Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

34ª SEDUTA

MERCOLEDI 3 GIUGNO 1998

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

Indice degli interventi

PRESIDENTE
SILVESTRI
DE LUCA Athos (Verdi - l'Ulivo), senatore
FRAGALA' (AN), deputato 1 - 2
GRIMALDI (Rif.Com.), deputato
GUALTIERI (Sin.Dem.-l'Ulivo), senatore 1 - 2
TARADASH (Forza Italia), deputato
TASSONE (Misto-CDU), deputato

La seduta ha inizio alle ore 19,45.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.

Invito il senatore De Luca Athos a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

DE LUCA Athos, segretario f.f., dà lettura del processo verbale della seduta dell'11 marzo 1998.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato. E' approvato.

 

COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE

PRESIDENTE. Informo i colleghi che, nella riunione dello scorso 26 maggio 1998, l’Ufficio di Presidenza allargato ai rappresentanti dei Gruppi ha deliberato la costituzione di un Comitato di redazione, composto dai senatori Cò, Follieri e Mantica e dai deputati Corsini, Taradash e Tassone, perché provino a redigere una proposta di relazione, sia pure non conclusiva, della Commissione, avvalendosi dell'apporto dei professori De Lutiis e Ilari, che naturalmente potranno poi chiedere su singoli punti la collaborazione di altri consulenti.

La valutazione che si è fatta nell'Ufficio di Presidenza è che i tempi e l'avanzamento della nostra indagine siano già maturi per poter portare ad una enumerazione delle cose vere, se non delle verità, per il periodo che va dal 1969 al 1974, naturalmente spiegandole sulla base di cose vere che sono emerse nel periodo precedente. Potrà poi non esserci una concordanza sulle valutazioni e sulle spiegazioni politiche di ciò che è avvenuto, ma i risultati degli ultimi incontri seminariali con i consulenti, dei contributi dei consulenti a seguito del mio questionario, ci fanno pensare che per lo meno un tentativo possa essere fatto. Poi spetterà al Comitato valutare se questa enumerazione di cose vere, in maniera tale da delineare un quadro d'insieme abbastanza certo, sia possibile anche per il periodo successivo. L'Ufficio di Presidenza ha comunque ritenuto che per il periodo successivo ulteriori atti d'inchiesta siano opportuni, soprattutto in ordine alla vicenda Moro e quindi all'inchiesta sulle Brigate rosse e sul terrorismo di sinistr; per questo abbiamo deliberato una serie di audizioni. Enumero soltanto le prime che abbiamo in animo di fare: quelle del professor Silvestri, dell'esperto americano Pieczenik (che però, già contattato dai nostri uffici solertemente a seguito di uno scambio di fax intenso nella giornata di ieri, ha detto che non può venire. Questo rende ancora più interessante l'audizione di questa sera, perché il professor Silvestri fu quello tra gli esperti più a contatto con l'esperto americano, per lo meno da quello che risulta dalla documentazione in nostro possesso), del professor Clò, del professor Baldassarri; poi c'erano anche altre audizioni che adesso a memoria non ricordo ma che sono state deliberate.

 

INCHIESTA SUGLI SVILUPPI DEL CASO MORO: AUDIZIONE DEL PROFESSOR STEFANO SILVESTRI

Viene introdotto il professor Stefano Silvestri

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Silvestri della sua disponibilità. Voi ricorderete, colleghi, che il professor Silvestri è stato uno degli esperti che hanno collaborato con il Ministero dell'interno durante i 55 giorni del sequestro Moro. Il dottor Silvestri è stato già sentito dalla Commissione Moro e in quella sede precisò che in realtà il suo impegno nella vicenda non durò l'intero periodo del sequestro, perché dal 16 aprile - lei inizialmente aveva detto luglio, ma poi si corresse perché si era confuso - lasciò l'Italia per precedenti impegni di lavoro.

