Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

29ª SEDUTA

MERCOLEDI 28 GENNAIO 1998

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

indi del vice presidente GRIMALDI

Indice degli interventi

PRESIDENTE
PANNELLA
CORSINI (Sin.Dem.-l'Ulivo), deputato
DE LUCA Athos (Verdi-l'Ulivo), senatore
FRAGALA' (AN), deputato
GRIMALDI (Rif.Com.), deputato
GUALTIERI (Sin.Dem.-l'Ulivo), senatore
STANISCIA (Sin.Dem.-l'Ulivo), senatore
TASSONE (CCD-CDU), deputato

La seduta ha inizio alle ore 20,25.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.

Invito l'onorevole Fragalà a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

FRAGALA’, segretario f.f., dà lettura del processo verbale della seduta del 21 gennaio 1998.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato. E’ approvato.

 

COMUNICAZIONI DEI. PRESIDENTE

PRESIDENTE. Comunico che, dopo l'ultima seduta, sono pervenuti alcuni documenti, il cui elenco è in distribuzione, che la Commissione acquisisce formalmente agli atti dell'inchiesta.

 

INCHIESTA SU STRAGI E DEPISTAGGI: AUDIZIONE DELL'ONOREVOLE MARCO PANNELLA

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione dell'onorevole Marco Pannella, che ringrazio per essere presente e che saluto, nell'ambito dell'inchiesta su stragi e depistaggi.

Vorrei dire alcuni brevi parole per spiegare perché, almeno per quel che mi riguarda, vorrei seguire questa volta, ascoltando l'onorevole Pannella, un metodo diverso da quello seguito in altre audizioni. Marco Pannella almeno dal 1963 è uno dei protagonisti della vita politica italiana, quindi è stato attivo in Parlamento, nelle istituzioni e nella nostra società durante l'intero periodo in cui sono avvenuti i fatti tragici che hanno portato alla costituzione di questa, Commissione d'inchiesta. Pertanto già questo a mio avviso giustifica la sua audizione considerando che noi abbiamo già sentito altri grandi protagonisti di quella stagione. L'onorevole Pannella ha sempre seguito con forte attenzione l'attività di questa Commissione, convinto della sua importanza e della sua utilità. Qui riporto un piccolo ricordo personale. Ero stato appena nominato, dai presidenti Scognamiglio Pasini e Pivetti, Presidente di questa Commissione. Era piena estate quando Marco Pannella venne addirittura a trovarmi a Lecce. Trascorremmo insieme un lungo pomeriggio e una lunga serata in cui mi spiegò i suoi punti di vista, che oggi confesso non aver capito allora pienamente, probabilmente, anzi sicuramente, per quella che era allora una mia scarsa informazione e preparazione su tutti questi temi. Da allora l'attenzione dell'onorevole Pannella non si è allentata, è stata continua. Dopo il deposito della mia proposta di relazione del dicembre 1995 io ho avuto diversi incontri e confronti, anche pubblici, con il nostro ospite sui contenuti di quella relazione, la cui verifica oggi costituisce il compito rispetto al quale ci impegniamo. L'onorevole Pannella potrà correggere quanto sto per dire. La mia impressione è che lui ritenga non sbagliato il tipo di lettura che quella proposta di relazione propone, però la ritiene una verità parziale, meritevole di approfondimento e che sconta negativamente il fatto che una serie di punti nodali e oscuri della vita del paese - a suo avviso - non sono stati indagati abbastanza. Vorrei dire in via di estrema sintesi, quindi sempre con l'approssimazione propria di ogni tipo di sintesi, che se in quella relazione l'obiettivo strategico che condiziona l'intera vicenda nazionale è la sacralità del confine occidentale, nella logica che invece l'onorevole Pannella propone il vero obiettivo era altro: l'obiettivo strategico era il mantenimento dell'equilibrio di Yalta. Questo consente una lettura indubbiamente più difficile e complessa di quella che la proposta di relazione fornisce. Penso che la Commissione abbia il dovere istituzionale ed intellettuale di confrontarsi con questo tipo di diversa lettura, con questa diversa ipotesi ricostruttiva che sembrerebbe quasi attenere ad un piano ancora più sotterraneo di realtà rispetto a quello della proposta di relazione. Per questo do senz'altro la parola all'onorevole Pannella, al quale personalmente non proporrò preliminarmente domande riservandomi di farlo, semmai anche con qualche breve interruzione, durante il corso della sua esposizione. Poi l'affiderò ai commissari, molti dei quali si sono già iscritti a parlare.

PANNELLA. Signor Presidente, sono integralmente e profondamente riconoscente nei suoi confronti e nei confronti della Commissione per questa occasione che mi viene data e che in qualche misura ho ricercato ma inutilmente nel corso di lustri, cioè poter versare in una sede a ciò deputata alcune memorie, alcune testimonianze e alcuni fatti augurandomi che siano ritenuti meritevoli di attenzione; di essere accolti, o magari di essere respinti, ma meritevoli di essere presi in considerazione. Il presidente Pellegrino ha avuto la bontà di ricordare che sono ormai molti decenni che sono impegnato, più spesso sui marciapiedi che nelle istituzioni - ma anche nelle istituzioni - con quella che Simone Weil diceva essere sinonimo dell'amicizia e dell'amore: la "costanza dell'attenzione". Credo che rispetto alla storia del mio paese, alla storia del mio tempo e della mia società forse avrei dovuto farlo con molto più di questa, ma la costanza dell'attenzione vi è stata e mi anima tuttora. Il presidente Pellegrino ha indicato una data, il 1963. In quegli anni in alcuni ambienti molto autorevoli, militari, di "estrema destra" o di destra, si è formata la convinzione o si ostenta la convinzione, che se vi sono (e secondo loro vi sono) delle mani "rosse" sull'esercito queste sono anche, e in parte consistente, quelle della sinistra radicale, la più giovane, in un momento nel quale eravamo 210 o 220 iscritti in Italia, ma certo militanti con qualche capacità dovuta forse...

PRESIDENTE. Lei usa il plurale per accomunarmi. Questo è vero.

PANNELLA. Volevo sentire se questa radice dava anche il frutto di una considerazione sul presente. Perché le radici sono presente, se sono cose vive. In quegli anni - come adesso - la caratterizzazione della stragrande maggioranza dei pochi che eravamo era una fedeltà atlantica e israeliana assoluta (alcuni di loro forse sanno che ho esordito spesso nelle varie legislature premettendo, il primo intervento è sempre un po’ difficile, di essere un agente della Cia e del Mossad; devo dire che per un anno o due non dicevo Mossad perché non ricordavo il nome e una volta ho sbagliato e ho detto la Maganà, e anche se naturalmente abbiamo nutrito e nutrivamo questa scelta, questa speranza, questa determinazione con una dose di singolarità, di liberali intransigenti, ma anche di liberali come i decenni avrebbero poi reso Popper, che non aveva ancora incontrato la non violenza; lo sappiamo, sono stati gli ultimi quindici anni, quelli in cui Popper ha accumulato questo strano mélange, liberalismo e non violenza; per noi è stata la caratteristica dall'inizio degli anni '60. Forse questo ci ha consentito di avere, per esempio - lo ricorderò solo en passant - dei momenti molto singolari e molto difficili, per esempio, con gli ambienti "americani" e italiani. Noi dal 1963 al 1966 riuscimmo a provocare un'adesione di molte decine di parlamentari ad una sorta di rottura nel Movimento della Pace italiana di allora, perché appoggiammo l'iniziativa, che altrimenti sarebbe restata nella sua patria, del senatore austriaco Hans Thirring nel momento in cui il pacifismo occidentale autentico si muoveva soprattutto sulla campagna antinucleare (i CNI) - compaign for nuclear desarmament -, di Bertrand Russell, con i quali ci muovevamo). Noi però avevamo una diversa accentuazione, molto forte: dicevamo essere necessario, a nostro avviso, cominciare con il disarmo convenzionale (e la proposta del senatore Thirring era quella) dell'intera area europea.

PRESIDENTE. Mi scusi se la interrompo. Potremmo dire come formula riassuntiva che eravamo (uso il plurale) anticomunisti e quindi atlantici, ma nello stesso tempo non accettavamo tutte le conseguenze che dall'atlantismo militante derivavano e quindi eravamo anche antidemocratici cristiani.

PANNELLA. Certo. Ma direi anche che non accettavamo nemmeno quell'impostazione, che si riproponeva dopo Yalta ma che come ideologia corrente che vive oggi rispetto alla Cina - rivive tuttora - per la quale nei rapporti storici, nel maturare dei grandi eventi storici, occorre prescindere totalmente da un'eccessiva preoccupazione di coincidenza fra posizioni ideali, o politiche, e posizioni diplomatiche e tattiche o anche strategiche. C'è stato cioè in noi un filo conduttore che ci portò anche ai tempi di Comiso, pur essendo la maggior parte degli arrestati a Comiso iscritti al nostro partito, ad avere una posizione diciamo sostanzialmente più favorevole, o meno sfavorevole, agli armamenti e agli equilibri nucleari ed atomici rispetto alla sottovalutazione della pericolosità degli eserciti e delle strutture degli eserciti convenzionali in sé nella vita nazionale ed internazionale. Ebbene, su questa posizione del senatore Thirring noi ponevamo allora un problema - e fu notato a destra, non solo nel convegno del Parco dei Principi - che era inaccettabile per il blocco orientale, nel senso che era chiaro che il disarmo convenzionale dell'area europea totale creava molti più problemi all'impero sovietico il quale aveva bisogno per il suo ordine interno, per le sue strutture interne, dell'esercito, molto meno ... anche perché la posizione del senatore Thirring escludeva la Gran Bretagna da questa forma di disarmo. Quindi in quel momento venivamo considerati pericolosi da alcuni atlantici, più dei comunisti perché non si capiva bene... ma questa è una singolarità, la metto da parte e chiedo scusa, ma mi pareva giusta la presentazione di una certa singolarità di posizioni: non violenza più che pacifismo; certo, collegamento fortissimo con Lambrakis, per esempio, oltre che con Bertrand Russell, il CND britannico, ecc.; e dall'altra parte però anche una posizione che fece contrapporre Velio Spano al suo partito, nel momento in cui egli era rappresentante del Partito comunista nel Movimento della Pace insieme ad Aldo Capitini e, appunto, a noi radicali. Le cose quindi già da quel momento ci videro in una situazione un po’ strana. La posizione, ad esempio, era questa: per noi gli anni nei quali siamo stati più oggetto di attenzioni dei servizi sono anni, appunto, che apparentemente non lo giustificano: duecento persone, impegnate in azioni militanti, eccetera. Ebbene, in quegli anni noi abbiamo, per esempio, che scoppia il caso De Lorenzo, e scoppia su iniziativa radicale, non ancora con un partito radicale profondamente diviso, come ben presto sarebbe stato; quindi "L'Espresso", quindi Scalfari, Iannuzzi, noi stessi ancora piuttosto vicini per molti versi. Sicché per esempio nella vicenda De Lorenzo un elemento di sviluppo si ha quando De Lorenzo abbandona la sua difesa iniziale e l'affida a uno di noi, Franco De Cataldo. De Cataldo - mi trattava un pò come un fratello maggiore anche se non ero maggiore di moltissimi anni - mi chiese appunto se volevamo, se potevamo; vi è stata una sollecitazione. Si mise una condizione, e cioè che nella linea difensiva occorreva perseguire una posizione di verità, e fu così che nella seconda parte del processo vennero fuori, sicuramente, molti più dati ed elementi che nella prima; poi la cosa si andò fermando. Sta di fatto che fino a quel momento noi eravamo stati quasi - come dire - non dico teneri con Aloja e contrari di più a De Lorenzo (la campagna de "L'Espresso", le inchieste di Iannuzzi e non solo di Eugenio Scalfari, alcune nostre azioni). Ma De Lorenzo ritiene di non potersi difendere più validamente restando ancorato alla posizione nella quale si era messo, e abbiamo quella fase di maggiore verità nel processo, di maggiore interesse, che poi Libero Gualtieri in particolare ricorderà; vi furono cinque o sei mesi molto interessanti, "L'Espresso" stesso dovette prenderne atto e ne prendemmo atto. Da quel momento però noi ci troviamo anche a constatare in base a vicende proprio quasi personali... noi avevamo dei bilanci di 500.000 lire, di 700.000 lire, di 800.000 lire. Io ero appena di ritorno da Parigi, allora il tesoriere, il segretario amministrativo del PSIUP (che era, come formazione, appena nato), il senatore Lami, ci offrì e ci dette per alcuni mesi 300.000 lire, ed era un contributo di un PSIUP che era considerato "carrista", da una parte, da molti di noi, ma dall'altra, con alcune componenti, cori Libertini e con altri, di altra natura. Io prendo atto dicendo: benissimo, voi siete contro il centro sinistra; in quel momento i Servizi andavano ai congressi di partito, invece magari andavano ad aiutare il centro sinistra con delle borse. Da noi invece c'era la giustificazione: noi dal PSIUP abbiamo del denaro e - ricordo, erano 300.000 lire al mese - per tre o quattro mesi. Senonché venimmo fuori con due o tre numeri della nostra agenzia, che era "Agenzia radicale", nella quale demmo le cifre della pubblicità redazionale dell'Agip (si ricorderà bene anche questo Libero Gualtieri), con grave scandalo. Non ci fu un solo partito, tranne un parlamentare italiano (era, lo ricorderò, l'onorevole Vittorio Zincone), che fece un'interrogazione; ebbene, vi erano in quel momento delle somme di pubblicità redazionale che venivano dall'Agip, dall'Eni, da Cefis, da Girotti ed erano, per esempio, mi pare, 360 milioni in quell’anno determinato, a "Lo Specchio", sicuramente giornale di destra (Nelson Page, eccetera); 180 milioni l'anno a "La Voce Repubblicana" e 250 milioni a "Paese Sera"; 15 milioni a "Il Mondo", di cui noi facevamo parte. Diligentemente rendemmo pubblico tutto questo. Fui chiamato dal senatore Lami che mi disse: "Guarda, sbagli a far questo, perché anche Cefis, non solo Mattei, è stato importante nella Resistenza; siamo compagni dalla Resistenza e il denaro che ti ho dato ho potuto dartelo perché faceva parte di somme di denaro che ci venivano e ci vengono anche da Cefis, quindi se continui non posso più dartelo". E’ una vicenda autobiografica, ma siccome abbiamo il problema del partito "americano", in qualche misura, abbiamo l'ente di Stato che sicuramente è stato costretto ad essere antiamericano, diciamo, dagli americani secondo gli schemi usuali (le Sette Sorelle, forse Mattei assassinato da .... eccetera), con un rapporto innegabile con i Servizi.

Un piano del palazzone dell'ENI, il settimo mi pare, era occupato praticamente da strutture parallele ai Servizi; qui operava già quello che sarebbe diventato il generale Allavena, all'epoca colonnello e con un fratello che aveva rapporti con la Fiat. Quel mondo era quello del colonnello Rocca. E in quegli anni - credo che il figlio potrà testimoniare in questo senso - Cefis affida a Tom Ponzi la somma, se ricordo bene, di mezzo miliardo di ora per trovare prova di qualcosa contro di noi, perché quella nostra campagna era pericolosissima. Eravamo in un momento un po' difficile con gli americani, intanto perché eravamo piccoli e poveri, c'era quella iniziativa del senatore Thirring. Non avevamo ancora rotto con Spano e la sua struttura, come poi avvenne, con Aldo Capitini e noi da una parte e la componente più comunista dall'altra. Già da allora ci si mobilita nei nostri confronti. Vado da Malagodi e gli do tutto questo materiale. Malagodi si reca alla Confindustria, parla con i suoi esponenti e mi dice che non può fare nulla riguardo a quei dati, terrorizzanti, sul piano della pubblicità redazionale, in realtà cioè del finanziamento della stampa e dei partiti dietro l'alibi della stampa, e mi raccomanda di stare attento quando attraverso la strada. Era il Partito Liberale anticentrosinistra, ma Malagodi mi dice che non può fare nulla. Ho quindi questo scorcio. Già allora altri, all'interno del PSIUP, mi dicevano, non contenti, che il denaro era venuto in parte della Cecoslovacchia e in parte da lì per fare la scissione. C'erano poi Lando Dell'Amico ed altri, che giravano in ambienti diversi con un capitano di cui non ricordo il nome, andavano al Congresso repubblicano e si assicuravano che Pacciardi venisse considerato, ed espulso, come fascista. Confesso che mi resi "colpevole" della richiesta di sentire Pacciardi in televisione. E’ stato escluso totalmente, è stato denunciato come sporco fascista. Io non ero mai stato pacciardiano, come Libero Zani e Gualtieri, Ugo La Malfa e Oronzo Reale. Eravamo sempre stati repubblicani e radicali in posizioni opposte a Pacciardi ma lì mi parve francamente inaudito, tanto più che Pacciardi veniva fuori con delle tesi che otto anni prima erano state quelle di Calamandrei. Per me questo era il problema. Le tesi presidenzialiste-americane erano le tesi del Partito d'Azione e di Piero Calamandrei, io questo, ventitreenne, venticinquenne, ventottenne, lo ricordavo bene. Otto anni sappiamo come passano. Per me era ieri che Calamandrei e il Partito d'azione, Mario Paggi, "Stato Moderno", si erano pronunciati in senso anglosassone, presidenzialista, americano su tutto, addirittura anche sui temi della giustizia e dei magistrati. Penso di non essere il solo a ricordarlo qui. Su il "Ponte" di Firenze c'era stato un dibattito molto interessante a favore o contro.

Quindi ci muoviamo all'inizio degli anni Sessanta. Questo De Lorenzo uomo di destra... a noi arriva come uomo di sinistra, contro Aloja che è di destra. "Paese Sera" conduce una grande campagna a favore di De Lorenzo contro Aloja; il denaro a noi arriva, per quattro mesi, attraverso lo PSIUP. L'ottimo compagno Lami mi avverte che è denaro che lo PSIUP ci dà perché siamo buoni compagni, liberi, poveri, eccetera. Però non ve lo possiamo più dare, mi spiega, perché abbiamo fatto il Partito grazie all'aiuto di questi. Il momento "americano" è forse lì difficilmente individuabile, quanto meno con limpidità, anche nei segmenti individuati. Io - e con questo rispondo alla prima domanda del presidente Pellegrino - direi piuttosto che non è che condivida la linea di interpretazione di fondo; io condivido (e non è poco - è enorme - perché è la prima volta che posso dire questo) l'approccio. Per me "americano", è prezioso; conoscere nella sua oggettività quanto di "americano" nel senso deteriore e negativo poteva esserci, perché vivevo in un momento nel quale ricordo che con Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Stephen Spender e tutti noi della "Associazione per la libertà della cultura", non c'era né un Einaudi né un solo editore italiano che osasse pubblicare costoro. Mi riferisco anche a Umberto Calosso, a Conti che vorrei la storia d'Italia tornasse a conoscere, valori fondamentali cancellati. Ricordo che fra noi - da universitari - si diceva che il denaro per l'Associazione veniva da un tal signore, Irving Brown, che io poi conobbi a Parigi, che andai a trovare e che era l'espressione ufficiale del sindacalismo americano AFL-CIO. Si diceva allora che era d'accordo con la CIA contro il Dipartimento di Stato per finanziare il mondo socialdemocratico e antifascista in funzione anticomunista. Ricordo anche uno straordinario personaggio socialista riformista, già sindaco di Iglesias, Ermanno Corsi, espulso perché, appunto quando era sindaco, aveva accettato di ricevere il re. Egli, che con Ivan Matteo Lombardi ed altri era stato tra i più importanti... mi raccontava come arrivavano questi denari del sindacato americano. Anche lui diceva che era la CIA e che il Dipartimento era contro; una parte della CIA gioca in Europa la carta dell'antifascismo, ma come forza anticomunista, e la carta del rassodamento socialdemocratico, o socialista democratico delle istituzioni, pur nemico delle destre e in pessimi rapporti anche con il mondo industriale europeo che preferiva altre cose. Con queste testimonianze ho dato questo scorcio: Lami-Partito radicale; ho del denaro che mi viene attraverso quella strada. Qui mi fermo perché sono il testimone di qualcosa che ho raccontato.

