AFFARI ESTERI, EMIGRAZIONE (3ª)
MERCOLEDÌ 16 MARZO 2005
230ª Seduta
Presidenza del Presidente
PROVERA
Interviene il sottosegretario di Stato per gli affari esteri Bettamio.
La seduta inizia alle ore 15,00.
MATERIE DI COMPETENZA
Sulle prospettive di riforma dell'Organizzazione delle Nazioni Unite alla luce del rapporto del High Level Panel: proposta di relazione
(Seguito e conclusione dell'esame. Approvazione di una relazione)
Riprende l'esame sospeso nella seduta del 19 gennaio 2005.
Ha la parola il relatore PIANETTA (
FI
) il quale illustra sinteticamente la proposta di relazione allegata al presente resoconto precisando che essa è frutto di un lungo dibattito in Commissione che ha tenuto conto del graduale evolvere delle prospettive di riforma delle Nazioni Unite prima e dopo la pubblicazione del rapporto del
High Level Panel
.
Interviene quindi il senatore CASTAGNETTI (
FI
) il quale si congratula per l’eccellente e approfondito lavoro svolto dal relatore.
Osserva come due siano le direttrici su cui analizzare l’attuale capacità problematica della riforma delle Nazioni Unite. In primo luogo si pone a suo giudizio l’esigenza di conferire efficacia all’azione dell’ONU, dal momento che esso rappresenta il consesso in cui dispiegare la lotta aperta alle conflittualità statali ed interstatuali, alle persecuzioni di qualunque segno e alle violazioni dei diritti umani.
Certamente le stesse Nazioni Unite rappresentano - prosegue l’oratore - il luogo più adatto per riequilibrare le enormi differenze di ricchezza e benessere che caratterizzano il globo. Tuttavia egli precisa che intendere le Nazioni Unite come futuribile Governo del Mondo non può degenerare nell’ingenua rincorsa ad utopie o sogni. Esemplificativo gli appare il proposito irrealizzabile di chi sostiene che le decisioni dell’ONU debbano essere cogenti (in un senso giuridico pieno) per tutti i Paesi e tutte le aree. D’altra parte, sarebbe anche irrealistico ogni tentativo di consegnare le leve del potere decisionale in sede ONU a Paesi minori quelli, cioè, che non incidono sulle relazioni internazionali in modo paritetico ai grandi. Ribadisce che queste, come altre ipotesi, ancor prima che essere giuste o sbagliate da una prospettiva etica, mancano di realismo. In questa luce, alla domanda di come svolgere concreti passi in avanti nel processo di riforma, ritiene si debba rispondere, non con la dilatazione del Consiglio di Sicurezza, nè con eccessi di assemblearismo.
Concorda, dunque, con chi sostiene la necessità di miglioramenti graduali e settoriali consistenti nel potenziamento delle agenzie, nell’effettività dell’azione in campo economico e sociale e nel consolidamento e nello sviluppo delle politiche settoriali. D’altra parte, l’ONU rappresenta i Governi e non tutti i cittadini del mondo; tale constatazione, a suo giudizio, implica anche attenzione sul riferimento al tema dei diritti umani. Gli appare innegabile, infatti, che l’eccesso di ideologia nella tutela dei diritti umani medesimi sfoci in una compressione della sovranità nazionale ed è per tale ragione che egli invoca l’opportunità di un approccio pragmatico al rapporto tra i due principi della protezione dei diritti umani e della non ingerenza.
Conclude ricordando come la posizione italiana abbia incontrato l’apprezzamento anche di alcuni membri dell’opposizione, proprio perché essa rifugge la logica di un mero ampliamento del Consiglio di Sicurezza inteso come luogo di decisione dei potenti. Tali ipotesi di allargamento dei membri permanenti peraltro trascurano di fronteggiare i rischi di paralisi dell’organo. Viceversa la cosiddetta opzione “B” appare bene orientata nella prospettiva di un seggio europeo il quale rappresenta il legittimo sbocco per la politica mondiale di un’Europa portatrice di valori, di tradizioni giuridiche e di civiltà che meritano di essere amplificate. Anche per questo egli ritiene che la linea sviluppata dal Governo sulle prospettive di riforma debba essere pienamente sostenuta, così come totale è il suo assenso alla proposta di relazione avanzata dal senatore Pianetta.
Il senatore MORSELLI (
AN
) si unisce al sostegno espresso alla proposta di relazione del senatore Pianetta e chiarisce come il problema della rappresentatività in seno all’ONU appaia decisivo. In proposito ritiene che la questione controversa della composizione del Consiglio di Sicurezza non sia destinata ad essere risolta in un tempo breve. Osserva, invece, come grande attenzione si debba rivolgere al tema del terrorismo, rispetto al quale, al di là di alcune puntuali raccomandazioni, il rapporto del
High Level Panel
non sembra dettare chiari indirizzi. Rileva, invece, come sul punto si debba fare grande chiarezza essendo tale problematica in continua mutazione sia a livello di definizioni che di dibattito politico.
Ricorda in proposito come il prossimo maggio si dovrebbe tenere un incontro fra le autorità brasiliane ed esponenti della Lega araba, il quale potrebbe risolversi in una sorta di autentico ponte politico tra la più grande potenza geopolitica del Sud America e la stessa Lega araba, con ricadute significative sia sul piano della riforma del Consiglio di Sicurezza sia sulla questione della lotta globale al terrorismo. Tra l’altro, alla base di tali ipotetiche intese potrebbe collocarsi, stando ad alcune notizie anticipatorie, la condivisione di una concezione del terrorismo ben distinto dalla lotta violenta per l’indipendenza di un Paese. Una sorta di codice definitorio, questo, che per opportunità politica o convenienza tattica, potrebbe essere informalmente condiviso proprio in occasione di questo prossimo vertice. Ricorda come, invece, si debba ribadire con chiarezza ed univocità che ogni atto violento finalizzato a motivi politici contro inermi deve essere condannato e combattuto, senza indulgere in sfumature od esitazioni. Auspica, dunque, che su questo punto la posizione italiana e l’eventuale accordo sulla base delle proposte del Panel siano entrambi forti e recisi. Conclude osservando come la riforma dell’ONU debba anche essere letta tenendo conto dei complessi rivolgimenti politici che, solo per citare un esempio, stanno conducendo India, Brasile e Sud Africa a comporre una sorta di G3 alternativo al G8.
Ribadendo dunque la piena adesione alle proposte avanzate dal Relatore e, più in generale, agli atteggiamenti tenuti dal Governo rispetto alle proposte di riforma, precisa che sui temi fondamentali della convivenza tra Stati quale è quello del terrorismo e su un ottica di attenzione per le mutazioni geopolitiche delle relazioni internazionali non si debba abbassare mai la soglia d’attenzione.
Il sottosegretario BETTAMIO interviene per svolgere qualche considerazione aggiuntiva sulla posizione del Governo rispetto alle prospettive di riforma delle Nazioni Unite. Ritiene innanzitutto che si debba tener conto di una crisi di rappresentatività in seno al Consiglio di Sicurezza ribadita, peraltro, anche a livello di aree regionali. Inoltre non mancano Paesi che per diverse ragioni guardano all’ONU con una sorta di implicita riserva mentale o tacita disaffezione. In questo scenario, il tentativo da parte dei quattro candidati di ottenere seggi permanenti in Consiglio di Sicurezza sembra orientato a portare dalla propria parte i Paesi appartenenti alle singole aree geografiche rispetto alle quali essi si pongono come potenze egemoniche. Non mancano, tuttavia, ipotesi che mirano a non amplificare l’effetto di divisione sotteso alle differenti visioni sulle proposte di riforma del Consiglio di Sicurezza. Infatti, da parte di alcune fasce della
membership
,
pare diffondersi l’ipotesi di concentrarsi sugli altri contenuti della proposta di riforma del
Panel
sui quali vi è un ampio consenso e sottoporre ad un’ulteriore riflessione le prospettive di riforma del Consiglio di Sicurezza. È in questa prospettiva che l’Italia valuterà i passi da compiersi, anche nei prossimi giorni, in cui a New York si svolgeranno riunioni informali volte a fare il punto sulla situazione.
Il senatore FORLANI (
UDC
) rileva preliminarmente come l’ONU si ponga al centro di un costante dibattito che, di recente, ne ha investito la capacità a farsi carico del ruolo di foro dominante del multilateralismo. Agli inizi di questo ventunesimo secolo vi è stata una netta impennata unilateralista che ora appare in parte regredire. D’altro canto non solo a livello ideologico ma anche a livello politico alle difficoltà del multilateralismo non pare si possa rispondere prescindendo da un’ottica di coinvolgimento di più volontà statali nelle grandi decisioni politiche che incidono sulla sorte di sempre più vaste aree del globo. Ricorda, in proposito, da un lato la complessità delle sfide costituite dall’AIDS, dal proliferare del terrorismo, dall’arretramento nello sviluppo economico e sociale di intere zone del Mondo; dall’altro la complessità delle risposte che l’ONU ha saputo dare o, viceversa, ha mancato di fornire a fronte delle grandi crisi umanitarie, militari e politiche dell’Iraq, dei Balcani, del Ruanda e, nel passato, di molti altri Paesi dell’Africa e dello stesso medio Oriente. A suo giudizio, le prospettive di riforma sono cruciali non appena si riconosca che le Nazioni Unite hanno sì svolto un ruolo cruciale durante il processo di decolonizzazione nel corso della guerra fredda, ma la loro azione appare in crisi dopo il 1989.
Ribadisce come, alla luce di questi rilievi, la riforma di organi e politiche delle Nazioni Unite debba perseguire l’obiettivo di rilanciare un forte soggetto politico multilaterale che sia un foro di composizione degli interessi e dei conflitti. In particolare, gli appare condivisibile il complesso dalle raccomandazioni svolte dal
Panel
sul ricorso alla forza come, del resto, fondata è la consapevolezza di dover limitare i rischi di paralisi del Consiglio di Sicurezza direttamente connessi con l’effettività dell’azione delle Nazioni Unite. È proprio per questo - conclude l’oratore – che in punto di riforma del Consiglio di Sicurezza l’ipotesi “B” sembra oggettivamente più adatta a risolvere i problemi di azione e legittimazione dell’ONU. In particolare essa sembra capace di instaurare un nesso con gli interessi di cui si fanno portatori non solo l’Unione Europea ma tutte le organizzazioni regionali di area.
Il senatore PELLICINI (
AN
) nel dichiarare il proprio convinto sostegno alla proposta di relazione avanzata dal senatore Pianeta, si dice convinto che l’attenzione al fenomeno del terrorismo sulla quale si è già soffermato il collega Morselli, appare quanto mai rilevante. Ricorda, infatti, come vi sia il rischio di indebite ed illegittime confusioni tra atti di terrorismo e fenomeni impropriamente ricondotti sotto il
nomen
di resistenza. Osserva, infatti, come il concetto giuridicamente rilevante, sia da un punto di vista di diritto internazionale che di diritto interno, di resistenza è sorto con chiari confini durante il periodo dell’occupazione nazista in varie parti dell’Europa. In particolare, precisa come la Francia guidata dal Generale De Gaulle fosse riconosciuta quale forza belligerante da parte degli stessi nazisti, a dimostrazione che la lotta per l’indipendenza di un Paese ha confini del tutto diversi da quelli del terrorismo che, invece, va condannato in modo fermo e combattuto come una delle grandi minacce del secolo con tutti gli organi e gli strumenti di cui le Nazioni Unite possono valersi.
Il senatore ANDREOTTI (
Aut
) precisa che, pur avendo egli in passato più volte osservato come fosse irrealistica la prospettiva di una riforma del Consiglio di Sicurezza secondo schemi di aree regionali e continentali, alcuni recenti colloqui informali gli hanno fatto comprendere come la sensibilità verso queste logiche vada relativamente accrescendosi, almeno nell’ambito del continente africano. Ribadisce, tuttavia, come ancora molti dubbi si profilino sul diffondersi di una tale ottica tra i Paesi asiatici. Ritiene poi condivisibile analizzare a fondo il problema definitorio del fenomeno terroristico, anche in relazione allo stesso modo in cui si conducono le operazioni militari rispetto alle quali le regole della Convenzione di Ginevra hanno sofferto perdite di effettività già dai tempi dei bombardamenti di massa su Coventry e Dresda.
