B I L A N C I O (5a)

GIOVEDI’ 25 MARZO 2004
481a seduta (pomeridiana)

Presidenza del Presidente
AZZOLLINI


Intervengono, ai sensi dell’articolo 48 del Regolamento, il presidente della Corte dei Conti, professor Staderini, accompagnato dal presidente di sezione, dottor Larosa e dai consiglieri, dottoressa Arrigoni e dottor Flaccadoro.

La seduta inizia alle ore 15,30 .


SULLA PUBBLICITÀ DEI LAVORI

Il presidente AZZOLLINI avverte che è stata avanzata richiesta, ai sensi dell'articolo 33 del Regolamento, di attivazione dell'impianto audiovisivo, in modo da consentire la speciale forma di pubblicità della seduta ivi prevista ed avverte che, ove la Commissione aderisca a tale richiesta, il Presidente del Senato ha già preannunciato il proprio assenso.

La Commissione si esprime favorevolmente e, di conseguenza, tale forma di pubblicità viene adottata per il prosieguo dei lavori.


PROCEDURE INFORMATIVE

Seguito dell’indagine conoscitiva sugli effetti e le tecniche di controllo dei flussi di finanza pubblica in ordine all’andamento del debito, con particolare riferimento alla componente non statale: audizione dei rappresentanti della Corte dei Conti

Riprende l’indagine conoscitiva, sospesa nella seduta pomeridiana di ieri, con l’audizione dei rappresentanti della Corte dei Conti.

Dopo un breve indirizzo di saluto del presidente AZZOLLINI, prende la parola il presidente della Corte dei Conti, professor STADERINI, che svolge un’ampia relazione sulle questioni oggetto dell’indagine.

Ai quesiti posti dai senatori CADDEO (DS-U), MARINO (Misto-Com), PIZZINATO (DS-U) e GRILLOTTI (AN) nonché dal PRESIDENTE, replicano il professor STADERINI, la dottoressa ARRIGONI e il dottor FLACCADORO.

Il presidente AZZOLLINI ringrazia, quindi, gli intervenuti e dichiara conclusa l’odierna audizione.

Il seguito dell'indagine conoscitiva è quindi rinviato.


SCONVOCAZIONE DELL'ODIERNA SEDUTA POMERIDIANA DELLA SOTTOCOMMISSIONE PER I PARERI

Il PRESIDENTE avverte che la seduta pomeridiana della Sottocommissione per i pareri, già convocata per le ore 15,15 di oggi, non avrà luogo.

La Commissione prende atto.

La seduta termina alle ore 17,25.

INDAGINE CONOSCITIVA
SUGLI EFFETTI E LE TECNICHE DI CONTROLLO DEI  FLUSSI DI FINANZA PUBBLICA IN ORDINE ALL’ANDAMENTO DEL DEBITO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA COMPONENTE NON STATALE


5º  Resoconto  stenografico

SEDUTA DI GIOVEDÌ 25 MARZO 2004
 
Presidenza del presidente AZZOLLINI

INDICE

Audizione dei rappresentanti della Corte dei conti

N.B.: Gli interventi contrassegnati con l’asterisco sono stati rivisti dagli oratori.

        Sigle dei Gruppi parlamentari: Alleanza Nazionale: AN; Democratici di Sinistra-l’Ulivo: DS-U; Forza Italia: FI; Lega Padana: LP; Margherita-DL-l’Ulivo: Mar-DL-U; Per le Autonomie: Aut; Unione Democristiana e di Centro: UDC; Verdi-l’Ulivo: Verdi-U; Misto: Misto; Misto-Comunisti Italiani: Misto-Com; Misto-Indipendenti della Casa delle Libertà: Misto-Ind-CdL; Misto-Lega per l’Autonomia lombarda: Misto-LAL; Misto-Libertà e giustizia per l’Ulivo: Misto-LGU; Misto-Movimento territorio lombardo: Misto-MTL; Misto-MSI-Fiamma Tricolore: Misto-MSI-Fiamma; Misto-Nuovo PSI: Misto-NPSI; Misto-Partito Repubblicano Italiano: Misto-PRI; Misto-Rifondazione Comunista: Misto-RC; Misto-Socialisti democratici Italiani-SDI: Misto-SDI; Misto Alleanza Popolare-Udeur: Misto-AP-Udeur.
    PRESIDENTE
 
 Pag. 3, 13, 23  e  passim
    CADDEO (DS-U)
 
13
    GRILLOTTI (AN)
 
21
    MARINO (Misto-Com)
 
14
    * PIZZINATO (DS-U)
 
20
    * ARRIGONI
 
 Pag. 17
    * FLACCADORO
 
19
    * STADERINI
 
3, 15, 23  e  passim
 
        Interviene il Presidente della Corte dei conti, professor Francesco Staderini, accompagnato dal Presidente di sezione, dottor Giuseppe Larosa, e dai Consiglieri dottoressa Rita Arrigoni e dottor Enrico Flaccadoro.

        I lavori hanno inizio alle ore 15,30.

PROCEDURE INFORMATIVE
Audizione dei rappresentanti della Corte dei conti

        PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’indagine conoscitiva sugli effetti e le tecniche di controllo dei flussi di finanza pubblica in ordine all’andamento del debito, con particolare riferimento alla componente non statale, sospesa nella seduta pomeridiana di ieri.
        Comunico che, ai sensi dell’articolo 33, comma 4, del Regolamento, è stata chiesta l’attivazione dell’impianto audiovisivo e che la Presidenza del Senato ha già preventivamente fatto conoscere il proprio assenso. Se non ci sono osservazioni, tale forma di pubblicità è dunque adottata per il prosieguo dei lavori.
        È oggi in programma l’audizione dei rappresentanti della Corte dei conti che saluto e ringrazio per aver cortesemente aderito al nostro invito. Do subito la parola al presidente della Corte dei conti, professor Francesco Staderini.