PRESIDENTE. Quello di Ivan Matteo Lombardi è un personaggio che attraversa spessissimo gli atti di cui la Commissione è in possesso. La cosa singolare è che quando a grandi protagonisti dell'epoca abbiamo chiesto chi fosse ci è stato risposto che quasi nessuno lo conosceva.

PANNELLA. Eppure era stato fatto segretario del Partito. Io non l'ho conosciuto anche perché, in realtà, era un personaggio abbastanza secondario. Quando a Palazzo Barberini dovettero trovare un nome che potesse consentire una lettura nello stesso tempo socialdemocratica ed europea, e quindi anche un po' di sinistra, si presero questo "americano"...

PRESIDENTE. Lo troviamo al Parco dei Principi.

PANNELLA. Dopodiché, dopo tre anni, era già scomparso. Io che ho vissuto l'Associazione per la libertà della cultura con Ignazio Silone e questi altri, non solo perché abruzzese anch'io, sapevo che si conosceva Ivan Matteo Lombardi però non l'ho mai visto e parlo ancora degli anni 1952-1953. Sapevo che girava nell'ambiente, ma non l'ho mai visto. C'è Leone Cattanei che finisce nel Comitato di Gabrio Lombardi sul divorzio; c'è Ivan Matteo Lombardo che finisce probabilmente al Parco dei Principi. Ecco, andai per esempio ad incontrare Irving Brown a Parigi, ma francamente non ho mai incontrato Ivan Matteo Lombardo.

PRESIDENTE, Che ricompare poi nel 1973 come uno dei possibili ministri del Governo Pacciardi insieme a Sogno e agli altri dello stesso gruppo.

PANNELLA. Sì, certo.

GUALTIERI. Ministro lo è stato, del commercio con l'estero.

PANNELLA. Sì, è stato poi ministro, Ivan Matteo Lombardi, ma - per intenderci - ricorderò che in quel momento, quando ci fu il grande dibattito sull'utilizzazione dei fondi Marshall, ci furono due premiati in un anno - mi pare nel 1949 - in Italia (erano gli americani che un po’ agivano in questa direzione, cioè per chi utilizzava in modo più liberista il sussidio): Ernesto Rossi per degli articoli su "Italia Socialista", che era il giornale di Ivan Matteo Lombardi, in qualche misura, e Vittorio Zincone per degli articoli su "Risorgimento Liberale". Ebbene, io non ho mai sentito parlare Ernesto Rossi, o meglio, non ricordo di avergli mai sentito nominare, in tutti gli anni fino al 1967, Ivan Matteo Lombardi, anche se magari lo avremo avuto pure al convegno degli Amici nel Mondo. Aggiungo subito che è Roberto Ascarelli, un notissimo radicale, che io ho conosciuto, esponente importante della comunità ebraica di Roma, che presenta e risulta aver presentato Gelli alla massoneria. Quindi io sono il primo a sostenere che poi tutto va seguito, ma non mi pare di aver trovato, in corrispondenza di Ivan Matteo Lombardi, altro, probabilmente, che la vicenda di un isolato che ha avuto - in una determinata congiuntura - un momento di fortuna e poi probabilmente sarà restato nel retrobottega, magari a disposizione. Probabilmente in questo caso è da considerare anche una mia mancanza di qualificazione per far parte degli ambienti che contavano in un momento dato.

PRESIDENTE. Bene. Veniamo al secondo episodio.

PANNELLA. Io vorrei fare a questo punto un salto, perché ho parlato sin troppo di un elemento di atmosfera e vorrei quindi, dal 1965-1966 nonché, in parte, 1967, fare un salto ed arrivare al 1976 (poi vedremo che c'è un 1974 che mi interessa molto).

Noi entriamo nel Parlamento italiano nel giugno 1976, sull'onda del referendum sul divorzio ma anche sull'onda di molte altre battaglie (abbiamo già fatto approvare la legge sull'obiezione di coscienza, per esempio, cioè abbiamo svolto un'attività, diciamo, non parlamentare, ma né antiparlamentare né extraparlamentare) e, non appena entriamo in Parlamento, a proposito dell'assassinio di Occorsio, presentiamo due interrogazioni, una delle quali al ministro dell'interno Cossiga, perché su Occorsio vogliamo sapere qualcosa di più, proprio in relazione già a Gelli e anche alla partitocrazia (e noi dicevamo che la partitocrazia è un certo tipo di massoneria o di pseudomassoneria). Rispetto a quelle interrogazioni si solleva un'obiezione, cioè ci si dice da parte del Governo che, essendoci crisi di Governo, il Ministro non ci può rispondere: su questo noi cominciamo a piantare la prima grana, per così dire, di tipo quasi ideologico, sostenendo che, proprio nel momento in cui c'è una crisi dell'Esecutivo, il Parlamento deve poter avere degli strumenti che vengano fatti valere. Il ministro Cossiga non ci risponde, se non poi a settembre, in Commissione interni, e il presidente Ingrao è d'accordo su questa posizione. Ma noi già nell'agosto, se non sbaglio, presentiamo un'interrogazione per sapere come mai il Presidente del Consiglio abbia ricevuto a Palazzo Chigi (non ricordo se avevamo detto "a più riprese") tal Licio Gelli, capo di una loggia pseudomassonica ("golpista" e non so quante altre amabilità dicemmo subito). E’ il 1976, siamo quattro, conosciamo poco i servizi, i poteri, eccetera. Nel 1979 finisce quella legislatura, otteniamo con grande fatica una prima risposta, ma il Partito comunista (parlo quindi del grande interlocutore) non presenta, almeno fino al 1978 (non so se nell'ultimo anno lo abbia fatto), una sola interrogazione su Licio Gelli. E’ un'atmosfera. Noi su questo abbiamo molto gridato, molto discusso. E matura molto presto in noi la convinzione che parlare dei servizi significa parlare dell'"unità nazionale", di quella che abbiamo trovato a suo tempo con Cefis, che poi viene protetto con tutto il gruppo ENI, nello stesso tempo, da "l'Unità" e dal Partito Comunista (dirò in che modo) e da un intervento diretto di Paolo VI. Intendo dire che, da una parte, vi sono persino i lavoratori del Silp (mi pare che si chiamasse così il sindacato dei lavoratori petroliferi, cioè quelli dell'AGIP, eccetera) che arrivano a fare uno sciopero e vengono fino alle Botteghe Oscure manifestando - eccetera - e dall'altra parte vi è "l'Unità" che rifiuta di scrivere anche un solo rigo, pur se questi poveri lavoratori erano arrivati allo sciopero perché si trovavano probabilmente in condizioni difficili. Noi non abbiamo mai ottenuto, in tutti quegli anni, che sulle nostre denunce, sui rapporti che svolgevamo puntualmente (e che si riferivano a Allavena, a Porizi, all'ENI, eccetera) venisse da sinistra un qualsiasi ascolto, anzi, la nostra era un'azione di "provocazione", perché ci si diceva sempre - nemmeno tanto in privato - che quelli erano la componente partigiana, antifascista, antiamericana, ma nel senso che poteva anche essere filoamericano, ma contro il capitalismo e non contro il liberalismo americano. Sono anni di solitudine atroce. In quegli anni noi usavamo fare delle marce antimilitariste e pacifiste, prima Milano-Vicenza (il percorso era abbastanza singolare) e poi Trieste-Aviano; ogni anno, dall'uno al dieci agosto. Nel 1974 (tenete presente il refendum tenutosi a maggio) noi annunciamo, mi pare il 20 luglio, che annulliamo la marcia antimilitarista perché stavamo ascoltando continuamente di gravi rischi di un golpe e ci risultava che dirigenti comunisti importanti non dormissero nelle loro abitazioni. Dunque, il 20 luglio 1974 noi annunciamo che per la prima volta annulliamo all'ultimo momento la marcia che ci portava in quelle contrade (dove incontravamo procuratori della Repubblica golpisti e quant'altro; abbiamo incontrato di tutto, lo abbiamo capito dopo) e facciamo la "dieci giorni della non violenza e dell'antimilitarismo" a San Paolo. Il 4 agosto, mi pare, arriva puntualmente la strage dell'Italicus e ci troviamo infatti dopo un'ora, nella Roma deserta di agosto, in 70-80 militanti a parlare di strage di Stato, di strage preannunziata; a chiedere a quei personaggi dove avessero dormito la notte prima, eccetera. La situazione era molto difficile: la RAI, la televisione, i giornali su questo erano in sintonia, non vi erano eccezioni.

PRESIDENTE. Eccezioni a che cosa? Al silenzio?

PANNELLA, Sì, al silenzio, che era totale. Gli interrogativi c'erano, e anche un po' di prestigio lo avevamo, avevamo condotto la campagna sul divorzio, già avevamo raccolto le firme sull'aborto, sulla cosiddetta legge Reale. Insomma la nostra attività era, credo, un'attività che meritava e riscuoteva rispetto nel suo peso politico. Sulla strage dell'Italicus abbiamo continuato a chiedere, a manifestare davanti alla Presidenza del Consiglio come davanti a Botteghe Oscure, un po' dappertutto. La risposta è stata, in quegli anni, feroce; devo dire feroce anche di rimozione. Arriviamo al 1976; denunciamo che esiste una situazione, a nostro avviso, di grosso pericolo perché riteniamo, nella nostra analisi, che la partitocrazia crei una "unità nazionale"...

PRESIDENTE. Fermiamoci al 1974. Quindi, nel 1974 voi aveste la sensazione che ci potessero essere, addirittura, pericoli sulla tenuta delle istituzioni democratiche, tant'è vero che i vertici del PCI dormivano fuori casa. Però, lei era colpito dal fatto che di tutto questo non si parlasse.

PANNELLA. Noi avevamo la "Agenzia Radicale", che era un piccolo miracolo quando l'abbiamo fatta; ogni giorno pubblicavamo fino a 27 pagine, nelle quali c'era anche molta politica militare; 27 pagine che diffondevamo e inviavamo a tutti i parlamentari. Nel 1973 abbiamo pubblicato "Liberazione", il nostro quotidiano, per due mesi, e da questo punto di vista non avevamo ancora "Radio Radicale", che inizia ai primi del 1976, ma avevamo ugualmente una presenza "di vertice" grossissima. Allora, se lei vuole, le dico quello che accadeva. Nel cuore della campagna che definisco polemica nei confronti dell'ENI e dell'AGIP, una mattina il procuratore Giannantonio - mi sembra che si chiamasse in questo modo - aveva spiccato o stava spiccando dei mandati di cattura nei confronti ...

PRESIDENTE. Contro Ippolito?

PANNELLA. No. Quello era già caduto - tra l'altro - per qualche vagone letto, o almeno mi sembra; non era lui. Riprendo il discorso: stava spiccando mandati di cattura nei confronti dello Stato maggiore dell'ENI e dell'AGIP. L'indomani mattina - noi eravamo stati avvisati di queste cose - su "il Giorno" di Milano esce, su tutta la pagina, la notizia che il Pontefice aveva ricevuto l'intero stato maggiore dell'ENI; il titolo era: "Siete un esempio di imprenditoria cristiana" o qualcosa del genere. Signor Presidente, tutto questo si trova su una pubblicazioncina che racconta quegli anni (probabilmente la posso recuperare, dal momento che fu venduta nelle edicole e nelle librerie; in essa si trovano racconti precisi di queste cose, fatti, all'epoca). Avemmo anzi - vorrei essere preciso nei ricordi - una iniziativa al Palazzo di giustizia di Roma, dove si arrivò ad avere 1800 pagine di atti preliminari. A quel tempo gli atti preliminari avevano il significato che non c'era nemmeno necessità di archiviazione, di niente. Ripeto: 1800 pagine. In quel periodo in tutte le nostre case - è inutile che vi racconto adesso tutti gli episodi, perché li abbiamo scritti - si entrava, si trovavano cose strane, avvenivano perquisizioni e cose di questo genere; quindi, furono anni un po' difficili. Contemporaneamente raccogliemmo in quegli anni almeno 400 - in quel periodo non esistevano gli avvisi di garanzia - processi (Giuliano e Aloisio Rendi, Gianfranco Spadaccía, Angelo Bandinelli e il sottoscritto) a vario titolo perché già allora, non essendo molto d'accordo con l’Ordine dei giornalisti e sul regime che si stava preparando, davamo la firma per la direzione responsabile di giornali nei confronti dei quali, per lo più, avevamo un senso di ribrezzo. Però è indubbio che vi furono molte centinaia di gruppi e gruppetti di Italia che poterono in quegli anni pubblicare i loro giornali, e credo che questo fu un servizio da noi reso in quegli anni...

PRESIDENTE. Mi sembra che i processi erano per violazione della legge sulla stampa.

PANNELLA. Sì, e naturalmente tutti quelli connessi, vilipendio e via discorrendo. Tuttavia, il fatto soprattutto era che in alcune sedi giudiziarie che ce ne erano 40, 50... Pensi che io di 300 e rotte azioni ne ho avuta una sola; avremmo dovuto essere tutti i giorni in Tribunale. A quel punto io ne ho avuto una in Cassazione - credo - per disattenzione comprensibile di quel martire che era il mio avvocato, o meglio i nostri avvocati (perché erano anche gli avvocati che noi prestavamo gratuitamente ai terroristi - preciso, non erano ancora terroristi - ai detenuti di destra oltre che di sinistra, dal momento che Almirante aveva vietato agli avvocati di destra di difendere i loro, se denunciati per la legge Scelba o per altre cose del genere, molto spesso si trattava dì questo); ebbi una pena pecuniaria, credo che non andammo in Cassazione, però per anni siamo stati giorno e notte a preparare un po' di difesa per questi processi; fu una esperienza un tantino più difficile di quanto non la ricordi adesso, quando tutto è passato. A proposito, signor Presidente, vorrei sapere se ha ricevuto gli atti che le doveva mandare la televisione riguardo ai telegiornali del giorno della strage di Milano.

PRESIDENTE. Sì.

PANNELLA. Bene, allora posso dire questo. Ricordo che il TG - credo quello delle ore 20.00 o delle ore 22.00 - che allora era l'unico che avevamo, fu la prima sede in cui si annunziò la prima perquisizione in via Lanzone 1, sede del partito radicale. A Milano, da mesi e mesi, avevamo una situazione di provocazione un po' costante. Certo, uno può sembrare mitomane; ma se vi raccontassi, in base ai miei ricordi, che fra Milano e Gorgonzola in una bella giornata - credo fosse il 11 agosto del 1967 - ho camminato per almeno 45 minuti avendo alla mia sinistra Calabresi e alla destra Pino Pinelli... Quest'ultimo mi rimproverò perché, seppure con garbo, dissi al commissario Calabresi che, se si metteva anche lui il cartello sandwich, avrebbe potuto continuare ad accompagnarmi, altrimenti, nonostante ne fossi felice, non avrebbe potuto. Pino Pinelli protestò, dicendomi che Calabresi era una bravissima persona. Valpreda, Mander, il Cobra e tutta questa gente, come tutto il movimento studentesco, avevano come sede a Roma la nostra (perché non volevamo che non l'avessero, anche se era gente che ci sputava addosso), che in cento persone pagavano. Si trovava a via XXIV Maggio n. 7. Quindi, abbiamo conosciuto tutti quelli della strage della Banca Nazionale dell'Agricoltura e, pertanto, siamo vissuti miracolosamente all'interno di questa vicenda conoscendo i personaggi, i vari riflessi, e conoscendo a Verona il procuratore Spadea - non so se è ancora vivo - che accusavamo essere un magistrato che tutelava (parlo sempre di cose ufficiali, pubblicate, denunciate), che proteggeva i picchiatori nazisti prima della Rosa dei Venti. Conoscevamo anche le zone e le altre questioni.

Vorrei tornare, ed essere rapido se possibile, a questo punto all'anno 1976, con questo patrimonio alle spalle. Abbiamo pagato con l'isolamento, rispetto a tutta la politica, il nostro attacco nei confronti dell'ENI e dell'AGIP, la nostra richiesta di verità. Lì sono venute fuori le cose più incredibili; lì rompemmo con il PSIUP e lì Maurizio Ferrara e Luigi Pintor possono ricordare che abbiamo avuto degli attacchi per queste provocazioni su "L'Unità"; e tanto per essere chiari, il 22 marzo del 1974 (il referendum è del 12 maggio) in seconda pagina siamo accusati di essere venduti a Fanfani perché vogliamo quel referendum che avrebbe impedito la legge Clarettoni e la legge Bozzi. E noi eravamo gli unici ad ostacolarla. Se non la si approva - queste cose sono scritte lì, ho rivisto quel corsivo - salta l'unificazione sindacale prevista a Firenze per luglio. E così cominciano: "venduti a Fanfani", "venduti ai provocatori fascisti". Tra l'altro era il momento in cui cominciavamo a dare gli avvocati nelle carceri, che poi erano pochi, Mellini, De Cataldo, quelli che avevamo, e comincia quindi una situazione di linciaggio. Non siamo d'accordo sulla legge Bartolomei, non siamo d'accordo con la Reale, ma da piccoli come eravamo, da fuori. Non siamo d'accordo con tutte queste leggi e cerchiamo di fare una battaglia contro quello che noi chiamavamo il degrado pericoloso del diritto, l'illusione efficientista. Arriviamo nel 1976 a fare queste battaglie e cominciamo a chiedere, all'inizio soprattutto a sinistra, cose su Gelli e sulla P2. Arriviamo molto rapidamente a episodi che sono quelli che nell'ordine vorrei citare e raccontare. Forse è meglio citarli, Presidente, perché non posso abusare del vostro tempo e vorrei molto che mi si interrogasse. Eravamo, credo, nel settembre 1977, in località Trevi, vicino a Foligno, dove andavamo a fare i nostri seminari mensili, i quattro parlamentari eletti, i quattro supplenti che avevamo, più tutto lo staff del Partito radicale. A un certo punto, mentre siamo riuniti, il direttore dell'albergo dice: "C'è qualcuno per lei al telefono, onorevole". "Sono il generale Mino". Non so se ho risposto: "Sì, e io sono mio nonno", o non so che cosa. "Sono il generale Mino. Sono all'uscita della bretella della superstrada. Onorevole, veramente ho urgenza di vederla". E’ un momento un po' brutto per noi il settembre 1977, perché siamo accusati di essere radical-fascisti, radical-terroristi, radical-comunisti, radical-brigatisti. E questo lo possiamo documentare.

FRAGALA’. Era il settembre 1977?