La prima domanda che rivolgo al professor Silvestri è se questo comitato di esperti, anzi, questo gruppo di esperti, che si aggiungeva al comitato interministeriale per la sicurezza - che però era un organo istituzionale - e poi ad un altro comitato di gestione della crisi, che fu inizialmente presieduto dall'allora ministro dell'interno Cossiga e poi dal sottosegretario Lettieri, era un organo collegiale, sia pure informalmente costituito, o invece si trattava piuttosto di singoli esperti contattati dal Ministro dell'interno che davano, ognuno per conto loro, il proprio contributo. Le chiedo, inoltre, se ci può spiegare come funzionò la collaborazione collettiva o la sua collaborazione individuale, con quali altri membri di questo comitato ebbe contatti e come si svolse il contributo di questo comitato o dei singoli esperti.

SILVESTRI. Signor Presidente, io venni contattato da Cossiga qualche giorno dopo il rapimento dell'onorevole Moro - credo 5 o 6 giorni dopo - e invitato a venire nel suo ufficio al Viminale per discutere del problema degli eventuali coinvolgimenti internazionali in questo rapimento e del clima internazionale che poteva aiutare od ostacolare i problemi derivanti da questo rapimento. Allora mi disse che lui consultava anche altre persone, ma non venimmo mai costituiti in comitato. Di queste altre persone io vidi essenzialmente lo psichiatra criminologo, dottor Ferracuti, che veniva spesso al Ministero. In pratica, Cossiga mi chiese di preparare alcuni appunti e di discutere con lui i problemi che di tanto in tanto si ponevano, lui si poneva, sulla base di eventuali documentazioni o informazioni che mi forniva lui direttamente, cioè non su una base in qualsiasi maniera istituzionalizzata o formale. Questa attività è andata avanti all'incirca fino al 16 aprile, che è la data in cui poi mi recai negli Stati Uniti. Tornai poi dagli Stati Uniti prima della fine della vicenda Moro, però non ebbi più contatti diretti con il gruppo; sentii Cossiga telefonicamente, ma non ebbi più contatti diretti con la vicenda.

Quindi questo venne chiamato "gruppo", però gruppo non era, per quello che mi risultava; mi sembrava che fossimo essenzialmente dei consulenti del Ministro, in qualche misura, senza neanche una nomina formale in tal senso. Gli argomenti discussi erano, per quanto mi riguardava, quelli del coinvolgimento internazionale, degli eventuali legami internazionali delle Brigate rosse e poi, naturalmente, il problema di come comportarsi rispetto all'ipotesi negoziale e così via. Nel frattempo venne anche a Roma Pieczenik, che era allora deputy assistant secretary of State nel US Government, assistente vicesegretario di Stato americano ed era sostanzialmente il responsabile della sala crisi e in particolare di tutte quelle crisi che potevano coinvolgere rapimenti o minacce a cittadini americani all'estero. Pieczenik aveva avuto un'esperienza in questo senso come negoziatore sia in Colombia e in Venezuela sia con la polizia di New York, che era una delle più sofisticate in questo genere di problemi, di presa di ostaggi e così via.

Pieczenik venne in Italia come inviato del governo americano per vedere se poteva - così mi fu detto - dare una mano ad inquadrare il problema. Io lo vidi varie volte, credo essenzialmente perché ero uno dei pochi che parlasse inglese, ma anche perché - così mi spiegò in uno strano incontro al Ministero dell'interno il generale Grassini - i servizi avevano qualche dubbio sul mettere in contatto troppo stretto e diretto il Ministro con questa persona che ritenevano fosse legata alla CIA, perché - così dicevano - poi si sarebbero potuti tirare fuori i profili psicologici dei nostri ministri, dei nostri uomini di Governo, e la cosa avrebbe potuto essere delicata. Comunque Pieczenik vide Cossiga varie volte; personalmente, avrò visto Pieczenik cinque o sei volte in Italia e poi lo rividi in America, dopo il 16 aprile. Lo rividi proprio il giorno in cui venimmo a conoscenza della questione del Lago della Duchessa; a quell'epoca pensavamo che la faccenda fosse vera e ne discutemmo in questa chiave.