        STADERINI. Signor Presidente, onorevoli senatori, la finanza locale presenta, nel recente periodo, aspetti di forte criticità. Il processo di risanamento finanziario ha coinvolto le autonomie territoriali che, a fronte di una espansione dei compiti loro attribuiti, hanno visto progressivamente ridursi le proprie disponibilità finanziarie in termini reali.
        Le manovre sulle aliquote fiscali e sulle tariffe locali, le dismissioni e le privatizzazioni, la razionalizzazione della spesa hanno in parte compensato l’insufficienza delle risorse rispetto ai fabbisogni.
        A partire dal 2002, gli equilibri finanziari sono stati messi in tensione da ulteriori fattori: l’aumento delle competenze amministrative cui non hanno fatto riscontro adeguati finanziamenti; i ritardi nell’attuazione del federalismo fiscale, coniugatisi con il blocco delle tariffe e delle aliquote; il taglio dei trasferimenti, cui si è aggiunta la reiterata prassi di consistenti slittamenti nella erogazione di risorse destinate a regioni ed enti locali.
        Sul fronte della finanza regionale, resta irrisolto il grave problema di consistenti squilibri nelle gestioni sanitarie, ove l’evoluzione dei costi superiore al tasso di sviluppo del Paese, a fronte dell’attuale sistema di finanziamento, ne rompe la coerenza e implica per le Regioni l’esigenza di colmare con risorse proprie un differenziale in gran parte originato da fattori endogeni, quali l’invecchiamento della popolazione e il progresso tecnologico specie nella diagnostica strumentale.
        La conseguente crisi di liquidità sofferta nel recente periodo ha sospinto gli enti territoriali ad un recupero finanziario affidato ad un più consistente ricorso al debito, che segna livelli crescenti non sempre arginati dai vincoli quantitativi e qualitativi imposti per legge e per Costituzione.
        Le disposizioni recate dall’articolo 41 della legge finanziaria per il 2002 (legge n. 448 del 2001) hanno agevolato per le regioni e gli enti locali una serie di strumenti per la gestione attiva del debito, funzionali alla riduzione del suo costo e alla minimizzazione dei rischi, con l’ulteriore effetto di aumentare il margine consentito all’indebitamento, recuperando per questa via nuova capacità di spesa.
        Le amministrazioni non hanno mancato di cogliere le nuove opportunità, sia con riguardo al debito in gestione, rimodulandone i piani di ammortamento e prolungando nel tempo la restituzione del capitale, sia con ricorso agli strumenti finanziari di tipo innovativo, con l’obiettivo di cogliere le opportunità o di neutralizzare gli effetti negativi rivenienti dalle oscillazioni dei mercati finanziari influenti sul costo del debito.
        Il ricorso ai prodotti derivati, se in generale è stato funzionale alla copertura del rischio di cambio o di interesse, ha assolto spesso anche ad altre finalità, legate all’esigenza di disporre di liquidità a breve, tramite operazioni esposte al movimento avverso dei tassi, con esiti preoccupanti per la futura tenuta degli equilibri di bilancio.
        Il Ministero dell’economia e delle finanze, in attuazione di quanto disposto dall’articolo 41 della citata legge finanziaria per il 2002, ha regolato, con il decreto 1º dicembre 2003, n. 389, l’accesso al mercato dei capitali da parte degli enti territoriali. In particolare, sono state individuate le operazioni consentite
(swap di tasso di interesse, acquisto di forward rate agreement, acquisto di cap o collar di tasso di interesse, combinazioni delle precedenti operazioni), mentre resta obbligatoria la copertura del rischio di cambio. Sono inoltre previste operazioni finalizzate alla ristrutturazione del debito, purché non implichino una scadenza posticipata e un profilo crescente nei valori attuali dei flussi di pagamento.
        Il decreto ministeriale n. 389 del 2003 definisce altresì contenuto e modalità del coordinamento per l’accesso al mercato dei capitali da parte di regioni e enti locali, nonché per una informazione periodica sulla loro situazione finanziaria. La recente regolazione della materia è intervenuta tuttavia a due anni di distanza dalla disciplina liberalizzatrice recata dal citato articolo 41 della legge n. 448 del 2001, durante i quali alle operazioni finanziarie degli enti territoriali è mancata una linea di vincolo prudenziale a garanzia dell’onorabilità del debito e di rispetto degli equilibri di bilancio. Permane, nell’attuale situazione di contrazione delle risorse finanziarie, l’inevitabile spinta ad operazioni non in linea con la cautela necessaria ad evitare che la manovrabilità delle attuali gestioni si realizzi a scapito di quelle future.
        Dai dati in possesso della Corte dei conti è possibile trarre una visione di insieme sulla consistenza e la composizione del debito delle regioni, delle province, dei comuni, e di valutarne l’andamento.
        La ricostruzione è riferita alla totalità delle Regioni a statuto ordinario e ad un campione di amministrazioni comunali e provinciali significativo per uno scrutinio di andamenti e tendenze.
        È opportuno porre in evidenza come i risultati della ricognizione della Corte si discostino dai dati della Banca d’Italia, i quali comprendono nel novero del sottosettore delle amministrazioni locali anche ASL, ospedali, enti assistenziali, università e altri enti. Differenti sono poi i metodi di rilevazione: la Corte acquisisce direttamente i dati presso gli enti, mentre per la Banca d’Italia le fonti informative rinvengono dagli istituti di credito e dagli intermediari finanziari; inoltre, includono nel debito regionale una parte, seppure modesta, di debito sostenuta dal bilancio dello Stato e, con riguardo alle amministrazioni locali, in genere, comprendono altresì le operazioni di cartolarizzazione costituenti indebitamento secondo i criteri EUROSTAT.
        I dati della Corte restano funzionali a rilevazioni in tema di rischio sui bilanci degli enti e di sostenibilità del debito. Ad esigenze di ricomposizione in termini di procedure per i disavanzi eccessivi è coerente la metodologia seguita dalla Banca d’Italia.
        I dati di fonte Banca d’Italia relativi ai debiti delle amministrazioni regionali e locali, al netto di quelli verso la Cassa depositi e prestiti, testimoniano di una crescita dal 1999 al 2003 di oltre il 56,4 per cento. Il debito passa dagli iniziali 32.807 milioni di euro ai 51.502 a fine 2003 (l’incidenza sui PIL cresce dal 2,6 al 4 per cento).
        Da notare la significativa ricomposizione del debito con un passaggio da mutui a prestiti obbligazionari. Questi ultimi, che nel 1999 segnavano il 14 per cento del totale, hanno raggiunto nel 2003 il 34,7 per cento. Nell’ultimo anno, poi, le cartolarizzazioni rappresentano il 4,8 per cento del debito complessivo.
        Va osservato che, a partire dai risultati di fine 2003, essendo intervenuta la privatizzazione della Cassa depositi e prestiti e la sua esclusione dal novero delle amministrazioni pubbliche, i dati relativi ai debiti verso di essa dei diversi sottosettori devono essere inclusi nella rilevazione della Banca d’Italia tra quelli rilevanti per il calcolo delle consistenze complessive. Ai 51.502 milioni di euro di debiti prima indicati per il 2003 sono da sommare quindi i 47.490 relativi ai mutui di enti regionali e locali che sono stati attribuiti alla nuova Cassa depositi e prestiti S.p.a.. Al 31 dicembre 2003 il debito delle amministrazioni regionali e locali è risultato, pertanto, pari a 98.992 milioni, a fronte di un importo complessivo della pubblica amministrazione pari a 1.381.574 milioni di euro.
        A fronte dei suesposti dati vi sono le rilevazioni della Corte, direttamente condotte sugli enti, che esprimono la consistenza effettiva del debito riferita a regioni a statuto ordinario e ad un campione di comuni e province, al netto tuttavia di operazioni di cartolarizzazione non in linea con i criteri EUROSTAT.
        Per quanto riguarda le Regioni, il debito complessivo ascende, al 31 dicembre 2003, a 28.958 milioni di euro, ma solo 15.993 milioni sono a carico dei bilanci regionali; consistente l’aumento del debito propriamente regionale in gran parte destinato ai ripiani delle gestioni sanitarie che, a fronte del dato 1999, espone nel 2003 una crescita di oltre il 100 per cento, percentualmente rilevante anche rispetto all’anno precedente (15,3 per cento); analoga la crescita del debito complessivo (incluso lo
stock a carico del bilancio dello Stato), il quale rispetto al 1999 è più che raddoppiato; i mutui restano, per importo complessivo, la maggior parte dell’esposizione debitoria regionale con un importo pari a 12.611 milioni di euro (78,8 per cento) che diminuisce di poco (69,8 per cento) se riferito al debito complessivo; in crescita, tuttavia, i prestiti obbligazionari a carico delle regioni, la cui consistenza passa dai 507 milioni di fine 1999 ai 3.381 milioni al 31 dicembre 2003, con un aumento percentuale del 40,9 per cento rispetto al 2002; a comporre la maggior parte del debito obbligazionario con oneri a carico dello Stato sono le emissioni effettuate dalle regioni Umbria e Marche a partire dall’anno 1998, per finanziare i danni del terremoto del 1997 (legge n. 61 del 1998); nella composizione complessiva del debito regionale, oltre il 50 per cento è a tasso variabile, circa il 26 per cento è a tasso fisso, mentre il rimanente assume formule intermedie volte a limitare il rischio (variabile con protezione, opzione fisso-variabile); nel 2002 e nel 2003 sono stati emessi buoni ordinari regionali (BOR) per un valore complessivo di 7.026 milioni di euro (4.718 milioni di euro nel 2002 e 2.308 nel 2003); cresce il ricorso alla finanza innovativa e lo strumento dello swap segna a fine 2002 la percentuale del 32,5 per cento sul debito totale, mentre nel 2000 non raggiungeva il 24 per cento; il tasso medio totale è pari al 4,6 per cento, a fronte del 6 per cento nel 2002.
        Sul fronte degli enti locali, è da rilevare come l’ammontare dei debiti delle province registri un aumento nel triennio 2000-2002 del 20,3 per cento. Tale crescita si è ridotta tra il 2001 e il 2002 (7,75 per cento). Questo risultato presenta differenze nelle diverse realtà regionali: in Liguria, in Abruzzo, in Molise, in Campania e in Sardegna il debito provinciale conosce nell’ultimo biennio una riduzione, mentre più elevato della media è l’incremento nelle province del Lazio (21,67 per cento) e della Puglia (21,66 per cento). I mutui, pur confermandosi come forma prevalente di ricorso al mercato, riducono il loro peso nella struttura di finanziamento delle province (dall’89,46 per cento all’85,65 per cento del 2002); le emissioni di titoli obbligazionari registrano un incremento nel complesso del 73,57 per cento, con le punte più alte in Lombardia (151,05 per cento) e Veneto (95,95 per cento) e costituiscono il 10,63 per cento dei finanziamenti da indebitamento.
        Più contenuta è la variazione per i comuni. Nel triennio i debiti crescono del 7,7 per cento, con un andamento pressoché costante nei due anni: più 3,95 per cento nel 2001 e più 3,60 per cento nel 2002. Anche nel caso dei comuni l’emissione di prestiti obbligazionari ha registrato un incremento rilevante (più 23,91 per cento). Nel 2002 i mutui e i prestiti coprono il 90,27 per cento del complesso dei debiti dei comuni ed i buoni ordinari comunali (BOC) l’8,68 per cento.
        È opportuno precisare che le rilevazioni effettuate riguardano gli enti locali territoriali, ma non prendono in considerazione l’universo delle aziende e società a partecipazione locale che, come è noto, è in grande espansione ed ha una notevole potenzialità nel determinare lo sviluppo della massa d’indebitamento.
        Dai primi dati disponibili relativi all’indebitamento 2003 – che riguardano, peraltro, ancora una frazione minoritaria di enti locali – possono trarsi analisi utili, soprattutto, a verificare il persistere delle tendenze in precedenza rilevate.
        Per le province, si nota che gli andamenti già rilevati lo scorso anno sembrano ulteriormente rafforzarsi: i debiti crescono nel 2003 del 10,2 per cento, portando la crescita complessiva, nel quadriennio, al 27,80 per cento. È particolarmente accentuata la crescita delle emissioni obbligazionarie (49,5 per cento). Il peso dei buoni ordinari provinciali (BOP) sul totale delle fonti di finanziamento raggiunge il 15,4 per cento (era 1’11,4 per cento nel 2002); la crescita riguarda tutte le circoscrizioni territoriali, ma si accentua (confermando l’andamento rilevato lo scorso anno) specialmente nelle province del Nord-Ovest e del Nord-Est (dove rappresenta rispettivamente il 24,4 per cento e il 12,1 per cento del totale dei debiti).
        I dati relativi ai comuni (che si riferiscono solo a quelli con più di 8.000 abitanti) confermano una tendenza ascendente, sebbene meno marcata rispetto alle province: la variazione nell’ultimo anno è pari al 4,2 per cento. Nel quadriennio il debito cresce del 12,5 per cento; l’incremento si mantiene su valori superiori alla media nelle circoscrizioni del Centro, del Sud e delle isole, mentre rimane su livelli molto più contenuti in quelle del Nord; aumenta la quota del debito coperta con il ricorso a prestiti obbligazionari, benché questi crescano meno vivacemente rispetto al passato: la variazione 2003 è, infatti, del 10,6 per cento, a fronte di valori superiori al 25 per cento nel biennio precedente.
        Le conseguenze economiche delle politiche di finanziamento della spesa pubblica mediante ricorso al debito si legano strettamente ad un complesso di fattori, riconducibili ad un unico denominatore: la sua sostenibilità.
        Vengono cioè in considerazione: il vincolo intertemporale di bilancio, con riguardo alla previsione dei flussi di entrata e uscita; il tasso di crescita del sistema economico regionale in rapporto alla qualità della spesa finanziata in debito; la capacità della sua gestione, tramite la possibilità di utilizzare anche strumenti innovativi per neutralizzare o sfruttare positivamente le oscillazioni dei mercati finanziari.
        Si tratta di fattori che si iscrivono in uno scenario ampio, nel quale è l’incidenza dei problemi di finanza pubblica a far premio sulle scelte di politica economica degli enti, per gran parte rimesse alla capacità di gestione delle risorse.
        A queste più generali crucialità è bene rivolgere qualche riflessione per l’influenza sugli indicati fattori.
        Il permanere di consistenti disavanzi nella gestione della sanità determina un impatto significativo sulla tenuta degli equilibri dei bilanci regionali, sia per il costo del debito contratto per provvedere alle esigenze di ripiano, sia per la difficile reperibilità di risorse fresche a copertura del differenziale rispetto ai fabbisogni annuali.
        Il Programma di stabilità dell’Italia (aggiornato a novembre 2003) prefigura un tasso di evoluzione della spesa sanitaria rispetto al PIL che passa dal 6,3 per cento del 2002 al 6,5 per cento del 2010, all’8,l per cento del 2050. Determinanti, a riguardo, gli andamenti demografici a causa dell’impatto dell’invecchiamento della popolazione.
        Sostanzialmente coincidenti i dati riportati nell’ultima relazione della Corte dei conti sulla finanza regionale, che indicano al 6,3 per cento del PIL la spesa 2002, con un
trend annuale medio di crescita del 6,4 per cento nell’ultimo quadriennio.
        I risultati dell’ultimo anno (2003), formulati su dati di preconsuntivo, solo apparentemente segnano una flessione del disavanzo. Il ritardo nel rinnovo del contratto 2002-2003 del personale nel solo comparto del Servizio sanitario nazionale – il cui costo, per il biennio e per gli effetti sul 2004, è pari a 2,5 miliardi di euro (al netto dell’IRAP), dei quali 328 milioni a carico dello Stato – è destinato a pesare sui costi dell’anno in corso, con riguardo al quale le regioni già paventano un
deficit di circa 5 miliardi di euro, ivi compresi i maggiori costi per gli immigrati regolarizzati e la mancata ridefinizione del costo dei livelli essenziali di assistenza.
        La Corte ha più volte segnalato come il capitolo relativo al personale sia quello che maggiormente mette a rischio i risultati delle gestioni sanitarie. L’attuale sistema di contrattazione collettiva non consente fra l’altro di indicare con precisione la copertura dei costi con riferimento ai bilanci delle aziende e/o delle Regioni che dovrebbero sostenerli. La situazione, seppure riferibile anche ad altre realtà decentrate, è particolarmente grave per la sanità, ove il personale pesa finanziariamente per il 35 per cento sul totale dei costi (con riferimento all’anno 2003) e per oltre il 50 per cento sulla spesa ospedaliera.
        Le stime formulate dal Governo nel DPEF 2004-2007 segnalano un tasso di evoluzione della spesa sanitaria del 3,1-3,7 per cento, in corrispondenza ad un analogo obiettivo di crescita del PIL che dovrebbe assicurare l’annuale copertura dei livelli essenziali di assistenza.
        In realtà, l’attuale sistema di finanziamento, sostituendo il Fondo sanitario nazionale di parte corrente con compartecipazioni e incrementi alle addizionali, ha definito un meccanismo di copertura del fabbisogno sanitario che, misurato su una crescita del 3,5 per cento annuo (in base all’accordo dell’agosto 2001), sconta analoga o superiore evoluzione delle basi imponibili, in correlazione alla crescita del PIL. Senonché, né quest’ultima ipotesi è stata confermata, a causa delle recenti revisioni al ribasso, né la prima può considerarsi in linea con l’equilibrio del sistema, con uno scarto dal quale dipende il riprodursi dei disavanzi annuali.
        Le esigenze di riequilibrio, rimesse alla responsabilità regionale e al cui successo è condizionata l’erogazione del finanziamento integrativo, impongono il reperimento di risorse nell’ambito delle entrate proprie libere da vincoli, il cui ammontare, già esiguo, è stato ulteriormente compresso dal recente blocco della fiscalità regionale.
        Una linea di azione seguita dagli enti regionali è stata quella di gestire al meglio le proprie passività per alleggerirne il costo, con finalità peraltro diverse da ente a ente. A volte lo scopo è stato di liberare risorse per le gestioni sanitarie o per altri interventi – fra cui specialmente l’esigenza di compartecipazione al finanziamento dei programmi comunitari – ma frequente, nella ristrutturazione del debito, è stato l’obiettivo di ampliare la propria capacità di finanziamento in debito con ulteriore ricorso a mutui o a emissioni obbligazionarie.
        Un vincolo intertemporale di bilancio con riguardo a previsioni di entrata e spesa sconta questa realtà come fenomeno dato, senza poter trascurare, con riguardo agli anni 2001 e 2002, il forte condizionamento delle scadenze fissate in ambito comunitario per i programmi finanziati dai fondi strutturali, con incidenza su margini di bilancio fruibili solo azionando la leva dell’indebitamento.
        Una prima ipotesi di ricostruzione dell’effettiva sostenibilità dello
stock di debito da parte dei bilanci regionali mette a confronto il costo annuale del debito con le entrate tributarie libere da vincoli, il cui limite del 25 per cento costituisce il parametro per una corretta copertura ai sensi dell’articolo 23 del decreto legislativo n. 76 del 2000. Le reiterate deroghe di legge, intervenute per sanare deficit sanitari e del trasporto locale o per altri interventi legati all’emergenza, hanno, peraltro, consentito l’esclusione dei relativi oneri dal rispetto di tale limite. Nondimeno, l’intento di valutare la reale esposizione dei bilanci regionali impone di tener conto anche del costo del debito autorizzato in deroga.
        Si tratta di un percorso che, mentre offre una più realistica rappresentazione del come flussi di entrata e uscita ricompongono il vincolo di bilancio, consente altresì di riscontrare punte di particolare tensione con riguardo ad alcuni enti (Puglia, Molise, Abruzzo, Marche). Si tratta di un fenomeno che può destare preoccupazione ma che riguarda solo alcune realtà, a giudicare le quali assume poi rilievo sia la dinamica assunta negli ultimi anni dallo
stock di debito, sia l’evoluzione della spesa in conto capitale.
        Non a caso l’una e l’altra, nel complesso delle realtà regionali, sembrano marciare nel medesimo senso dal momento che, se la consistenza delle passività al netto di quanto dedicato ai ripiani sanitari cresce in modo impetuoso, specie a partire dall’anno 2000, vi corrisponde al contempo una sostenuta crescita della spesa in conto capitale, la quale nel 2001 segna un più 39 per cento rispetto al 1999 e di poco scende nel 2002. Fenomeno che si spiega specie con l’esigenza di tiraggio sugli stanziamenti dei programmi comunitari chiusi definitivamente a fine 2001 e con l’avvio della nuova programmazione 2000-2006. Proprio le regioni interessate ai programmi dell’Obiettivo
1 hanno realizzato una capacità di spesa che ha raggiunto oltre il 100 per cento in quell’anno, di poco è diminuita nell’anno seguente e che, indirizzata all’adeguamento strutturale in agricoltura o a infrastrutture di supporto all’industria e alle imprese, è stata considerata spesa di investimento finanziabile a debito.
        Si tratta di aspetti che meritano adeguato approfondimento anche alla luce della nozione di «investimento» recata in finanziaria 2004, a causa dell’impatto sull’economia regionale e sui margini di finanziabilità dei bilanci, conseguente all’esigenza di assicurarne il rispetto.
        Situazioni diverse sono viceversa quelle di un incremento del debito che non trova corrispondenza nella dinamica della spesa in conto capitale, mentre a crescere è la spesa corrente, coniugandosi altresì alle difficoltà di rispetto al Patto di stabilità in sanità e con le sofferenze di bilancio legate alla perdita del finanziamento integrativo per gli anni 2001 e 2002 (come nel caso delle regioni Puglia e Lazio).
        Per quanto attiene gli enti locali, la possibilità di nuovo indebitamento trova limiti nel disposto dell’articolo 204 del decreto legislativo n. 267 del 2000, che pone un tetto del 25 per cento all’onere annuale per interessi, parametrato alle entrate dei primi tre titoli del bilancio.
        Nelle province, nel 2002, l’onere per il debito sulle entrate correnti presenta valori ben al di sotto del limite previsto. Nel biennio, poi, tale rapporto scende dal 10,3 per cento al 9,2 per cento, con andamento omogeneo sul territorio nazionale.
        Anche nel caso dei comuni l’onere del debito rientra nei limiti previsti dalla norma: nel biennio il rapporto si riduce dal 14,6 per cento al 13,2 per cento e, con diverse intensità, risulta in diminuzione in tutte le circoscrizioni territoriali.
        Quanto all’andamento del rapporto tra interessi passivi e debito, si nota che per le province l’indice flette dal 5,05 per cento del 2001 al 4,58 per cento del 2002. Anche per i comuni tale rapporto è in diminuzione, passando dal 5,48 per cento al 5,14 per cento. Tale andamento è indicativo della capacità degli enti di cogliere i benefici della discesa dei tassi.
        La valutazione di queste risultanze indurrebbe ad escludere l’emergere di particolari segnali di allarme circa la sostenibilità del debito da parte dell’aggregato enti locali, pur potendo sussistere singole situazioni in cui la tenuta del bilancio è messa a rischio dal peso degli oneri del debito.
        La capacità di gestione del debito, con possibilità di neutralizzare o sfruttare positivamente le oscillazioni dei mercati finanziari, è un profilo di indagine che tende ad assumere sempre maggiore rilievo nel quadro della sostenibilità del debito da parte degli enti territoriali.
        L’esigenza di ricostruire la propria capacità di indebitamento o, comunque, l’obiettivo di rendere meno oneroso il costo complessivo del proprio debito sono alla base di operazioni di rinegoziazione o di ricorso a strumenti derivati da parte degli enti territoriali.
        L’articolo 41 della finanziaria 2002 e il recente regolamento attuativo del dicembre scorso, modificando le disposizioni più restrittive recate dalla legge n. 724 del 1994, hanno inteso consentire una gestione delle passività meno onerosa che si traduce in una ulteriore fonte di finanziamento per gli enti territoriali.
        L’
interest rate swap (IRS) ha permesso di cogliere le oscillazioni dei mercati finanziari, con il superamento di posizioni eccessivamente rigide per la prevalenza di debito a tasso fisso, incassando altresì un premio da utilizzare come ulteriore fonte di liquidità. Il regolamento del Ministero dell’economia limita questo margine di liquidità all’1 per cento del valore swap. In uno scenario di andamento avverso dei tassi con saggi al rialzo, il servizio del debito può comportare maggiorazioni di costo con effetto negativo sulle gestioni future.
        Va positivamente valutata la disciplina prudenziale del regolamento del dicembre scorso che, in attuazione dell’articolo 41, segna un ambito inteso a contemperare esigenze di cautela e opportunità gestionali. È incluso, tuttavia, in queste operazioni un margine di rischio che rinviene non da singole operazioni, ma dalla complessiva caratterizzazione di tutta l’esposizione debitoria, entro la quale vantaggi innegabili a breve possono far premio su esiti negativi a medio e lungo periodo.
        A tale proposito si impongono adeguate cautele ad evitare di esporre la finanza regionale e locale a rischi inappropriati. Cautele che vanno in duplice direzione; da un lato, per evitare che rifornimenti di liquidità legati a particolari meccanismi e variabili
swap possano tradursi in un aggiramento della regola che vieta l’indebitamento per finanziare spesa corrente; inoltre, per escludere operazioni che, pur vantaggiose a breve, espongono al rischio di futuri effetti negativi legati a perversi andamenti dei tassi di interesse.
        Ora, se in generale la finalità di tali operazioni è quella di ridurre il costo del debito, nondimeno, avendo presupposto una scommessa sull’andamento dei tassi, l’esito finale è direttamente influenzato dall’andamento del mercato. La variabile del sinallagma contrattuale (l’Euribor) dipende, infatti, da numerosi fattori, non gestibili dagli enti, né dall’intermediario finanziario. Va osservato, poi, che l’aleatorietà dell’operazione, del resto riscontrabile anche in ipotesi di mutui con tassi variabili, impone una appropriata valutazione al fine di un puntuale adempimento all’obbligo di copertura del servizio del debito da assicurare mediante specifica appostazione nel bilancio pluriennale.
        Né mancano di suscitare preoccupazione alcune operazioni di cartolarizzazione cui amministrazioni regionali hanno fatto ricorso nel quadro di ingenti operazioni di riequilibrio delle gestioni sanitarie, destinate tuttavia a pesare sull’indebitamento regionale.
        L’articolo 41 della legge finanziaria 2002 deve essere tenuto in considerazione anche nel contesto delle analisi sull’andamento del debito degli enti locali. Infatti, le operazioni di finanza derivata incidono sulla formazione dell’indebitamento complessivo di tali enti attraverso modalità diverse rispetto ai tradizionali canali dei mutui e delle più recenti emissioni obbligazionarie.
        I primi dati campionari analizzati dalla Corte e relativi al 2003 evidenziano che le operazioni di
swap riguardano il 42,66 per cento delle province e il 25,27 per cento dei comuni. Va notato che la quota di debito interessata da queste operazioni è piuttosto consistente nei comuni (43 per cento) ed è minore nelle crovince (25,63 per cento).
        La situazione richiede quindi di essere attentamente seguita sia in relazione alla dimensione quantitativa del fenomeno, sia perché si tratta di operazioni i cui effetti non emergono immediatamente, ma sono suscettibili di incidere sui bilanci futuri dei singoli enti.
        In questo quadro non esente da rischi per la tenuta dei bilanci degli enti locali e da elementi di preoccupazione per la connessa sostenibilità dei livelli di indebitamento degli enti medesimi, la Corte dei conti ha intenzione di effettuare una specifica analisi sul fenomeno dell’indebitamento; analisi che, partendo dalla sua consistenza e composizione, sia in grado di scrutinarne le linee evolutive, la sostenibilità nel breve e medio periodo, il rispetto dei vincoli posti dalla Costituzione e dalla legge.
        La riforma del Titolo V ha offerto fondamento costituzionale (articolo 119) a un principio basilare della contabilità pubblica, la copertura in debito solo delle spese di investimento, eliminando la possibilità del frequente ricorrere di legislazione in deroga per il ripiano dei disavanzi sanitari e del trasporto pubblico locale.
        V’è di più. La legge finanziaria per il 2003, legge n. 289 del 2002, (articolo 30, comma 15) ha affidato alla Corte il compito di irrogare una sanzione agli amministratori che violino l’indicato precetto costituzionale. Si prospetta, così, un quadro di più estesa garanzia a tutela della finanza pubblica locale. La legge finanziaria per il 2004, per un verso ha inteso delimitare 1’ambito della spesa in conto capitale, individuando specifici esempi di investimenti finanziabili in debito, per altro verso ha inteso precisare modi e contenuti del fenomeno dell’indebitamento, dettando criteri e regole di maggiore rigore. Se l’articolo 41 della legge n. 448 del 2001 (legge finanziaria 2002) ha riconosciuto agli enti territoriali la possibilità di ricorrere a strumenti finanziari innovativi, il rischio di tale utilizzo è stato affrontato e limitato con il regolamento del Ministero dell’economia e delle finanze del dicembre scorso.
        Va, inoltre, considerato che la restrizione operata riguardo ad investimenti destinati a soggetti collocati fuori del settore pubblico implica, specie nel breve periodo, un impatto non indifferente per i bilanci delle amministrazioni locali e regionali. È prevalsa una definizione in linea con le classificazioni adottate da Eurostat, che privilegiano gli effetti incrementativi del patrimonio dell’ente, con esclusione quindi degli interventi destinati al sostegno produttivo di imprese o al cofinanziamento di gran parte degli interventi che attingono ai fondi strutturali dei programmi comunitari.
         La programmata attività di accertamento in tale delicato settore assume, pertanto, una sua propria autonoma valenza, che si affianca non solo ai compiti di contenimento e monitoraggio dei costi dell’indebitamento degli enti locali affidati al Ministero dell’economia e delle finanze (articolo 41 della legge finanziaria 2002; articolo 3, commi 14 e 15, della legge finanziaria 2004), ma alla stessa funzione della Corte di garante della sana gestione finanziaria regionale e locale.
        Si tratta, quindi, di condurre accertamenti mirati ad indagare non soltanto l’entità e le caratteristiche del «fenomeno indebitamento» nelle molteplici forme che in concreto può assumere, ma anche l’effettiva destinazione delle risorse finanziarie acquisite e il rispetto delle regole e dei limiti posti all’utilizzo dei nuovi strumenti finanziari. Una analisi, questa, che richiedendo se, del caso, accertamenti diretti da effettuare
in loco, è particolarmente congeniale, anche sotto il profilo dell’assetto organizzativo, alla Corte, che potrà avvalersi, allo scopo, delle proprie sezioni regionali di controllo, e, attraverso loro, anche degli organi interni di revisione degli stessi enti.
        È evidente come il rilevante numero di enti locali impone un metodo di lavoro che consenta di operare su un campione di enti, pur definito sulla base di criteri significativi e, per quanto possibile, rappresentativi di un
trend generale.
        La selezione terrà conto, poi, dei fenomeni che maggiormente destano motivo di preoccupazione per gli equilibri di bilancio e per la sostenibilità di
stress finanziari. Priorità sarà, pertanto, assegnata possibilmente alle amministrazioni che, per consistenza del debito e insufficienza di margini di copertura offerta, segnino un più alto indice di rischio, tanto più se a tali fattori si accompagni una crescita della spesa corrente e una flessione di quella per investimento.
        Concludo qui la mia relazione, signor Presidente.

        PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Staderini per la sua relazione e lascio la parola ai colleghi che intendono intervenire.
        CADDEO
(DS-U). Nell’intervento del presidente Staderini abbiamo rilevato una certa preoccupazione, l’individuazione di alcune aree di rischio, che mi sembrano riguardare i tassi variabili, e certe condizioni di indebitamento del mercato.
        In proposito, mi interessava conoscere l’entità del fenomeno e le situazioni di mutuo che risultino particolarmente onerose e preoccupanti, considerato che il Direttore generale del Tesoro, nel corso dell’audizione che si è svolta ieri, ha fatto riferimento a condizioni che talvolta equivalgono a «droghe pesanti». Questa è stata l’espressione che ha utilizzato.
        In secondo luogo, mi interesserebbe avere qualche informazione sulle cartolarizzazioni cui si sta procedendo in ambito regionale e sui loro costi. Desidero avere una valutazione più approfondita della questione da parte della Corte dei conti.
        Sarebbe interessante anche capire che incidenza stia avendo la norma inserita nell’ultima finanziaria che vieta l’indebitamento, se non per investimenti, sulla spesa dei fondi comunitari. Infatti, in questi ultimi sono comprese le spese per investimenti, ma anche quelle da cofinanziare a livello comunitario; mi riferisco a quelle relative al Fondo sociale europeo ed al Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEOGA). Vorrei sapere come vengono considerate queste spese, se d’investimento o se rientranti tra quelle correnti, anche per valutare le conseguenze che ciò potrà avere sulle attività e sui bilanci regionali e, infine, sull’utilizzo stesso dei fondi comunitari.
        L’ultima domanda riguarda il settore della sanità. Abbiamo registrato un aumento dell’incidenza della spesa sanitaria sul PIL pari al 6,2 per cento. Si è quindi in presenza di un incremento dell’indebitamento e di una riduzione dei livelli essenziali di assistenza, dovuta all’impossibilità di raggiungere sull’intero territorio gli stessi
standard assistenziali.
        A vostro avviso, questo fenomeno è collegato alle peculiarità del territorio? Per maggiore chiarezza: i problemi dell’indebitamento e della riduzione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria sono collegati all’insufficienza delle amministrazioni, oppure siete al corrente di qualche indice che denoti che in certe realtà territoriali del Paese questo fenomeno è più frequente? Vorrei sapere se, ad esempio, tra il Nord, il Centro ed il Sud del Paese, in tal senso, esistano differenze particolari.