PANNELLA. Sì, settembre 1977. La data credo dovremmo andarla a prendere all'albergo o alla polizia o dagli atti parlamentari; un giorno o l'altro la ritroviamo ma comunque erano quei giorni. Franco De Cataldo con la sua macchina mi accompagna, perché glielo avevo chiesto: "Vediamo un po' di che cosa si tratta". Andiamo nel luogo dell'appuntamento, due o quattro chilometri più in là dell'albergo, e in effetti a un certo punto sul ciglio della strada con una macchina civile - che a me, che non mi intendo di macchine, sembrava una 1100, e che invece era poco di più - c'era, piccolo con due piccoli come lui, due carabinieri, il generale Mino. Io l'avevo conosciuto in un'altra occasione, una volta che stavo facendo uno sciopero della sete all'Hotel Minerva, venne un signore che mi disse: "Io sono il generale Mino". Lì gli avrò detto sicuramente: "Sì, e io non so che cosa sono", visto che era persona che non conoscevo. Mi disse: "Ho promesso a mia sorella di venirle a dire che lei deve bere". Succedono queste cose. Sono sceso dagli ultimi piani, le lavanderie, che mi ospitavano, e così conobbi Mino. Non l'avevo più visto, però quella volta stemmo a parlare due o tre ore e dissi molte cose.

PRESIDENTE. Quando vi incontraste nel settembre che cosa vi siete detti?

PANNELLA. Appunto: arrivammo, scendemmo e mi disse: "Come sta? Onorevole, attraversiamo. Non voglio parlare nemmeno vicino alla macchina; sa, può darsi che pure la macchina abbia orecchie". Siamo andati dall'altra parte e mi ha detto: "Senta, onorevole, c'entra sempre mia sorella... No, scherzo", ha aggiunto. "Che cosa c'è?", ho chiesto. "Sono venuto a supplicarla, onorevole, di accettare immediatamente una scorta, e una scorta di carabinieri". "No, lei è gentile, è bravo", ma pensavo: "Ma guarda un po', questo è il Comandante generale dell'Arma e intanto viene all'Hotel Minerva a riferirmi che la sorella gli ha chiesto di dirmi che devo bere". E poi avevamo parlato di tutto, di Giorgiana Masi e di molte cose; lui dimostrò, quando venne, di essere molto al corrente di tutte le cose che stavamo facendo, ed erano tante in quel momento in Parlamento e fuori. Certo, aveva ben presenti anche la storia della P2 e altre cose. Disse: "Senta, lei lo deve fare. Non posso dirle molto di più. Ma lei ha tempo?". "Sì, ho tempo". Pregai De Cataldo di andare a tranquillizzare gli altri compagni, perché non avevamo certo i telefonini; e lui -dopo aver spiegato agli altri che era vero che ero stato chiamato - ritornò e siamo restati. Il generale mi disse: "Guardi, onorevole, io la capisco, la conosco però - vede - ieri ho giurato a me stesso e ho dato anche ordini e disposizioni che non userò più l'elicottero per qualsiasi ragione". Quale era il nesso? "E’ per dirle che se io prendo per me una decisione di questo genere, per gli stessi motivi le chiedo di accettare la scorta. Io l'ho fatto; lo faccia anche lei. Le voglio poi dire altre cose poiché ci siamo visti. Innanzi tutto ho presentato al Ministro - posso dirlo, non è un segreto - due proposte di riforma dell'Arma: una con il mio parere favorevole, un'altra, succinta, con il mio parere rispettosamente sfavorevole". La prima riguardava l'operazione di ammodernamento, ma di ricambio anche, dei quadri dirigenti dell'Arma; l'altra era la nostra proposta di disarmo dell'Arma. Infatti, c'era allora il disarmo della Polizia e la nostra posizione era favorevole anche ad un disarmo della Finanza e dei Carabinieri. Mi disse: "Ho presentato anche questa, però con un parere sfavorevole perché riteniamo che non si possa fare. Questo per dirle come siamo attenti. Sa, i ragazzi, le truppe" - e chi conosceva il generale Mino sa che aveva sempre il punto di riferimento dei carabinieri di base - "le vogliono molto bene, queste cose le capiscono. Noi sappiamo che lei lo fa per loro". In terzo luogo mi disse: "Guardi, onorevole, se le dico di prendere la scorta mi deve ascoltare. In più ci rivedremo tra due settimane, perché purtroppo nella questione relativa a Giorgiana Masi ho dovuto constatare che lei ha e ha avuto ragione". Continuò: "Non mi dica di no. Io devo tornare a Roma. Non ho nemmeno detto che sono venuto qui. Guardi, comunque tutti quelli a novembre vanno via", e qui intendeva sicuramente tutti i generali a lui ostili di cui avevamo parlato, probabilmente Ferrara. Mi disse "tutti quelli" come se io li avessi ben presenti; è chiaro che tendeva a presentare se stesso come un generale repubblicano (usava questo termine, "un generale repubblicano") e un generale fedele, leale. Questo, torno a dirlo, avveniva il 15 o il 18 settembre. Come è noto, il generale Mino muore il successivo 31 ottobre, quindi circa 45 giorni dopo, durante un volo in elicottero. Io, appena lo venni a sapere - e non ricordo se era in corso una seduta dell'Aula a Montecitorio o se mi trovavo in Commissione - presi subito la parola e raccontai quanto vi sto dicendo adesso, come risulta dagli atti parlamentari. Lo dissi anche nel corso di tribune politiche in televisione, ma nessuno mi rispose. Dopodiché, al funerale del generale Mino a Santa Maria degli Angeli - dico francamente che rimasi stupito che venisse fatto in chiesa perché lui, per come si presentava, ero un massone, un po' ingenuo e simpatico: faceva degli ammiccamenti ed altre cose che trovavo anche un tantino demodé - ricordo che quando arrivai c'erano alcune persone che mi guardavano un po' male, ma vidi venirmi incontro un amico, anche lui carabiniere, l'allora capitano Varisco, che come sappiamo dopo due anni venne assassinato anche lui (anche sul suo conto potrei raccontare alcune cose, ma lasciamo perdere), che mi ringraziò e mi disse che non potevo mancare e che lui non era sorpreso anche se un po' commosso, come lo ero anche io. Mi invitò a entrare in chiesa ma io risposi di no anche perché avevo individuato alcuni di quegli alti ufficiali dei quali non godevo sicuramente la simpatia e che sicuramente non godevano nemmeno la mia fiducia. Quindi rimasi fuori e non entrai per la cerimonia; venni poi a sapere che girava voce che c'era un parlamentare che raccontava a Radio Radicale - che già esisteva e faceva le dirette dal Parlamento - queste cose. Io mi precipitai ad Otranto, Mantova e Lecce, a far presente questa situazione. Poi dopo venne fuori che - se non vado errato - era il generale Ferrara a condurre l’inchiesta. Io non venni chiamato per l'inchiesta amministrativa, per quella del generale Ferrara, per l'inchiesta politica e nemmeno dalle Commissioni: niente, zero. Ma erano allora gli americani o i russi? O la partitocrazia? O un regime? Andiamo oltre. Ho sempre parlato dell'assassinio del comandante generale dell'Arma dei carabinieri; sono quindi esattamente vent'anni e due mesi che lo faccio. Oggi c'è la vostra Commissione, a seguito dell'iniziativa della Presidenza, e in questa occasione posso raccontare per la centesima volta questa cosa. Io l'ho detta ai primi di novembre del 1977 in Parlamento - è agli atti - nonché alla radio ed ai congressi. Mi si diceva: "Ma come, tu sei il radicale amico del comandante generale e vai a dire queste cose?". Forse, signor presidente, l'interrogativo è: perché? Per il resto la spiegazione può essere magari la più banale. Certo, sono strano e siamo sempre stati strani, ma forse anche un tantino attendibili per quanto riguarda le cose che raccontiamo, matti o non matti: oggi è la prima volta che abbiamo l'onore di poter parlare di questo argomento. Di questi errori, però, ve ne sono stati molti altri.

PRESIDENTE. Dove cade l'elicottero del generale Mino?

PANNELLA. In Calabria, a Monte Covello; l'onorevole Fragalà conosce molto bene la vicenda da questo punto di vista, anche meglio di me, perché credo che sull'elicottero si trovasse suo suocero, anche lui deceduto a seguito dell'incidente. Per cui io mi sono trovato, radicale, antimilitarista, eccetera, ad essere l'unico che continuava a dire: "ma c'era un comandante generale dell'Arma dei carabinieri su quell'elicottero ... ". Io l'ho detto ovviamente a quelli che erano i miei amici.

PRESIDENTE. Quale autorità giudiziaria svolge l'inchiesta?

FRAGALA’. Quella di Catanzaro ed archivia l'istruttoria sommaria nel giro di due mesi. Poi c'è l'inchiesta dell'Aeronautica.

PANNELLA. E poi c'è l'inchiesta amministrativa che viene affidata al generale Ferrara. Ma di cosa stiamo parlando? Io ho sentito su Radio Radicale dei generali dei Carabinieri - mi sembra si trattasse del Capo di stato maggiore - che dicevano che siccome il generale Mino era della P2 - e parlo di sicuro di atti parlamentari perché si trattava di una diretta dalle Commissioni - loro si riunivano per vanificare gli ordini del Comandante generale, riferendone al generale Ferrara, e che erano riuniti insieme per difendere la Repubblica contro il golpismo del generale Mino.

C'è un'altra cosa che riguarda la relazione ed è importantissima. Si tratta di una frase, là dove essa afferma che per quanto riguarda il caso D'Urso la salvezza di D'Urso è l'unica vittoria delle BR nei confronti dello Stato. C’è un libro che Leonardo Sciascia, "rompendomi l'anima", volle che facessi, perché era una battaglia incredibile con dei dati incredibili: "La pelle del D'Urso". All'inizio del 1980 ho l'onore di alcune citazioni sulla stampa nazionale ed è per una polemica che anche il "Corriere della Sera" apre nei miei confronti, perché io all'inizio degli anni ‘80 avevo denunciato che mai i giornali avevano pubblicato in vent'anni una mozione di un congresso del partito comunista o di un mio congresso nonviolento annuale; pubblicavano invece dalla A alla Z le risoluzioni strategiche di quei pezzenti che mandavano quelle cose sul SIM (Stato imperialista delle multinazionali) e non so che altro. Al che, da giornalista e da politico dissi: no, metterle in prima, seconda, terza, quinta pagina, in cronaca nera eccetera, questo è un invito all'assassinio. Cioè, se io che faccio politica terroristica so che la regola che viene fissata dalla stampa è che se io ammazzo qualcuno - di tutto ciò ne troverete traccia sul "Corriere della Sera" e anche su "Il Messaggero" - e sopra il cadavere scrivo "risoluzione strategica numero tot", ciò è intollerabile, è propaganda. E’ istigazione ad assassinare la gente. E la magistratura cosa fa? Non era mai successo; nel riferire di un grande congresso si dava il nominativo di chi era stato eletto ma non il testo della mozione conclusiva, ad esempio quella con cui si concludeva il congresso del partito repubblicano o del partito comunista. E quindi nacque questa polemica. Come si può vedere agevolmente, si trattava di una polemica di noi radicali, di noi nonviolenti. Da parte del "Corriere della Sera" e di "Repubblica" si rispondeva che Pannella voleva la censura. E la cosa si liquida così. Arriviamo al 12 dicembre del 1980, quando viene sequestrato il magistrato D'Urso. La nostra riflessione è: stiamo a vedere cosa succede. Il 12 dicembre le Brigate rosse rapiscono D'Urso; il 13 dicembre fanno trovare il comunicato n. 1, che viene pubblicato dai giornali; il 14 dicembre vi sono i primi appelli di Leo Valiani e Pecchioli contro ogni cedimento e trattativa; poi il 15 dicembre le Br fanno trovare il comunicato n. 2, dicono che D'Urso collabora, che sta bene, che il ruolo da lui svolto nelle carceri è stato quello che è stato e chiedono che si pubblichino i loro comunicati, il che avviene ancora; il 16 dicembre Rognoni, ministro dell'interno, dice che si farà il possibile per salvare, compatibilmente con le leggi, la vita di D'Urso; il 18 dicembre vi è il comunicato n. 3 delle Br che chiede la chiusura immediata dell'Asinara, richiesta già avanzata precedentemente. Il generale Dalla Chiesa ricorda che già dal mese di luglio aveva formulato la richiesta di chiudere d'urgenza il carcere dell'Asinara perché c'erano molti inconvenienti in relazione alla sicurezza. Il PSI aveva avuto una posizione che veniva confusa con la nostra per la trattativa sul sequestro Moro: ma noi volevamo il dialogo per guadagnare tempo e lo dicevamo anche ufficialmente. Ho un incontro con Bettino Craxi, durante il quale dico che la chiusura dell'Asinara la chiedevamo da un anno. Craxi dice che il generale Dalla Chiesa lo aveva chiamato per dire che a quel punto non è che non si chiudeva l'Asinara perché lo avevano chiesto le Br, la chiusura era prevista comunque entro il 31 dicembre; credo che di questo si fosse occupato anche il senatore Gualtieri. Il 20 dicembre mando una lettera indirizzata ai "compagni assassini", che viene pubblicata il 23 dicembre su "Lotta continua". Secondo la tesi ufficiale erano fascisti e provocatori; io ho sempre detto che probabilmente si trattava di compagni assassini. I compagni si arrabbiano un "pochettino" perché chiamati assassini, magari un "pochettino" si arrabbiano gli assassini perché vengono chiamati compagni. Comunque dico subito di dialogare.

PRESIDENTE. L'idea che non erano compagni era un po' caduta allora; quella era in parte la lettura iniziale del fenomeno delle Brigate rosse; ma già all'epoca del sequestro Moro era un po' caduta.

PANNELLA. Nell'aprile 1979 per la prima volta parlo di "compagni assassini" all'Università durante il nostro congresso. Per questa affermazione si scatenò una grande reazione. Si trattava di non tanto tempo prima! Insieme a tutti i nostri Gruppi parlamentari (Leonardo Sciascia devo dire che non dormì per molte notti e giorni) apro l'iniziativa, perché questa volta D'Urso bisognava salvarlo e allora, giorno e notte, a Radio Radicale la domanda era: "voi che siete le mogli o i mariti di brigatisti, come potete immaginare di compiere un'azione così selvaggia e così sporca?" Si continuava molto a parlare sulla stampa e qui arriviamo al clou della situazione: il 27 o il 28 dicembre, dopo quella canea sul fatto che non bisognava chiudere l'Asinara (torno a dire che Dalla Chiesa se ne occupò molto in quei giorni) il Governo comunica che il 26 dicembre si era proceduto a compiere le ultime operazioni per la chiusura dell'Asinara, con un comunicato ufficiale. Devo dire che ricevetti non so dove una telefonata di Bettino Craxi che mi disse che era stato fatto questo, ma di non chiedergli più nulla perché saremmo stati linciati come pazzi. Io ebbi immensa riconoscenza per quel che aveva fatto: sapevo che gli era e gli sarebbe costato molto caro. Io ebbi grande riconoscenza perché per me non era un cedimento, non era fare un regalo alle Br: era cosa che doveva essere fatta; siccome loro l'avevano posta come condizione per non ammazzare D'Urso, non si sarebbe realizzata, magari per far vedere che erano importanti. E quindi per un po' di tempo riteniamo di essere completamente soli, Craxi stesso ce lo aveva detto. In realtà eravamo soli insieme al partito dei magistrati che di destra, di sinistra o di centro esercitavano fermezza, ma come la nostra, non l'altra, quella che io chiamavo della rigidità cadaverica; e poi noi non volevamo trattare un bel nulla. A questo punto avviene una cosa strana. D'un tratto si stabilisce che ci vuole il black out; la linea dei giornali e della politica è: black out. Abbiamo detto che c'era stato uno scontro durante l'anno perché invece allora la linea era di pubblicare i documenti delle Br. In quei giorni è accaduto qualcosa che a mio avviso dovrebbe essere in qualche misura ricordato: perché il black out, quando le Br chiedono che venga pubblicato un comunicato? La regola che era stata fissata dalla stampa e dai partiti italiani era che i loro comunicati fossero pubblicati, contro la nostra opinione. Ad un certo punto su "L'Espresso" e in prima pagina di "La Repubblica", durante il black out, viene pubblicata l'intervista al magistrato D'Urso. Qualche magistrato - essendo tale D'Urso - probabilmente ha un senso di dignità e a questo punto Scialoja viene arrestato a Ortisci, dove era col suo direttore, e anche Buldrini - mi pare - perché sono loro che hanno visto il terrorista intervistatore. Quindi viene intervistato D'Urso, l'intervista viene pubblicata in prima pagina, pertanto il black out non vale più. A questo punto le Br rimettono le decisioni ai "terroristi" nelle carceri. Immediatamente uno di noi, Pinto (era già dei nostri) va a Trani, io mi accingo ad andare a Palmi con De Cataldo ed altri ma nel frattempo, il 31 dicembre, ammazzano Galvaligi. La risposta dalle carceri non veniva, o Senzani non si è sentito di prendere la decisione di ammazzare D'Urso; stavamo aspettando; pongono questa condizione di pubblicare l'altro comunicato, ma ammazzano Galvaligi.

Non so se il 27 o il 28 dicembre, all'Accademia di San Luca, il presidente Pertini consegna un premio a Bruno Visentini e gli dice - la battuta viene ripresa da tutti i giornali - non è ancora l'incarico... Perché? Perché tutti sapevamo che era deciso, che con l'arrivo del cadavere di D'Urso ci sarebbe stato il Governo dei capaci e degli onesti, con Bruno Visentini (ne avevamo parlato anche a Strasburgo) che sarebbe stato il Presidente dei capaci e degli onesti. La battuta di Pertini a Piazza Accademia di San Luca è: "non è ancora l'incarico", e i giornali la riprendono. Quindi, deve arrivare il cadavere. Ora, non sto ad entrare nei particolari, noi siamo andati in tutte le carceri, a Palmi, a Trani, siamo riusciti piano piano - licenziano il direttore de "Il Lavoro" di Genova, Zincorre, perché pubblica una prima cosa, poi pubblica qualcosa Emiliani de "Il Messaggero", ma intanto abbiamo Radio Radicale. Dove vinciamo è quando, avendo noi a disposizione in Tv un flash di cinque minuti, mi pare, noi, come partito radicale, portiamo a parlare la figlia di D'Urso. Noi avevamo anche detto a Radio Radicale: se lei parla lì ci saranno sette milioni di ascoltatori - non era vero perché l'orario era un altro - quindi voi assassini non potete più ammazzare perché ... in realtà non ci sono 7 milioni di lettori dei quotidiani e quindi dovete ... quindi era una lotta, con Leonardo Sciascia che fa tre appelli; il primo viene firmato da Eleonora Moro, dalla vedova Tobagi, da Sciascia, appunto, che è importante, e non mi ricordo da chi altro. Moltissimi magistrati firmano questo appello perché si consenta di pubblicare quello che le Br chiedono in modo da liberare D'Urso. Niente. Quelli allora il 31 ammazzano Galvaligi - che poi era un bel generale; D'Urso era bruttarello - , un bel generale; fu un'emozione immensa, e molti pensano: ecco, è fatto, a questo punto non si aspetta l'assassinio di D'Urso, ma l'incarico a Bruno Visentini viene dato subito.

PRESIDENTE. Allora chi era Presidente del Consiglio?

PANNELLA. In quel momento era Presidente Andreotti, o Cossiga; sì, Cossiga, era il 1980.

FRAGALA’. Cossiga, 1980.