PRESIDENTE. In America, quindi.

SILVESTRI. Sì, a Washington, all'epoca era già tornato a Washington. Discutemmo degli eventuali seguiti, di che cosa fare dopo la conclusione eventuale della crisi, buona o cattiva che fosse, se cioè ci si potesse preparare meglio per il futuro a gestire crisi di questo genere. Parlammo a lungo di questo aspetto, di come ci si potesse preparare meglio; elencai poi alcuni dei suggerimenti emersi in un appunto al Ministro.

Questo è un po' il quadro; l'atmosfera era quella di questi colloqui largamente informali e, in un certo senso, di riflessione. Per quanto riguarda gli argomenti, sulla questione dei negoziati Pìeczenik, che era un negoziatore come formazione, era favorevole a cercare di aprire un negoziato con le Brigate rosse. Naturalmente egli sosteneva la tesi secondo cui solo con il negoziato non soltanto forse si può salvare l'ostaggio - bisogna vedere se ci si riesce o meno - ma si può cercare di capire meglio quali siano gli obiettivi e la reale consistenza del gruppo; è l'approccio classico delle polizie in genere e delle strutture di negoziato per le prese di ostaggi. Io gli feci presente allora che era un po' difficile per il Governo in quella situazione aprire un negoziato diretto con le Brigate rosse e infatti discutemmo, anche con Cossiga, l'ipotesi di un negoziatore terzo, cioè di qualcuno che fosse informalmente incaricato dal Governo, o dal Ministro, e che aprisse un negoziato, con una etichetta umanitaria o qualche cosa di simile, con le Brigate rosse, proprio per cercare di avviare una qualche forma di contatto diretto. Ricordo che allora, per lo meno nei giorni in cui fui ancora informato di queste vicende, la nostra impressione era che in realtà non vi fosse molta possibilità di contatti diretti, che le Brigate rosse preferissero non parlare direttamente ma far parlare Moro, quindi negoziare attraverso l'ostaggio; e questa - ricordo di averne discusso anche con Pieczenik - era una cosa assolutamente inaccettabile. La trattativa doveva svolgersi con i rapitori e non con l'ostaggio, che era caso mai quello da salvare o di cui in qualche maniera si doveva alleviare la posizione, non rendendolo uno strumento di ulteriore aggravamento della situazione; questo sembrava a noi.

Di quelle discussioni ricordo anche Ferracuti, che uscì fuori con la famosa "sindrome di Stoccolma" e teorizzò tutta la faccenda della dipendenza psicologica dell'ostaggio dai rapitori; non che si vedesse moltissimo, a mio avviso, dalle lettere di Moro, comunque questa fu la teoria che venne avanzata all'epoca, con molta forza devo dire, da Ferracuti. Noi non eravamo informati dell'andamento delle indagini giorno per giorno, quindi non avevamo un contatto diretto con le forze di polizia. L'impressione, da quei pochi contatti che abbiamo avuto - per esempio ne ebbi uno, proprio con Pieczenik, con un colonnello dei carabinieri da cui venimmo mandati, ritengo del SISDE...

PRESIDENTE. Ricorda il nome?

SILVESTRI. No, non lo ricordo; era un colonnello che ci spiegò la struttura per cellule dei partiti clandestini, con lunghe citazioni di Lenin. La nostra impressione, dicevo, era che vi fosse una fortissima impreparazione ed una scarsissima conoscenza del fenomeno e della realtà delle Brigate rosse. Pieczenik ad un certo punto era arrivato, quasi in chiave provocatoria, a sostenere la possibilità del "grande vecchio": in una situazione del genere, disse, è possibile che la vera mente di questo rapimento sia più vicina al centro di quanto voi vi aspettiate? Naturalmente, però, non avevamo elementi per sostanziare un'affermazione di questo genere, né li aveva lui.