        MARINO (Misto-Com). Desidero innanzi tutto ringraziare i nostri ospiti per il loro prezioso contributo che fa specifico riferimento all’indebitamento degli enti locali. Peraltro, la Corte si è riservata di svolgere una analisi del fenomeno, anche se mi sembra abbia già accennato alle correlate difficoltà e quindi anche ai rischi per la tenuta dei bilanci e alle necessarie cautele da considerare ed osservare.
        Approfitto quindi della presenza dei nostri ospiti per chiedere chiarimenti in ordine all’ammontare del debito pubblico complessivo – che forse per limiti personali non riesco a ben comprendere – di cui fa certamente parte integrante anche la materia oggetto della nostra indagine, anche in considerazione di una serie di dati. Ad esempio, nella stessa relazione testé illustrata dal presidente Staderini, si fa cenno al fatto che la Cassa depositi e prestiti, come pure l’ANAS, escano fuori dal novero delle amministrazioni pubbliche; inoltre vanno considerate realtà come la Infrastrutture S.p.a., la Patrimonio S.p.a. e la Fintecna S.p.a. (che ha acquistato, a mio avviso ad una cifra inferiore a quella di mercato, gli ex beni della Manifattura tabacchi e della Società dei telefoni), tutte società con il 100 per cento di capitale pubblico.
        Le difficoltà di individuare con precisione l’effettivo ammontare complessivo del debito pubblico riguardano anche altre questioni; mi riferisco, ad esempio, al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 5 dicembre scorso, in base al quale i conti deposito, già intestati alla Cassa depositi e prestiti, sono stati trasferiti direttamente al Ministero dell’economia. Questa operazione, ovviamente, comporta una rideterminazione e un ricalcolo di quello che è lo
stock del debito pubblico, perché di quest’ultimo fanno parte i depositi postali.
        Non intendo insistere sulla recente diatriba in tema di entità del debito pubblico – tra l’altro, ritengo che andrà verificato anche il rendiconto per il 2003 per valutare l’effettivo ricavo delle cartolarizzazioni che, a quanto pare, non avrebbero prodotti i risultati sperati ; tuttavia, tutti questi elementi messi insieme rendono difficile addivenire a dati certi ed inconfutabili sull’entità del debito pubblico complessivo alla luce di tutte le operazioni che sono state effettuate. Avere chiarezza in questo ambito rappresenta invece un aspetto fondamentale ed essenziale ai fini della definizione degli interventi di rilancio dell’economia. Se, pertanto, la Corte dei conti potesse aiutarci a comprendere l’entità, non soltanto della componente non statale, ma anche dell’ammontare del debito complessivo, sarei molto grato. Infatti, riscontro un’estrema difficoltà di valutazione alla luce di quanto è avvenuto negli ultimi anni.