PANNELLA. Il 2 o il 3 su "La Repubblica" c'è un primo attacco a Pertini. Si dice: beh!, cosa si aspetta? Dinanzi a questo fatto occorrono misure diverse e straordinarie. Il fatto è che girando come pazzi dappertutto, ecco, Radio Radicale (a cui veniva attribuito un ascolto notturno di 2 o 3 milioni di persone, pur coprendo un'area del 70 per cento del territorio), incalzando con una polemica feroce ("come fate, siete peggio di coloro che voi denunciate, eccetera", tutto questo nelle trasmissioni) arriviamo ad un momento in cui il 13 gennaio (non dico quello che non ha fatto Leonardo Sciascia in quei giorni) ... no, è il 15 gennaio. Il 13 gennaio va in televisione Lorena D'Urso; a questo punto sono accusato di avere costretto la figlia di D'Urso a leggere nel tempo concesso al partito radicale - ne avevamo poco assai - il comunicato delle Br. Invece lei non mi aveva ascoltato (oggi lo posso dire, allora mi sono rifiutato per un minimo di fierezza di dirlo: gli ho detto "ma no", e lei invece no, questi chiedono che si legga, che si pubblichi) e quindi aveva letto una frase nella quale loro dicevano "il boia D'Urso"; lei lo aveva scelto, Lorena; e su "La Repubblica" e dappertutto "Pannella costringe alla televisione la figlia di D'Urso a chiamare boia il padre", eccetera. Il 15 gennaio quello che non ci era riuscito con Moro è riuscito con D'Urso; e non c'era stata nessuna trattativa, zero, perché tutti i partiti ufficialmente erano contro e aveva funzionato. A questo punto però – è quello di cui vorrei si prendesse...- ci sono degli articoli che... a questo punto "La Repubblica" pubblica l'articolo di Scalfari con il quale praticamente si chiede l'impeachment del presidente Pertini; è un articolo, potete vederlo, insultante. Poi vi sono articoli di Di Bella e di altri, e interviste da cui risulta ufficialmente che il Governo Visentini avrebbe dovuto avere come ministri Paietta e Pecchioli, Di Bella, quelli che io chiamai allora "Pci, P38, P2 e P-Scalfari". Questo era il Ministero che era pronto, dei "capaci e degli onesti". I capaci e gli onesti c'erano: Bruno Visentini avrebbe presieduto questa baracca. Per la verità, devo aggiungere che in quei giorni, in una casa romana della quale dissi all'epoca di chi era, a chi apparteneva e dove - perché queste cose le ho subito dette - essendo presente Baffi, essendo presente Toncarini, essendo presenti un po’ di persone che sanno bene questa cosa (vero, Gualtieri?), si tentò di convincere Malagodi, che era l'ultimo resistente, ad accettare questo Governo con i comunisti e, devo dire, con la P2. Malagodi...

PRESIDENTE, Chi erano i Ministri piduisti?

PANNELLA. Non c'è che l'imbarazzo della scelta, nel senso che si parlava di tre o quattro generali che erano tutti della P2...

CORSINI. Che sarebbero entrati al Governo; in un Governo con Pecchioli...

PANNELLA. Certo! Ma quelle cose, voglio dire, sono gli articoli sui giornali di allora, in quel momento; Di Bella addirittura, pur non essendo un radicale, disse che dovevano venire fuori in fondo dei Ministri - mi pare - "con le palle"; non questi, ma non so chi. C'era una vicenda, in quegli anni, favolosa: il cosiddetto "emendamento ammazzadebiti", di cui Gelli garantì il funzionamento, che salvò tutti gli editori italiani; gli unici oppositori siamo stati noi, non "Il Manifesto" e non altri.

CORSINI. Sta dicendo che per il Banco Ambrosiano, i giornali…

PANNELLA. No ... ma anche quelli, a parte tutto quanto. La società immobiliare proprietaria di Botteghe Oscure che ha una fidejussione o 28 miliardi, e non è la vicenda "Paese Sera" con cui si confonde. Quindi da quel punto di vista credo che bisognerebbe... sono fatti, io non ve li racconto perché sono scritti negli atti parlamentari. Volevo dire solo che a questo punto questa gente... queste sono le cose che abbiamo letto. Un mese dopo, l'anello debole di questo schieramento paga: non è andato al potere, non è andato al Governo, non c'è stato il Governo, il Governo dei capaci e degli onesti; Malagodi era l'unico che non faceva parte, che non aveva accettato, ma avrebbe subìto (su questo erano tutti d'accordo) per il bene della patria perché sennò non era possibile, anche sul cadavere di ... ; e a questo punto, guarda caso, c'è Castiglion Fibocchi. Lo stesso signore, Senzani, a cui va male tutta questa operazione a Roma si trasferisce a Napoli e impianta il caso Cirillo con le stesse caratteristiche. Ci rientriamo di mezzo noi, di nuovo la televisione, ma in quel tentativo la strategia era di ristrutturare la partitocrazia facendo fuori la DC in definitiva, (non se ne sono mai accorti i DC; uno ci sarebbe restato, non si sa quale), di ristrutturare, rilanciare il sistema, il regime, ripulito, capace, onesto, con la P2 che era costituita, come mi è stato detto, da moltissimi patrioti: un po’ scemi, magari, io ci credo che c'erano anche molti patrioti scemi; era vero, c'erano anche questi; poi però c'erano dei ladri, c'erano dei malfattori, c'erano dei putchisti, c'erano dei lealisti; ho conosciuto dei magistrati che erano stati iscritti dal nonno, dal prozio come premio al momento della laurea, essendo da quattro generazioni iscritti alla P2...

CORSINI. Può tornare indietro un attimo? Non ho capito la vicenda, il ruolo di Senzani.

PANNELLA. Senzani, che era quello che ha fatto tutta l'operazione…

PRESIDENTE. E’ quello che rapisce D'Urso.

PANNELLA. ...da lì se ne va giù e ricomincia esattamente tutta l'operazione: sul terremoto, sulle decine di migliaia di miliardi, con una vicenda di strage che - se il Presidente e loro vorranno... - è quasi sconosciuta - ma qui il termine strage è proprio - che vede non un generale, ma uno dei testimoni, di coloro che conoscono un po' le vicende Cirillo, ammazzato, e finisce con un medico, Vicini, ammazzato anche quello e con - come dice Sciascia - tutti i tribunali napoletani che di volta in volta trovavano una questione di lana caprina per giustificare degli assassini, e io sono testimone di una cosa, che viene assassinato un medico, Vicini, che probabilmente aveva a che vedere con ambienti golpisti ma anche camorristi. Dichiaro alla magistratura che lo conoscevo perché un procuratore della Repubblica e un giudice istruttore campani me lo avevano presentato, me lo portavano sempre e via dicendo. Il magistrato a cui ho raccontato a verbale queste cose non ha mai ascoltato, nemmeno una volta, i magistrati in questione sulla vicenda per cui il medico finisce ammazzato.

PRESIDENTE. Lei quindi ritiene che nella vicenda D'Urso la strategia della fermezza era dettata da un fine politico, non coincidente col fine istituzionale della tenuta dello Stato, e tendesse a sostituire il Governo Cossiga con questo Governo P2, P38, eccetera.

PANNELLA. Molti erano in buona fede.

PRESIDENTE. Quello che vorrei capire è perché la liberazione di D'Urso in questa logica, nella sua prospettiva, diventa una sconfitta delle Brigate rosse, perché è da quello che siamo partiti. Io ho detto che nel caso D'Urso le Brigate rosse segnano un colpo nei confronti dello Stato. Perché invece lei ne dà una lettura diversa? Perché vengono sconfitte? E’ questo che non riesco a capire.

PANNELLA. Vengono sconfitte perché credo che Senzani fosse lucido e che sapesse che lì c'era dall'altra parte una sorta di golpe di Stato. Credo che i brigatisti rossi non amassero né Leonardo Sciascia né le componenti liberali, democratiche, del nostro paese.

PRESIDENTE. Le Brigate Rosse salvano questo Stato dalla tremenda sventura di sostituire Cossiga con Visentini. Alla fine questo era. All'epoca io non facevo politica, ma tutto sommato la sostituzione di Cossiga con Visentini non mi sarebbe dispiaciuta come italiano.

PANNELLA. Le Brigate Rosse erano politicamente e militarmente mediocri. Era Senzani che doveva decidere questa vicenda. Senzani ha avuto forza perché nessuno lo ha denunciato. Ci potevano essere giornalisti e altri, con Galvaligi che veniva ammazzato e non si trovava chi lo aveva ucciso. Erano sempre loro, ma in quei giorni - altro che caso Moro - sì poteva trovare D'Urso come volevano. E’ un'azienda editoriale autorevole quella che ha pubblicato questa roba, e che sapeva chi teneva D'Urso; o no? Era un anno e mezzo che De Benedetti lealmente scriveva su "la Repubblica", e io - tranne che nelle conclusioni - ero d'accordo con lui che di fronte al debito pubblico ignorato dalla politica - ed erano dei pazzi ad ignorarlo - occorreva - era qui che io non lo seguivo - un anno, un anno e mezzo di commissariamento della Repubblica. Crede che Bruno Visentini non fosse in buona fede? Ne ho parlato anche: probabilmente non si rendeva nemmeno conto dì quanto era potuto divenire incredibile il background di tutta quella situazione. Era tutta gente per bene. Mi faccia comprendere allora la domanda, Presidente: cioè o lei presta davvero alle Brigate Rosse un'intelligenza politica forte, una strategia, il fatto che loro sono riusciti a controllare una situazione, nella quale De Cataldo ed io stavamo a Palmi con Franceschini...

PRESIDENTE. Capisco perché lei ritenga che sia sbagliato dire che quella è stata una vittoria delle Brigate Rosse, però, dal suo punto di vista, non capisco perché sia stata una vittoria dello Stato. Può essere stata una vittoria umanitaria.

PANNELLA. Ho una certa tendenza a ritenere che lo Stato non sia uno Stato etico, il partito non sia un partito etico. Abbiamo salvato una vita e questo era importante. Abbiamo costretto le Brigate rosse a salvarla.

PRESIDENTE. Questo lo capisco: era una vittoria umanitaria.

PANNELLA. No, era una vittoria politica, perché abbiamo impedito loro di giustiziarlo. Dovevate sentire in quell'Italia notturna le centinaia di migliaia di persone dire: io sono di sinistra, sono brigatista, sono anche altro. "Non ci possono provare; non lo facciano". Si poteva fare altrettanto con Moro? Ci arriveremo.

PRESIDENTE. Praticamente li isolavate nell'acqua in cui navigavano.

PANNELLA. Si muovevano come pesci nell'acqua perché l'acqua gliela davano. Questa è la nostra tesi.

PRESIDENTE. Questa, per la verità, è pure la tesi della relazione. E’ un po' sconfessata e sono stato chiamato "mascalzone politico" in quest'aula.

PANNELLA. Si prepari a peggio, Presidente, se scava. A mio avviso, in termini tecnici - per carità, non morali - c'è stata una situazione di sospensione della legalità e quasi di gestione golpista della vicenda Moro. Noi, come Parlamento, siamo stati esclusi, ufficialmente, dai nostri poteri-doveri di indirizzo. Ufficialmente. Il Presidente della Camera, un personaggio sappiamo quanto nobile, comunica a tutti gli altri Gruppi parlamentari il testo della lettera del collega Moro che chiede di riunirci, ma al Presidente del Gruppo Radicale dice invece che la lettera la darà all'autorità giudiziaria. Questo perché non si fida, a noi non la vogliono far leggere. Io non l'ho letta.

PRESIDENTE. Qui, nella scorsa riunione, il senatore Gualtieri osservò giustamente che anche la magistratura e la polizia giudiziaria furono in realtà espropriate della gestione del sequestro Moro, che fu affidata a singolari comitati di crisi.

PANNELLA. Questi erano comitati di crisi "americani", così "americani" che, quando beccano Dozier, in ventiquattro ore trovano un imbecille, Savasta il terrorista, che è peggio di un computer, che tiene in memoria qualcosa come trentamila indirizzi, telefoni, nomi e cognomi. E li tira fuori tutti in un momento. Probabilmente le cose vanno un po' riviste. Il Presidente ha avuto la bontà di ricordare che io tenevo comizi contro D'Amato, in Piazza del Parlamento. Anche uno di noi poteva sapere queste cose e chiamare in causa D'Amato, denunciare che lo avevano trasferito alla Polizia delle frontiere, così che quelli potevano scappare meglio. Non siamo mai stati chiamati a rispondere, né in sede giudiziaria né in sede parlamentare. La questione qual è? Avviene Castiglion Fibocchi e lì scoppia tutto. Abbiamo il Segretario generale del Partito comunista, Enrico Berlinguer, che il 10 gennaio 1984, pochi mesi prima di morire, quando finalmente si riesce ad ottenere che i segretari dei partiti vadano a raccontare qualche cosa dalla signora Anselmi, dice testualmente che lui non aveva saputo nulla di Gelli e della P2 fino al ritrovamento di Castiglian Fibocchi. Dopo, perché il collega Bellocchio insiste un po', aggiunge: "Tranne le cose che si leggevano sui giornali". Questo a gennaio 1984. Di venti miliardi per "Paese Sera", di venti miliardi per Botteghe oscure, dei contatti di Minnucci e di Pecchioli dice che sono tutte cose di cui con lui non parlavano. E’ possibile? E’ possibile che il Segretario generale del Partito comunista non sapesse nulla di tutto questo? E possibile, ma non mi pare probabile. Sulla gestione di quel caso non abbiamo potuto tenere un solo dibattito alla Camera. Diciamola tutta: in Transatlantico, non in un angolino, all'arrivo della prima lettera del collega Moro, dinanzi a quaranta parlamentari, giornalisti, eccetera, mi scontro con un carissimo amico che adesso non c'è più, Antonello Trombadori. Quando affrontiamo l'argomento - sono tutte cose già dette e raccontate in sede parlamentare e quindi possiamo controllare se la mia memoria è fedele - mi dice: "Ma come, decine di migliaia di contadini analfabeti hanno taciuto davanti alle torture dei tedeschi e questo qui già molla? Se esce, se si salva, è la sua fine". Da quel momento noi usiamo la carta opposta e dichiariamo che un uomo che sa scrivere queste cose è tale per cui, quando sarà libero, diventerà candidato alla Presidenza della Repubblica: questo è stato detto da noi radicali nell'azione per salvarlo, per valorizzarlo, per non farlo ammazzare, per dare tempo di approntare delle direttive. Insomma, signor Presidente, andiamo a rileggere gli atti della Commissione famosa su questa materia: è la Commissione per la quale noi abbiamo gridato in Aula e dappertutto che il Parlamento italiano ha stabilito che lo spiritismo è una scienza esatta ed accettabile! Ma è una cosa da poco la questione di Prodi e la questione di Andreotti? Il Parlamento ha avuto questo coraggio e a gridarlo, siamo stati noi gli unici in Aula, dappertutto. Quindi, mai far parte di una Commissione di inchiesta se non proprio quando i conti vengono fuori! Di che cosa è fatta la nostra sconfitta, il nostro isolamento di anni? Dal 1963 (la vicenda ENI e così via), mano a mano andate a vedere tutti i passaggi, il 1974, il 1976...

PRESIDENTE. Però io credo che, tutto sommato, tutte queste questioni, l'ENI, l'AGIP, il suo allarme sulla P2 e il fatto che fosse poco credibile che questa struttura non fosse conosciuta nel mondo della politica dopo che lei aveva preso posizioni pubbliche, eccetera...

PANNELLA. Non solo io.

PRESIDENTE. ...siano tutte cose che lei alla Commissione Anselmi ha già detto: ci sono gli atti di una sua audizione.

PANNELLA. Io ho avuto 14 anni fa l'unica opportunità di parlarne e in quel caso, infatti, l'indomani non ci fu un solo giornale a riferirne, non ci fu un solo dibattito; non ho avuto risposta, mai.

PRESIDENTE. Forse avverrà anche domani, visto che noi le sedute le teniamo di notte.

PANNELLA. Certo, la seduta si tiene di notte, ma poi, per carità...

FRAGALA’. C'è Radio radicale.

PANNELLA. Per sbaglio!

PRESIDENTE. Beh, la stiamo difendendo.

PANNELLA. Credo che ce ne sarà molto bisogno, signor Presidente, proprio nei giorni prossimi.

PRESIDENTE. Ha finito la sua esposizione?

PANNELLA. Sì, chiedo scusa se il mio intervento è stato troppo lungo.

PRESIDENTE. Voglio dire, per chiudere, che io ho sempre trovato poco convincente la conclusione della Commissione Anselmi sulla P2. Secondo me è difficile pensare che una vicenda di quelle dimensioni possa essere liquidata...

PANNELLA. Quella dell'assassinio Moro non mi sembra.

PRESIDENTE. Su quello però non sono molto d'accordo con lei, non mi sembra che la Commissione Moro, nemmeno nella relazione di maggioranza, dichiari di credere allo spiritismo: in realtà a quella vicenda dello spiritismo non ci ha creduto mai nessuno.

PANNELLA. Ma allora, scusi, c'è un Parlamento che dice che la questione di via Gradoli l'ha saputa per quel motivo e non si ha nulla da dire? L'abbiamo votata la mozione...

PRESIDENTE. La Commissione li ha interrogati tutti i partecipanti a quella seduta. La verità è che non si riesce a capire chi, di tutti i partecipanti alla seduta spiritica, fosse in possesso del segreto, questo è il vero problema. Anche noi ce ne stiamo occupando, avrà visto che io personalmente, nella mia relazione, riprendendo una valutazione abbastanza generale, ho detto che non è una storia credibile e che probabilmente era una voce filtrata dagli ambienti dell'Autonomia che era arrivata per vie universitarie fino a Bologna. Che poi è più o meno la stessa frase che qui ci ha ripetuto Andreotti.

DE LUCA Athos. Intanto penso che questa audizione di Marco Pannella sia importante perché il suo è un punto di osservazione diverso; noi abbiamo visto scorrere, nelle audizioni, i potenti di allora, mentre questa volta abbiamo sì un potente, che però stava dall'altra parte e che già allora, così come abbiamo sentito, denunciava alcuni personaggi che abbiamo anche audito di recente. Quindi il suo è un punto di osservazione del tutto originale che credo sia stato bene cogliere per avere una visione completa di quegli anni. Io prenderò spunto solo da una vicenda che ho vissuto quasi direttamente: quel giorno non ero a Roma, ma rimasi molto impressionato dalla dinamica, dal dopo, dal comportamento in quegli anni e in quel momento di personaggi che poi abbiamo ascoltato qui.

PANNELLA. Credo che lei avesse già sentito preannunciare quel pomeriggio da quattro giorni.

DE LUCA Athos. Esatto: mi riferisco (non so se abbia già intuito, onorevole Pannella) a Giorgiana Masi, a cosa successe in quelle ore, in quei giorni. Ecco, vorrei che Marco Pannella, prendendo spunto da quell'episodio, ridisegnasse, desse la sua versione della situazione di allora, le conclusioni politiche che possiamo trarre da quell'episodio di cui fu protagonista un personaggio che ancora oggi è alla ribalta (in questi giorni sta costruendo il nuovo centro): mi riferisco all'allora ministro dell'interno Cossiga. Io ricordo che vidi in quei giorni anche il filmato che il Partito radicale allora proiettò nelle sedi di tutta Italia, in cui si vedevano i poliziotti travestiti in qualche modo, come agenti provocatori, con le armi che da dietro le colonne sparavano...

PANNELLA. L'agente Santoni.