In terzo luogo, ricorda come un grosso problema sia quello del seguito politico e giuridico alle risoluzioni adottate dalle Nazioni Unite che spesso, come nel caso del medio Oriente e dell’occupazione del Golan, sono rimaste disapplicate. Da un punto di vista pragmatico continua a ritenere che la posizione italiana debba tendere a precludere modifiche nella formazione degli organi delle Nazioni Unite politicamente inadeguate e che non contribuiscano alla governabilità dell’ONU. Tra l’altro egli ritiene che l’attenzione debba essere costantemente rivolta anche alla posizione statunitense che, da sempre, appare tiepida nei confronti dell’azione e delle decisioni ONU sin dai tempi immediatamente successivi alla fondazione, per mano del Presidente Wilson, della Società delle Nazioni.
Anche il presidente PROVERA rivolge il proprio apprezzamento sui contenuti della proposta di relazione illustrata dal relatore Pianetta, e osserva come si debba prestare attenzione a cambiare la natura di un soggetto, come le Nazioni Unite, che pur avendo nel passato fallito nella risoluzione di gravi crisi, ha dimostrato anche di saper svolgere un ruolo importante in frangenti ugualmente drammatici e controversi. D’altra parte, gli appare evidente da un lato una sorta di obsolescenza dell’ONU e, dall’altro, un forte bisogno di multilateralismo anche da parte degli stessi Stati Uniti. Circa l’uso della forza come problema fortemente connesso al ricorso all’autodifesa preventiva, ritiene che ci si debba soffermare su tre distinti problemi. In primo luogo, si pone la questione della rapidità di decisione delle Nazioni Unite di fronte all’urgenza delle crisi e all’improvviso prospettarsi di gravi rischi di catastrofi umanitarie o di pericoli per Stati sovrani. In secondo luogo va esaminato il problema della credibilità nella dissuasione, il che implica di scongiurare la mancata applicazione delle risoluzioni ONU. In terzo luogo, si colloca il grande tema dell’efficacia nell’azione sotto egida ONU. A suo avviso quest’ultima problematica rinvia alla mancanza di una forza militare propria delle Nazioni Unite.
Conclusivamente, si sofferma anch’egli sull’opportunità di ponderare attentamente il problema della tutela dei diritti umani considerando che, dietro il programma di una assoluta necessità di intervenire a difenderli si cela il rischio di distorsioni che conducano ad intervenire anche quando gli interessi in campo utilizzano la violazione dei diritti umani come un mero pretesto.
Replica agli intervenuti il relatore PIANETTA (
FI
) ringraziando innanzitutto i colleghi e il Rappresentante del Governo per il contributo fornito al dibattito. Ricorda quindi il prezioso confronto che si è svolto il 1° marzo nella sede dell’Ufficio di Presidenza con il Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il Ministro Ping.
L’obsolescenza delle regole che reggono il funzionamento delle Nazioni Unite è sotto gli occhi di tutti. A fronte delle disfunzioni e delle manchevolezze appaiono coraggiose e sostanzialmente condivisibili le proposte avanzate nel rapporto degli esperti. Tra queste richiama in particolare l’introduzione di una precisa definizione del terrorismo e la specificazione delle condizioni che autorizzano l’uso della forza. Per parte sua richiama nuovamente l’attenzione sull’importanza della tutela dei diritti umani; una questione non solo morale o filosofica, ma che costituisce il riferimento essenziale che deve illuminare sempre, e in modo stringente, il comportamento delle Nazioni Unite.
Alla luce di queste considerazioni dichiara di condividere le valutazioni fornite dal Rappresentante del Governo circa la necessità di evitare che la questione della riforma della composizione del Consiglio di sicurezza – questione sulla quale permangono divergenze profonde nella comunità internazionale – finisca per pregiudicare la soluzione della più complessiva riforma dello statuto e delle istituzioni delle Nazioni Unite oggetto invece di un ampia condivisione.
Il presidente PROVERA, verificata la sussistenza del prescritto numero legale, pone in votazione la proposta di relazione in titolo, conferendo mandato al relatore a riferire all’Assemblea.
La Commissione accoglie tale proposta all'unanimità.
La seduta termina alle ore 16,30.
RELAZIONE, AI SENSI DELL'ARTICOLO 50, COMMA 1, DEL REGOLAMENTO SULLA MATERIA DI COMPETENZA: "PROSPETTIVE DI RIFORMA DELL'ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE ALLA LUCE DEL RAPPORTO DEL
HIGH LEVEL PANEL",
PREDISPOSTA DAL RELATORE E ACCOLTA DALLA COMMISSIONE
Premessa
Alla riforma delle Nazioni Unite la Commissione affari esteri ha dedicato un particolare interesse, volgendo innanzitutto la sua attenzione sulla risoluzione approvata dal Parlamento europeo nelle relazioni con l’UE e ONU (16 e 17 marzo 2004), anche attraverso un confronto con il Presidente della Commissione esteri del Parlamento europeo e altri componenti di quella Commissione (18 gennaio 2005). Una delegazione della Commissione ha partecipato, nel settembre 2004, alla 59a sessione dell’Assemblea generale dell’ONU. Ciò ha permesso di maturare una compiuta visione dello stato del dibattito in materia, esposta nella seduta del 28 settembre e oggetto di un confronto con il Ministro degli esteri Frattini il giorno seguente (29 settembre). La Commissione ha quindi concentrato la sua attenzione sul rapporto elaborato dal Panel di esperti nominati dal Segretario generale dell’ONU, all’esame del quale ha dedicato le sedute del 18, 19 gennaio e quella del 26 gennaio 2005 nel corso della quale il Ministro Fini ha svolto sue comunicazioni. Nella sede dell’Ufficio di Presidenza si è svolto poi, il 1° marzo, un prezioso confronto con il Presidente dell’Assemblea Generale dell’ONU, Ping. A conclusione di questo dibattito la Commissione, il 26 marzo, ha approvato la presente relazione che si sottopone all’esame dell’Assemblea.
1.
Il rapporto dell'High level Panel
"Spero che questo rapporto sia letto da tutti, sia discusso perché è urgente che i governi decidano sulle raccomandazioni in esso contenute": sono le parole di accompagnamento del Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan che ribadisce la necessità per le nazioni, di raggiungere nuovi consensi nel cammino comune dell'umanità.
Il rapporto è il risultato del lavoro svolto dall'
High level Panel
, costituito da 16 personalità e che ha operato sotto la presidenza dell'ex Primo Ministro thainlandese Anand Panyarachun.
Il
Panel
, la cui formazione fu preannunciata da Kofi Annan durante la settimana ministeriale delle Nazioni Unite del settembre 2003, ha lavorato per circa un anno, consultando nel mondo fondazioni, governi, parlamenti, università e accademie, centri di politica internazionale e di economia - è stato anche a Roma nel maggio 2004 - e ha consegnato il rapporto sul finire del 2004.
Il mandato non era di formulare politiche o di definire il ruolo delle Nazioni Unite per casi specifici, ma di sviluppare raccomandazioni e e di proporre misure pratiche per assicurare azioni collettive basate su una analisi rigorosa delle minacce alla pace e alla sicurezza. Ha dovuto altresì identificare chiaramente il contributo dell'azione collettiva e raccomandare i cambiamenti necessari per assicurare una efficace azione a livello multilaterale; ha inoltre esaminato gli aspetti istituzionali e le questioni economiche e sociali che hanno influenza diretta sulle minacce alla pace e alla sicurezza.
Il Segretario Generale, entro il marzo 2005, sulla base di questo rapporto, presenterà una propria relazione che offrirà un contributo alla definizione dell'agenda e delle relative decisioni che potranno essere prese in occasione dello speciale
summit
delle Nazioni Unite che si svolgerà a New York nel settembre 2005 in occasione del 60° anno della loro fondazione.
Il rapporto individua innanzitutto le minacce che si oppongono alla pace e alla sicurezza dei popoli, propone modalità per prevenire e combattere queste minacce, e presenta altresì proposte per il rinnovamento organizzativo delle Nazioni Unite - di cui denuncia anche inefficienze che si sono verificate negli anni. Tuttavia le stesse Nazioni Unite rappresentano la "indispensabile casa comune della intera famiglia umana" come sono state definite dai
leader
mondiali nella dichiarazione del millennio.
Il rapporto parte dalla constatazione che sessanta anni or sono l'ONU è stato fondato in uno spirito di speranza, successivamente alla fine delle seconda guerra mondiale, con il fine di evitare il ripetersi di quegli orrori (il Giappone, la Germania e l'Italia si sono facilmente integrate nella famiglia delle nazioni e oggi offrono il secondo, il terzo e il sesto contributo finanziario dell'ONU).
La decolonizzazione ha successivamente trasformato le Nazioni Unite e si è passati da 51 agli attuali 191 membri. Tra l'altro, dalla metà degli anni '60 i paesi in via di sviluppo costituiscono la maggioranza dell'Assemblea Generale.
Molti parametri su cui impostare l'azione ed il funzionamento delle istituzioni delle Nazioni Unite sono altresì mutati; ad esempio l'aspettativa di vita mediamente nei paesi in via di sviluppo in questi ultimi 40 anni è cresciuta di 20 anni.
Ma a dispetto del progresso in tutte le sue forme, larga parte del mondo è rimasta in condizioni di povertà, dilaniata da guerre interne e non.
Il rapporto conferma che sviluppo e sicurezza rappresentano un legame inscindibile. Oltre un miliardo di persone ancora oggi non ha accesso all'acqua potabile; 3 milioni muoiono ogni anno per malattie correlate ad acqua non potabile; 14 milioni - tra cui 6 milioni di bambini - ogni anno muoiono per fame; 842 milioni sono denutriti; 30 milioni, in Africa, sono affetti da HIV/AIDS.
Se non si inverte la tendenza, povertà e HIV/AIDS porteranno al collasso alcuni paesi africani.
Insieme alla decolonizzazione, la contrapposizione tra blocchi nella logica bipolare ed il controllo della capacità distruttiva della tecnologia nucleare ha caratterizzato il ruolo delle Nazioni Unite per 45 anni attraverso la cosiddetta guerra fredda.
La fine di quest'ultima sembrò aprire aspettative positive confortate operativamente dalle convergenze cui si giunse nel 1990 per le operazioni di liberazione del Kuwait.
Ma presto i fallimenti delle NU di fronte ai genocidi del Ruanda e della Bosnia e la mancata soluzione dei conflitti regionali israelo-palestinese e del Kashimir hanno eroso la fiducia e la capacità di operare.
Gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 hanno determinato tra l'altro una rinnovata volontà e tensione collettiva alla ricerca del bene primario della sicurezza.
La risoluzione di paternità francese del 12 settembre 2001, approvata all'unanimità dal Consiglio di Sicurezza, condannava gli attacchi e schiudeva le porte all'azione militare degli Stati Uniti contro il regime dei talebani.
L'Assemblea Generale lo stesso giorno condannava il terrorismo e gli attacchi terroristici.
Il 28 settembre il Consiglio di Sicurezza adottava la risoluzione 1373 che impegna gli stati membri a svolgere specifiche azioni per combattere il terrorismo.
Dopo gli accordi di Bonn le NU hanno anche promosso il governo
ad interim
in Afghanistan per la pace e la ricostruzione di quel paese. Tuttavia, lo spirito e i propositi di coesione, solo alcuni mesi dopo, si sono erosi con le divisioni circa l'intervento militare USA in Iraq.
Peraltro gli attacchi dell'11 settembre 2001 hanno rivelato che gli Stati e le istituzioni preposte alla sicurezza collettiva e al mantenimento della pace hanno fallito anche in relazione agli avvenuti cambiamenti e alla natura delle minacce.
Nuove minacce, crimine organizzato transnazionale, tecnologie che possono diventare strumenti di aggressione hanno determinato un diffuso clima di insicurezza.
Minacce senza frontiere
Il rapporto afferma che le minacce oggi valicano i confini territoriali e sono tra loro strettamente correlate: la minaccia ad uno diviene minaccia per tutti.