Secondo me, quando partii per l'America sostanzialmente giravamo in tondo; non c'era un’idea precisa di quello che si dovesse fare. Ricordo che Cossiga era umanamente molto scosso; molto deciso a non avere cedimenti dello Stato, ma personalmente molto scosso per la vicenda personale e soprattutto umana di Moro, per cui oscillava a volte anche psicologicamente sulla vicenda.

PRESIDENTE. La ringrazio, professor Silvestri. Prima di dare la parola ai colleghi della Commissione volevo farle alcune domande. Contattaste mai l'allora colonnello o capitano Bozzo, un uomo che aveva collaborato con Dalla Chiesa e che qui in Commissione ci ha detto di essere venuto a Roma ma di non essere stato utilizzato, tanto è vero che la sera se ne andava al cinema?

SILVESTRI. Non ricordo questo nome, ma in genere non ebbi contatti con le Forze di polizia, a parte quel colonnello o tenente colonnello di cui non ricordo il nome che incontrammo alla Scuola dei carabinieri sulla via Aurelia.

PRESIDENTE. E che ebbe l'impressione fosse un uomo del SISDE.

SILVESTRI. Credo che lo fosse, ma lui non ce lo disse. Venimmo solo informati che doveva fare un briefing sulle Brigate rosse. Chiesi a Pieczenik se voleva andare e lui rispose di sì: la cosa ci interessava molto. Però uscimmo con l'idea...

PRESIDENTE. Lei esclude che fosse uno dei carabinieri del nucleo di Dalla Chiesa.

SILVESTRI. Non lo escludo: non lo so.

PRESIDENTE. Aveste mai contatti col Comitato di gestione tecnico-politico della crisi presieduto da Lettieri?

SILVESTRI. No. Ho visto una volta Lettieri, ma non avemmo contatti con quel gruppo di gestione.

PRESIDENTE. Salvo che con Ferracuti, ebbe contatti con altri esperti designati da Cossiga, per esempio con il professor Cappelletti?

SILVESTRI. Forse vidi una volta Cappelletti; a volte ci si incontrava presso l'ufficio di Cossiga. Del resto, lo conoscevo da prima e quindi può anche essere che l'abbia incontrato, ma non ricordo bene.

PRESIDENTE. Ma che contributo poteva dare una persona come Cappelletti?

SILVESTRI. Non ne ho idea. A me venne chiesto un appunto sulla situazione internazionale e di fare ipotesi in ordine alle intenzioni delle Brigate rosse, argomento piuttosto vago dal mio punto di vista. Inoltre mi venne chiesto un appunto sull'eventuale ristrutturazione dell'Amministrazione per gestire meglio fatti di questo genere nel caso si fossero verificati di nuovo. Ricordo che, quando era ormai tutto finito, dissi a Cossiga una cosa che sosteneva con convinzione anche Pieczenik, cioè che molto probabilmente l'Amministrazione aveva molte più informazioni di quelle che erano state utilizzate e che quindi moltissime informazioni dovevano essere state utilizzate male o erano andate perse. Questo anche senza che vi fosse necessariamente la volontà di nuocere all'ostaggio o di favorire le Brigate rosse. Lui sostenne che forse sarebbe stato necessario compiere una sorta d'indagine amministrativa segreta, non alla ricerca delle responsabilità penali o amministrative, ma per verificare esattamente tutti i passaggi, anche quelli minimi, dell'azione dello Stato durante la crisi così da appurare quali erano stati gli errori maggiori compiuti dagli apparati e comprenderne le ragioni. Ricordo che sostenni che mi sembrava interessante fare questa indagine, ma Cossiga si dimise immediatamente e l'idea con ogni probabilità venne completamente abbandonata.

PRESIDENTE. Lei diede i suoi appunti per iscritto, quindi in modo documentabile?

SILVESTRI. Feci alcune chiacchierate e consegnai un paio di appunti.

