone che hanno semplicemente fornito luoghi di incontro in una specie di cascata senza fine in cui è facilmente possibile che dopo venti anni un procuratore invii un avviso di garanzia per banda armata.

PRESIDENTE. Perché esclude che in questa ambiguità, in questa incertezza del confine fra lo Stato e l’antistato, in quei giorni Moretti non potesse avere un salvacondotto (ciò che ha detto Franceschini)?

PIPERNO. Ritengo che Franceschini faccia esattamente parte di quel mondo ipocrita e calunnioso che fino a questo momento ha impedito la ricostruzione di quegli anni.

PRESIDENTE. Nell’ipotesi in cui noi ragioniamo, il salvacondotto erano le carte, ciò che Moro aveva detto o ciò che il sistema poteva sospettare che Moro avesse detto.

PIPERNO. Quel salvacondotto non ha funzionato, perché Moretti è stato arrestato e si è fatto il carcere.

PRESIDENTE. Il generale Dalla Chiesa ha condotto l’operazione di via Monte Nevoso e ha rintracciato le carte. Dopo quell’azione la situazione è cambiata e nel corso di quella operazione lo Stato "smandrippato" che non funzionava ha dimostrato un’efficienza assoluta. Lei quando ha incontrato Moretti?

PIPERNO. Nel luglio 1978.

PRESIDENTE. Alcuni mesi dopo lo Stato ha dimostrato una eccezionale capacità di intervento nel rintracciare il covo di via Monte Nevoso traendo spunto da un borsello che Azzolini aveva smarrito a Firenze nel quale c’erano le chiavi di un appartamento. In quel caso Azzolini non ebbe l’accortezza di pensare che a quel punto il covo potesse essere rintracciato e che quindi "bruciava".

PIPERNO. Questo testimonia il fatto che l’organizzazione delle BR era italiana.

PRESIDENTE. E quindi non era questa "geometrica potenza"!

PIPERNO. Appunto, io le ho detto che "geometrica potenza" per me, dall’esterno, sta ad indicare il grado di coinvolgimento ed il rischio personale che questi si assumevano. Questo lo avevo constatato attraverso i miei contatti con loro, perché si trattava spesso di operai o di professionisti che erano disposti a rischiare parecchio. Per me quello era significativo del loro radicamento. Non ho mai pensato che i brigatisti avessero sviluppato tecniche di clandestinità attraverso cui passare alla storia. Penso che molto dipendeva dall’inefficienza della polizia italiana. Però, a mio parere, non era solo colpa della Polizia, perché questa si comportava esattamente come si comportava il mondo politico. Al mondo politico era scoppiato sotto il sedere il Sessantotto senza che neanche ne capisse i motivi, perché esso tendeva ad attribuire a qualche congiura straniera tutto quello che accadeva. La polizia, secondo me, era adeguata a questo. C’era un difetto di coscienza da parte della classe dirigente italiana nei confronti di quello che avveniva e di questo difetto di coscienza – come è inevitabile - partecipavano anche gli organi inquisitori.

Fine prima parte

prima parte

seconda parte

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