DE LUCA Athos. ...e in quello stesso momento, in quei giorni, Cossiga riferiva in Parlamento che la polizia non aveva sparato. Ricordo poi quello che è avvenuto dopo, cioè l'impunità su quella vicenda, il silenzio per il quale ancora oggi non vi è chiarezza, tant'è che io stesso ho cercato di riattivare un'indagine su quella vicenda e sono andato anche a parlare con Izzo, eccetera, per cercare di riprendere le fila di quella stessa vicenda. Ecco, partendo da questo fatto, dal clima di quei giorni, di quegli anni, mi pare di aver capito anche, nella sua presentazione, che Marco Pannella dà una lettura diversa di quegli anni rispetto a quella che abbiamo ascoltato noi qui dai personaggi che si sono avvicendati. Ho capito che la sua lettura, in realtà, è che la strategia della tensione era bensì funzionale forse anche al mantenimento del potere della DC in quegli anni, però era anche funzionale, in qualche modo, al più grande partito di opposizione di quegli anni e che ci fosse un'intesa, un tacito accordo, un patto che doveva essere il viatico per l'accesso al Governo per accreditarsi nel nostro Paese. Ho detto male una cosa che avrebbe bisogno di essere approfondita, però vorrei anche lasciare spazio agli altri colleghi per porre le loro domande.

PRESIDENTE. Scusi se la interrompo, senatore De Luca, ma anche perché valga come guida mentale al nostro lavoro, invito sempre a individuare una periodizzazione. Cioè, questo può valere per la seconda metà degli anni settanta, sicuramente non per la prima, altrimenti non capiamo perché poi dormivano fuori di casa i dirigenti del PCI.

DE LUCA Athos. Certamente, infatti ci riferiamo ad un episodio che cronologicamente è limitato nel tempo. Quindi, a partire da questo io vorrei che Pannella ci dicesse perché accadde quella vicenda e in quegli anni chi progettava e che cosa, e attraverso chi si portava avanti un disegno o per l'entrata nel Governo del PCI di allora o, comunque, per una normalizzazione o una svolta autoritaria, in qualche modo, nel nostro paese.

PANNELLA. Se permette, signor Presidente, vorrei fare - avevo pensato di farlo prima, ma l'ho dimenticato - una piccola dichiarazione, che affido proprio alla sua attenzione. Cercherò - sinora ci sono riuscito - nel corso di questa audizione di dire non quello che penso oggi di quelle cose - a meno che non mi si chieda - ma di ripetere in questa sede le cose che a quel tempo pensavo e che ora hanno tutte un riscontro, perché così si ha un altro valore. Questo è importante. La mia interpretazione di oggi potrà anche avere un interesse, ma l'aver indicato alcune cose in quel tempo e il fatto che non si sia riusciti a trovare delle responsabilità - allora - di troppe cose, può forse aiutare a comprendere. Che cosa è accaduto il 12 maggio 1977? Quale è il contesto? Quindici, venticinque giorni prima - non lo so di preciso - il Ministro dell'interno, il Governo, con fortissimo appoggio della maggioranza parlamentare (devo dire che in quel momento - scusate l'indelicatezza - dicevamo che vi erano due forze nel paese: il PCI e il Partito radicale; il resto era marmellata. Avevamo i referendum, tutta una serie di riscontri in quel momento; anche per ricordare il mio cattivo gusto, se vuole, però certi riscontri sono andati come sono andati), il Governo, dicevo, propone un decreto-legge (adesso si trova nei testi universitari come esempio di un decreto anticostituzionale) con il quale si sospende il diritto costituzionale di manifestazione a Roma (non di volta in volta, ma si sospende il diritto). A Roma manifestavano sempre e noi dicevamo da Radio Radicale, per esempio, che gli Autonomi di via dei Volsci stavano attraversando Roma e che sembrava che la polizia li stesse portando verso piazza Nicosia. La gestione dell'ordine pubblico era torbida a Roma, e anche i rapporti di via dei Volsci (noi la denunciammo come tale). Questi continuavano a manifestare; le manifestazioni nostre per raccogliere le firme per il referendum d'un tratto furono vietate e, quindi, facemmo in Parlamento una grossa opposizione contro questo. Il 12 maggio è l'ultima data utile per finire di raccogliere le firme per il referendum. Tutti gli anni avevamo festeggiato l'anniversario del 1974 a piazza Navona e anche quell'anno lo facemmo. Ci fu fatto presente il divieto di manifestazione e, pertanto, la mutammo in mera manifestazione musicale di raccolta delle firme per il referendum. Mi recai personalmente dall'amico Cossiga dicendo che non era possibile e che si dovevano rendere conto che a quel punto, se c'era qualcuno a volere l'utilizzazione golpista di quei giorni, bastava cercare qualche morto a Roma per estendere il divieto di manifestare dappertutto. Dissi che a quelli le manifestazioni gliele stavano facendo fare e che la vita democratica era sospesa, non era legale; pertanto, annunciammo l'ostruzionismo in Parlamento su questo.

Si arriva a quattro giorni prima di questa data. Spiegai al Ministro dell'interno e al Presidente del Senato che da almeno mille anni a Roma, qualsiasi poliziotto ti dice che si tratta di "fare" entrare il popolo a piazza Navona, poi, però, come esce... Ma è il luogo ideale - deputato a ciò - ha quattro uscite! Dissi che stavano prendendo una decisione per la quale tenevano fuori le persone, i turisti e via dicendo e quelli di via dei Volsci, se volevano venire. Dissi che era una follia, e badate che di queste cose ne ho parlato con Ingrao tre-quattro giorni prima. Avevamo un rapporto che definirci feroce, allora, con il sindacato. Ebbene, due giorni prima il sindacato prese posizione a favore della manifestazione così come si era configurata, e aderirono moltissimi. Il presidente Ingrao cerca il Ministro. Siamo certi, dopo la presa di posizione del sindacato, che la cosa si farà, anche perché c'è un precedente; non abbiamo mai provocato un incidente in quegli anni, in condizioni molto difficili con gli autonomi, oltretutto, che ci odiavano. Il ministro Cossiga non fu rintracciato, nemmeno dal Presidente della Camera, nelle 18 ore precedenti la tenuta della manifestazione. Si arriva al pomeriggio del 12 maggio e alle tre, dinanzi al Senato, il dottor Improta grida - dico oggi quello che ho detto allora e che è contenuto in un libro - a Pinto, a Mellini, a me e a deputati che stanno lì: "Già hanno sparato a due dei nostri". Avevano fatto venire lì i ragazzi carabinieri di 18 anni della scuola di Velletri, per la prima volta in servizio di ordinanza, il momento era difficile. Non era vero: si sparano i primi colpi a piazza San Pantaleo, un'ora e tre quarti dopo. In tutto il centro di Roma non sì respira; lacrime in tutto il centro e si sente sparare a piazza San Pantaleo.

Presidenza del vice presidente GRIMALDI

(Segue PANNELLA). Registriamo e dichiariamo da Radio Radicale che una voce sulle frequenze della polizia diceva: "Ma che cosa fate? Ne hanno già ammazzati due. Coglioni, sparate!"; questo fu detto in quei minuti. Avevamo quelli di via dei Volsci disciplinatissimi; eravamo riusciti ad ottenere la presenza di questi estremamente disciplinati. Ci sono massacri di botte da tutte le parti, e noi abbiamo controllato, e il bilancio è questo, mai accaduto. Da parte delle forze dell'ordine, l'indomani, non c'era nemmeno un graffio, ma solo un carabiniere che dichiarava di avere avuto un graffio da arma da fuoco, che poi era la sua. Certe dinamiche tutti noi le conoscevamo. In genere c'erano 20 manifestanti all'ospedale e 60 delle forze dell'ordine feriti, con escoriazioni. Non ci fu una sola escoriazione tra le forze dell'ordine. Per contro, che cosa ci fu? Ci mettemmo 4 giorni a provarlo, perché le direzioni dei giornali (il Corriere della Sera, la Stampa) vietarono - lo documentammo - di pubblicare le foto che avevano: avevamo l'agente Santoni, gli agenti della squadra mobile che erano stati costretti a travestirsi da straccioni, i quali con pistole sparavano da Campo de' Fiori nei confronti delle forze dell'ordine che si trovavano tra San Pantaleo fino a piazza della Cancelleria. Ancora 8 giorni dopo, la tesi ufficiale era che nessuno, nelle forze dell'ordine, aveva sparato. Come voi ben sapete, la sera quando si rientra si rileva se si è sparato o meno. Ancora 5 giorni dopo fu dichiarato che nessuno aveva sparato. Noi riuscimmo ad ottenere che il "Messaggero" pubblicasse in prima pagina la foto dell'agente Santoni con la pistola, che stava mirando verso la polizia. Esibimmo un filmato, nel quale si vedevano le forze dell'ordine in divisa che sparavano, le quali immagini furono mostrate in tutta Italia. Le abbiamo date anche in una tribuna politica successiva. E’ stato un miracolo: abbiamo avuto 40 feriti seri. L'episodio di Giorgiana Masi è accaduto alle 20.00; può essere stata una cosa non voluta o niente affatto controllata. Quando però alle 20.15 ho telefonato al presidente Ingrao per dirgli che era morta una ragazza, ho sentito la sua voce dire: "Dio santo, Dio santo! Allora avevi ragione". Risposi: "Spero di no, perché si sono tutti dispersi". Io avevo detto che si tentava di fare decine di morti per estendere il divieto di manifestazione in tutta Italia. Anche in quei giorni c'erano quelli che il Presidente nel periodo, Moro, definiva, "strani comitati di crisi".

Presidenza del presidente PELLEGRINO

(Segue PANNELLA). Non abbiamo rintracciato il Ministro dell'interno. Hanno fatto dichiarazioni false in Parlamento ancora un mese dopo. Lì noi abbiamo affermato che il tentativo era di avere alcuni morti per estendere in tutta Italia il divieto di manifestazione. Sta di fatto che c'è stato un solo morto, per noi è stato un miracolo. Ne abbiamo parlato e dopo sei mesi abbiamo fatto un Libro Bianco (che potremmo solo prestarle, perché ne abbiamo un'unica copia), nel quale dicevamo che il magistrato X e il magistrato Y avevano di fatto occultato tutte le nostre denunce e che ben presto lo Stato li avrebbe ricompensati con alti incarichi di prestigio. Ebbene, quei due magistrati hanno avuto a che fare con il caso Ustica: era una profezia facile. Erano gli stessi; avevano funzionato molto bene in quella direzione.

Allora, siamo stati troppo appassionati, Presidente e senatore De Luca? Troppo parziali? No, quel decreto era illegale, assieme ad un altro decreto emanato nello stesso periodo, che permetteva al Ministero di richiedere notizie sui vari processi per terrorismo in fase istruttoria, in violazione del segreto professionale. Abbiamo ricostruito in seguito che 48 ore dopo che il decreto era stato depositato alla Camera, perché doveva essere convertito in legge, dal Ministero dell'interno erano state chieste diverse informazioni: c'era D'Amato o non c'era? Chi c'era di altri? Cosa aveva a che fare con lo Stato di diritto? Ed erano piduisti? Chi governava la situazione - e questo Cossiga lo ha sempre detto - era l'alta professionalità di quelli che io dicevo erano gli unici "non marmellata" del Partito comunista: Pecchioli, Minnucci, Boldrini, gli altri, i quali avevano stabilito che c'era una guerra: ma contro chi? Non certo contro Franceschini o Senzani. Bisogna pure conoscere questa gente: ce n'è voluto, per non beccarli a via Gradoli! C'è voluta un'arte. C'è voluta un'arte profonda anche in quei mesi, sulla questione del dopo Giorgiana Masi e soprattutto sul caso Cirillo. Ci sono stati 7, 8 o 10 morti nelle carceri, tutti quelli che erano testimoni di qualcosa. Senatore De Luca, quasi sicuramente non avremo in questo alcuna sintonia, però possiamo dire che fra il caso D'Urso, il caso Cirillo e in parte l'episodio definito ingiustamente di Giorgiana Masi, probabilmente si era già deciso essere possibile e necessario quello che ha dovuto aspettare Tangentopoli, per realizzarsi: far fuori la DC e i suoi alleati. Se il caso D'Urso avesse funzionato avremmo avuto la ristrutturazione dell'azienda Italia.

PRESIDENTE. Però qui c'è qualcosa che non torna. Come possiamo veramente pensare che la responsabilità dell'ordine pubblico stesse in mano al primo partito di opposizione? Il Ministro dell'interno che prepara il decreto è Cossiga.

PANNELLA. E infatti Cossiga, da Presidente della Repubblica (Cossiga è Presidente, come è noto, in modo un po' goliardico in alcuni momenti)...

PRESIDENTE. Nella seconda parte del suo mandato presidenziale.

PANNELLA. Sì, nella seconda parte. Ebbene, quando in una trasmissione televisiva dissi al Presidente della Repubblica, che era con Giuliano Ferrara mentre io ero dall'altra parte, che era questo che stava accadendo, egli mi rispose: "Basta che tu mi riconosca che queste cose le ho fatte io e ... chi? Dimmi tu chí". Tutto questo è registrato. "Chi?". "Berlinguer". Il Presidente della Repubblica in carica dice: queste cose che tu mi attribuisci saranno vere, ma con chi le ho fatte? Lo dice il Presidente della Repubblica in carica.

PRESIDENTE. In questa logica la DC si suicidava.

PANNELLA. Come partito, certo. Dopo di che Fanfani era convinto che il grande vecchio ci fosse e fosse "quell'altro". Quell'altro era convinto che il grande vecchio forse era Fanfani, non lo so, ma sta di fatto che una ristrutturazione dell'azienda Italia c'era.

STANISCIA. Intervengo solo perché, essendo presente, vorrei che rimanesse agli atti, altrimenti domani mi sentirei male. Al di là dei fatti che ho sentito in ormai due ore di incontro, ho questa impressione: che i radicali e gli antifascisti e gli anticomunisti hanno fatto la storia dell'Italia repubblicana, che i comunisti italiani sono responsabili di tutti i mali di questa Repubblica, che "l'Unità" non pubblicava, che il PCI riceveva 20 miliardi per Botteghe Oscure...

FRAGALA’. 28 miliardi.

STANISCIA . .... che "Paese Sera" riceveva miliardi, che la fermezza partitocratica che portò poi all'uccisione di Moro era dovuta al PCI, che Pajetta e Pecchioli volevano fare un governo con la P2, con la P38 e con un'altra masnada di malfattori, che il PCI pubblicava con la casa editrice Einaudi mentre gli antifascisti e gli anticomunisti non avevano nessuna possibilità, che Berlinguer, da quell'ipocrita che era, sapeva della P2 ma non lo diceva perché aveva ricevuto i miliardi, che l'ordine pubblico in questa Italia repubblicana era tenuto da Berlinguer, da Pecchioli e da quell'altra masnada che faceva parte della direzione del PCI in quegli anni. Per essere brevi, perché poi vi tolgo il disturbo, non ho niente da dire sul fatto che i radicali siano stati coloro che hanno fatto la storia di questo paese, che la DC era vittima delle Brigate rosse e del PCI, perché ognuno si rifà la storia come la ritiene giusta e opportuna, come l'ha vissuta. Però quest'anno sono trent'anni che sono iscritto prima al Partito comunista italiano e poi al Partito democratico della sinistra e mi sembrava di aver militato in un partito che lottava per sostenere i lavoratori e le classi più deboli, per difendere le istituzioni democratiche. Invece questa sera ho appreso di aver avuto come compagni una banda di malfattori e come segretario di partito - e, devo dire, come il segretario che ho più amato - un personaggio negativo. Infatti, avendo avuto prima Longo, poi Berlinguer, poi Natta, poi Occhetto e adesso D'Alema, devo dire che di questi quello che ho più amato è stato proprio quel Berlinguer che invece apprendo questa sera... (Interruzione dell'onorevole Pannella). Chiedo scusa, ma io non ho interrotto e quindi preferirei non essere interrotto. Io avevo sempre stimato questo personaggio come un uomo serio, come una persona che aveva un grande rispetto delle idee degli altri e soprattutto come colui che aveva condotto una battaglia sulla questione morale; apprendo adesso che era un mentitore, non solo, addirittura mentiva agli organi della Repubblica, al Parlamento italiano, perché se non ho capito male lui avrebbe mentito di fronte ad una Commissione parlamentare. Signor Presidente, ella sa quanto io la stimo, non solo come Presidente di questa Commissione ma anche come persona, come professionista e come senatore; desidererei avere in futuro, come d'altra parte abbiamo avuto in passato, interlocutori che mi possano dire qualcosa.

PRESIDENTE. Mi scusi, collega. Ciò che lei ha detto merita una risposta da parte mia. Innanzi tutto quanto detto oggi dall'onorevole Pannella non è una novità; c'è una lunga audizione sulla P2 i cui atti ho riletto nel pomeriggio: l'onorevole Pannella già da allora diceva le stesse cose. Mi permetto personalmente di farle notare che ho voluto dare voce ad una critica che viene fatta ad una diversa lettura che io do della storia del Paese. Poi alla fine la Commissione dovrà scegliere nella logica della democrazia e dei voti quale tipo di lettura ritiene di approvare.

STANISCIA. Una cosa è la democrazia, un'altra è venire qua ad attaccare persone con argomenti che ritengo non corrispondano storicamente al vero; dico ciò perché io nella vita faccio l'insegnante di storia e di filosofia.

PRESIDENTE. Siccome il collega Staniscia è venuto poche volte, capisco che essendosi trovato di fronte a questa audizione ne ha ricavato un'impressione...

GRIMALDI. Tutti noi ci troviamo in difficoltà, signor Presidente. Anche perché tutti eravamo nelle liste delle BR ed eravamo naturalmente schedati e minacciati.

PRESIDENTE. Un fatto storico è vero: effettivamente l'allarme sulla P2 il Partito radicale l'aveva lanciato per primo, questo lo dobbiamo riconoscere all'onorevole Pannella.

GUALTIERI. Signor Presidente, con Marco Pannella ci conosciamo da una vita. Spero che Pannella riconosca anche a me costanza di attenzione verso i problemi sui quali stiamo, come Commissioni parlamentari o come parlamentari o come cittadini, lavorando; cioè questo capire la storia che abbiamo vissuto. Anch'io potrei riferire memorie e fatti di una lunga esperienza ormai trascorsa su questo versante. Credo che ciò che più ci univa all'inizio era questa comune radice atlantica o filo-israeliana, che però a me viene oggi rimproverata, quasi che la parte che ha vinto la battaglia venga messa oggi sotto inchiesta dalla parte che è stata sconfitta; ma ciò fa parte della regola di questo scambio di posizioni cui oggi stiamo assistendo, anche dalle relazioni che ci vengono presentate dalle quali dobbiamo poi trarre delle conclusioni che spero siano diverse da quelle che ci sono state presentate. Vorrei fare solo due considerazioni. La prima è di carattere politico e personale ed è legata a quanto Pannella ha raccontato circa il cosiddetto "Governo dei capaci e degli onesti" che doveva essere guidato da Bruno Visentini, alla conclusione del sequestro D'Urso, con uomini della P2 e con generali dei Carabinieri. A parte Pecchioli, che non so se veramente era nella squadra, quello che conosco e che ho conosciuto come onesto e galantuomo era Bruno Visentini. In quel periodo io facevo parte, come Pannella sa, della ristretta direzione del Partito repubblicano e ho vissuto questa vicenda in prima persona, oltre tutto, ero segretario di Ugo La Malfa ed avevo come comune amico un cesenate, Oddo Biasini: posso dire a Pannella che Bruno Visentini non ha mai avuto la più piccola chance di diventare un Presidente del Consiglio di questo tipo. La Malfa glielo avrebbe impedito con la ferocia con cui era capace di trattare tali questioni, la stessa che manifestò quando ad esempio gli impedì di fare il presidente della Confindustria, carica per la quale aveva ricevuto un'offerta. Non sarebbe mai passato e devo dire che nella vita del nostro partito non c'è mai stata una seria chance in questo senso per Visentini. Vorrei quindi sgombrare il campo da eventuali dubbi. Nel partito repubblicano, che io conosco, in quell'epoca questa possibilità non c'è mai stata e ciò anche nel caso in cui fosse stata fatta un'offerta a Visentini che non mi risulta vi sia stata. Dico ciò perché conosco l'uomo La Malfa; allora vi erano uomini che nella vita pubblica portavano anche una sufficiente dose di ferocia e cattiveria per potersi imporre.