PRESIDENTE. Riesaminando la vicenda a distanza di vent'anni sembra che la sua valutazione di allora venga confermata con forza. Sulla stampa sono apparse notizie dalle quali emerge che moltissime furono le informazioni male utilizzate o comunque non utilizzate al meglio. Addirittura nell'Amministrazione vi erano persone che già da diversi anni combattevano le Brigate rosse e avevano ottenuto anche notevoli successi, come Dalla Chiesa e Santillo, ma che non vennero chiamate a dare il loro contributo: non gli venne chiesto neppure di "spiegare" le Brigate rosse.

SILVESTRI. Sarebbe stato interessante; sarebbe stata una buona cosa. Credo che effettivamente ci siano state improvvisazione ed impreparazione molto forti a livello amministrativo e dal punto di vista gestionale. Questa era l'impressione che avevamo noi. Non conosco le ragioni per cui queste persone o altre non vennero contattate; non so se ciò avvenne per gelosie professionali o per motivi del genere. Posso sospettarlo, ma il risultato praticamente era che la struttura non funzionava e soprattutto non metteva a fattor comune tutte le informazioni. Questo sembrava essere evidente. Francamente, dall'atmosfera che si respirava, fatta di continue riunioni, caratterizzata dalla sorpresa continua, si comprendeva che non c’era uno sfruttamento sistematico delle informazioni.

PRESIDENTE. Quando è stato ascoltato dalla Commissione Moro, ha detto che, subito dopo i fatti, tornato negli Stati Uniti, registrò soprattutto apprezzamento per l'atteggiamento assunto dal Partito comunista di chiusura all'ipotesi di trattative. Vuole ripetere questo concetto alla Commissione?

SILVESTRI. Questo atteggiamento venne molto apprezzato perché si ritenne che il Partito comunista italiano non avesse giocato alla sfascio. A livello di analisi politica da parte americana, quello che si temeva soprattutto era che la vicenda Moro avrebbe potuto portare ad una pericolosa crisi politica interna, malamente gestibile. Il fatto che il Partito comunista dell'epoca non avesse remato contro ma avesse, in un certo senso, difeso la tenuta dello Stato venne visto come segno di grossa maturazione politica e quindi indice positivo dello sviluppo di quel partito. Forse venne sottovalutato l'aspetto, più tradizionale e legato alla cultura del Partito comunista italiano, di opposizione alle sue estreme: ma questo gli americani non lo percepirono; sottolinearono soltanto la difesa dello Stato.

PRESIDENTE. Riflettendo oggi, a distanza di venti anni, su quella vicenda, ritiene che la posizione assunta dal PCI potesse essere influenzata da questa volontà di autolegittimazione?

SILVESTRI. Non lo so. A mio avviso il Partito comunista già si sentiva legittimato come forza dell'arco costituzionale. La decisione del PCI di appoggiare sin dall'inizio la cosiddetta linea dura fu certo molto rapida. Sicuramente in seguito la cosa venne anche utilizzata a scopo politico, ma a mio avviso si trattò di una reazione culturale immediata della dirigenza comunista. Forse mi sbaglio, perché non conosco il dibattito interno al partito, ma ho l'impressione che sia stato quasi un riflesso automatico quello del rifiuto del terrorismo di estrema sinistra. Ho l'impressione che quasi non ci sia stato dibattito.

PRESIDENTE. Ebbe l'impressione che, dall'una e dall'altra parte, ci fossero elementi della struttura ed elementi politici che tutto sommato non valutassero negativamente una conclusione tragica della vicenda?

SILVESTRI. No. Era certo molto presente la possibilità di una conclusione tragica della vicenda. Anzi Pieczenik era convinto che dal punto di vista dell'eventuale colpo allo Stato sarebbe stato più utile per le Brigate rosse liberare Moro piuttosto che ucciderlo, ma forse questi sono ragionamenti eccessivamente sofisticati.

PRESIDENTE. E’ una valutazione che è riecheggiata spesso in questa Commissione, anche da parte di brigatisti dissenzienti.