        STADERINI. Innanzi tutto, mi rivolgo al senatore Caddeo sottolineando che non abbiamo a disposizione casi concreti che risultino dal nostro controllo; non siamo a conoscenza, quindi, di situazioni in cui i contratti derivati abbiano contenuto clausole particolarmente onerose. Prima del regolamento del dicembre scorso esistevano sicuramente più margini di libertà per gli enti locali e, quindi, per i promotori finanziari nel formulare tali contratti. Ad esempio, era possibile allungare la durata attraverso i derivati del contratto di mutuo ed era possibile procurarsi liquidità: ora è espressamente previsto che non possano essere destinate ed utilizzate per spese correnti, ma in passato forse ciò è avvenuto abbastanza frequentemente.
        Questa limitazione è sicuramente opportuna. Si tratta di capire se da parte degli enti locali verrà rispettata perché, nell’attuale situazione, in cui non ci sono controlli effettivi sui singoli enti, è anche possibile che si verifichino casi di elusione di queste regole.
        Noi proponiamo di svolgere un’indagine sul territorio, proprio controllando quel numero non elevato di comuni (considerate anche le nostre possibilità di risorse e di personale) tutte le volte che risulteranno situazioni poco chiare. Ad esempio, potremo mettere a confronto quel dato, cui già nella relazione si è fatto cenno, cioè la corrispondenza tra aumento della spesa corrente ed aumento dell’indebitamento. Si tratta di un dato che può rappresentare un campanello di allarme e fa pensare che le spese da indebitamento non siano state destinate all’investimento. Allora saremo in grado di esaminare situazioni concrete.
        Certamente la preoccupazione sussiste, soprattutto con la sostituzione dei tassi fissi con i tassi variabili, che determina un qualche rischio in relazione alla possibilità che nel tempo i tassi aumentino e diventi insostenibile farvi fronte.
        Per quanto riguarda la limitazione delle spese per indebitamento, sottolineo che essa riguarda un investimento inteso nel senso più strettamente contabile, perché un investimento rivolto all’incremento del patrimonio dell’ente rafforza la sua struttura patrimoniale e garantisce la tenuta del suo equilibrio finanziario negli anni successivi. Ove l’indebitamento serva, invece, ad investimenti non a favore diretto dell’ente, ma a favore della comunità amministrata e dell’economia locale, certamente questa garanzia non esiste e, quindi, vi è il rischio che l’ente si trovi ad essere in disequilibrio finanziario a causa di tali investimenti.
        Si tratta, quindi, di una misura cautelare che non possiamo non approvare, pur consapevoli delle conseguenze negative che potrà avere, in particolare per quanto riguarda la possibilità delle regioni di finanziare in questo modo il ricorso ai fondi comunitari. Ciò potrà determinare conseguenze negative, perché non è facile in ambito regionale trovare all’interno delle spese correnti le risorse occorrenti per questi finanziamenti.
        Per le domande relative alla spesa sanitaria, cederò poi la parola alla collega Arrigoni.
        A proposito della questione relativa al debito pubblico nazionale, sollevata dal senatore Marino, rilevo che circa 15 giorni fa siamo stati auditi alla Camera dei deputati per parlare proprio di questo tema. Oggi, però, poiché non ho portato la relativa documentazione, posso solo evidenziare che abbiamo rilevato una diminuzione percentuale, seppure inferiore al previsto, nel rapporto debito-PIL. Tale riduzione percentuale è avvenuta attraverso forme corrette di privatizzazione, come quelle riguardanti la vendita di quote dell’ENEL, del Mediocredito ed anche di un altro istituto pubblico sul mercato; vi sono state, però, anche forme di privatizzazione un po’ surrettizie, allorché si è trattato di trasferire quote sempre dello stesso ENEL e di altri istituti di credito presso la Cassa depositi e prestiti, la quale è stata messa fuori dal bilancio dello Stato e trasformata in soggetto privato. Si può svolgere la medesima osservazione in relazione alla cessione di quote della Cassa depositi e prestiti alle fondazioni bancarie.
        Tutto ciò si rileva per mettere in evidenza una situazione di finanza pubblica che presenta aspetti preoccupanti. Infatti, come è noto, l’Italia ha sempre rispettato i vincoli comunitari, almeno per quanto riguarda il rapporto indebitamento-PIL, diversamente da altri Paesi della Comunità europea; tuttavia, proprio per rispettare i vincoli comunitari, così come per rispettare la tendenza alla riduzione del rapporto debito-PIL, in diversi casi si è ricorso a forme che non sono molto chiare e coerenti. Si è ricorso a misure non strutturali ma
una tantum di carattere straordinario. A fine anno abbiamo messo in evidenza, ad esempio, un’anticipazione – se non ricordo male, di circa 2,7 miliardi di euro – fornita dalle banche sui tributi riscossi e che, essendo stata restituita all’inizio del nuovo anno, ha prodotto una flessione delle entrate tributarie nei primi due mesi dell’anno, proprio in conseguenza dell’obbligo di restituzione.
        La Corte di conti, in relazione a queste misure straordinarie e
una tantum, si è pronunziata in modo critico, non perché lo strumento sia demonizzabile, tanto meno perché non sia utile e opportuno, allorché si tratta di far fronte a situazioni particolari e transitorie. La Corte ha criticato invece la persistenza dell’utilizzo dello strumento dell’una tantum e il rinvio agli anni successivi della soluzione di problemi che permangono tutti e in misura aggravata, attesa la crescente difficoltà di individuare spazi per l’ulteriori forme di una tantum.
        ARRIGONI. Innanzi tutto, saluto il Presidente e i componenti della Commissione.
        Abbiamo allegato alla relazione, che il presidente Staderini ha illustrato, una tabella che riporta il finanziamento della spesa sanitaria e il suo andamento negli anni 2000, 2001, 2002 e 2003. Il disavanzo, cioè il travalicamento rispetto al finanziamento, è stato di 2,8 miliardi di euro nel 2000, di 4,9 miliardi nel 2001, di 3,7 miliardi nel 2002 e di 2,8 miliardi nel 2003.
        Come osservare questi dati e come rispondere agli approfondimenti richiesti dal senatore Caddeo? Il dato più significativo è relativo al 2001. In generale, gli ultimi due anni non sono valutati sulla base di dati di consuntivo ma solo di preconsuntivo. Per l’esperienza che la Corte ha da molti anni nel seguire questi fenomeni, in generale gli ultimi due anni subiscono un riaggiustamento negli esercizi successivi, che danno il vero valore dell’indebitamento.
        Si consideri che nell’anno 2002 ha certamente giocato il blocco delle spese, avvenuto con il cosiddetto decreto taglia spese, per i pagamenti già impegnati dalle aziende sanitarie locali. Ha giocato moltissimo anche un sistema di finanziamento che, legandosi a un’integrazione finanziaria subordinata, però, all’adempimento del Patto di stabilità in sanità, costringe a ritardi nelle erogazioni di cassa alle regioni e quindi alle aziende sanitarie locali, che sono costrette a frenare i pagamenti e gli impegni assunti, con un conseguente effetto rimbalzo che si evidenzia successivamente.
        Nel 2003 si è registrato un ritardo dipeso dal rinnovo del contratto del comparto del servizio sanitario, avvenuto soltanto nel dicembre scorso ma scaricatosi nell’anno successivo, ossia sul 2004. Per la cassa, ciò comporta un maggiore costo di 2,5 miliardi di euro di spesa aggiuntiva, di cui una parte avrebbe fatto carico alla competenza degli anni 2002 e 2003. La situazione, pertanto, è più allarmante di quello che può apparire da questa semplice tabella.
        Se ho ben capito, il senatore Caddeo chiedeva anche di approfondire il discorso della sanità in relazione alla distribuzione territoriale sia delle prestazioni sanitarie sia dello stato della finanza delle varie realtà territoriali.
        Lo scorso anno – ma sta proseguendo anche nell’anno in corso – la Corte, utilizzando l’attività delle sezioni regionali, ha effettuato, per alcuni indicatori precisi di attività, di domanda, di complessità e di appropriatezza delle prestazioni, dei confronti interregionali, proprio per mettere a confronto le realtà delle varie regioni. In generale, a parte la Sicilia e la Campania, i disavanzi tendono ad essere minori al Sud e più elevati al Nord.
        Per quanto riguarda la complessità delle prestazioni, certamente il Nord è ai primi posti. Questo si lega alla grande mobilità e alle migrazioni verso alcuni centri del Nord ma anche del Lazio. Il fenomeno è collegato al sistema differenziato delle tariffe. Ciò comporta in alcune regioni, proprio quelle importatrici, un maggior costo dovuto all’aumento delle tariffe che tende a far ulteriormente crescere la spesa.
        Vado a memoria anche se i dati sono riportati nelle tabelle, allegate alla relazione, relative agli ultimi due anni. Altri indicatori concernono, ad esempio, l’appropriatezza delle prestazioni. Ai fini di un risparmio di spesa, considerata la volontà di mantenere il sistema universale e quindi livelli essenziali di assistenza universalmente garantiti, il grosso sforzo che si fa in sanità è quello di puntare su una organizzazione nella resa delle prestazioni che sia meno cara, ad esempio, il
day hospital. Alcune prestazioni sanitarie possono essere rese a minor costo e con migliore soddisfazione per i pazienti in regime di day hospital.
        Abbiamo condotto un’indagine e abbiamo verificato che alcune regioni, soprattutto quelle dotate di strutture più appropriate, sono riscontrabili al Nord piuttosto che al Sud, dove pesa una rete ospedaliera fatta di piccoli ospedali, poco efficienti da un punto di vista organizzativo. Un ospedale è operativamente interessante in termini economici quando ha perlomeno 600-700 posti letto. Sulle strutture ospedaliere di piccole dimensioni il personale ha maggior peso di quello degli ospedali più grandi che, potendo creare i dipartimenti, possono risparmiare di più sulle risorse umane. Quindi, le prestazioni più complesse e i costi più elevati si rilevano al Nord del Paese. Si riscontrano, inoltre, un’esportazione di pazienti verso il Nord e un non corretto utilizzo negli ospedali del Sud di ricoveri acuti per mancanza di assistenza domiciliare o comunque di lungo-degenze, vale a dire, di residenze sanitarie assistite che consentano di dare risposta alle difficoltà degli anziani, dei disabili e via dicendo. Questi problemi rendono la realtà sanitaria del nostro Paese a macchia di leopardo.
        Si evidenziano poi alcune realtà particolarmente a rischio. Negli ultimi anni sono riscontrabili notevoli disavanzi nel Lazio, nella Campania e in Sicilia.
        La Regione Lazio, ad esempio, ha incontrato enormi difficoltà nel provvedere al ripiano dei propri disavanzi, in attuazione degli impegni presi con l’accordo dell’agosto 2001. Alla fine vi è riuscita con un sistema di cartolarizzazione che però ha distribuito in 30 anni il ripiano di detti debiti e quindi non è stata in grado di effettuare il risanamento entro il 2002 e a dare sollievo al problema di finanza pubblica generale. Comunque, una norma inserita nella legge finanziaria dello scorso anno ha consentito questa possibilità e, quindi, il Lazio è stato ritenuto adempiente e ammesso all’integrazione.
        Alcune regioni, invece, sono rimaste fuori dall’integrazione del finanziamento sia per il 2001 che per il 2002. Nel 2001 hanno perso l’integrazione del finanziamento ben cinque regioni, nel 2002 soltanto tre.
        Per quanto concerne il sistema di finanziamento, è indubbio che esso presenti notevoli difficoltà. Ad esempio, il decreto legislativo n. 56 del 2000, che ha dato vita al nuovo sistema di finanziamento nella sanità, ha abolito il fondo sanitario nazionale e lo ha sostituito con partecipazioni addizionali, IVA e IRPEF, dando però luogo ad un problema in termini applicativi, soprattutto per quanto concerne la determinazione a regime della percentuale di IVA che deve costituire la base di finanziamento per la perequazione. Nella relazione tecnica del decreto legislativo n. 56 venivano specificamente indicate le condizioni affinché questo sistema di finanziamento a regime potesse funzionare, superata la fase transitoria della spesa storica. Queste condizioni erano legate ad un tasso di evoluzione della spesa che fosse inferiore o pari al tasso di crescita del Paese, la qualcosa però non si è verificata. La spesa delle regioni, e in generale quella sanitaria, è cresciuta ad un tasso superiore rispetto alla crescita del PIL attesa, mentre gli obiettivi di sviluppo più recenti, legati all’aggiornamento al programma di stabilità dell’Italia, hanno registrato semmai una correzione in diminuzione
        Pertanto, l’indicazione del DPEF 2004 di un’evoluzione della spesa sanitaria del 3,5-3,7 per cento, corrispondente quindi ad un’evoluzione di crescita in termini nominali del 3,5-3,7 per cento del PIL, in realtà non è stata seguita.
        In queste divaricazioni possiamo individuare lo scostamento che poi determina i disavanzi.