Voglio però affrontare una questione che interessa più da vicino questa Commissione, proprio per i suoi fini istituzionali, in relazione a quanto detto dall'onorevole Pannella circa la morte del generale Mino durante il volo in elicottero del 31 ottobre 1977. Nel racconto fatto questa sera il generale Arnaldo Ferrara viene presentato quasi come l'assassino del generale Mino. L'onorevole Pannella ha affermato che l'inchiesta è stata affidata al generale Ferrara, quasi a voler affermare che è stato luì a far precipitare l'elicottero.

PANNELLA. Non intendevo dire questo.

GUALTIERI. Vorrei che questo fatto venisse chiarito: è una lettura che si poteva dare ascoltando le sue parole.

PANNELLA. Certamente si voleva insabbiare.

GUALTIERI. Io certamente ho capito male ed essendo la seduta verbalizzata possiamo comunque rileggerci gli atti; comunque, Arnaldo Ferrara è stato per dieci anni il vero capo dell'Arma dei carabinieri ed èstato per dieci anni il nemico mortale dei piduisti all'interno della stessa.

PRESIDENTE. Ne abbiamo avuto testimonianza nell'ultima audizione.

GUALTIERI. Ne abbiamo avuto testimonianza non solo nella storia dei dieci anni, ma anche quando è diventato l'addetto del presidente Pertini. Arnaldo Ferrara oltretutto è ancora vivo e a lui debbo rispetto. Nella storia dell'Arma dei carabinieri (cerchiamo di capire quali sono le attinenze) in questo periodo, durante i dieci anni di Arnaldo Ferrara, si realizza la struttura più democratica, dopo il periodo di De Lorenzo, quello delle armi pesanti e delle divisioni corazzate. Dopo De Lorenzo, il comandante generale è Corrado di San Giorgio e il capo di stato maggiore dell'Arma è Ferrara. I nemici di quest'ultimo sono coloro che erano annidati nella divisione Pastrengo a Milano e nella P2 (di cui una cinquantina, quando si andrà a vedere, facevano parte dello stato maggiore). Il generale Bozzo l'altro giorno ci ha raccontato qual era la ricaduta in termini di lotte interne molto feroci nell'Arma. Non ho gli elementi per giudicare la storia dell'Arma dei carabinieri in quegli anni nella sua interezza; facciamo fatica, perché la ricostruzione degli equilibri interni dell'Arma è difficilissima. E’ stato pubblicato un libro di Boato che arriva fino al 1977, poi non c'è nessun altro studio sull'Arma che vada oltre quell'anno. Gli archivi dei carabinieri. non sono mai stati penetrati; ne abbiamo penetrati tanti, ma quelli dell'Arma certamente no. Forse abbiamo maggiore conoscenza della storia e delle vicende interne della polizia di Stato piuttosto che dell'Arma dei carabinieri. Tuttavia, il generale Ferrara non può essere indicato neanche come l'uomo che ha beneficiato della morte del generale Mino; prima di tutto perché credo che in quegli stessi mesi era già passato ad altro incarico. Inoltre, l'inchiesta sulla caduta dell'elicottero (il Presidente dovrebbe poterlo accertare) non spetta al generale Ferrara, cioè ad un generale dei carabinieri. Se avviene la caduta di un elicottero dell'aeronautica, la commissione d'inchiesta dovrebbe essere nominata e gestita dall'aeronautica. Noi non riusciamo ad avere certezza di questo, ma l'inchiesta di Ferrara sulla caduta dell'elicottero non c'entra niente. Oltretutto in quell'incidente muore un intero stato maggiore dei carabinieri del Sud.

Vorrei che l'onorevole Pannella precisasse, almeno nella nostra verbalizzazione questa sera, che non è che questo incontro che egli ha avuto a Trevi o vicino Foligno (durante il quale il generale Mino disse che voleva assicurargli una scorta e lasciò capire di non voler più andare in elicottero e dopo un mese cadde con tale mezzo) voglia dire automaticamente che si tratti di un fatto doloso; poi proprio Ferrara conduce l'inchiesta. Inoltre, il capo di stato maggiore dei carabinieri deve pure preoccuparsi quando muore il comandante generale. La caduta dell'elicottero deve avere spiegazioni: o si tratta di spiegazioni tecniche, e rilevano; o si tratta di manomissioni dell'apparecchio, o di esplosivo, o cose del genere. Deve comunque risultare da una commissione d'inchiesta; ma non possiamo rimanere con questo sospetto che sia stata una faida interna all'Arma dei carabinieri, che erano ben altre. Oltretutto, se guardiamo alle date (stasera non ne sono in possesso nei particolari), proprio in quei mesi Ferrara lascia, addirittura prima di Mino, e quindi credo che non fosse più capo di stato maggiore dell'Arma dei carabinieri. Sarà mia cura accertarlo.

PANNELLA. Con grande precisione, vorrei dire subito che se io non lo avessi detto allora, dinanzi a venti persone, la sera stessa in cui vidi Mino (potrò arrivare a ricostruire se si trattava del 17 o del 22 settembre o altra data) e non appena l'episodio luttuoso si verificò non avessi gridato questo ai quattro venti, probabilmente il mio riflesso sarebbe stato quello di tacere.

GUALTIERI. Non ha mai taciuto in alcun momento della sua vita!

PANNELLA. Se lei sapesse su quanti episodi ho saputo tacere che ci riguardano, magari non noi due personalmente ma il nostro ambiente politico, sarebbe stupito! C'è un fatto. Se un deputato, uno qualsiasi, non avesse raccontato tutto questo prima dell'evento; non lo avesse gridato subito dopo l'evento; non avesse continuato a ripeterlo e a chiedere perché nessuno lo ascoltasse, né la magistratura ordinaria né quella militare né la commissione d'inchiesta, probabilmente non staremmo qui a parlarne. Ancora. Il senatore Gualtieri ha ricordato una cosa che ho ricordato anch'io. Devo aver sentito una seduta della Commissione, nella quale un generale dei carabinieri ricordava che il vice comandante generale dell'Arma e buona parte dello Stato maggiore si riunivano, dopo aver ricevuto degli ordini dal capo di Stato maggiore Mino, per neutralizzarli. Tanto è vero che io dissi: ma allora questo è un caso di insubordinazione; c'è o no un codice penale militare? Come è possibile che non gli venga contestato? Questo per dare le dimensioni di quali fossero i rapporti. Secondo: generali dei carabinieri che facevano fiducia, e a ragione, al generale Ferrara, che da vice comandante si riuniva con gli altri generali per neutralizzare gli ordini ed i comportamenti del comandante generale. Allora è indubbio che quando ho detto - e lo ripeto - che dovendo scegliere uno si era scelto proprio il vice comandante generale dell'Arma, che si riuniva con gli altri dello Stato maggiore per neutralizzare l'opera e gli ordini, golpisti o no, del generale Mino, non mi è parsa la cosa la più tranquillizzante. A quali fini? Ai fini della situazione nella quale oggi ci troviamo: degli insabbiamenti, del fatto che di troppe stragi non sappiamo nulla. E io torno a dire: come mai? Può darsi che abbiamo fatto... ma infatti il Presidente sottolinea sempre che ci sono dei periodi; lo ha ricordato anche De Luca, c'è un periodo prima del 1970, poi dopo, eccetera; per cui se non teniamo presente questo problema dei periodi e diamo una sola lettura, in chiave "americana", magari anche di Yalta, o russa o quale che sia, sbagliamo profondamente perché è una storia molto drammatica, molto complessa., molto complicata. Quindi insisto nel dire che non mi sembra che fosse di grande tranquillità che la commissione d'inchiesta venisse affidata proprio a chi - risulta anche dagli atti della tua Commissione - aveva un giudizio del generale Mino che non era quello che dei sottoposti devono avere, perché altrimenti lo denunciano e non si preoccupano invece di riunirsi costantemente per neutralizzare l'azione del capo di Stato maggiore; tutto qui.

PRESIDENTE. Va bene; penso che potremmo acquisire gli atti di queste inchieste per una completezza documentale. Volevo farle però una domanda: dopo quell'incontro, di cui ci ha parlato a lungo, con il generale Mino lei accettò la scorta?

PANNELLA. No.

PRESIDENTE. Ha mai subìto attentati?

PANNELLA. No.

PRESIDENTE. Quindi almeno una delle due paure del generale Mino di quella sera non sembrava avere basi reali.

PANNELLA. Certo. Devo anche dire però, signor Presidente, che ho sempre ritenuto che il non accettare scorta, che il dire da Radio Radicale - come ho fatto per anni: "voi, vigliacchi delle Br, sapete a che ora esco, sapete che non tollero che sotto casa mia vi sia polizia, sapete il percorso che faccio e l'ora in cui lo faccio" - sia stata una carta vincente che è stata giocata. Però abbiamo avuto delle informazioni da Franceschini e da molti altri...

FRAGALA’. Su cui si è molto discusso, su cosa fare.

PANNELLA. E si è molto discusso su questa storia, perché non era del tutto un caso al momento in cui giocavo questa carta, che era di quello che si affidava alla strada e via dicendo... Credo che avessi tatticamente più ragione io.

TASSONE. Signor Presidente, io ritengo che l'onorevole Pannella abbia vissuto da protagonista una lunga stagione politica. Io ricordo in Aula le sue battaglie, le lunghe ore di ostruzionismo del Partito radicale, di Melega, di Boato. Egli, come diceva, è stato presente ed impegnato sia nelle istituzioni sia nel Parlamento, e quindi è stato impegnato anche sulle piazze, ha avuto sempre un raccordo, una possibilità anche di riscontro di dati di verità. La verità che per alcuni versi nel nostro paese è anche un miraggio; certo, ci sono dei dati, dei fatti che vanno ad essere riscontrati, e ritengo che egli abbia avuto la possibilità anche in una stagione politica particolare del nostro paese di conoscere, di aver avuto la possibilità di contatto con alcune frange dell'estremismo del nostro paese, della nostra società, quando qualcuno forse pensava o immaginava che le battaglie del Partito radicale potessero essere riconducibili ad un estremismo distruttivo di quello che era l'ordinamento presente costituito all'interno del nostro paese. Credo che l'onorevole Pannella abbia conosciuto Negri, abbia conosciuto varie storie, per cui le sue parole vanno ad essere considerate. Io do grande considerazione alle cose che egli ci dice proprio per questa possibilità che ha avuto di conoscere, di aver avuto la possibilità di riscontri in termini reali più di ogni altro, da un osservatorio molto più autorevole rispetto ad altri, anche perché alcune battaglie hanno coinciso anche con un sostegno nella storia del nostro paese anche dei partiti di sinistra, diciamocelo con estrema chiarezza. La battaglia relativa al divorzio, la battaglia sull'aborto: ci sono state delle coincidenze, ma il Partito radicale ha fatto una battaglia di libertà, in fondo, all'interno del nostro paese anche rispetto all'affermazione di alcuni diritti; si può essere d'accordo o no, però ci sono state queste situazioni. La cosa più preoccupante a mio avviso è il perché - alcune cose che ha detto questa sera l'onorevole Pannella, che poi giustamente, come ha osservato il Presidente della Commissione, sono state già dette precedentemente in altre occasioni, in altre circostanze - chi era destinatario di queste notizie o di queste valutazioni non abbia accertato, non abbia ritenuto di fare dei riscontri. Questo credo sia un dato che dovrebbe quanto meno riguardare in questo momento la Commissione stragi.

PRESIDENTE. Sì. Per quelle che erano le interrogazioni parlamentari il destinatario era il Governo, però.

TASSONE. Il destinatario era il Governo, ma dovremmo capire perché quei governanti non hanno ritenuto di rispondere...

PANNELLA. Il Governo poi rispose.

TASSONE. ...o perché, se hanno risposto, hanno risposto in un certo modo. Perché quando l'onorevole Pannella fa riferimento anche ad alcune sue puntualizzazioni in Aula, nel porre delle questioni gravi o richiami al regolamento o sull'ordine dei lavori, che io ricordo molto bene, che riguardavano alcuni fatti specifici, non c'è dubbio che ci sono state anche delle risposte reticenti e vogliamo capire il perché, perché le risposte non sono venute fuori. Questo credo che sia il dato che può interessare in questo momento la Commissione. Due ultime considerazioni, signor Presidente, mi permetto di fare. Onorevole Pannella, lei ha un po' prefigurato uno scenario, sul quale ovviamente noi dobbiamo anche determinare degli approfondimenti, di un Governo formale o meglio ancora di un Governo quasi virtuale nel nostro paese, e di gruppi di potere che erano praticamente uno Stato nello Stato. O meglio ancora: in quel periodo si parlava molto di "corpi separati" dello Stato (moltissimi ne parlavano) i quali corpi separati avevano una possibilità di movimento molto ampia ed un riscontro molto ampio. Vorrei chiedere a lei, onorevole Pannella: questi corpi separati avevano a che fare molto con lo scenario che lei ha prefigurato? E, facendo un passo indietro, nel momento in cui si profilava il grande sconvolgimento studentesco degli anni 1968-1969-1970 - e fu il momento in cui si forgiarono alcune culture che poi degenerarono - ha avuto qualche collegamento, qualche riscontro con il movimento studentesco di allora, con Franco Piperno, tanto per fare un nome che mi viene in mente in questo particolare momento? Tutto questo processo ha poi avuto una sua consequenzialità logica che sfociò nel non ritrovamento di Aldo Moro e poi nel suo assassinio che è consequenziale a quel non ritrovamento. Tutto questo, anche un approfondimento dell'assassinio di Aldo Moro, secondo lei, visto e considerato che ha fatto una lunga descrizione di quegli anni, a che cosa è servito? Quali risultati ha dato? E i traguardi che forse qualcuno prefigurava sono stati raggiunti o no?

PANNELLA. Io e i miei compagni, soprattutto, abbiamo vissuto il Sessantotto in un modo assolutamente negativo e ben presto ostile, con un'ostilità ricambiata. Ce n'è testimonianza anche in un bel libro di Aloisio Rendi pubblicato proprio nel marzo del 1969, in cui erano già chiare alcune interpretazioni. Ancora adesso sono convinto che il Sessantotto, in parte quello europeo, sicuramente quello italiano, è assolutamente sopravvalutato. Lo è la sua effettiva incidenza nella sua stessa generazione. Sono convinto che echi del Sessantotto sono stati molto più nei nonni dannunziani e nei padri postdannunziani che effettivamente nei coetanei. Cosa intendo dire? Il 1966, il 1967 e il 1968 sono stati gli anni di preparazione e conduzione, per esempio, della battaglia sul divorzio. Lì la si è vinta. Il 1974 è stata un'altra tappa. I processi su Mattarella padre, Danilo Dolci e Achille Battaglia, il processo De Lorenzo hanno visto una parte di quella generazione sicuramente presente non meno dei padri e dei nonni nelle battaglie di libertà, le battaglie radicali per i diritti civili. Questo fatto è totalmente cessato. Io ricordo che all'inizio ci chiedemmo se avrebbero scelto un linguaggio libertario o uno leninista, per sapere se sarebbero stati i figli dei fiori che avrebbero dato una stagione di rinnovamento, di maggiore freschezza della nostra vita nazionale, della nostra società, o se invece sarebbero stati l'ennesima ondata dannunziana o di altra natura, irrazionalista, vitalistica e profondamente antiliberale.

CORSINI. E narcisista.

PANNELLA. Sì, con una differenza.

PRESIDENTE. Posso dire un'impertinenza? Ma lei è certo che in questo suo sentimento di perplessità sul Sessantotto non ci sia il risentimento di chi si sente derubato di una parte perché in qualche modo, da quel momento in poi, la contestazione non era più la contestazione sua.

PANNELLA. Era un rischio.

PRESIDENTE. Penso invece che almeno in parte il Sessantotto fu figlio di quella stagione di battaglie dì libertà che lo avevano preceduto.

PANNELLA. Vorrei vedere! Da quegli eventi lì abbiamo tutti cominciato a produrre frutti diversi.

PRESIDENTE. Anche se sono d'accordo con lei che la evoluzione leninista di una parte del Sessantotto fu una contraddizione con le origini.

PANNELLA. Sono abbastanza sicuro di poter dare una risposta negativa a quel rischio, che effettivamente esisteva, perché quelli sono stati gli anni del più grande entusiasmo per noi. Di tanto eravamo isolati nei media, nella loro considerazione, rispetto alle manifestazioni di generazione, di tanto il 1967 è l'anno nel quale in Parlamento sento Ingrao - Dio sa quanto ostile alla nostra impostazione - dire su una pregiudiziale di costituzionalità presentata da Almirante e votata anche dalla DC: "Quando ho visto in maggioranza tutti noi, ivi compresi i liberali, e soccombere i democristiani e i fascisti (così nel linguaggio dell'epoca) ho sentito qualcosa". Nel 1968 si ha la prima vittoria alla Camera dei deputati, eppure eravamo partiti veramente da zero. Il povero Loris Fortuna lo sapeva, lui, quanto fosse isolato rispetto a De Martino, come sensibilità fra le altre cose.

TASSONE. Fortuna e Baslini.

PANNELLA. Certo. La presenza anche in quel momento di Fausto Gullo, di Terracini e di altri non va cancellata. Nella struttura del suo partito, Baslini ha potuto uscir fuori un po' di più. Ma le cose coraggiose e costose che hanno fatto! Fausto Gullo muore presidente della Lega italiana del divorzio e della Lega italiana per l'abolizione del Concordato, carica che accetta quasi provocatoriamente. Ricordo una lezione nell'aula magna della facoltà di lettere a Roma che Lucio Colletti aveva avuto assegnata dagli occupanti per parlare, non so se della quarta risposta di Marx a Feuerbach, o qualcosa del genere, mentre io ero costretto a fare un'assemblea nel corridoio, in una saletta, su Wilhelm Deich, sulle posizioni libertarie applicate ai problemi sessuali, di costume eccetera, con Gigi De Marchi che avevo invitato, come era avvenuto qualche anno prima con Calosso e con i missini che interrompevano la lezione, sparavano a tutto quel che potevano, il traditore Calosso, che anche i comunisti detestavano. Quella facoltà è stata, anno dopo anno, di grande bellezza. Noi eravamo pieni nel nostro corridoio. Nella nostra "aula" non si entrava, e quella di Lucio Colletti era vuota. E' andata sempre così fino a Valle Giulia. Si ricorda Pasolini; ma noi immediatamente eravamo schierati sulle sue stesse posizioni, ma avemmo anche una strana soddisfazione, cioè che il movimento studentesco, quando non ha più potuto occupare l'università, e a Roma è accaduto molto presto - non era la Statale - per le sue riunioni aveva la sede di Via XXIV Maggio n.7, la sede del Partito radicale, che è vero, era restato con poche persone. La nostra era la sede in cui anche Bordiga parlava, perché altrimenti non avrebbe potuto farlo in nessun altro posto, a Roma. Erano gli anni in cui Armando Borghi, non potendo essere giornalista professionista, cedeva a me la direzione di "Umanità Nova". Quindi quelli sono stati anni in cui il dolore non c'era, perché c'era Roberto Cicciomessere che a diciannove anni era segretario della Lega italiana per il divorzio; a venti segretario del Partito radicale, a ventuno nelle galere come obiettore di coscienza. E subito dopo si approvava la legge sull'obiezione di coscienza.