Ad esempio la Banca Mondiale stima che gli attacchi terroristici dell'11 settembre hanno incrementato di 10 milioni il numero di persone che vivono in povertà ed il costo economico mondiale supera gli 80 miliardi di dollari.
Come pure l'incapacità degli Stati più poveri di contenere le epidemie può farle propagare rapidamente in ragione della rapidità e quantità dei passeggeri che utilizzano i voli aerei.
E ancora, la proliferazione nucleare offre la possibilità a terroristi di ottenere materiali e tecnologie nucleari.
Le malattie, la degradazione dell'ambiente e le guerre si alimentano l'un l'altra e incrementano la povertà e la violenza civile. La povertà di un paese è strettamente collegata con la probabilità di una guerra civile. Il crimine transnazionale è elemento che facilita molte fra le più serie minacce alla pace e alla sicurezza internazionale.
La corruzione, i traffici illeciti e il riciclaggio di denaro sporco contribuiscono a rendere debole uno Stato, impedendo la crescita economica e minando il suo sviluppo democratico.
La conclusione di queste considerazioni è che nessuno Stato può, con le sole proprie forze, rendersi invulnerabile alle minacce di oggi; ogni Stato necessita della cooperazione degli altri Stati.
Pertanto, gli Stati oggi hanno l'interesse a realizzare un sistema di sicurezza collettiva e a cooperare in ragione delle minacce sopra ricordate.
Perché un sistema collettivo di sicurezza sia credibile e sostenibile esso deve essere effettivo, efficiente e giusto.
L'obiettivo del rapporto è quello di offrire raccomandazioni che una volta applicate possano consentire il miglioramento dell'attuale sistema multilaterale.
Spesso le NU ed i suoi Stati membri hanno risposto in maniera discriminata alle minacce alla sicurezza internazionale, contribuendo così a rendere più debole e meno credibile lo stesso sistema.
A questo riguardo il genocidio dell'aprile/luglio del '94 in Ruanda rappresenta un esempio. Infatti solamente sei settimane dopo l'inizio dei fatti è stata autorizzata una missione ONU, quando però ormai tutto era finito; solo il 31 maggio il Segretario Generale ha presentato un rapporto al Consiglio di Sicurezza sui massacri e le uccisioni esprimendo dubbi circa il fatto che costituissero un genocidio.
Il rapporto evidenzia un comportamento analogo nel caso delle massicce violazioni del diritto nella regione del Darfur nel Sudan.
Il rapporto ribadisce pertanto che le istituzioni che presiedono alla sicurezza collettiva, quando affermano che le minacce ad uno costituiscono una minaccia per tutti, devono operare di conseguenza, senza alcuna discriminazione.
Povertà, Malattie infettive, degrado ambientale.
In questo capitolo il rapporto ribadisce che la prima sfida per la sicurezza è la sconfitta della povertà, delle malattie infettive, del degrado ambientale.
Ogni anno almeno 11 milioni di bambini muoiono per malattie curabili e mezzo milione di donne muoiono durante il parto.
L'incremento della povertà accompagna e genera un aumento della iniquità e quando la povertà è accompagnata da disuguaglianze etniche o regionali, origina a sua volta la possibilità di dar luogo a violenza civile.
Nell'Africa sub-sahariana contrariamente a quello che è accaduto in termini generali, l'aspettativa di vita dal 1990 ad oggi si è ridotta da 50 a 46 anni.
In Africa ci sono undici milioni di orfani a causa dell'HIV/AIDS;
8,5 milioni di nuovi casi di tubercolosi comportano due milioni di morti all'anno;
l'OMS stima che nei prossimi 15 anni ci siano 150 milioni di nuovi casi di tubercolosi e 36 milioni di morti;
per il degrado ambientale di più di due milioni di persone sono state coinvolte in disastri ambientali nell'ultima decade;
il rapporto denuncia che non sussistano modalità coerenti ed integrate per affrontare le minacce della povertà, delle malattie e del degrado ambientale.
Recentemente i
summit
mondiali di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile e di Montreal relativi ai finanziamenti per lo sviluppo hanno proposto ambiziosi programmi per ridurre la povertà, per incrementare la sicurezza alimentare, per la crescita economica e la salvaguardia ambientale.
Ma il rapporto sottolinea che né gli Stati né le istituzioni internazionali sono ad oggi organizzati per fronteggiare i problemi dello sviluppo in modo coerente ed integrato, non frammentario. Le strutture della
governance
globale economica e sociale risultano drammaticamente inadeguate.
Di qui alcune raccomandazioni mosse dal rapporto del
Panel
, nel ribadimento degli obiettivi e degli impegni assunti da 147 capi di Stato o di governo e da 189 Stati membri con l'adozione della
Dichiarazione del Millennio
l'8 settembre 2000, circa lo sradicamento della povertà, la crescita economica, la promozione di uno sviluppo sostenibile. Obiettivi verso cui tutti gli Stati dovrebbero impegnarsi strenuamente.
Pertanto:
- i Paesi donatori il cui aiuto allo sviluppo si collochi al di sotto dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo, dovrebbero stabilire i tempi per raggiungere tale obiettivo;
- l'Organizzazione Mondiale per il Commercio dovrebbe concludere entro il 2006 i profili negoziali conseguenti a Doha relativi allo sviluppo;
- i Paesi creditori e le istituzioni finanziarie internazionali dovrebbero sorreggere i Paesi maggiormente indebitati con un maggiore alleggerimento del debito, l'allungamento dei tempi di restituzione e miglior accesso al mercato globale;
- sebbene le risorse internazionali devolute alla lotta contro l'AIDS siano aumentate da 250 milioni di dollari nel 1996 a 2,8 miliardi nel 2002, l'ammontare necessario per contrastare la pandemia supera i 10 miliardi di dollari l'anno. Presso i Paesi colpiti, la politica ha il dovere di mobilitare risorse e sensibilizzare la società civile e il settore privato per l'arginamento della malattia;
- il Consiglio di Sicurezza dovrebbe tenere una speciale sessione sull'AIDS quale minaccia per la pace e la sicurezza internazionali, approfondendo gli effetti della sua diffusione sugli Stati e le società e definendo una strategia di lungo periodo;
- i donatori internazionali, in collaborazione stretta con le autorità nazionali e le organizzazione della società civile locale, dovrebbero assumere una rinnovata, più ampia iniziativa globale per ricostruire i sistemi sanitari pubblici, nazionali e locali, nei Paesi in via di sviluppo;
- per migliorare prevenzione e monitoraggio, lo specifico
network
di allerta e risposta globale presso l'Organizzazione Mondiale della Sanità dovrebbe disporre di maggiori risorse;
- in materia ambientale, gli Stati dovrebbero incentivare lo sviluppo di fonti di energia rinnovabile e porre gradualmente fine a forme nocive per l'ambiente;
- gli Stati dovrebbero valutare attentamente il divario tra le previsioni del Protocollo di Kyoto della Convenzione sui cambiamenti climatici e la sua effettiva
performance
, impegnandosi a riconsiderare in modo complessivo il tema dell'effetto serra e del riscaldamento globale del pianeta nonché avviando un negoziato per definire una nuova strategia a lungo termine per ridurre tali fenomeni, tale da proiettarsi oltre il termine (2012) contemplato dal Protocollo di Kyoto;
- le NU e le istituzioni finanziarie dovrebbero offrire più assistenza agli stati che sono particolarmente predisposti e vulnerabili ai disastri naturali e che sono particolarmente destabilizzanti come quelli che sono accaduti ad Haiti nel 2004. L'Associazione metereologica mondiale ha stimato che adeguati investimenti ridurrebbero drasticamente il numero dei morti dovuto ai disastri naturali. Queste affermazioni, è da notare, sono drammaticamente vere alla luce di quello che è accaduto il 26 dicembre 2004 nel sud-est asiatico per il fenomeno dello tsunami.
Conflitti tra stati ed interni agli Stati
Sebbene si siano ridotti rispetto al passato, le minacce di guerre tra Stati non sono scomparse.
Le irrisolte dispute regionali nel sud e nel nord-est dell'Asia e nel Medioriente continuano ad essere una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale.
L'instabilità in Iraq e in Palestina ha acceso gli estremismi in parti del mondo musulmano e dell'occidente.
Dopo la fine della guerra fredda le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono passate mediamente da 15 a 60 all'anno.
Prima del 1989 il numero di sanzioni applicate dal Consiglio di Sicurezza era mediamente di due all'anno.
Sono successivamente passate a 14 ed hanno fatto riferimento ad argomenti quali la protezione dei diritti umani, il ritorno a governi democratici, la fine dell'ostilità e delle aggressioni, il rispetto degli accordi di pace, il contrasto al terrorismo.
Il Consiglio di Sicurezza ha adottato cioè sanzioni in misura più frequente.
Esse hanno talora fallito, quando non adeguatamente 'mirate' o chiare negli scopi, non sorrette dall'interesse strategico degli Stati potenza, intersecanti profili umanitari emergenziali, o infine non attuate per incapacità degli Stati. Da ultimo, la questione irachena nel 2003 ha evidenziato da un lato una non scontata 'centralità' del Consiglio di Sicurezza quale fonte di legittimazione dell'uso della forza, dall'altro elementi di difficoltà nello svolgimento di tale ruolo.
Quanto ai conflitti interni agli Stati, essi hanno punteggiato gli anni Novanta, e pur oggi diminuiti di numero, hanno lasciato ben viva l'immagine del fallimento delle Nazioni Unite nel far cessare pulizie etniche e genocidi.
Da una parte infatti l'incremento dell'attività delle NU nelle guerre civili è coinciso con la riduzione del numero di questi conflitti che a partire dal 1992, è stata pari al 40% (vedasi grafico a pag. 33 del rapporto).
Negli ultimi 15 anni, l'azione delle NU ed il supporto economico ha consentito di porre termine a guerre civili più che nei due precedenti secoli. Ma è sempre pur vera l'immagine del fallimento delle NU: basti ricordare il fallimento e le disastrose conseguenze in Angola e in Ruanda: in quest'ultimo paese si sono stimate ottocentomila vittime e l'instabilità del paese ha contribuito a determinare le successive guerre nella Repubblica democratica del Congo, dove sono stati stimati 3,3 milioni di morti.
In un'altra area, quella dei Balcani, la paralisi del Consiglio di Sicurezza in Kosovo ha invece portato la Nato a
baipassare
le stesse NU.
Anche per questi riguardi, il rapporto del
Panel
muove talune raccomandazioni:
- il Consiglio di Sicurezza dovrebbe esser pronto a far uso della sua autorità richiamandosi allo Statuto di Roma ed investire dei casi di crimini contro l'umanità o di violazione del diritto di guerra la Corte penale;
- le Nazioni Unite dovrebbero lavorare con autorità nazionali, istituzioni finanziarie internazionali, organizzazioni della società civile, settore privato, per predisporre norme circa il controllo delle risorse naturali di Paesi a rischio di conflitto o che ne emergano (si pensi, ad esempio, ad Angola, Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo);
- le Nazioni Unite dovrebbero accrescere la collaborazione ed avvalersi dell'esperienza delle organizzazioni regionali (quali l'Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa, l'Unione Africana, l'Organizzazione degli Stati Americani) per la determinazione di
standards
normativi guida per l'azione preventiva, in materia di diritti delle minoranze o protezione di governi democraticamente eletti avverso colpi di Stato;
- gli Stati dovrebbero concludere negoziati su accordi cogenti per debellare il traffico illecito di armi leggere nonché, per le armi convenzionali, ottemperare agli obblighi di dichiarazione previsti per il Registro delle Nazioni Unite sulle armi convenzionali (e sulle inadempienze, il Segretario Generale dovrebbe riferire annualmente in Assemblea Generale ed in Consiglio di Sicurezza);
- le Nazioni Unite dovrebbero sviluppare ed affinare i propri strumenti di "
early warning
" e di capacità di mediazione, anche sviluppando un proprio
team
specializzato di mediatori (con una più serrata integrazione inoltre con i mediatori nazionali e le organizzazioni regionali o non governative coinvolte nella risoluzione del conflitto);
- sono da incoraggiare più ampie consultazioni e un maggiore coinvolgimento nei processi di pace, le voci della società civile, e in particolare delle donne che frequentemente sono state disattese durante i negoziati;
- sono da incoraggiare le parti di un conflitto alla richiesta di dispiegamento preventivo di forze internazionali di
peace-keeping
.