        FLACCADORO. Il senatore Caddeo chiedeva se abbiamo delle indicazioni sui costi delle cartolarizzazioni. Nella relazione svolta dal presidente Staderini c’è un accenno preoccupato all’utilizzo di cartolarizzazioni che si sono rivelate in qualche modo forme di indebitamento. L’accenno che faceva poc’anzi la collega Arrigoni alla cartolarizzazione operata dalla regione Lazio, ha portato alla vendita degli ospedali con operazioni di lease back e quindi attraverso una forma di cartolarizzazione che di fatto rappresenta indebitamento.
        Quindi, nella relazione abbiamo espresso la nostra preoccupazione non tanto per un’avversione allo strumento in sé, autorizzato dall’articolo 84 della legge n. 289 del 2002 (la legge finanziaria per il 2003), quanto per i fenomeni che stanno dietro la cartolarizzazione stessa, ossia per il disavanzo sanitario che si è andato a coprire con questa operazione che in qualche maniera, ove fossero riconfermati i dati del 2003, continua a ripresentarsi. Da questo punto di vista, fenomeni di cartolarizzazione anche in forme di indebitamento a lungo termine rischiano di spostare gli oneri sulle generazioni future.
        Pertanto le cartolarizzazioni, specie quelle «non pure» e che gli stessi criteri Eurostat considerano forme di indebitamento, saranno oggetto di un approfondimento specifico nelle indagini che intendiamo svolgere. Queste infatti hanno dei costi che si esprimono anche attraverso la creazione di «società veicolo». Si tratterà quindi di monitorare il costo effettivo di questa forma di indebitamento e capire se il ricorso ad essa è opportuno per questo tipo di coperture.
        Al momento, per tornare alla sua domanda, non abbiamo valutazioni della Corte dei conti sui costi intesi come aggravio di spese rispetto a forme alternative di copertura.

        PIZZINATO (DS-U). Il mio sarà un intervento sintetico, giacché alla domanda sulla quale intendo soffermarmi ha già in parte risposto la dottoressa Arrigoni. Mi riferisco all’incremento della spesa sanitaria.
        Nella relazione, per quanto concerne la causa di tale incremento, si fa riferimento in particolare all’invecchiamento della popolazione. Desidero partire da un dato. Nei settori dei trasporti e della sanità delle regioni, in quattro anni registriamo un incremento che equivale al raddoppio dell’indebitamento. Per quanto riguarda la sanità, registriamo però, al contempo, una riduzione delle prestazioni. Infatti, l’introduzione dei livelli essenziali di assistenza (LEA), anche nelle realtà più sviluppate, ha portato a minori prestazioni gratuite da parte del Servizio sanitario nazionale. Quindi, siamo in presenza di una riduzione delle prestazioni. Inoltre, vi è una riduzione del numero dei posti letto. Infine, abbiamo il rinnovo dei contratti ma siamo in ritardo nella loro applicazione e pertanto essi in questi anni non hanno pesato enormemente sul totale della spesa sanitaria; occorre altresì considerare la diminuzione complessiva del personale sanitario.
        L’aumento della speranza di vita, che ci auguriamo diventi sempre maggiore, è al massimo di due anni; pertanto, facendo il rapporto delle persone della terza età (60-80 anni) otteniamo un incremento del 10 per cento, molto più basso degli incrementi qui previsti. Se poi il rapporto si fa sull’intera vita, cioè sugli 80 anni, siamo nell’ordine di una percentuale inferiore al 2 per cento.
        Ma allora, quali sono le cause reali che determinano un così forte incremento della spesa sanitaria? È vero che esiste il pendolarismo, ma questo c’è sempre stato. Vivo in Lombardia da più di mezzo secolo e il pendolarismo sanitario è certamente un fenomeno noto.
        Abbiamo infine un altro dato su cui riflettere. L’altro giorno il dottor Siniscalco, ad una richiesta sugli effetti dell’adozione dell’euro per quanto concerne il nostro indebitamento, ha affermato che esso ha avuto un effetto positivo pari all’1 per cento del PIL, se ho ben capito le affermazioni del direttore generale del Tesoro.
        Non riesco a spiegarmi questo dato e non so se sono riuscito a chiarire i molti dubbi che ho in proposito. Quanto pesa, ad esempio, il fatto che nel Nord del Paese vi sia stato un passaggio dal settore pubblico a quello privato ed un incremento del ricorso al
day hospital? In questo ambito territoriale, per un intervento risulta una degenza di tre giorni, ma in realtà si tratta di uno solo; una volta uscito, poi, il paziente dopo qualche giorno, si rivolge ad un altro ospedale pubblico.
        Ebbene, mi chiedo se in proposito non sarebbe opportuna una verifica da parte delle Corte dei conti, volta a valutare il peso che, per il settore della sanità, rappresenta l’ormai mutato rapporto tra ospedali pubblici e ospedali privati.
        Concludo, ringraziando sin d’ora i nostri ospiti per la risposte e per il lavoro che sono chiamati a svolgere su tali tematiche.