PRESIDENTE. Il discorso ci porterebbe molto lontano. Spesso i meccanismi del rimpianto sono insidiosi, spesso si rimpiange l'avversario di prima. Mi sembra che in qualche modo rimpianga la DC che ha sempre combattuto.

PANNELLA. No. Quello che voglio dire è che la DC, nel momento in cui si realizza l'unità nazionale, diventa strumento inadeguato. Quando ci scontriamo sulla legge Reale, quando ci scontriamo sul finanziamento pubblico, quando ci scontriamo sui grandi referendum, anche quello sull’aborto, la DC non esiste, nessun partito borghese esiste. Lo scontro è fra di noi e il grande Partito comunista che guida lo schieramento democratico.

PRESIDENTE. Sull'aborto e il divorzio non è vero. Era lento, ma quelle campagne le ho fatte anch'io.

PANNELLA. Parlo di una cosa diversa. Ci sono altri aspetti importanti e forse il senatore De Luca lì ricorderà. Chiedo scusa, ma qui non si ricorda - facciamo attenzione - che la legge sull'aborto vigente è stata approvata contro il nostro ostruzionismo e con l'astensione della DC. I sondaggi dicevano che, se fossimo andati con cinque giorni di ritardo alle votazioni con il nostro ostruzionismo avremmo vinto sulla questione della totale depenalizzazione (poi avremmo dovuto fare la legge) con il 70 per cento dei voti. Quando mi riferisco ai referendum sull'aborto, parlo di quello che sostenemmo nell'80, in cui chiedemmo semplicemente che anche la sanità privata potesse agire in un certo modo; è quello che chiediamo tutti adesso; cioè, nel 1980 noi portammo avanti quel referendum e invece si difese la legge com'era dicendo che i radicali volevano abolire la gratuità dell'aborto e la volevano consegnare alla speculazione privata. Questo avvenne nel 1980, assieme ai referendum contro i codici fascisti, contro i decreti Cossiga, contro il deterioramento del nostro diritto penale che ha prodotto quello che ha prodotto. Quindi dico semplicemente che sono stati anni per noi drammatici e difficili, ma non animati da nessun senso di solitudine, perché sono stati gli anni delle grandi vittorie: cioè, c'erano la Statale, c’era Capanna, c'erano le altre cose; e intanto noi abbiamo ottenuto nel 1970 il divorzio, nel 1972 l'obiezione di coscienza, nel 1974-1975 il voto ai diciottenni e la legge sul diritto di famiglia...

TASSONE. Nel 1974 c'è il referendum sul divorzio.

PANNELLA. Sì, il referendum sul divorzio. Ma per venire, credo, a quello che le imporla, lei chiede quindi se in questi anni di promiscuità (perché noi eravamo anche nelle strade e nelle piazze) c'è stata simbiosi od ostilità, chiede che cosa c'è stato. Ebbene, io rispondo che c'è stata una estraneità assoluta, corretta semplicemente dal fatto che ben presto siamo intervenuti nelle carceri per quelli che avevano sbagliato. Alcuni di questi nostri "nemici" vivevano nelle nostre sedi. Io sono stato direttore del primo giornale di Brandirali, cioè del Brandirali di allora, che era un ciclostilato più "falce e martello", mi pare; e da Meldolesi ai contadini, ai leninisti, agli albanesi, eccetera, tutti venivano in sede da noi (e sottolineo tutti), ivi compresi Valpreda, Mander, il "cobra", e tutti quelli che la polizia ci infiltrava, che D'Amato magari infiltrava, quelli che a via Lanzone a Milano, nella nostra sede, dovevano essere arrestati per la strage della Banca dell'Agricoltura solo in base ad una dichiarazione delle ore 23 secondo la quale coloro che avevano fatto la discesa a via Lanzone 1, sede del Partito radicale, la sera della strage della Banca dell'Agricoltura, erano coloro che avevano messo le bombe. Conducemmo un'azione molto dura con Luca Boneschi e con altri compagni. E vi ho dato quello scorcio: di noi a camminare per sei-sette chilometri a piedi, un primo agosto, con a sinistra Calabresi e a destra Pino Pinelli, espulso dal circolo della Ghisolfa il giorno prima perché aveva aderito ad una manifestazione non violenta, mentre il circolo della Ghisolfa in quel momento lo era. Però le devo dire una cosa, onorevole Tassone, a proposito della questione di Tony Negri. Io e lui ci siamo molto ben conosciuti; io l'ho conosciuto nel 1953, ma non ci siamo più salutati fino al giorno in cui io sono andato a Rebibbia e gli ho comunicato che, per ottenere che dopo quattro anni si facesse il processo del "7 Aprile", avrei proposto al mio partito di candidarlo: e all'annuncio stesso fu poi fissato il processo. Quindi le rispondo: sì, li conoscevo bene; mentre altri potranno parlarle di Franceschini ed altri, io ricordo Moretti dire, nella prigìone di Badu 'e Carros, due giorni dopo essere stato arrestato, che lui mi accettava lì ed era proprio un santo, perché senza Adelaide Aglietta e noi non avrebbero avuto il processo a Torino, non sarebbero stati condannati, perché la giuria non si formava. Sono tante le cose accadute in quegli anni. Adelaide Aglietta accetta di fare da giurato ed io sono sicuro - l'ho detto anche a loro - che non era stata sorteggiata: ma dinanzi a 74 cittadini di Torino, democratica e rossa, che per paura, dopo l'assassinio dell'avvocato Croce, non accettano di far costituire la giuria, viene fuori la segretaria del Partito Radicale, Adelaide Aglietta, che permette quel processo. E le devo dire anche che il Presidente, che condusse quel processo in modo tale che le Brigate rosse, Curcio e gli altri condannati non hanno mai contestato la democraticità e la liceità del processo stesso, quel presidente che si chiamava Barbaro, è risultato iscritto alla P2, come altri, per esempio Placco (ci sono nomi di altri magistrati iscritti in quella lista). Ho aggiunto questo per dire che noi, che sulla P2 ci siamo mossi come ci siamo mossi, abbiamo anche visto la complessità della sua lettura: una cosa era l'uno, una cosa era l'altro. Quello che ho detto è molto importante; io capisco che invece a Lecce magari non si avvertisse quello che accadeva a Roma per un motivo semplice: c'era semplicemente la Statale...

PRESIDENTE. L'onda della storia è sempre arrivata in ritardo in certe parti dell'impero.

PANNELLA. O in anticipo.

PRESIDENTE. A Lecce in ritardo.

PANNELLA. Credo che quando è arrivato lì quel barocco era un barocco d'avanguardia. Quindi la risposta è che credo che noi abbiamo avuto una ventura, che queste cose si debbano alla sorte. La collocazione, la dislocazione, le persone con le quali siamo cresciuti, gli Ernesto Rossi, magari il conte Carandini... Con queste persone ci è giunta una chiave di lettura del nostro tempo e della nostra vita della quale io credo non abbiamo nessun merito; sono state così preziose, nell'incalzare degli anni e degli eventi, come elementi di lettura, che noi non abbiamo nessun merito e, se rappresentiamo qualcosa di positivo, non c'è stato merito, solamente un grande dono: e vorrei cercare di metterlo a frutto. Lo ritrovo, d'altra parte, nel presidente Pellegrino, lo ritrovo quando - torno a dire - gli devo quell'approccio che non c'era mai stato prima: avere approcciato con rigore una delle chiavi di lettura necessarie di questa complessa vicenda è quello che non era stato mai fatto precedentemente nelle nostre Commissioni parlamentari.

PRESIDENTE. Di questo la ringrazio.

TASSONE. Signor Presidente, le chiedo scusa, avevo chiesto anche all'onorevole Pannella, visto e considerato che la Democrazia cristiana era considerata un po' marmellata, a proposito della vicenda di Moro...

PANNELLA. Ha ragione, onorevole Tassone. Sarà che tutto vorrei fare io qui tranne che rinnovare dolori o pareri offensivi rispetto a chicchessia; e devo dire che c'è stato un intervento, prima, di cui io comprendo l'assoluta sincerità, che mi addolora molto: tutto avrei voluto tranne quella lettura, quel modo di ricevere. Per questo avevo sentito il bisogno di dire che mi sarei sforzato di ripetere qui le cose che allora dicemmo, cosi da poterle poi voi giudicare sulla base dell'intelligenza di allora, e non di una ricostruzione di adesso. Guardi, su Moro io ho una convinzione, cioè che abbiamo pagato tutti il fatto che il postfascismo italiano non ha sicuramente avuto nessun culto della legge e non abbia seguito nessuna regola, il Parlamento non è esistito - per l'illusione dell'efficacia - la regola del Parlamento e della Costituzione non c'è stata, la regola della DC, lo statuto della DC non c'è stato; lei forse sa quanto io fossi amico di Franco Salvi e quanto anche in quel periodo potessi contare sulla benevolenza, diciamo così, di Zaccagnini in quei momenti, in quei giorni, in quelle settimane. Ebbene, noi che avevamo questa immensa risorsa, questa saggezza di millenni o di culture, proprio nel momento in cui il nemico era alle porte dovevamo tenere alta la bandiera e prendere ad esempio quello che diceva Churchill: stanno arrivando i tedeschi, stanno per sbarcare e noi ampliamo l'obiezione di coscienza in Gran Bretagna; diceva che la loro forza era delineata nelle loro leggi e nella loro civiltà rispetto a quei nemici, e non nell'avere mille persone in più in armi. Noi invece abbiamo ammainato tutte le nostre bandiere; le leggi d'eccezione le paghiamo tutte oggi. E poi non riconosciamo "pentiti" o "non-pentiti". Tutti sappiamo del pentimento, del ravvedimento operoso, che la legislazione garantisce e tutela, dalle criminalità organizzate e via dicendo. Ci siamo illusi dal primo momento, da via Fani, quella mattina, quando invece di rispondere alle BR che non andavamo con un Governo il cui Ministro dell'interno era responsabile di quella situazione italiana, che dunque cambiavamo Governo e che avremmo discusso per 20 giorni il caso, prima di votare; in tre ore siamo stati costretti a votare la fiducia a quel Governo, che non aveva nemmeno i Ministri per i quali il Partito Comunista aveva deciso di votarlo, perché alle tre di notte erano stati cambiati (poche ore prima dì via Fani). La mia convinzione è che da quel momento - oggettivamente? Non mi importa, ma anche soggettivamente - la stragrande maggioranza della classe dirigente, per propria moralità, ha stabilito che Moro dovesse essere assassinato e lo hanno assassinato. Ricordo che su "Il Giorno" sono stati scritti i peggiori articoli su Moro, il quale veniva definito incapace, vigliacco, drogato, un giorno dopo l'altro. Io mi mettevo a gridare che era il futuro Presidente della Repubblica, proprio perché era l'intervento da fare. E invece, con costanza e pregnanza, Zaccagnini dichiara ad uno degli storici ufficiali del nostro regime, a Zavoli, che da due giorni stava per convocare il consiglio nazionale della DC, perché aveva compreso che quello era stato l'errore enorme compiuto. Ebbene, lì chi è che ha retto? Un potere di fatto che era di fronte a partiti marmellata - tutti - e uno investito umanamente come lo era la DC. Ha retto la grande moralità dell'unico partito che esisteva, il Partito comunista, che si è assunto le sue responsabilità giacobine in una situazione che sicuramente Berlinguer non aveva compreso nel suo insieme, cioè con i problemi P2 ed altri. Si è sbagliata l'analisi storica e soprattutto abbiamo pagato - continuiamo a pagare - il fatto che non siamo indietro di 40-50 anni, ma temo più di due secoli; siamo tornati in una situazione nella quale il potere è titolare della legalità (esso stesso è legalità). Questi sono i problemi, e continueremo a dirlo. Anche sul caso Moro ritengo che occorrerebbe comprendere la ragione di quella strage (c'è anche la ragione di quella strage); sono chiarissimi - Leonardo Sciascia li aveva letti, ma non tutti - i messaggi arrivati allo Stato dall'interno delle BR, i quali dicevano che si stava per "beccare" Moro, che stava per accadere qualcosa e che dovevano impedirlo. Gli interlocutori probabilmente erano coloro che lo volevano provocare.

PRESIDENTE. Secondo lei, perché Renzo Rossellini preannuncia il rapimento di Moro da Radio Città Futura?

PANNELLA. Non solo Renzo Rossellini, ma anche due non vedenti; un non vedente che si recò ad Arezzo o a Pistoia il giorno prima, il quale diceva di aver sentito delle voci che affermavano che la mattina - era il giorno prima il rapimento - avevano fatto l'attentato a Moro, o una cosa del genere (è registrato alla questura); e un docente - mi sembra -di Scienze politiche all'Università di Roma, non vedente, che raccontava, lo stesso giorno, che in autobus aveva sentito due persone parlare di un attentato a Moro. Dall'interno coloro che avevano deciso di risparmiare alle BR - non so per quale motivo - l'errore o meno dell'assassinio dì Moro (probabilmente c'erano, da molti mesi) si sono accorti, probabilmente troppo tardi, che il loro modo dì impedirlo era invece un modo per assecondare tutto. Alla domanda di come fa Renzo Rossellini non so dare una risposta, signor Presidente; non so neanche rispondere a come abbiano fatto i due non vedenti o come facciano tutti, insomma. Poi però c'è via Gradoli, il lago della Duchessa... Noi in quei giorni, la mattina alle ore 8 in Aula, cercammo di porre il problema; guadagnammo tempo (non trattammo mai) perché questa "capperi" di polizia arrivasse. Lo dicevamo ufficialmente in Aula. Ho sempre creduto una aberrazione la trattativa, anche se devo riconoscere la grande nobiltà della frase di Sciascia, quando dice, dopo, per D'Urso: "Accettare questo ricatto comporta molto più onore che il respingerlo a spese della legalità e della vittima". Spero che la Commissione sappia spiegarci perché la legge non venne mai rispettata in quei casi, e le responsabilità.

FRAGALA’. Devo dare innanzitutto atto dell'importante contributo che l'onorevole Marco Pannella sta dando questa sera ai lavori della Commissione, per una lettura complessiva di fatti specifici, ma soprattutto per una ricostruzione di quelle che furono - non col senno del poi ma con quello del prima - le vicende e soprattutto i moventi politici di quei giorni. La prima cosa che voglio sottolineare è la seguente. Sono personalmente testimone - lo ho detto più volte - del fatto che l'onorevole Marco Pannella, per quanto riguarda la strage di Monte Covello, nella quale perirono il generale Mino e numerosi sottufficiali...

PRESIDENTE. Abbiamo già deciso che fu una strage?

FRAGALA’. Sì. ... dell'arma dei carabinieri, fin dal primo momento, cioè dal funerale a Girifalco e quindi fin dal momento in cui fu scoperto l'elicottero abbattuto a Monte Covello, parlò subito di attentato, di assassinio, e rivelò l'episodio dell'incontro con il generale Mino, che evidentemente non poteva mai essere un'invenzione e né un’esagerazione. Rispetto a questo episodio, quello che si deve lamentare (secondo me, sulla scorta di questa ricostruzione di Marco Pannella, bisogna consentire alla Commissione stragi di acquisire gli atti di quelle diverse inchieste e perizie giudiziarie, dell'Aereonautica e dell'Arma dei carabinieri) è il fatto che nessuna autorità giudiziaria e amministrativa e nessuna Commissione ritenne opportuno in quei giorni e in quelli successivi, nei quali l'opinione pubblica nazionale fu ferita da quella tragica vicenda, di interrogare formalmente Marco Pannella che, da esponente politico e da testimone di un incontro con il generale Mino, aveva riferito delle cose certamente inquietanti e importanti. Poi, il fatto che il generale Mino in quella occasione non dovesse prendere l'elicottero è affidato alle indagini della inchiesta e della magistratura, perché il generale Mino si recò in Calabria e fece venire da Roma la sua macchina (la 130 del comando generale) dal momento che il giro in quella regione lo doveva fare in automobile e non in elicottero. L'elicottero del comando generale, pilotato dal colonnello Sirimarco, fu fatto venire improvvisamente quel giorno senza che ce ne fosse motivo, anche perché la legione di Catanzaro era munita di un elicottero - anzi di due - del comandante, sul quale il generale Mino, in caso di necessità o di urgenza, avrebbe potuto benissimo prendere posto. Invece, stranamente fu fatto venire quell'elicottero; Mino ordinò che fosse piantonato nel cortile della caserma perché voleva che fosse guardato a vista. Quando si decise di usare l'elicottero per fare un percorso che in automobile avrebbe fatto impiegare appena 40 minuti (in elicottero ne occorrevano 6-7), Mino chiese che il tragitto per arrivare sulla costa fosse prima visionato e monitorato dall'elicottero del comandante della legione, che partì un quarto d'ora prima e via radio diede notizia che il percorso era assolutamente tranquillo e lineare. Inoltre l'elicottero non era andato a cozzare su Monte Covello nella parte prospiciente Catanzaro, tale da poter immaginare un improvviso banco di nebbia. Tutti sappiamo comunque che gli elicotteri vanno a vista e quando c'è un banco di nebbia, anche se in una giornata assolata, qualunque pilota elicotterista lo evita e lo supera o in altezza o su un'altra rotta.

PRESIDENTE. Era ottobre, vero?

FRAGALA’. Era il 31 ottobre. C'era una giornata di sole, tant'è vero che l'elicottero precedente passò in modo assolutamente tranquillo e comunicò via radio. Ebbene, l'elicottero è caduto nella parte di Monte Covello che guarda il mare. In altre parole, l'elicottero aveva già superato la montagna, non era andato a cozzare contro di essa come se il pilota non l'avesse vista a causa della nebbia. Il pilota aveva superato la montagna, c'era il declivio verso il mare. Stranamente l'elicottero cade sulla parte del monte prospiciente il mare. Vi è poi tutta una serie di vicende legate a quello che Pannella ha detto stasera.

PRESIDENTE. Visto che lei, anche per un doloroso episodio familiare, è così informato sulla vicenda, qual è la spiegazione ufficiale dell'incidente, quali sono le conclusioni dell'inchiesta?

FRAGALA’. La conclusione ufficiale dell'inchiesta stabilisce che si è trattato di errore umano del migliore comandante di elicotteri dell'Arma dei carabinieri.

PRESIDENTE. Che tipo di errore umano?

FRAGALA’. Si sarebbe infilato in un banco di nebbia e, una volta superato il monte, a causa della nebbia sarebbe tornato indietro andando a cozzare contro la montagna. E' una spiegazione che tutti gli esperti di aeronautica, ma soprattutto tutti gli esperti di pilotaggio di elicotteri escludono. E la escludono soprattutto tutti quelli che hanno conosciuto il colonnello Sirimarco.

PRESIDENTE. E invece la spiegazione diversa quale potrebbe essere? Un'esplosione?

FRAGALA’. La spiegazione diversa potrebbe essere o l'abbattimento dell'elicottero da terra o un'esplosione. Siamo nel 1977 e sappiamo che nel 1980 in Calabria faranno una perizia falsa e una commissione addomesticata arriverà a conclusioni incredibili sull'incidente del Mig.