Armi nucleari radiologiche chimiche e biologiche
La proliferazione di armamenti nucleari costituisce una minaccia alla sicurezza. Se solo otto Stati sono oggi, secondo quanto si conosce, detentori di arsenali nucleari, pure almeno sessanta Stati detengono o stanno realizzando energia nucleare e reattori, e di questi quaranta almeno hanno l'infrastruttura scientifica ed industriale atta a produrre armi nucleari in un lasso di tempo relativamente breve.
In tale contesto è l'intero regime giuridico della non proliferazione a mostrare segni di fragilità, per inottemperanza ad obblighi in esso previsti, per ritiro o minaccia di ritiro di Stati dal Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (del 1968), per i mutamenti nel generale scenario della sicurezza e per la diffusione della tecnologia. Occorre agire affinché non si registri una erosione irreversibile di quel regime, affrontando inoltre il problema delle scorte di materiale nucleare e radioattivo (suscettibili di trafugamento a fini illeciti).
Anche le armi radiologiche costituiscono una minaccia, ancorché più di destabilizzazione (per il pubblico allarme, per la necessità di evacuare e decontaminare aree) che di distruzione. Distruttive sono invece le armi chimiche - relativamente alle quali una specifica Convenzione ha avuto sinora flebile attuazione, se del materiale da distruggere (entro il 2012) solo una esigua parte è stato soppresso - e biologiche (si pensi alla ricina, rinvenuta in alcune trame terroristiche, che non ha antidoto e letale per gli uomini in quantità irrisorie). L'ubiquità dei materiali per ottenere tali tipi di armi e la relativamente agevole loro trasformazione rende particolarmente inquietante siffatta minaccia (si consideri, ad esempio, che un attacco con solo un grammo di vaiolo impiegato quale arma potrebbe causare alcune decine di migliaia di morti violente).
Per fronteggiare tale situazione, si richiede - rileva il rapporto del
Panel
- un'azione in più direzioni. In particolare:
- gli Stati debbono onorare il loro impegno sotto l'articolo 6 del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari ("ciascuna parte si impegna a concludere in buona fede trattative su misure efficaci per una prossima cessazione della corsa agli armamenti nucleari e per il disarmo nucleare, come pure un trattato sul disarmo generale e completo sotto stretto ed efficace controllo internazionale"), assumendo concrete misure di specifica attuazione;
- gli Stati dovrebbero ribadire il loro impegno a non usare armi nucleari contro Stati che ne sono sprovvisti, sì da diminuire la percezione di un rischio di aggressione nucleare;
- Stati Uniti e Federazione di Russia, così come gli Stati dotati di armamenti nucleari e gli Stati che non sono parte del Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari, dovrebbero impegnarsi a ridurre in modo concreto il rischio di incidenti ed occasioni di scontro accidentali;
- i negoziati per risolvere i conflitti regionali dovrebbero includere misure di
confidence-building
anche per i profili qui considerati. In Medio Oriente e Sud Asia dovrebbero essere avviati negoziati per giungere all'instaurazione di zone franche da armi nucleari;
- gli Stati che non sono parte del Trattato sulla non proliferazione dovrebbero comunque impegnarsi in tale direzione, in modo concreto con la ratifica del Trattato per il bando degli esperimenti nucleari (
Comprehensive Nuclear Ban Treaty)
e con negoziati per giungere a un trattato di eliminazione del materiale fissile (sì da giungere alla cessazione della produzione di materiale altamente arricchito). Tutti gli Stati detentori di armi chimiche dovrebbero accelerare la distruzione di tali armamenti sì da ultimarla entro il termine concordato del 2012;
- gli Stati parti della Convenzione sulle armi biologiche dovrebbero senza indugio negoziare un protocollo per una verifica credibile, coinvolgendo l'industria della biotecnologia;
- i controlli della IAEA (
International Atomic Energy Agency
) dovrebbero sempre attenersi ai più stringenti criteri definiti nel
Model additional Protocol
(ratificato sinora solo da un terzo degli Stati parte del Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari) e il Consiglio di sicurezza dovrebbe essere pronto ad agire, in caso si prospetti un non adempimento di tali
standards
;
- la IAEA dovrebbe essere posta nella condizione di agire come garante, per quanto riguarda la provvista di materiale fissile a fini nucleari civili. Nel frattempo, gli Stati dovrebbero istituire volontariamente una moratoria per un tempo determinato, circa la costruzione di ogni ulteriore strumento volto all'arricchimento o al riprocessamento del materiale fissile;
- nonostante il Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari preveda il diritto al ritiro dal trattato, gli Stati dovrebbero essere indotti a non agire in tal modo, e la notizia del ritiro dal trattato dovrebbe innescare una immediata verifica della sua conformità al regime del trattato stesso, se necessario dietro mandato del Consiglio di sicurezza;
- la "Iniziativa sulla riduzione della minaccia globale" (che facilita la riduzione delle riserve di uranio arricchito e lo sviluppo di reattori compatibili con l'esigenza della non proliferazione) dovrebbe essere attuata in cinque anni anziché i dieci previsti;
- gli Stati parti della Convenzione sulle armi biologiche dovrebbero negoziare un nuovo Protocollo sulla bio-sicurezza al fine di classificare gli agenti biologici pericolosi e stabilire
standards
internazionali vincolanti per l'esportazione di quegli elementi;
- forme di raccordo e coordinamento dovrebbero essere intraprese onde migliorare le difese della salute pubblica innanzi a malattie infettive.
Terrorismo
Il terrorismo mina i valori che rappresentano il cuore della Carta delle NU: rispetto dei diritti umani, rispetto delle regole delle leggi, rispetto del ruolo della forza per proteggere la popolazione civile, la tolleranza tra popoli e nazioni, la pacifica risoluzione dei conflitti.
Il terrorismo prospera dove vige la disparità, l'umiliazione, la povertà, l'oppressione politica, l'estremismo e l'abuso sui diritti umani; inoltre prospera nel contesto dei conflitti regionali, dell'occupazione straniera, e approfitta della debolezza dello Stato a mantenere l'ordine e a far rispettare le leggi.
Due nuove dinamiche caratterizzano la minaccia del terrorismo.
Al-Quaida è la prima come rete armata globale che ha una capacità estremamente sofisticata.
Al-Quaida ha attaccato più di dieci Stati in quattro continenti negli ultimi cinque anni, dimostrando che pone una minaccia universale agli Stati membri dell'ONU e alla stessa organizzazione delle NU che, secondo la stessa Al-Quaida, rappresenta un nemico e il maggior ostacolo per il raggiungimento dei propri fini.
La seconda dinamica è costituita dal fatto che i terroristi perseguono eccidi di massa. Il tema delle armi nucleari, radiologiche, chimiche e biologiche non può essere disgiunto da quello del terrorismo, che chiede pertanto di essere fronteggiato con una strategia comprensiva, che investa le cause o gli elementi agevolanti (dall'oppressione dei diritti alla povertà e disoccupazione; dal crimine organizzato al collasso dell'entità Stato), fermo restando peraltro il rispetto delle libertà civili.
La strategia operativa deve essere in grado di poter capovolgere le cause e le facilitazioni che determinano il terrorismo e pertanto si deve dar luogo alla promozione sociale e dei diritti politici, anche di forme democratiche, allo sviluppo del lavoro e dell'occupazione, a contrastare il crimine organizzato, a ridurre la povertà e a prevenire il collasso dell'entità Stato.
Inoltre è necessario contrastare l'estremismo e l'intolleranza attraverso l'educazione e lo svolgimento di pubblici dibattiti.
Lo sviluppo rappresenta lo strumento principale per combattere il terrorismo; il tutto, ribadisce il rapporto, nel quadro del rispetto delle libertà e dei diritti umani, del consolidamento delle strutture dello Stato, del controllo dei materiali pericolosi e del rafforzamento della sanità pubblica.
In questa prospettiva, è da rafforzare la capacità degli Stati di prevenire il reclutamento su base terroristica e le azioni terroriste.
Le raccomandazioni formulate dal rapporto del
Panel
sono:
- gli Stati che non l'abbiano fatto, dovrebbero sottoscrivere tutte le dodici Convenzioni internazionali contro il terrorismo e assumere le misure raccomandate in sede internazionale, relative ai canali finanziari del terrorismo;
- il Comitato per il controterrorismo, istituito dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1373 del 2001, dovrebbe attivarsi per la revisione delle liste dei soggetti e istituzioni sospetti, laddove essi affermino di esservi erroneamente inseriti;
- il Comitato per il controterrorismo dovrebbe essere investito dal Consiglio di Sicurezza della funzione di ausilio per l'instaurazione di un assistenza bilaterale tra Stati al fine di lotta contro il terrorismo;
- il Consiglio di Sicurezza dovrebbe definire un programma di sanzioni predeterminate innanzi all'inadempimento da parte degli Stati degli obblighi previsti dalle Convenzioni contro il terrorismo;
- dovrebbe giungersi presso le Nazioni Unite ad una unitaria convenzione contro il terrorismo. Sinora tale Convenzione non è stata conseguita per le difficoltà di definire il fenomeno del terrorismo stesso, che per taluni dovrebbe includere altresì l'uso da parte degli Stati di forze armate contro civili o escludere l'azione di popoli sotto occupazione straniera, facenti ricorso al diritto di resistenza. Secondo il rapporto, peraltro nulla può giustificare l'assunzione quale bersaglio e l'uccisione di civili. Su questa base, la definizione di terrorismo dovrebbe includere alcuni elementi quali:
a)
il riconoscimento, nel preambolo, che l'uso della forza da parte di uno Stato contro civili è regolato dalle Convenzioni di Ginevra e da altri strumenti e, se su rilevante scala, costituisce un crimine di guerra per le persone coinvolte o un crimine contro l'umanità;
b)
ribadimento che gli atti ricadenti sotto le dodici Convenzioni antiterrorismo sono atti di terrorismo, da dichiarare criminali ai sensi della legge internazionale, e che il terrorismo in tempi di conflitto armato è proibito dalle convenzioni e protocolli di Ginevra;
c)
far riferimento alle definizioni della Convenzione internazionale contro il finanziamento del terrorismo e alla risoluzione 1566/04 del Consiglio di Sicurezza;
d)
descrizione del terrorismo come "ogni azione - oltre alle azioni già contemplate dalle convenzioni esistenti sui diversi aspetti del terrorismo o dalle convenzioni di Ginevra o dalla risoluzione n. 1566 del 2004 del Consiglio di Sicurezza - che miri a causare morte o lesioni corporali di civili o non combattenti, quando il fine di tale atto, per la sua natura o il contesto in cui è compiuto, è di intimidire una popolazione o di costringere un governo o una organizzazione internazionale ad agire in un determinato modo".
Crimine organizzato transnazionale
Il crimine organizzato transnazionale è una minaccia per gli Stati e la società, sgretola la sicurezza dell'umana convivenza e gli impegni fondamentali degli Stati al rispetto della legge e dell'ordine.
Combattere il Crimine organizzato transnazionale permette di conseguire un duplice scopo:
ridurre la minaccia
all'indebolimento dello Stato e della sicurezza delle convivenza civile ed inoltre costituisce la base necessaria per prevenire e risolvere i conflitti interni, combattere la diffusione delle armi e prevenire il terrorismo.
Il tema della sicurezza, della prevenzione dei conflitti interni, della lotta alla diffusione delle armi, della prevenzione del terrorismo, della lotta contro l'AIDS, interseca quello altresì del crimine organizzato transnazionale.
Si stima che organizzazioni criminali siffatte guadagnino dalla loro principale fonte di guadagno, il traffico di droga, un ammontare tra 300 e 500 miliardi di dollari ogni anno.
Gli Stati e le organizzazioni internazionali hanno reagito troppo lentamente alla minaccia del crimine organizzato e alla corruzione. La cooperazione tra Stati e il coordinamento tra agenzie internazionali sono stati insufficienti, così come inadeguati gli sforzi condotti da molti Stati.
Il crimine organizzato sempre più opera attraverso
networks
flessibili piuttosto che rigide e formali gerarchie, sino a giungere a connessioni reticolari tra gruppi.