        GRILLOTTI (AN). Vorrei fare due richieste per verificare se la soluzione che ritengo possa essere attuata troverebbe o meno il consenso della Corte dei conti.
        Sia nella presente che nelle audizioni precedenti è stato da più parti sottolineato che il debito pubblico delle Amministrazioni locali, in realtà, non costituisce un fenomeno fuori controllo; si è fatto anche riferimento a degli indici che consentono di confermare questo dato.
        Mi chiedo, però, se non sia il caso di riflettere su un’altra questione e cioè sul fatto che il 25 per cento dei tre titoli che sono previsti per la valutazione della capacità mutuataria dei comuni non rispondano effettivamente alla realtà mutuataria degli enti. Questo è infatti il problema reale.
        In proposito, mi capita spesso di ripetere lo stesso esempio: se una persona che possiede una villa del valore di un miliardo di vecchie lire, chiede un mutuo di 200 milioni, è chiaro che la banca glielo concederà immediatamente; le cose cambiano radicalmente se quella persona ha un’entrata annua di 30 milioni. In questo caso, infatti, non si sa proprio come costui riuscirebbe a restituire 20 milioni di ammortamento (tra capitale ed interessi).
        Sarebbe, quindi, il caso di modificare una volta per tutte un’impostazione che fa riferimento a questo genere di indici di valutazione per stabilire se si è o meno in possesso dei requisiti per accedere ad un mutuo. Infatti, oltre al fatto di essere in regola, non bisogna trascurare i problemi di redazione del bilancio. Per quanto riguarda quest’ultimo problema, ad esempio, il passaggio dal tasso fisso a quello variabile va, a mio avviso, nella direzione opposta rispetto a quella che dovrebbe essere, invece, una norma elementare per l’ente locale per il quale è fondamentale avere la certezza delle entrate, onde poter costruire un bilancio che sia anche in pareggio.
        Se nel bilancio vengono però inserite tre o quattro voci aleatorie per natura, come, ad esempio, la compartecipazione IRPEG (che ai fini di un pareggio rappresenta certamente una iattura) o il tasso variabile sui mutui, è evidente che non si otterranno dati di riferimento precisi.
        A fronte di tutto ciò, mi chiedo, allora, se non sarebbe il caso di consentire anche in Italia, così come avviene già in Francia, una capacità mutuataria trentennale, invece che decennale o quindicennale, con possibilità di rinegoziazione dei mutui, magari fino a 15 anni, senza più essere costretti a sostenere le spese per ammortamento e per l’estinzione del mutuo. Infatti, in questo modo permarrebbe un impegno della stessa durata, con la facoltà, però, di rinegoziare il mutuo in caso di riduzione degli interessi e senza spostare nel tempo il debito, che verrebbe ovviamente rinnovato solo per il tempo residuo, garantendo così contemporaneamente la certezza dei dati di riferimento. Il problema è però che la possibilità di rinegoziazione dei mutui non è consentita o, meglio, lo è stata solo eccezionalmente, quando ovviamente si pagavano interessi dell’ordine del 16 per cento, a fronte del tasso del 5 per cento vigente sul mercato. Sarebbe quindi importante poter disporre di strumenti di questo tipo cui poter fare facilmente ricorso in caso di riduzione dei tassi d’interesse. Inoltre, se fosse consentita una capacità mutuataria trentennale – soluzione che è stata adottata anche in Francia senza grossi problemi – si avrebbe una riduzione del peso delle spese correnti degli anni successivi. Ripeto, in tal modo si otterrebbe di rinegoziare i mutui senza ulteriori costi, ad esempio, nei primi dieci anni, e non si sposterebbe il termine del debito, riducendo sicuramente il peso delle spese correnti, con il risultato di bilanci comunali più certi.
        A questo proposito, desidero per altro manifestare qualche preoccupazione; infatti, ritengo che l’abolizione dei Comitati regionali di controllo (Co.re.co.) abbia reso evidente che i bilanci comunali non rispondono effettivamente alle esigenze della Corte dei conti – perdonate la battuta e la sincerità – per fare finta di esercitare il controllo. La Corte dei conti è infatti chiamata ad effettuare i controlli
ex post e, dal momento che non viene più effettuato il controllo dei bilanci a seguito, appunto, dell’abolizione dei Comitati regionali di controllo, ne consegue che la copertura di spese correnti attraverso risorse destinate per investimento sulla carta è diventato relativamente facile.
        Tenuto conto che la legge finanziaria stabilisce il livello del debito, che i trasferimenti di risorse agli enti locali vengono decisi a livello centrale, che vi è l’obbligo del pareggio di bilancio, sarebbe a mio avviso opportuno sia inserire qualche elemento di certezza che garantisca la veridicità dei pareggi dei bilanci, sia eliminare qualche norma che rende più rigido il bilancio. Infatti, se il bilancio per il 95 per cento viene predisposto sulla base di spese non modificabili e si assiste poi ad un continuo mutamento delle norme, è ovvio poi che gli enti locali reagiscano, oppure ricorrano a stratagemmi al fine di soddisfare le esigenze di tutti.
        In conclusione, vorrei conoscere la vostra opinione sull’ipotesi di un prolungamento della durata dei mutui, ma anche per quanto riguarda il ricorso al tasso fisso – in modo di avere maggiore certezza dei bilanci – e la possibilità di una perequazione dell’IRPEG, considerato che è stata l’ANCI a volere questa compartecipazione che personalmente non ho mai condiviso. Va infatti tenuto presente che l’IRPEG è l’imposta soggetta ad oscillazioni per eccellenza e quindi mi chiedo come si possa supporre di basare un bilancio che ha l’obbligo di essere in pareggio su entrate derivanti dall’IRPEG.
        Ripeto, vorrei la vostra opinione in proposito, anche per avere qualche riferimento ulteriore.
        Per quanto riguarda la spesa sanitaria, personalmente sono convinto che l’aumento registrato non sia dovuto all’invecchiamento della popolazione, ma al fatto che probabilmente si fa fronte alle spese dovute a tale invecchiamento senza avere però il coraggio di intervenire in questo settore – considerato che alcune spese sono superflue, inutili e sicuramente mal distribuite – e limitandosi a creare solo nuovi servizi. A vostro avviso, sarebbe positiva una razionalizzazione dei ricoveri, o, per essere più chiari, sarebbe opportuno dare ancora effettiva attuazione ai decreti delegati di riordino della sanità che hanno stabilito la chiusura dei piccoli e medi ospedali, norma rimasta del tutto disattesa? Ritenete che questa potrebbe rappresentare una soluzione? Se si mantengono invariate le vecchie spese ed a queste si vanno ad aggiungere quelle nuove, magari dovute ai cambiamenti della società, e quindi anche all’invecchiamento della popolazione, i conti poi possono saltare.
        Mi chiedo se non sarebbe utile qualche verifica
ad hoc della Corte dei conti, magari in quegli ospedali in cui lavorano dei personaggi importanti e in cui esistono tre diversi reparti di chirurgia collocati su tre piani diversi, solo perché si debbono mantenere i posti di tre primari chirurghi. Di fronte a casi del genere, infatti, viene il dubbio che si stiano buttando i soldi pubblici dalla finestra: contenere la spesa allora diventa difficile. Sarebbe quindi il caso di immaginare qualche norma di controllo effettivo anche per quanto riguarda l’organizzazione. A questo proposito, la dottoressa Arrigoni ha parlato prima della serietà e della congruità degli interventi effettuati; ebbene, ritengo che di queste incongruità l’Italia sia piena, e che quindi valga la pena di intervenire. Dico questo, al di là del numero di posti letto in base al quale è prevista la chiusura degli ospedali, che può essere di 600, 300 o 120, così come prevedevano i decreti di riordino. Su questo ci si potrà accordare, però sono convinto che se si effettua in maniera corretta un intervento di riordino per quanto riguarda le spese di ricovero per pazienti cronici (medicina, chirurgia e specializzazioni varie), si potrà poi far fronte ai costi relativi alle unità IDR ed ai nuclei RSA tranquillamente e senza grandi problemi. Infatti, attraverso i nuclei RSA si fa prevenzione sul territorio, eliminando così il ricorso al ricovero ospedaliero; considerato che un ricovero in ospedale costa 1.500.000 di vecchie lire e quello presso i nuclei RSA circa 350.000 e visto che la matematica è una scienza esatta, il risparmio è di tutta evidenza.
        PRESIDENTE Desidero porre una domanda. Mi pare di non aver rilevato nella relazione svolta dal presidente Staderini riferimenti alla quota di indebitamento estero di alcune Regioni. La Corte dei conti è già in possesso di elementi al riguardo, oppure si riserva di effettuare l’analisi di questo dato nell’ambito dell’indagine cui la dottoressa Arrigoni ha fatto riferimento? In quest’ultimo caso, sarebbe interessante comprendere in tale indagine anche una ricerca delle possibilità di controllo da esercitare sull’indebitamento estero.
        