PRESIDENTE. Non penso che su questo elicottero con gli altri ufficiali dei carabinieri ci sia andato il vice pretore onorario.

FRAGALA’. Il problema è che la zona dell'esplosione venne immediatamente recintata e resa assolutamente inaccessibile per chiunque e i risultati delle varie inchieste (quella giudiziaria, quella dell'aeronautica e quella dei carabinieri), che si sono chiuse in pochissimo tempo, non hanno dato una risposta tecnica alla teoria dell'incidente che fosse soddisfacente rispetto al fatto che quel percorso era stato utilizzato pochi minuti prima da un altro elicottero che non aveva trovato alcun banco di nebbia o altro. Si disse che, mentre l'elicottero del comandante della legione di Catanzaro aveva fatto rotta verso il mare, questo aveva percorso la rotta diretta, passando sulle serre. Però, poiché l'elicottero vola a vista, se ci fosse stato un banco di nebbia improvviso, la famosa nuvola di Fantozzi soltanto sul Monte Covello, l'ultimo dei piloti avrebbe virato e lo avrebbe evitato, a meno che non si voglia sostenere la teoria del suicidio collettivo o del pilota.

PRESIDENTE. Quante persone muoiono?

FRAGALA’. Muore il Comandante generale, il suo aiutante di campo, tenente colonnello Vilardo, il comandante della legione, colonnello Friscia, il secondo pilota, tenente Cerasoli, nonché due sottufficiali motoristi. Il comandante della legione prende posto su questo elicottero solo per caso e perché all'ultimo momento il comandante Mino gli chiede di andare con lui e un uomo dell'equipaggio rimane fuori.

PRESIDENTE. Non ci sono superstiti?

FRAGALA’. No. E allora il tema è proprio questo: perché non si è mai ascoltato Pannella e soprattutto perché non si è fatta mai una inchiesta seria sui dubbi che sono sorti immediatamente e che non hanno avuto mai nessuna risposta? Inoltre il fatto che Mino fosse malvisto dagli alti comandi dell'Arma lo abbiamo ascoltato da tantissimi alti ufficiali.

PRESIDENTE. Acquisiremo gli atti dell'inchiesta. Ora passiamo alla domanda.

FRAGALA’. La domanda è sul caso Moro e su via Gradoli. Abbiamo ascoltato dal senatore a vita Francesco Cossiga che, secondo lui, il partito della fermezza servì a salvare lo Stato e il Partito comunista, tanto è vero che Cossiga ci ha detto che quel 9 maggio era uscito da casa con la lettera di dimissioni.

PRESIDENTE. Per la verità Cossiga ha detto l'opposto: servì a salvare la DC.

FRAGALA’. No.

PRESIDENTE. Possiamo guardare lo stenografico dell'audizione.

FRAGALA’. Servì a salvare lo Stato e servì a salvare il Partito comunista perché un'eventuale trattativa avrebbe immediatamente aperto le cateratte della contiguità di una certa base del Partito comunista rispetto alle Brigate rosse. Se si doveva tenere fermo il recinto di una certa base ed evitare che questa tracimasse....

PRESIDENTE. Non ricordo che la deposizione di Cossiga sia stata in questo senso.

GUALTIERI. Cossiga dice: il Ministro dell'interno non poteva trattare. Se la Democrazia cristiana quella mattina avesse deciso in un certo senso io mi sarei dimesso.

FRAGALA’. Disse che aveva la lettera di dimissioni in tasca.

PRESIDENTE. E allora che c'entra il PCI?

GUALTIERI. Non lo dice. Dice che se vi fosse stato il caso di trattativa il Ministro dell'interno non avrebbe potuto fare niente.

FRAGALA’. La mia domanda è la seguente. Secondo il punto di vista di chi fu tra gli esponenti del partito della trattativa o comunque che fu favorevole all'ipotesi di salvare comunque la vita di Moro...

PANNELLA. Noi contrapponemmo la parola "dialogo" alla parola "trattativa".

FRAGALA’. Avete mai avuto l'impressione allora che chi fosse per la fermezza proclamata, cioè quella fermezza per cui alle forze dell'ordine non si dava nemmeno il tempo, anche attraverso un finto dialogo o una finta trattativa, di arrivare a scoprire la prigione di Moro, ne volesse in realtà la morte? Avete avuto fin dal primo giorno l'idea di dire che non si trattava, che Moro era pazzo o drogato, che le lettere non corrispondevano alla sua personalità e alla sua filosofia di vita? Mi chiedo se tutto questo non fosse, invece, un sistema per far sì che il partito della fermezza non servisse a liberare Moro ma servisse a farlo morire. Anche perché, e questa è la seconda domanda sullo stesso argomento, se è vero che in via Gradoli il partito trattativista all'interno delle BR tentò mille volte, noi lo abbiamo analizzato tre volte in modo provato, di far arrivare la Polizia in modo che da via Gradoli "saltasse" Moretti e con lui evidentemente il sequestro e si salvasse la vita di Moro, se tutto questo, compresa l'invenzione del professor Clò, del professor Andreatta, del professor Prodi...

PRESIDENTE. Andreatta non c'era.

PANNELLA. Non c'era ma poi subentrò, successivamente.

FRAGALA’. Se tutto questo alla fine non fece sì che vi fosse uno schieramento trasversale all'interno delle istituzioni o dei partiti, Democrazia cristiana, Partito comunista, eccetera e dall'altra parte all'interno delle Brigate Rosse per far sì che fallisse non soltanto qualsiasi possibilità di trattativa per liberare Moro ma soprattutto che nessuno arrivasse a liberarlo come poi si fece con Dozier attraverso un'azione dì Polizia. In proposito, vorrei conoscere la valutazione dell'onorevole Pannella.

PANNELLA. La valutazione che facemmo allora era che sicuramente ci trovavamo in presenza di una cultura dominante nel ceto dirigente italiano. Quindi, buona fede, ma una cultura molto diversa dalla nostra, e che si illudeva: la libertà e il diritto come fine e non la libertà, il diritto e la responsabilità come mezzo. E giocava la nozione dell'emergenza, del "quando" si entra in emergenza e le regole devono essere mutate. Questo appartiene sicuramente alla storia giacobina e comunque era abbastanza all'interno anche della storia comunista e a quella democratico-cristiana e ad una certa storia socialista: era sicuramente avvertibile come convinzione dominante.

PRESIDENTE. Però anche ad una cultura laica, perché la posizione di La Malfa, ad esempio, fu nettissima sulla questione.

PANNELLA. Stavo per dirlo; ho detto giacobina, altro che laica. La posizione di Ugo La Malfa - e non importa se vi fosse affetto, fino alla fine - drammatico, grande e profondo - sulla battaglia sul divorzio è sempre stata di vedere se si riusciva a fare la legge solo per i matrimoni...

PRESIDENTE. Però per Moro propose la pena di morte e disse che da quel momento in poi se lo avessero rapito le Brigate rosse le sue lettere dovevano essere disconosciute.

PANNELLA. E’ quello che sto dicendo, Presidente. La cultura di La Malfa era giacobina. Lui chiese la pena di morte; aveva esattamente l'essenziale della cultura giacobina: quando la Repubblica è in pericolo non ci sono regole, c'è da affermare la sovranità e la legittimità della sovranità dello Stato, punto e basta. Eravamo "vicini di banco" quando lui fece il suo intervento in Aula dicendo che occorreva rispondere alla morte con la morte, perché lo Stato aveva il dovere di farlo.

PRESIDENTE. Era una cultura di cui tutto quanto un popolo era figlio; avevamo sulla tessera il simbolo giacobino.

PANNELLA. Non è un caso se nel 1969 mi assumo la responsabilità di cambiare quel simbolo: abbiamo avuto la Repubblica giacobina e napoletana con quello che ha significato, ma abbiamo il giacobinismo come cultura che ci ha attraversato. Ma lei, Presidente dicendo questo conferma che non si può parlare di cultura della tolleranza. C'era una concezione etica del partito e dello Stato. Quando Ugo La Malfa chiedeva perché si stava "rompendo l'anima" a Dodo Battaglia che era il tesoriere, quando i soldi li aveva presi lui, io risposi: "Ma come puoi pretendere che Saragat sia considerato "straccione", mentre tu sei un eroe quando prendi i soldi?". Lui lo credeva. e si sacrificava per questo. Riccardo Lombardi non aveva una cultura diversa. In realtà, la cultura laica e liberale, nello stesso tempo intransigente e mite, era quella di Paggi, per restare al Partito di azione. Quindi io sentivo la grande sincerità di gran parte del Parlamento, quando parlava della pena di morte - e io ho ricordato un episodio al momento della ricezione della prima lettera perché ricordo dove eravamo e quanti eravamo - oppure, come Antonello Trombadori, affermava che Moro era meglio non uscisse più vivo perché centinaia di migliaia di contadini analfabeti avevano retto le torture naziste mentre lui, che si trova in queste condizioni per la prima volta... Inoltre, più si andava avanti e più si temeva quello che Moro poteva dire o non dire. Questa è stata la tesi prevalente: nelle condizioni di prigionia in cui si trova, Moro non è più padrone di se stesso. Si trattava di un legittimo terrore su che cosa potesse fare o dire, direi anzi un terrore doveroso: se la regola non deve essere rispettata, se è possibile escludere il Parlamento, se è possibile escludere il rispetto dello statuto della Democrazia cristiana e se anche non è possibile avere umiltà dinanzi a dei colleghi che chiedono il rispetto dei Regolamenti, e ci voleva molta buona fede.

PRESIDENTE. Lei ritiene che questa cultura abbia poi potuto influenzare più o meno consciamente la debolezza della risposta degli apparati di sicurezza?

PANNELLA. Vorrei che si prendesse atto che ciò che ci ha consentito di continuare a vivere in mezzo a questi colleghi è proprio questo: c'era rispetto. C'erano accuse gravissime da parte nostra, ma non si trattava di insulti; non si trattava per noi di questione di una diversa dignità. Questa è la differenza tra gli insulti e le precise accuse che facevamo. Lì si è inserito quello che lei ha già detto magistralmente: cosa potevano rappresentare le "cellule di crisi" che si riunivano nel vuoto di certezza del diritto? Il Parlamento non era più tale, il Governo non era più tale, la direzione del partito non era più tale; c'erano delle "cellule di crisi" che erano determinate dalla forte moralità, dal prestigio e dal carisma di Enrico Berlinguer, tormentato - ed in questo è fortissimo -, con attorno però anche i caratteri di Pajetta, di Pecchioli e degli altri. A fianco c'era poi il tormento di Zaccagnini e la singolarità di Cossiga, nonché il ruolo di Andreotti, che io non sono riuscito mai a comprendere, nel senso che per me è una zona buia. Non c'erano solo le "cellule di crisi" non solo questo D'Amato di cui parliamo noi che non sappiamo nulla del potere; c'è il fatto che i Capi di stato maggiore e dei Servizi sono tutti della P2 e Berlinguer ad un certo punto dice che loro non davano indicazioni ma ascoltavano, ed eventualmente facevano obiezioni. Le obiezioni le fecero solo nei confronti di Malizia, perché aveva fatto delle cose con i tedeschi, non so cosa. Abbiamo poi le cene - che sono un fatto importante perché evidenziano una certa solidarietà umana - di Pecchioli con i tre capi di stato maggiore ed i tre capi dei Servizi, e la giusta e comprensibile fiducia nei confronti di quest'uomo, partigiano e persona seria, da parte di questi militari, alcuni in malafede, altri in ottima fede, che però non capiscono nulla, non sanno nulla, non sanno dov'è il referente politico perché non c'è più; non è il Presidente della Repubblica o altri. Questo è il disastro. In tutto ciò si sono affermati anche dei meccanismi para-ufficiali. Il Ministro dell'interno, il Governo e la maggioranza fanno passare quella piccola riforma per la quale il Ministero dell'interno, cioè D'Amato, poteva chiedere notizie, in violazione del segreto istruttorio, su tutto ciò che si stava facendo da parte dei magistrati nelle indagini per terrorismo, lì dove quindi c'era il timore di inquinamenti, della P2 eccetera. Noi che eravamo gli ultimi arrivati non "reggiamo", lasciamo, perché non è possibile... Diciamo: se avete un funzionario infedele o uno "americano" o altro, a questo punto non ci sarà una sola inchiesta. Due giorni dopo che il decreto era stato presentato, il nostro ostruzionismo era inutile perché di già erano partite le richieste. Il fatto che si dovesse praticamente sospendere in un altro periodo, in un momento difficile, il diritto di manifestare in tutta Italia con quello che comporta...

PRESIDENTE. Ritorniamo alla domanda.

PANNELLA. La risposta è che nel vuoto del rispetto della legalità e della sospensione della legalità dello Stato, assolutamente illegale, illegittima e fuori legge, è chiaro che i poteri reali e le incapacità reali si affermano. E’ quello che è accaduto per via Gradoli e per tante altre occasioni; perché ci sono anche i funzionari della polizia di Roma che appartengono alla P2.

PRESIDENTE. In una recente trasmissione radiofonica lei ha detto che anche l'individuazione del Lago della Duchessa poteva essere un segnale d'allarme per le Br, perché c'era il sospetto che in quella zona avessero un ripetitore radiofonico; come l'irruzione a via Gradoli poteva essere una forma di segnale.

PANNELLA. Le dirò di più. Sul Lago della Duchessa all'inizio caddi anch'io, perché erano giorni, giorni e giorni che stavamo chiedendo di affidare eventualmente a nuovi responsabili il proseguimento delle ricerche. Non si capisce come mai si va a finire sul Lago della Duchessa; si è parlato di una seduta spiritica.

PRESIDENTE. Cori ogni probabilità si sa chi ha fatto il falso comunicato sul Lago della Duchessa: un falsario vicino alla banda della Magliana e vicino ai Servizi.

PANNELLA. Qui veniamo ai vuoti. Ricordo di aver dovuto bisticciare con Franco De Cataldo (con il quale c'era quasi un rapporto tra fratello minore e fratello maggiore) perché quando c'era stata la storia della banda dei marsigliesi, proprio all'inizio di tutte queste vicende, egli mi aveva detto che un generale di pubblica sicurezza gli aveva chiesto di fare l'avvocato di quello scemo di suo figlio, con la paura che lo stessero raggirando. Dissi: non è cosa... Dopo un anno seppi che alla fine l'avvocato De Cataldo, che era un ottimo avvocato, aveva accettato l'incarico. Si parlava costantemente o della banda della Magliana o delle vicende attorno a Pecorelli, il quale tre giorni dopo il suo assassinio avrebbe dovuto incontrare Gelli. Anche qui non vorrei avere quella brutta cosa che è il rispetto umano nel senso teologico della parola, che è una orribile cosa. Quindi parlo: è possibile che tutti i libri di Piazzesi, gli atti certi, di Stato, ci dicono che ancora nel 1972 abbiamo un compagno Carobbi di Pistoia sicuramente antifascista, partigiano, che scrive una lettera che dice che Gelli va bene? L'aveva fatto nel 1952 e poi nel 1957, ma lo scrive ancora nel 1972. Ci sono pure queste cose che hanno un po' giocato. Sono convinto che a Roma, a Botteghe oscure, vi era magari qualcuno che non ha saputo perché c'era qualcosa che bloccava, a livello di base o a livello marginale. Anche questa lettura del doppio gioco di Gelli - i rumeni o non i rumeni, magari solo il commercio delle carni - viene del tutto scartata. Devo dire, Presidente, che la specifica lettura "americana" della P2 personalmente non mi trova d'accordo. Mi meraviglierebbe che non ci fossero anche gli americani; c'era tutto: i rumeni, gli americani, gli argentini e in parte è vero che si trattava di un insieme di affari e di malaffari. Ma dove viene fuori un elemento di gestione politica della cosa, a mio avviso è con il caso Moro (per quello che non sappiamo bene, appunto, dei vari centri di gestione) e con i casi D'Urso e Cirillo.

PRESIDENTE. Lei, sempre in quella trasmissione radiofonica, ha citato un episodio a proposito del golpe Borghese.

PANNELLA. Avevo un rapporto di grande amicizia con Pino Romualdi, che tra l'altro nacque nel momento in cui lui mantenne la sua posizione favorevole al divorzio mentre l'onorevole Almirante, che anche lui era stato favorevole, avendo assunto la segreteria del partito aveva preso un'altra posizione per i motivi che tutti conosciamo. Mi ricordo di averlo visto da Giolitti, di aver parlato con lui perché era contrario alla pena di morte. Egli era parlamentare europeo, abbiamo continuato a vederci. Bene o male ha condiviso le altre battaglie che continuavamo a fare sulla pena di morte, anche quelle sulla legge Reale e altre, sulle quali si era pronunciato molto nettamente. Una sera, eravamo a Bruxelles, mi racconta un po' di cose, tra cui anche che Borghese aveva pure lui un mucchio di simpatia per me, per il mio linguaggio. Gli rispondo di non aver mai visto Borghese e gli chiedo del golpe. Lui sta zitto. Dopo tre o quattro giorni ci rivediamo e dice che mi doveva raccontare una cosa, così avrei capito com'era la vita da loro. Dice di averlo continuato a vedere, e che Borghese gli aveva chiesto: tu sei pronto?

PRESIDENTE. Gli preannuncia un'azione imminente.

PANNELLA. Imminente no, ma gli preannuncia qualcosa di molto importante, sul quale probabilmente occorre dismettere le prudenze e i calcoli politici normali. Immagino si tratti di questo. Romualdi gli chiede di poter riflettere, dicendo che dovevano parlarne, se si trattava di una cosa del genere, magari alla presenza della moglie. Nel frattempo Romualdi aveva maturato una convinzione e chiese a Borghese se gli poteva assicurare che era lui che guidava e comandava le decisioni: se era così ci sarebbe stato, altrimenti no. Chiese: puoi assicurarmelo? Borghese non glielo assicura e quindi Romualdi esce dalla cosa.

PRESIDENTE. Va bene. Ora è il turno dell'onorevole Corsini.

FRAGALA’. Signor Presidente, non ho fatto ancora nemmeno una domanda. Se volete, possiamo aggiornare i nostri lavori, perché il senatore deve fare diverse domande, io devo fare diverse domande; è un'occasione importante.

CORSINI. Signor Presidente, vorrei trarre spunto da questa conversazione per ribadire un suggerimento che mi sono permesso di avanzare, e cioè che i commissari che si prenotano per formulare interrogativi e domande alle personalità che vengono audite abbiano a disposizione un tempo, che può essere fissato in un quarto d'ora, in venti minuti, per poi eventualmente, finito il giro, ricominciare. Altrimenti capita, al di là della cortesia dell'onorevole Fragalà che tante volte ha interrotto la sua attività di interrogante per lasciare il posto a me o viceversa, che non vi sia un'equa distribuzione dei tempi. Credo che sia un problema che dobbiamo in qualche misura affrontare e risolvere.

PRESIDENTE. Penso che lei abbia ragione; decidiamo però che cosa vogliamo fare. Vogliamo interrompere, vogliamo proseguire? Sono a vostra disposizione.

CORSINI. Se l'onorevole Pannella fosse disponibile a partecipare ad una tranche di un'altra seduta, credo che gliene saremmo grati.

PANNELLA. Sono disponibile per tutto il tempo che vorrete sentirmi.

PRESIDENTE. Ringraziamo pertanto l'onorevole Pannella. Rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta.

La seduta termina alle ore 00,15 del 29 gennaio 1998.

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