Il rapporto raccomanda:
- gli Stati dovrebbero sottoscrivere e ratificare la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale del 2000 e i suoi tre protocolli nonché la Convenzione contro la corruzione del 2003 (sinora più della metà degli Stati membri delle Nazioni Unite non le hanno ancora sottoscritte o ratificate);
- gli Stati dovrebbero stabilire un'autorità centrale per facilitare lo scambio di informazioni e prove tra le autorità giudiziarie nazionali, la mutua assistenza tra le autorità di pubblica accusa e l'attuazione delle estradizioni;
- dovrebbe essere negoziata una convenzione internazionale complessiva contro il riciclaggio del denaro sporco;
- gli Stati membri dovrebbero sottoscrivere e ratificare il protocollo per prevenire, sopprimere e punire il traffico di esseri umani che rappresenta il più nefando dei crimini. Le Nazioni Unite devono promuovere azioni di protezione e supporto alle vittime del
trafking
nel paese di origine, transito e destinazione.
2.
Strumenti e politiche
Il ruolo delle sanzioni
- Quando il Consiglio di sicurezza impone sanzioni (incluso il bando delle armi), dovrebbe stabilire meccanismi di monitoraggio e assicurare una capacità di investigazione di alta qualità (anche con adeguate risorse finanziarie);
- i comitati per le sanzioni istituiti dal Consiglio di Sicurezza dovrebbero ricevere mandato a sviluppare procedure e parametri per assistere gli Stati nell'attuazione delle sanzioni nonché per aggiornare gli elenchi dei soggetti alle sanzioni;
- il Segretariato generale dovrebbe disporre di strumenti adeguati per trasmettere al Consiglio di Sicurezza analisi accurate circa la miglior formula sanzionatoria e la relativa attuazione;
- i donatori dovrebbero destinare più risorse al rafforzamento della capacità legale, amministrativa, di polizia e di controllo delle frontiere ai fini dell'attuazione delle sanzioni (incluso il miglioramento dell'interdizione del traffico aereo in zone di conflitto);
- il Consiglio di Sicurezza dovrebbe imporre sanzioni ulteriori contro coloro che commerciano con i Paesi oggetto di embargo, in caso di accertate e continuative violazioni;
- il Segretariato generale, in collaborazione con il Consiglio di Sicurezza, dovrebbe assicurare che un appropriato meccanismo di verifica operi sulle sanzioni di carattere amministrativo;
- i comitati per le sanzioni dovrebbero migliorare le procedure per assicurare esenzioni di carattere umanitario e ad ogni modo calibrare l'impatto delle sanzioni sotto il profilo umanitario.
L'uso della forza
1. Esterna
La Carta delle Nazioni Unite afferma che l'uso della forza può essere necessario per "prevenire e rimuovere la minaccia alla pace e per sopprimere atti o aggressioni che mettano in pericolo la pace".
Inoltre la Carta delle Nazioni Unite proibisce agli Stati membri l'uso o la minaccia della forza contro chiunque, con due sole eccezioni:
l'autodifesa in applicazione dell'Articolo 51 e la messa in atto di misure militari autorizzate dal Consiglio di Sicurezza in base al Capitolo 7 in risposta ad una minaccia per la pace.
Nei primi 44 anni di esistenza delle Nazioni Unite, Stati membri hanno spesso violato queste regole e hanno usato la forza militare centinaia di volte, con il Consiglio di Sicurezza paralizzato.
Con la fine della guerra fredda, vi è stata una crescita a favore di un sistema internazionale governato da regole e leggi.
Le questioni più difficili da affrontare nell'applicazione della Carta sorgono quando uno Stato reclami il diritto di colpire preventivamente per autodifesa, come reazione a una minaccia non immediata e imminente ma ritenuta reale (ad esempio, l'acquisizione con intenti ostili della capacità di fabbricare armamenti nucleari), o quando uno Stato paia rappresentare una minaccia reale o potenziale per altri Paesi suoi confinanti, o quando la minaccia sia interna, rivolta ai cittadini di un Paese.
Nel caso in cui il Consiglio ritenga necessario mantenere o riportare la pace e la sicurezza internazionali agendo sotto il Capitolo VII, esso può legittimamente approvare, anche preventivamente, qualunque azione coercitiva, incluso il ricorso alla forza militare. Ammessa la legittimità dell'azione, possono tuttavia sorgere controversie riguardo all'opportunità o meno di compierla.
La questione è: può uno Stato, senza andare davanti al Consiglio di Sicurezza, avere il diritto di agire anticipando una autodifesa, non di fronte ad una imminente e prossima minaccia, ma preventivamente di fronte ad una minaccia non imminente e non prossima?
Chi risponde affermativamente argomenta che la potenzialità della minaccia (esempio terroristi armati con armi nucleari) è così grande che non ci deve essere il rischio di aspettare che diventi imminente.
La risposta del rapporto è che se ci sono buoni argomenti per una azione militare preventiva, essi devono essere sottoposti al Consiglio di Sicurezza che può autorizzare l'azione.
Se ciò non avviene, per definizione, ci sarà tempo per mettere in atto altre strategie quali azioni di persuasione, negoziati, azioni di contenimento e per poter considerare anche una possibili azione militare.
Il
Panel
non è pertanto favorevole a una riscrittura dell'Articolo 51 o ad una sua reinterpretazione.
Le ragioni per le quali gli Stati baipassano il Consiglio di Sicurezza è la mancanza di fiducia nella qualità e obiettività delle decisioni prese; spesso sono state inconsistenti, poco persuasive e poco rispondenti alle necessità reali dello Stato e della sicurezza delle persone.
Ma la soluzione non è quella di ridurre l'importanza e la rilevanza del Consiglio di sicurezza, ma piuttosto di riformarlo in modo che possa svolgere l'attività meglio che in passato.
Il rapporto del
Panel
propone per questo riguardo, circa le decisioni da prendere sull'autorizzazione all'impiego della forza militare, cinque linee guida:
1 -
la gravità della minaccia
(il danno minacciato nei confronti di uno Stato o della sicurezza è sufficientemente chiaro e serio da giustificare ragionevolmente l'uso della forza militare? Nel caso di minacce interne, si tratta di genocidi o altre uccisioni su larga scala, pulizie etniche o serie violazioni delle leggi umanitarie internazionali che siano in corso o imminenti?);
2 -
giusto obiettivo
(posto che lo scopo primario dell'azione militare è la prevenzione della minaccia, quali altri motivi potrebbero sussistere?);
3 -
ultima risorsa
(sono state esaminate e considerate inattuabili tutte le opzioni non militari?);
4 -
mezzi proporzionati
(l'intervento militare proposto si può considerare proporzionato come forza, durata e intensità alla minaccia in questione?);
5 -
valutazione delle conseguenze
(è ragionevole supporre che le conseguenze dell'uso delle armi non sarebbero peggiori di quelle derivanti dall'inazione?).
2. Interna
La Carta non è chiara come dovrebbe essere per situazioni interne di un paese dove avvengono atrocità di massa. Per questo riguardo le Nazioni Unite hanno riportato gravi insuccessi in un passato recente, in Somalia, Bosnia ed Erzegovina, Ruanda, Kosovo, Darfur. Se la Carta, pur "riaffermando la fiducia nei diritti umani fondamentali", vieta di intervenire in questioni che riguardino la giurisdizione interna di un Paese, la Convenzione sul genocidio ha stabilito ch'esso costituisce sempre una minaccia alla sicurezza internazionale, tale da comportare, quindi, un intervento del Consiglio di Sicurezza. L'accento si sposta così dall'immunità degli Stati sovrani e dal non intervento, alla responsabilità degli Stati circa la protezione delle loro popolazioni.
Innanzi a tale complessivo scenario, il rapporto del
Panel
rileva:
- l'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite non deve essere modificato né diversamente interpretato, né in senso estensivo (sì da consentire misure preventive verso minacce non imminenti) né in senso restrittivo (sì da limitare la reazione solo ad attacchi in corso);
- il Consiglio di Sicurezza ha piena autorità, sotto il capitolo VII della Carta, per far fronte all'intero spettro di minacce alla sicurezza che oggi si pongono. Il punto centrale non è trovare alternative al Consiglio di Sicurezza bensì migliorarne il funzionamento;
- è da guardare con favore all'emersione di una norma internazionale secondo cui vi sia una responsabilità internazionale collettiva a fini di protezione - esercitabile dal Consiglio di Sicurezza, in caso estremo con l'autorizzazione di misure militari - innanzi a genocidi o uccisioni su larga scala, pulizie etniche ed altri gravi violazioni del diritto umanitario, che i governi abbiano mostrato di non potere o volere prevenire;
- in caso di discussione in Consiglio di Sicurezza circa l'adozione di misure che prevedano l'uso della forza, esso dovrebbe condurre la sua valutazione secondo le cinque linee guida innanzi ricordate, le quali dovrebbero essere inserite nelle risoluzioni dichiarative del Consiglio di Sicurezza e dell'Assemblea Generale e dovrebbero essere sottoscritte anche dagli Stati che non fanno parte del Consiglio di Sicurezza.
Il sistema collettivo di sicurezza dipende non solo dalla legalità delle decisioni, ma anche dalla comune percezione della loro legittimità basata su giuste ragioni sia morali che legali.
Le decisioni del Consiglio di Sicurezza di autorizzare l'uso della forza devono essere adottate sulla base delle linee guida concordate, considerando non solo se la forza possa essere usata legalmente, ma se in coscienza e buon senso è utile che possa essere utilizzata, in modo da massimizzare su queste decisioni il consenso internazionale e rendere minima la possibilità di baipassare il Consiglio dI Sicurezza da parte degli Stati membri.
Mantenimento e instaurazione della pace
Quando il Consiglio di Sicurezza assume la decisione di autorizzare l'uso della forza rimane la questione circa le capacità che sono a sua disposizione di dare seguito operativo alle suddette decisioni.
Tendenzialmente le discussioni, non senza una qualche confusione, relative alle necessarie capacità, fanno riferimento rispettivamente al Capitolo 6 per le operazioni di
peace-keeping
basate sul consenso, e al Capitolo 7 per le missioni di
peace-enforcement,
basate sulla coercizione.
Esiste una distinzione tra le operazioni per le quali l'uso della forza è parte integrante delle missioni rispetto a quelle operazioni per le quali esiste una ragionevole aspettativa a non usare la forza.
Perlopiù il Consiglio di Sicurezza quando autorizza, dà il mandato in base al Capitolo 7, in modo da avere la completa certezza che la missione possa rispondere anche con la forza, se necessario.
Le operazioni di mantenimento o instaurazione della pace (
peace-keeping
o
peace-enforcement
) - le une e le altre, nella recente prassi, autorizzate dal Consiglio di Sicurezza
sub
Capitolo VII - costituiscono un ulteriore profilo, fondamentale ma talora critico, dell'azione collettiva a tutela della sicurezza (sul finire del 2004, vi sono più di 60.000
peace-keepers
, dispiegati in sedici missioni di pace nel mondo).
Essenziali sono per la missione di pace (che può trovarsi ad operare in un ambiente ostile o segnato da atrocità di massa) un mandato chiaro, appropriato e ben compreso nonché la disponibilità di risorse. Adeguata (e spesso pretermessa) attenzione debbono ricevere i problemi (dalla smobilitazione dei combattenti al loro reinserimento nella vita civile) della transizione post-conflitto. Né le Nazioni Unite né la comunità internazionale intesa in senso più ampio sembrano oggi attrezzate per coadiuvare al massimo un Paese che cerchi di ricostruire la pace.
Il rapporto sottolinea l'importanza di incrementare il
peace-keeping
e il
peace- enforcement
quali strumenti di sicurezza collettiva.
Una tendenza a compiere missioni di mantenimento della pace basate su scala regionale o subregionale si è andata sviluppando dalla metà degli anni Novanta. Questa prospettiva può essere di ausilio alle Nazioni Unite e stimolare il Consiglio di Sicurezza e le organizzazioni regionali a lavorare in collaborazione l'uno con le altre.