STADERINI. Le domande che sono state poste sono numerose e molto interessanti. Risponderò in primo luogo al senatore Pizzinato che ha chiesto quali, a nostro avviso, possano essere le ragioni dell’incremento della spesa sanitaria. In proposito va innanzi tutto rilevato che tale spesa aumenta non solo in Italia, ma in tutti gli Stati occidentali e ciò è dovuto in parte a cause di carattere generale, quali ad esempio l’invecchiamento della popolazione. È evidente che l’anziano – lo dico per esperienza – si ammala di più e ha maggiore bisogno del ricorso al Servizio sanitario nazionale. Non c’è dubbio, poi, che migliorano le cure sotto la forma di più sofisticati strumenti diagnostici, ma anche sotto la forma di medicamenti, che sono sempre più costosi, ma almeno in parte anche più efficaci. Le possibilità della sanità moderna non sono certamente paragonabili a quelle di qualche decennio fa. Si registra, quindi, anche un aumento della spesa farmaceutica.
        Sono assolutamente d’accordo con il senatore Grillotti sul fatto che si può porre anche un problema di inefficienza. Anch’io, non da magistrato della Corte dei conti ma da semplice cittadino, vengo a conoscenza di particolari situazioni di spreco, di primariati creati in doppione e così via. Purtroppo, i controlli devono essere effettuati dalle Regioni, le quali hanno la competenza in materia. La situazione indubbiamente varia, perché vi sono Regioni che hanno margini di efficienza superiori alle altre. Annualmente svolgiamo un’indagine comparativa in cui mettiamo a confronto le diverse realtà regionali anche per quanto riguarda gli aspetti gestionali, il rapporto tra risorse umane ed utenti, l’offerta dei posti letto, la loro utilizzazione e così via. Non c’è dubbio che il confronto può fornire un aiuto ed uno stimolo – questo è il motivo per cui noi lo facciamo – agli amministratori affinché possano migliorarsi ed introdurre le riforme che potranno realizzare economie. Certo, c’è ancora molto da lavorare.
        Peraltro, non dobbiamo neanche dimenticare che la spesa sanitaria italiana non è superiore rispetto a quella degli altri Stati europei, anzi mi risulta che sia leggermente inferiore alla media europea. Quindi, mentre è certo che per la spesa pensionistica (sia pure con tutte le incertezze derivanti dalla difficoltà di stabilire una nozione di spesa pensionistica uniforme) l’Italia è al di sopra della media europea, perché l’età media di pensionamento, nel nostro Paese, è più bassa, per la spesa sanitaria l’Italia è in media e forse anche sotto la media. Non ci si deve scandalizzare, pertanto, se si verificheranno aumenti di questa voce di spesa. Ovviamente, dobbiamo fare in modo che tali aumenti non si traducano in un incremento dell’inefficienza, in un prezzo pagato al perpetuarsi dell’inefficienza. A tale proposito, la Corte dei conti cerca di sottolineare i fenomeni maggiormente critici affinché, anche sotto la spinta dell’opinione pubblica, le singole realtà regionali siano stimolate ad intervenire. Il nostro controllo è relativo, dal momento che non possiamo contribuire in modo diretto a cambiare la situazione. Certamente abbiamo anche la giurisdizione, perché di fronte agli illeciti intervengono le nostre procure regionali. L’illecito contabile, però, presuppone fatti particolarmente gravi sotto l’aspetto dell’elemento soggettivo; addirittura, occorre la colpa grave dell’amministratore, del funzionario e dell’operatore e deve esserci anche un danno dimostrabile. Quindi, la situazione non si risolve con la giurisdizione, ma attraverso un’azione (che noi cerchiamo di svolgere) di chiarificazione rispetto alle diverse realtà amministrative, alla comparazione tra i differenti modi di lavorare e i modelli organizzativi, per consentire la scelta del sistema migliore ed evitare gli sprechi.
        Sono, poi, pienamente d’accordo con il senatore Grillotti sul fatto che il parametro del 25 per cento delle entrate dei primi tre titoli per quanto riguarda gli enti locali e del 25 per cento delle entrate tributarie per quanto riguarda le regioni dovrebbe essere modificato. Infatti, questo parametro, come indicativo della sostenibilità del debito, viene riportato in modo tralatizio da leggi moderne e, precisamente, per le regioni dal decreto legislativo n. 76 del 2000 e per gli enti locali dal decreto legislativo n. 267 del 2000 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali). Peraltro, si tratta di norme che già esistevano in passato: per le regioni c’era l’articolo 10 della legge 16 maggio 1970, n. 281, e per gli enti locali probabilmente si risale al Testo unico contenuto nel regio decreto n. 383 del 1934. Quando l’onere degli interessi era due, tre o cinque volte maggiore di quello attuale, il vincolo del 25 per cento riusciva bene a contenere l’importo del debito; ora, con gli interessi molto bassi, l’ammontare dei debiti che si possono contrarre rispettando questo limite è enormemente superiore. Quindi, sarebbe importante che, anche a livello parlamentare, venisse fatta una riflessione sul punto.
        Sono d’accordo sul fatto che il tasso variabile rappresenti un rischio: il contratto a tasso variabile è rischioso. Non per nulla, una volta, in base alle vecchie leggi comunali e provinciali, i Comuni potevano investire soltanto nella rendita di Stato, nei buoni ordinari del tesoro, perché con quelli non si rischiava.
        Se i tassi restano bassi non c’è pericolo, ma se dovessero subire anche un aumento contenuto, si porrebbe un rischio notevole che potrebbe far saltare diverse amministrazioni locali.
        A tale proposito, dobbiamo renderci conto che è urgente disciplinare l’istituto del dissesto. La finanziaria del 2003 ha abrogato le norme del Testo unico relative al dissesto degli enti locali; è stato abrogato l’intero titolo. La finanziaria del 2004 ha dettato disposizioni di carattere transitorio per continuare a finanziare i casi di dissesto. Attualmente, quindi, non c’è una disciplina del dissesto. Se un comune diventa insolvente, bisogna applicare la disciplina civilistica, perché non esistono norme specifiche. Si applica la legge fallimentare, per quanto si possa applicare ad un ente pubblico. Si deve introdurre questa normativa, tenendo conto che sotto l’aspetto formale è giusto affermare che il debito degli enti locali non interessa lo Stato, perché questo non garantisce il buon esito dei loro debiti; tuttavia nella sostanza le situazioni sono diverse. Evidentemente, il comune che diventa insolvente non sarà più in grado di fare fronte alle sue funzioni essenziali e di garantire ai suoi cittadini la prestazione dei servizi indispensabili. Inevitabilmente lo Stato ne subirà le conseguenze dovendo, in base alla Costituzione, garantire in termini finanziari in tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali attraverso il fondo perequativo di cui all’articolo 119 della Costituzione. In base all’articolo 120 della Costituzione, lo Stato deve anche intervenire in via amministrativa con i suoi poteri sostitutivi.
        Non si può quindi affermare che il debito locale non ci interessa in quanto, se dal punto di vista formale non grava immediatamente nella finanza statale, finisce poi con il ripercuotersi indirettamente su di essa.
        Forse bisognerebbe preoccuparsi dei controlli da effettuare sugli enti locali. In proposito sono in linea con il senatore Grillotti: effettivamente i Co.re.co. servivano a poco e lavoravano male, essendo enormemente influenzati da spirito di parte. Tuttavia, i Co.re.co. rappresentavano un significativo punto di riferimento per i piccoli comuni (che costituiscono l’assoluta maggioranza degli 8.000 enti comunali italiani) dal punto di vista contabile e del controllo sui bilanci, essendo in grado di dare consigli e di bloccare i bilanci che non andavano. Di tutto questo ormai non è rimasto nulla. In base alla legge n. 131 del 2003 dovrebbero provvedere in tal senso le sezioni regionali della Corte dei conti che però, non disponendo di una struttura idonea, non sono in grado di svolgere l’attività dei Co.re.co.
        È necessario valutare l’opportunità di rinforzare gli organi di controllo interno e di definire, soprattutto per i collegi dei revisori dei conti degli enti locali, una disciplina che rientra nella potestà del legislatore ordinario, come recentemente stabilito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 376 del 2003. Con riferimento all’articolo 41 della legge finanziaria per il 2002 (legge n. 448 del 2001), la Corte ha, infatti, rilevato che il legislatore nazionale può, in sede di coordinamento della finanza pubblica, prevedere anche controlli puntuali (così si è espressa), al fine di garantire una sana gestione finanziaria e il rispetto, da parte degli enti locali, delle regole contabili volte ad assicurare l’equilibrio dei bilanci.
        È opportuno, indispensabile e urgente che il legislatore nazionale si dia carico di una disciplina volta a rinforzare il ruolo dei revisori dei conti, mutando l’attuale normativa, al fine di assicurare maggiore indipendenza e professionalità. L’attuale disciplina – che prevede, tra l’altro, l’elezione dei revisori dei conti attraverso la formula del voto limitato – garantisce la presenza di due espressioni della maggioranza e di un’espressione della minoranza. Ciò significa politicizzare già in partenza un organo che deve essere invece assolutamente indipendente e soprattutto professionale.
        Bisogna valutare anche la possibilità che il presidente del collegio dei revisori possa essere nominato dall’esterno, secondo modalità garantistiche e formule che prevedano magari l’intervento in vario modo dei consigli delle autonomie locali. Tutto questo è senza dubbio possibile.
        Si è ieri conclusa in Parlamento l’indagine conoscitiva sui rapporti tra il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio con un documento che prevede la riforma del risparmio e stabilisce che i presidenti dei collegi sindacali delle società per azioni possano essere nominati dalla CONSOB. Ebbene, se si reputa necessario che un organo dello Stato nomini il presidente del collegio sindacale per garantire maggiormente la correttezza dell’azione delle società private, a maggior ragione ciò dovrebbe valere nei confronti di enti pubblici. Il rispetto delle autonomie locali è sacrosanto ma è altrettanto sacrosanto mettere in condizione gli enti locali di operare in modo da garantire l’equilibrio dei bilanci.
        Una buona gestione finanziaria degli enti locali contribuisce a una sana gestione finanziaria dello Stato, essendo tutto collegato. È, quindi, opportuno fare leva sull’attività di un rinnovato organo di revisione contabile degli enti locali. Bisogna prevedere che le sezioni regionali della Corte dei conti possano non solo avvalersi direttamente di questi organi interni degli enti locali per esercitare un controllo che – ripeto – è solo di natura contabile e finanziaria, ma fornire anche indirizzi e stabilire, nell’impostazione del bilancio, criteri uniformi volti ad accertare il rispetto delle norme relative al Patto di stabilità interno, al pareggio dei bilanci, alla destinazione delle entrate da mutuo, alle spese di investimento e via dicendo.
        A seguito della riforma costituzionale del 2001, è possibile che il legislatore nel disciplinare la materia della gestione finanziaria degli enti locali tenga conto delle differenti dimensioni degli enti medesimi. In Italia esistono 800 enti locali che non raggiungono i 500 abitanti ed è evidente che non può valere per essi la disciplina prevista per il comune di Roma. Si possono prevedere discipline differenziate che tengano conto delle maggiori possibilità di rischio che incontrano gli uni o gli altri enti e dell’esigenza di venire incontro ai numerosi amministratori locali che sono alla ricerca di un aiuto sui comportamenti da adottare.
        Abbiamo accertato che l’indebitamento degli enti locali, pur essendo in crescita e fornendo qualche motivo di preoccupazione, resta nei limiti di legge; sulla sua tenuta non si rileva al momento alcun rischio e pericolo. Vi è però una riserva sull’universo delle società per azioni partecipate dagli enti locali, atteso che su di esse non esistono rilevazioni di alcun genere.
        È a tutti noto che il comune medio-grande è una
holding che esercita le sue funzioni e presta i servizi ai cittadini avvalendosi di queste società partecipate. Spesso nei grandi comuni le società partecipate sono molteplici. I rapporti tra la holding e le suddette società in materia contabile e finanziaria sono tali che entro certi limiti è anche possibile trasferire le difficoltà finanziarie dell’ente locale alla società partecipata. Farò un esempio. È sufficiente che il contratto di servizio venga stipulato a condizioni assolutamente svantaggiose per la società e vantaggiose per l’ente locale affinché la situazione finanziaria dell’ente appaia migliore.
        Non sappiamo quindi in quale situazione versano le migliaia di società partecipate degli enti locali. Può darsi che non vi siano motivi di preoccupazione, ma forse sarebbe opportuno individuare modalità di intervento e forme di monitoraggio. Non esiste, infatti, un conto consolidato che abbracci il comune inteso come
holding e tutte le sue partecipate. Se esistesse, non vi sarebbero problemi, in quanto la situazione sarebbe evidente, ma poiché attualmente non vi è nulla del genere, forse, per stare veramente tranquilli, occorrerebbe trovare un modo per esplorare anche questo mondo. E’ inutile nasconderselo, ma se la società per azioni ad un certo punto è costretta a ricapitalizzarsi, sarà l’ente che ne possiede il pacchetto azionario a dover fornire i finanziamenti per tale ricapitalizzazione.
        PRESIDENTE. Vorrei fare una piccola osservazione. L’ho vista preoccupata sulla questione del tetto del 25 per cento all’onere annuale per interessi. Vorrei sapere se la Corte dei conti ha allo studio ipotesi alternative.
        Quando la Corte disporrà di nuovi elementi di valutazione saremmo molto lieti di riceverli, in modo da poter tenere un osservatorio in progress della situazione.
        STADERINI. A mio avviso, si potrebbe abbassare il limite del 25 per cento e se ciò accadesse saremmo tutti più tranquilli. Per quanto riguarda poi i nuovi elementi di valutazione, prima della prossima finanziaria speriamo di poter pubblicizzare le conclusioni della nostra nuova indagine.
        PRESIDENTE. Ringrazio il Presidente della Corte dei conti professor Staderini e i collaboratori che lo hanno accompagnato.

        Dichiaro conclusa l’audizione e rinvio il seguito dell’indagine conoscitiva ad altra seduta.
        I lavori terminano alle ore 17,25.
Licenziato per la stampa dall’Ufficio dei Resoconti
1)             I testi contenuti nel presente fascicolo — che anticipa a uso interno l’edizione del Resoconto stenografico — non sono stati rivisti dagli oratori.