Per tali complessivi profili, il rapporto del
Panel
muove i seguenti auspici:
- gli Stati dovrebbero sforzarsi di rendere le loro capacità compatibili con il dispiegamento di forze in operazioni di pace;
- gli Stati dovrebbero sostenere appieno gli sforzi del Dipartimento per il
peace-keeping
istituito presso il Segretariato Generale delle Nazioni Unite, volti a migliorare l'efficienza ed efficacia del dispiegamento effettivo di forze;
- gli Stati con capacità militari avanzate dovrebbero approntare (come intrapreso, in modo apprezzabile, dall'Unione europea) creare battaglioni a rapida impiegabilità ed autosufficienti come rinforzo alle missioni delle Nazioni Unite, a disposizione di queste;
- le missioni dovrebbero disporre di truppe adeguate per agire da strumento di deterrenza e di difesa verso forze ostili;
- le Nazioni Unite dovrebbero avere un corpo (di 50-100 persone) di ufficiali di polizia anziani e
managers
per l'organizzazione delle componenti di polizia delle operazioni di pace.
Ricostruzione della pace dopo i conflitti
Le risorse spese per completare il processo e gli accordi di pace e la ricostruzione della pace è uno dei migliori investimenti per prevenire i conflitti, anche perché gli Stati che hanno avuto una guerra civile offrono un alto rischio di ripeterla.
Le operazioni di
peace-keeping
falliscono quando le risorse e le strategie non sono commisurate agli obiettivi, come si è verificato ad esempio in Ruanda e in Sierra Leone. Bisogna imparare la lezione.
In questo senso il Segretario Generale deve raccomandare al Consiglio di Sicurezza di autorizzare l'invio di truppe sufficienti.
Le Nazioni Unite devono avere a disposizione un corpo di polizia con ufficiali senior e
managers
(50/100 persone) che possano organizzare e sviluppare le operazioni.
E' necessario un organismo intergovernativo dedicato al
peace-building
tale da monitorare il paese a rischio e assicurare azioni concrete, nonché i necessari finanziamenti per sostenere la pace.
Come pure è necessaria la presenza di rappresentanti speciali che abbiano l'autorità di guidare e coordinare le modalità operative con la disposizione delle necessarie risorse.
La smobilitazione dei combattenti è il fattore che determina il successo delle operazioni di pace e pertanto il Consiglio di Sicurezza e l'Assemblea Generale devono assegnare i fondi necessari.
Questi programmi non raggiungono l'obiettivo se non si mettono a disposizione le risorse per l'integrazione e la riabilitazione.
Come pure è fondamentale la ricostituzione delle istituzioni attraverso negoziati con la società civile atti a stabilire un quadro di riferimento consensuale al fine di governare nell'ambito di regole e leggi.
Protezione dei civili
Gli accordi umanitari internazionali definiscono gli standard minimi da applicare nei conflitti armati per la protezione dei civili, soprattutto quelli più vulnerabili e in particolare donne, bambini e rifugiati.
Gli Stati membri devono firmare, ratificare e applicare i trattati relativi alla protezione dei civili quali la Convenzione sul genocidio, la Convenzione di Ginevra, lo Statuto di Roma e la Convenzione per i rifugiati.
E' necessaria la piena applicazione della risoluzione 1265/99 per la protezione dei civili e i componenti la commissione dei diritti umani devono ricevere esplicito mandato e le necessarie risorse per investigare e estendere rapporti sulla violazione dei diritti umani, in particolare contro le donne e i bambini.
E' necessario rafforzare lo staff delle Nazioni Unite con una direzione per la sicurezza ed un servizio che si rapporti direttamente al Segretario generale.
3
.
Le Nazioni Unite per il XXI secolo
:
gli organi e le istituzioni
:
L'Assemblea Generale ha perso di vitalità e sovente non è in grado di focalizzare i problemi. Il Consiglio di Sicurezza necessita di più credibilità, legittimazione e rappresentatività e non ha messo a frutto le possibilità di collaborazione con le organizzazioni regionali.
La Commissione dei diritti umani soffre di deficit di legittimazione.
Sono necessarie nuove impostazioni istituzionali, economiche e sociali.
E' necessaria una maggiore professionalità e una migliore organizzazione per segretariato in grado di svolgere azioni più coordinate.
Queste le necessità più urgenti individuate dal
Panel
.
Assemblea Generale
L'Assemblea generale è l'unico forum nel quale si può costruire e rinvigorire il consenso.
Gli Stati membri hanno l'opportunità per promuovere e costruire un nuovo consenso per una più effettiva sicurezza collettiva.
L'Assemblea è affetta da dibattiti ripetitive e dalla produzione di molte risoluzioni che sono anch'esse ripetitive, oscure e inapplicabili e che conseguentemente sminuiscono la credibilità delle Nazioni Unite.
A questo scopo dovrebbero essere rinnovati gli sforzi per porre l'Assemblea Generale in grado di adempiere alle sue funzioni di principale organo deliberante delle Nazioni Unite. Per questo, sono necessari una migliore concettualizzazione e uno snellimento dell'agenda dei temi da trattare, tale da riflettere i problemi attuali che la comunità internazionale si trova ad affrontare. La creazione di comitati più ristretti e più rigidamente dedicati ai singoli problemi potrebbe rendere più incisive le risoluzioni da proporre all'intera Assemblea. E poiché la società civile e le organizzazioni non governative possono offrire prospettive e conoscenze nuove sulle istanze globali e di conseguenza, è importante stabilire con esse un migliore meccanismo di confronto.
Consiglio di Sicurezza
Una responsabilità primaria riguardo al mantenimento della pace e della sicurezza spetta peraltro al Consiglio di Sicurezza. Esso fu creato non come organo rappresentativo ma come organo responsabile e dotato della capacità di agire per prevenire ed eliminare le minacce.
Ai cinque membri permanenti fu attribuito il diritto di veto, ma anche la particolare responsabilità di promuovere la sicurezza globale.
Con il tempo le minacce e le sfide alla sicurezza collettiva sono mutate, al pari della distribuzione di poteri fra i Paesi membri, ma il Consiglio non è cambiato altrettanto velocemente.
Le risoluzioni adottate non sono state sempre accompagnate dal realismo, dalle risorse e dalla determinazione politica, essenziali per ottenere risultati. E se con la fine della guerra fredda, l'efficienza del Consiglio è migliorata, pure in molti casi esso non ha agito con equità né con la dovuta efficacia di fronte a genocidi o altre atrocità, con nocumento grave della propria credibilità.
Qualunque riforma, dunque, deve tendere a un accrescimento in efficacia e credibilità del Consiglio di Sicurezza e soprattutto della sua capacità di reagire di fronte alle minacce.
Rimane fermo che di là delle mende registrate nella sua attività, è il Consiglio di Sicurezza l'organo delle Nazioni Unite più capace di organizzare un'azione e rispondere rapidamente alle nuove minacce.
Nel rapporto del Panel si ritiene che la riforma della composizione del Consiglio di Sicurezza dovrebbe basarsi sui seguenti principi
:
- il Consiglio dovrebbe (in accordo con l'articolo 23 della Carta) accrescere il coinvolgimento nel
decision-making
dei Paesi maggiori contributori alle Nazioni Unite dal punto di vista finanziario, militare e diplomatico - specie in termini di contribuzione finanziaria, di partecipazione alle operazioni di pace, di contribuzione alle attività volontarie delle Nazioni Unite nelle aree della sicurezza e dello sviluppo e nelle attività diplomatiche di supporto. Per i Paesi più sviluppati, la destinazione all'aiuto pubblico per lo sviluppo di risorse pari allo 0,7 per cento del prodotto nazionale lordo dovrebbe esser considerato un importante criterio di contribuzione;
- sono da coinvolgere nel processo decisionale i Paesi più rappresentativi di una più ampia
membership
, in particolare del mondo in via di sviluppo;
- la riforma dovrebbe non ostacolare l'efficacia del Consiglio, piuttosto accrescerne la natura democratica e la responsabilità.
Una decisione sull'allargamento del Consiglio che soddisfi questi criteri è oggi una necessità, secondo il rapporto del
Panel
, che prospetta due possibili opzioni o modelli
Sia il modello A che il modello B prevedono una distribuzione dei seggi tra quattro principali aree identificate come Africa, Asia e Pacifico, Europa e Americhe.
Il modello A è il seguente:
Aree regionali
Numero di Stati
Seggi permanenti
(assegnati attualmente)
Nuovi seggi permanenti proposti
Seggi biennali (non rinnovabili)
Totale
Africa
53
0
2
4
6
Asia and Pacifico
56
1
2
3
6
Europa
47
3
1
2
6
Americhe
35
1
1
4
6
Totali
modello A
191
5
6
13
24
Secondo tale prima proposta, pertanto, si avrebbero - divisi tra le aree regionali - sei nuovi seggi permanenti (senza diritto di veto) e tredici nuovi seggi non permanenti per un periodo di due anni (non rinnovabili).
Il modello B proposto è invece il seguente:
Aree regionali
Numero di Stati
Seggi p(ermanenti
Assegnati attualmente)
Nuovi seggi quadriennali rinnovabili
Seggi biennali (non rinnovabili)
Totale
Africa
53
0
2
4
6
Asia and Pacifico
56
1
2
3
6
Europa
47
3
2
1
6
Americheas
35
1
2
3
6
Totali
modello B
191
5
8
11
24
Secondo tale seconda proposta, non si avrebbero nuovi seggi permanenti. Vi sarebbero bensì: una nuova categoria di otto seggi, con un mandato di quattro anni, rinnovabile; undici nuovi seggi con un mandato di due anni, non rinnovabile.
In entrambi i modelli, non è prevista l'abolizione del diritto di veto. E' però evitata una estensione di esso a nuovi titolari. Il diritto di veto risulta oggi anacronistico e non adatto per una istituzione in epoca democratica e dovrebbe essere limitato a casi di vitale importanza. Il rapporto raccomanda di non fare uso del diritto di veto in caso di genocidio e di violazione dei diritti umani.
Il rapporto propone altresì l'introduzione di un sistema di "voto indicativo" per mezzo del quale i membri del Consiglio possano richiedere una indicazione pubblica delle posizioni assunte sulle decisioni del Consiglio.
L'Assemblea Generale, per incoraggiare gli Stati membri a contribuire in maggior misura alla pace e alla sicurezza, dovrebbe effettuare delle consultazioni regionali ed eleggere per i seggi permanenti o di più lunga durata in Consiglio di Sicurezza, i tre Stati che per ogni area regionale contribuiscano maggiormente in termini finanziari o di partecipazione alle missioni di pace.
Quale sia la riforma della composizione del Consiglio prescelta, una revisione dovrebbe esser condotta nel 2020, accompagnata da una valutazione in termini di efficacia dei contributi offerti dai membri permanenti e non.
Da ultimo è auspicato che il processo per migliorare la trasparenza e la responsabilità del Consiglio sia debitamente formalizzato.
Il rapporto del
Panel
investe ulteriori profili organizzativi ed istituzionali, in particolare per:
Commissione per il peace-building
Il Consiglio di sicurezza dovrebbe nominare una
Commissione per il peace-building
, con il compito di identificare i Paesi a rischio di collasso e di organizzare, in accordo con i governi nazionali, un'attiva forma di prevenzione e di assistenza nonché di coadiuvare la comunità internazionale nella gestione dei periodi di transizione che fanno seguito ai conflitti.
Il rapporto evidenzia delle linee guida sulla configurazione e sulle modalità operative raccomandando in particolare la presenza di rappresentanti del Consiglio di Sicurezza dell'ECOSOC, del Fondo Monetario, della Banca Mondiale, dei principali paesi donatori, al fine di rendere efficace l'assistenza ai paesi in transizione verso la pace.
Il supporto alla Commissione dovrà essere garantito da un apposito ufficio presso il Segretariato generale.
Organizzazioni regionali
La recente esperienza ha dimostrato che le Organizzazioni regionali possono essere parte vitale del sistema multilaterale.
Riguardo alle
organizzazioni regionali
, è auspicabile la loro cooperazione con le Nazioni Unite, formalizzata in accordi (che coprano profili quali lo scambio di informazioni, l'addestramento del personale, ecc.) ed entro le coordinate dello
Standby Arrangements System
delle Nazioni Unite. In ogni caso, per operazioni di pace su scala regionale, dovrebbe essere richiesta un'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Dovrebbe essere profuso uno sforzo finanziario per sostenere un processo (per un decennio) in Africa di formazione di capacità regionali e subregionali di
peace-building
.
Negli anni recenti la NATO ha svolto operazioni di peace-keeping nella propria area. Ciò viene considerata positivamente come pure il fatto che dette attività dovranno essere autorizzata dal Consiglio di Sicurezza.
Deve essere pure incoraggiata la funzione di addestramento da parte della NATO.
E' da notare come esempio concreto di questa politica di rapporti tra Nazioni Unite e Organizzazioni regionali, la dichiarazione congiunta tra ONU E UE sulla gestione delle crisi firmata a New York il 21 settembre 2003.
Consiglio economico e sociale
La pace e la sicurezza non possono essere disgiunte dallo sviluppo economico e sociale.
Molte organizzazioni economiche e sociali operano e decidono fuori dalla organizzazione delle NU; inoltre la Carta delle NU permette la creazioni di agenzie specializzate:
questo fa sì che il ruolo di coordinamento del Consiglio economico e sociale dell'ONU sia ridotto.
ECOSOC deve ritornare ad essere il centro decisionale internazionale in materia di commercio e finanza.
A questo fine si rende necessario che ECOSOC occupi una posizione di leadership in termini analitici e normativi; è inoltre necessario chiarire le modalità con le quali gli stati definiscono in modo aperto e trasparente gli obiettivi di sviluppo.
ECOSOC deve diventare un forum per coordinare lo sviluppo.
Commissione sui diritti umani
Benché uno degli scopi principali delle Nazioni Unite riaffermata solennemente nelle Dichiarazioni del Millennio sia la protezione dei diritti umani, negli ultimi tempi la capacità della
Commissione sui Diritti Umani
di portare avanti questo compito ha perso di credibilità e professionalità (e taluni Stati, per nulla fautori dei diritti umani, ne hanno voluto far parte più che altro per ripararsi dalle critiche). Una riforma è quindi necessaria: tutti i Paesi dovrebbero entrare a far parte della Commissione; essi dovrebbero designare a capo delle proprie delegazioni figure di spicco e con provata esperienza nel campo; la Commissione dovrebbe avere il supporto di un consiglio consultivo o di un comitato di esperti. Ancora, l'
Alto Commissario per i diritti umani
dovrebbe redigere un rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani ovunque nel mondo e sull'attuazione delle disposizioni delle relative risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.
Il Consiglio di Sicurezza dovrebbe coinvolgere più attivamente l'Alto Commissariato nelle proprie deliberazioni compresi i mandati per le operazioni di pace.
Creazione di un posto di Vicesegretario per la pace e la sicurezza
Riguardo al Segretariato Generale, è auspicata la creazione di un ulteriore posto di vicesegretario generale, con attribuzione di responsabilità per la pace e la sicurezza. Un ufficio di questo tipo dovrebbe essere altamente operativo e rispondere al compito di razionalizzare e rendere più efficaci le funzioni burocratiche esistenti. Il Segretariato Generale dovrebbe inoltre disporre di risorse adeguate alle funzioni e per gestire uno staff altamente professionale con flessibilità.
4.
Alcune conclusioni della Commissione.
a.
Le politiche e gli strumenti
Appare opportuno preliminarmente soffermarsi su tre aspetti che il rapporto del
Panel
esamina con grande efficacia e che si rilevano di stringente attualità: gli strumenti e le strutture di lotta al terrorismo in una dimensione multinazionale e globale; i presupposti per il ricorso all'uso della forza; il problema dell'ingerenza umanitaria in relazione al processo decisionale in seno allo stesso Consiglio di sicurezza.
La minaccia del terrorismo che assume dimensione transnazionale è esemplificata dall'organizzazione di Al-Quaeda, capace di agire sul territorio di dieci nazioni in quattro continenti. La stessa configurazione di
network
terroristico che sfugge alla definizione di soggetto internazionale o nazionale come inteso in precedenza, trova poi radici nelle altre grandi minacce planetarie del millennio: la povertà, le malattie infettive, lo sviluppo diseguale delle aree del pianeta, l'oppressione delle libertà civili e la violazione dei diritti umani.
Il
Panel
dunque propone una risposta integrata alla sfida terroristica e la misura più complessa che merita una rielaborazione consiste nella raccomandazione di un programma di sanzioni predeterminato nei confronti degli Stati che non adempiano agli obblighi previsti dalle Convenzioni antiterrorismo (Par. 156). Tale raccomandazione reca in sé la forza per affrontare in modo coeso il fenomeno delle reti terroristiche, ma al contempo ripropone il rischio di esplicitare a livello di soggettività statale la responsabilità della difesa delle comunità dalla stessa minaccia terroristica. Non si può poi mancare di riflettere su un problema che si colloca a monte di questi: quello della definizione del fenomeno terrorismo. La questione definitoria (Parr. 157-164) conduce a tenere in conto l'altra raccomandazione del
Panel
: quella di giungere alla sottoscrizione di una Convenzione unitaria contro il terrorismo.
Queste puntuali misure che l'
High level Panel
elenca come prioritarie, paiono da sostenersi nella consapevolezza delle delicate problematiche che esse suscitano. Tra l'altro, va fortemente supportata l'ottica della prevenzione al reclutamento dei
network
come elemento guida di una politica globale antiterrorismo che sposti il fuoco della sfida appunto dalla reazione alla prevenzione.
Vi è poi la questione spinosa dell'uso della forza (Parr. 183 e ss). Le direttive guida del
Panel
per ipotizzare ulteriori casi di utilizzo della forza si riferisce a tre casi: verso una minaccia non ancora risoltasi in un'offesa diretta ad uno Stato da parte di un altro; a tutela dei cittadini di un paese i cui diritti sono minacciato dal loro stesso Stato; e, infine, al paradigmatico problema della autodifesa preventiva.
Si tratta delle tre spinose evenienze in cui il sistema di ricorso alla forza previsto dalla Carta delle Nazioni Unite spesso non si è dimostrato capace di agire alla luce dei principi contenuti nell'art. 51 della Carta e nell'intero Capo VII relativo all'azione militare deliberata dal Consiglio di sicurezza. E'evidente che su questo punto nodale delle relazioni internazionali, si scontano spesso differenti punti di vista e logiche diverse. E' opportuno ricordare che la storia delle Nazioni Unite ha insegnato che la loro paralisi dà luogo al riemergere di poteri suppletivi spesso accolti con ancor maggiore scetticismo da chi rifiuta un uso della forza più diffuso ed esteso. In altri casi, come quello ruandese, il rifiuto
tout court
dell'ingerenza umanitaria può generare uno stallo dalle conseguenze catastrofiche.
La soluzione del
Panel
appare assai ragionevole quando insiste nel tentativo di razionalizzare i criteri con cui dirigere il processo decisionale da parte del Consiglio di sicurezza: proporzionalità, residualità dell'intervento militare; analisi delle sue prevedibili conseguenze, gravità delle minacce; principio del giusto obiettivo. Ulteriori riflessioni devono però investire anche la speranza che una tale linea guida di intervento riformatore non sia solo giusta eticamente, ma che sia realisticamente condivisibile dei Paesi membri rappresentati in Assemblea Generale e, soprattutto, dai
Permanent -five.
Anche su questo secondo punto, dunque, è opportuno prendere atto della giusta soluzione di incanalare i criteri guida del processo decisionale senza tentare l'improbabile via della riforma dell'art. 51 della Carta (Par. 192).
La più puntuale tipizzazione dei casi i cui ricorrere all'uso della forza ancor prima che ardua da mettere a punto, appare difficilmente concretizzabile. Inoltre, il rapporto del
Panel
non nega, sul punto specifico, la centralità della riforma della composizione del Consiglio di sicurezza; essa rappresenta una questione quantomai interdipendente a quella dell'uso della forza.
Sul piano della tutela effettiva dei diritti umani, infine, si colloca la terza sfida su cui il
Panel
fornisce risposte cui la Commissione attribuisce particolare rilievo.
Recenti contributi teorici anche provenienti dalla dottrina statunitense, si sono ampiamente diffusi sul problema della tutela dei diritti umani, dei mezzi per renderla effettiva e della diretta interdipendenza con il processo decisionale per l'adozione dei poteri sanzionatori delle Nazioni Unite e la costruzione di una responsabilità statale e sopranazionale per la sicurezza dei cittadini.
Il punto è se le Nazioni Unite possano intendersi come “la nostra agenzia per l’applicazione dei diritti”, chiamata, tra l'altro, a organizzare i soccorsi e gli aiuti in presenza di crisi umanitarie.
Quando uno Stato fallisce nei confronti dei suoi cittadini si pone il quesito se debba esistere una qualche entità sopranazionale il cui obiettivo fondamentale sia di prestare loro soccorso. Come lo Stato ha il dovere di proteggere i consociati dall’essere uccisi da qualunque persona, o gruppo di persone, così si deve considerare se e in quali circostanze sia lecito un “intervento umanitario” e se le Nazioni Unite siano legittimate a conferirgli copertura giuridica e politica.
Sotto questo profilo, il rapporto del
Panel
si pone in un giusto e condivisibile contesto. L'ottica è quella del superamento della dicotomia tra principio di non ingerenza e generale responsabilità internazionale per l'inerzia contro le
gross violations
dei diritti umani (Parr. 199 e ss. relativi alla
mission
di protezione degli individui).
Il rapporto auspica l'emersione di una norma internazionale di tipo consuetudinario che postuli una responsabilità internazionale collettiva alla protezione dell'individuo da genocidi, pulizie etniche, eccidi di massa ed altre fattispecie tipiche (Par. 203, significativamente previsto nella parte relativa all'uso della forza in reazione alle violazioni dei diritti umani).
Garante dell'effettività di quella norma dovrebbe rimanere pur sempre il Consiglio di Sicurezza in via sussidiaria qualora i Governi non siano intervenuti. La dottrina internazionalistica ha sottolineato sin dall'inizio degli anni '90 che una più effettiva tutela dei diritti umani in sede ONU si può perseguire con il duplice strumento di una nuova interpretazione degli strumenti giuridici già esistenti e, in altre occasioni, semplicemente con una corretta applicazione di regole spesso eluse o disapplicate.
Il
Panel
riserva la reazione contro le violazioni dei diritti umani in sede ONU alla decisione del Consiglio di sicurezza e pone l'accento, ancora una volta, sulla problematica trasversale del suo funzionamento. D'altra parte ipotizza che il processo decisionale sia sempre fondato su quella griglia di criteri affrontati in generale per il ricorso all'uso della forza in base alle disposizioni del Capo VII della Carta delle Nazioni Unite. Ciò riapre il dibattito, tra l'altro, sulle proposte da più parti avanzate di potenziare i poteri degli organi di controllo (Sul punto della Commissione sui diritti umani cfr. parr. 282-291).
Nel rapporto i diritti umani occupano un posto di rilievo, non solo in relazione agli aspetti istituzionali veri e propri - concernenti cioè la riforma della Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite (CDU) - ma soprattutto nella loro qualità di “tematiche orizzontali”, comuni all’intero spettro della riforma. I diritti umani e le connesse questioni umanitarie sono disseminati in importanti punti nodali del rapporto. In primo luogo l’attuale sistema delle Nazioni Unite è giudicato inadeguato proprio per non aver saputo evitare numerosi disastri umanitari (par.36): “
Collective security institutions have proved particularly poor at meeting the challenge posed by large-scale, gross human rights abuses and genocide
”.
Costituisce quindi un esplicito riconoscimento della posizione privilegiata dei diritti umani l’assunzione, da parte dello H.L.P., del noto concetto della responsabilità di proteggere (“
responsibility to protect
”), fino a sancire. Come già detto, il diritto di ingerenza anche con l’uso della forza (par.203).
Altrettanto rilevante appare poi l’invito a limitare l’uso del diritto di veto da parte dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (CdS) per non bloccare le indispensabili decisioni che quest’ultimo è chiamato ad adottare - prospettato nel rapporto - riguarda soltanto due casi, ed entrambi si riferiscono ai diritti umani (par.256): “
Permanent members, [should] refrain from the use of the veto in cases of genocide and large-scale human rights abuse
”.
Inoltre, l’affermazione, dopo aver condannato nel modo più assoluto il terrorismo, che tutti gli strumenti per combatterlo debbano rimanere nell’alveo del rispetto delle libertà politiche e dei diritti umani (par.148c): “
Development of better instruments for global counter-terrorism cooperation, all within a legal framework that is respectful of civil liberties and human rights
”), fa parte di una impostazione più generale che colloca la salvaguardia dei diritti umani come un evidente limite all’esercizio della stessa sovranità statale.
Di particolare pregnanza appare poi la nozione di “
sicurezza umana
” (“
human security
”), che è presente in molte parti del testo dello H.L.P., rivoluziona il concetto di sicurezza come sancito dall’attuale Carta delle Nazioni Unite, nel senso che la nozione di sicurezza non è più riferita allo Stato in quanto tale, ma al cittadino con i suoi diritti inviolabili, al cui servizio lo Stato si deve invece porre (par.30).
Infine, a questa lista di proposte si aggiunge la nota proposta di Kofi Annan concernente l’integrazione (“
mainstreaming
”)
dei diritti umani in tutta l’attività delle Nazioni Unite e dei suoi organi.
In conclusione, i saggi dello H.L.P. sembrano aver voluto configurare i diritti umani come importanti
principi regolatori
o, se si vuole, come
fonti di legittimità
di quel mondo più sicuro (“
more secure world
”) che costituisce l’obiettivo di fondo delle loro proposte. L’obiettivo della tutela dei diritti fondamentali, quindi, determina e legittima l’azione internazionale e in alcune circostanze lo stesso uso della forza; inoltre, la loro salvaguardia costituisce un dovere e nello stesso tempo un “limite” invalicabile all’attività sia interna che esterna degli Stati. Seguendo tale impostazione, l’insieme delle proposte dello H.L.P. colloca finalmente la tutela dei diritti fondamentali al posto che le spetta tra i compiti assegnati alle Nazioni Unite dall’art. 1 della Carta (commi 1, 2 e 3).
In tale contesto si colloca il tema della
Riforma della Commissione dei Diritti Umani
.
In proposito, il rapporto (par. 282 – 291), mentre apre nuove prospettive, non sempre prospetta con chiarezza le necessarie soluzioni. Ciò vale per l’idea di un “Consiglio” per i diritti umani, come pure per la proposta di far assistere la CDU da un “Advisory Panel” di 15 esperti, senza averne specificato tuttavia ruolo e funzioni.
Partendo dalla premessa che in molta parte della comunità internazionale, dell’opinione pubblica e delle ONG, la necessità di una ristrutturazione volta a rafforzare la CDU serpeggia in termini più o meno chiari ormai da anni, sulle proposte di riforma si possono avanzare le seguenti considerazioni:
Sembra condivisibile l’idea di
rendere più autorevole ed efficace l’azione di tutela dei diritti umani
e quella connessa di
innalzare il livello istituzionale
della CDU.
Circa la composizione della CDU, se debba essere a
membership universale
(come propone il Panel)
o ristretta
(com'è attualmente), vantaggi e svantaggi di entrambe le soluzioni sono stati messi bene in risalto in varie occasioni. In realtà, i principali requisiti che un simile organo dovrebbe soddisfare (
autorevolezza, rappresentatività, legittimità
) sembrerebbero meglio corrispondere ad un organo a composizione universale.
Nell’esprimere la necessità di approfondire tutte le implicazioni di questa proposta anche in relazione ai rapporti funzionali con gli altri organi delle Nazioni Unite, si è consapevoli che la universalizzazione della membership non costituisce di per sé un rimedio a tutti i problemi di funzionamento della CDU; tuttavia, tale soluzione sarebbe di gran lunga preferibile rispetto a quella di individuare eventuali “criteri di eligibilità”, esalterebbe il principio secondo cui tutti i Paesi devono contribuire alla promozione e difesa dei diritti umani e consentirebbe, infine, alla CDU ed ai Governi di concentrarsi sulle questioni di sostanza relative ai diritti umani piuttosto che sulle “politiche elettorali”.
Tuttavia, nell’intento di mettere d’accordo i sostenitori dell’universalità e quelli di un organo a composizione ristretta ed ottenere i vantaggi dell’uno e dell’altro modello, sembra auspicabile:
a) istituire un organo a membership universale (Commissione o Consiglio dei diritti umani) che si riunirebbe una o due volte all’anno;
b) prevedere, in aggiunta, un organo politico a composizione più ristretta (per esempio l’attuale
Ufficio di Presidenza della CDU Allargato (
Enlarged Bureau
) debitamente riformato
,
composto dal Presidente della CDU e da cinque o sei rappresentanti designati (quindi non eletti) da ciascun Gruppo regionale, con la funzione di garantire la continuità dell’azione in materia di diritti umani tra una sessione e l’altra della “nuova” Commissione o Consiglio. Tale proposta non è mai stata discussa, in quanto essa rappresenta in qualche modo una integrazione alle raccomandazioni dello H.L.P. e si inserirebbe in quella fase di approfondimento dello loro implicazioni della cui necessità l’Italia e l’UE hanno sempre fatto stato e sulla quale si registra al momento unanimità di consensi fra i partners europei.
Inoltre, le difficoltà derivanti da una
membership
universale (vale a dire “l’assemblearismo” o comunque la “dittatura della maggioranza” numerica) potrebbero trovare un altro correttivo nella proposta dello H.L.P. (par. 288) di affidare all’Alto Commissario
la preparazione di un rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani nel mondo.
Tale soluzione avrebbe tra l’altro il notevole vantaggio di offrire una piattaforma molto più solida e oggettiva, rispetto alle procedure attuali, su cui basare le discussioni e le deliberazioni della CDU (comprese le controverse risoluzioni di condanna dei Paesi violatori). Per evitare tuttavia il rischio di “esporre” troppo l’Alto Commissario in un esercizio di valutazione così delicato, il rapporto potrebbe essere preparato in collaborazione con i Comitati delle Nazioni Unite incaricati di monitorare l’osservanza delle sei principali convenzioni internazionali sui diritti umani (“Treaty Bodies”) e con i Relatori Speciali della CDU, e sulla base delle risultanze acquisite nella loro attività da questi ultimi.
In tale prospettiva, si possono avanzare le seguenti ipotesi, meritevoli di approfondimenti da parte del Governo e del Parlamento:
a. conformemente a quanto prospettato dallo H.L.P., la “nuova” Commissione o Consiglio dei Diritti Umani a composizione universale dovrebbe essere
indipendente dal Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC)
; approverebbe inoltre in via definitiva i propri testi, compresi quelli di nuove convenzioni internazionali;
b. insieme all’Alto Commissario, alla “nuova” Commissione o Consiglio dei Diritti Umani a composizione universale dovrebbe essere riconosciuta la facoltà di
investire il Consiglio di Sicurezza
in merito a casi di gravi disastri umanitari, nonché di fare, se del caso, raccomandazioni allo stesso CdS;
c. nell’approfondire, in particolare, la problematica relativa ai rapporti fra la “nuova” Commissione o Consiglio dei Diritti Umani a composizione universale e la
III Commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA)
sarebbe opportuno valutare
anche l’eventualità di una soppressione di quest’ultima, tenendo presente anche i notevoli risparmi di risorse che ne deriverebbero per le Nazioni Unite e per gli Stati membri;
d. non appare invece auspicabile, come ipotizzato da alcuni, una piena separazione della nuova CDU dall’UNGA. Al contrario, la CDU dovrebbe avere con l’Assemblea Generale un rapporto
come da organo a competenza più ristretta rispetto all’organo, qual è l’UNGA, a valenza universale:
vale a dire, una volta all’anno la CDU presenterebbe un rapporto all’Assemblea Generale sull’attività svolta e sulle prospettive future; l’UNGA a sua volta dovrebbe esercitare un
potere di indirizzo politico generale,
tenendo conto della situazione generale delle relazioni internazionali.
Come in tutti i casi di modifiche di strutture esistenti, bisogna infine domandarsi se l’Italia e l’UE possano trovare vantaggi dal tipo di multilateralismo delineato dallo H.L.P.: un multilateralismo caratterizzato dalla notevole enfasi posta sul valore dei diritti umani e della “
human security
”.
Premesso che la valorizzazione dei diritti umani, come giustamente rilevato dallo H.L.P., non significa sottovalutazione delle realtà di potere sottostanti (“
underlying power realities
”), va sottolineato che tale valorizzazione non giunge inattesa, né è destinata a cadere nel vuoto, ma costituisce piuttosto una presa d’atto di un
comune sentire
, che si è fatto sempre più strada negli ultimi anni nell’opinione pubblica internazionale, e ciò - va sottolineato - soprattutto per iniziativa dell’UE.
Non sembra, quindi, azzardato ipotizzare che il multilateralismo proposto dallo H.L.P. potrebbe aprire ulteriori spazi sulla scena internazionale proprio ad attori, come l’UE e nel suo ambito l'Italia, che lavorano
già
da tempo con tale tipo di strumenti (i “dialoghi” sui diritti umani con i Paesi terzi, le clausole sui diritti umani presenti ormai in quasi tutti gli accordi UE, ecc.) e che, pertanto, sono più abituati e più portati, rispetto ad altri attori, a muoversi in un contesto in cui va consolidandosi la prassi di combinare il potere con i principi (“
to combine power with principle
”) - è sempre lo H.L.P. a dichiararlo - coniugando nella maniera più armonica possibile il legittimo perseguimento degli interessi con la difesa dei principi.
In conclusione, si intravede un filo rosso che attraversa il rapporto del Panel; esso caratterizza le linee guida ed i presupposti per la tutela della sicurezza internazionale e per la reazione alle violazioni dei diritti umani, per giungere poi a delineare il quadro di riforme strutturali, organizzative e di funzionamento dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e, soprattutto, del Consiglio di Sicurezza.
b. Gli organi e le istituzioni
Nel rapporto del Panel il nodo del funzionamento del Consiglio di sicurezza si ripropone in tutta la sua importanza. Soprattutto vi è consapevolezza che la sua paralisi vada evitata al massimo grado. E'da questi rilievi che si è andata delineando la posizione italiana.
Essa muove dall'assunto che l'aumento dei membri permanenti condurrebbe ad una ancora più marcata difficoltà nell'adozione di decisioni sui terreni delicati di cui si è detto. Le risposte alle complesse sfide che si profilano all'orizzonte del nuovo millennio vanno invece cercate fornendo una positiva soluzione alle esigenze di rappresentatività e di rilevanza degli interessi e delle responsabilità di area.
Dunque, nell'ipotesi di seggi elettivi su base regionale e nella prospettiva di lungo periodo di una rappresentanza europea in Consiglio di sicurezza, sembrano rinvenirsi gli anticorpi ai problemi di governabilità e paralisi decisionale che hanno afflitto il Consiglio di sicurezza nella storia recente.
Più in generale appare necessario perseguire un approccio inclusivo e la ricerca del più ampio consenso possibile sulle proposte di riforma del Consiglio di Sicurezza, evitando ogni genere di scorciatoia nel processo di riforma che rischierebbe di spezzare la membership dell'Assemblea Generale ponendo in pericolo efficacia e legittimazione dell'attività delle Nazioni Unite.
Nel merito delle proposte vi è un chiaro consenso della Commissione sul favore per ipotesi di riforma del Consiglio di sicurezza incentrate sull'opzione b). In primo luogo la Commissione apprezza, di tale proposta, il principio della rotazione e dell'elezione periodica di tutti gruppi regionali.
Tuttavia, i lavori della Commissione hanno evidenziato il convincimento che, di fronte all'occasione storica rappresentata dalla dibattito sulla riforma delle Nazioni Unite anche in sede di Assemblea generale, il problema della modifica della composizione del Consiglio di Sicurezza non debba porre in ombra né pregiudicare altre e più generali questioni, con particolare riferimento al rafforzamento del ruolo della stessa Assemblea Generale, del Consiglio Economico e Sociale e delle Agenzie.
E' infatti in una attenzione globale alla credibilità ed al rapporto tra i singoli organi delle Nazioni Unite che le sfide elencate dal Panel potranno essere affrontate e vinte negli anni a venire.