SILVESTRI. Forse tra Cossiga e Andreotti - era questa la mia impressione - il più duro era Andreotti; Cossiga - ripeto - umanamente era molto coinvolto e assumeva il suo dovere di difendere la posizione dello Stato come una sorta di dovere assoluto, per cui era contrario alla trattativa, ma l'apparenza era che ciò andasse contro i suoi sentimenti.

PRESIDENTE. Il figlio di Moro ha scritto proprio in questi giorni che le Brigate rosse hanno compiuto una serie di sequestri che in genere non si sono mai risolti con l'uccisione dell'ostaggio, ma si sono sempre conclusi positivamente o con un'azione di polizia, che con la forza ha individuato il luogo della prigionia ed ha liberato l'ostaggio, o con una trattativa che ha portato alla liberazione dello stesso. Sostiene che solo nel caso di suo padre non è stata seguita né una strada né l'altra. Noi abbiamo compreso perché non fu imboccata la strada della trattativa, ma vi è l'impressione che non venero chiamati i responsabili della sicurezza (ad esempio il questore di Roma) per dire loro che se in 15 giorni non avessero scoperto dove fosse Moro per l'inefficienza sarebbe saltata qualche testa. Non emerge l'idea che si ritenesse importante non trattare, ma insieme individuare dove Moro si trovasse per cercare di liberarlo.

SILVESTRI. Questa idea c'era, però si aveva anche l'impressione che in realtà la polizia non riuscisse a raccogliere le informazioni necessarie. Per quanto riguarda la trattativa, la mia impressione all'epoca (ed anche adesso) era che il caso Moro fosse particolarmente anomalo, non solo per la figura dell'ostaggio, ma perché le Brigate rosse avevano assunto la strana posizione di non negoziare in prima persona.

PRESIDENTE. Ma di farlo attraverso l'ostaggio.

SILVESTRI. Sì, esattamente. Ricordo che ne discutemmo e convenimmo che un negoziato attraverso l'ostaggio era estremamente pericoloso: non vi era un rapporto con i rapitori, ma una sorta di lacerazione interna fra l'ostaggio e la classe politica italiana di cui faceva parte; quindi sostanzialmente non vi era un negoziato. Affermammo che se questo fosse stato instaurato con le Brigate rosse si sarebbe potuto discutere, se invece avveniva con Moro si poteva solo chiedere di liberarlo; ricordo che Cossiga verso la fine disse: "Ho l'impressione che Moro sopravviverà soltanto se le Brigate rosse riusciranno a convincersi che per loro è meglio liberarlo". Questo è ciò che sperava.

PRESIDENTE. Secondo me è stata una scelta politica delle Brigate rosse quella di far diventare Moro il capo del partito della trattativa, proprio per inserire una contraddizione nel quadro politico italiano.

SILVESTRI. Probabilmente sì, credo sia stata una scelta, però era anche una decisione che da parte del Governo non poteva essere accettata. Il Governo avrebbe potuto compiere meglio l'operazione di polizia, comunque a mio parere detta scelta non poteva essere accettata, per lo meno è quanto mi sembrava e mi sembra tuttora. Le Brigate rosse hanno avuto qualche successo utilizzando Moro come cuneo, però poi uccidendolo hanno in pratica chiuso negativamente la loro azione.

PRESIDENTE. E’ una valutazione ampiamente condivisa anche all'interno di questa Commissione.

GUALTIERI. Dottor Silvestri, l'interesse che questa Commissione ha, rivisitando il caso Moro dopo 20 anni, è valutare i due punti che ancora potrebbero cambiare il quadro finora delineatosi: il primo è riuscire eventualmente a scoprire che qualcuno, inserito a qualche livello decisionale, politico o meno, dello Stato conoscesse in anticipo che si voleva rapire Moro e non l'ha detto; il secondo punto è verificare se, una volta rapito Moro, qualcuno possa aver frenato le indagini portando praticamente alla conclusione negativa della vicenda. Questi sono i due punti principali che potrebbero cambiare il quadro. Sul primo vi è un problema che prima il Presidente non ha riferito: è stato deciso di convocare il giudice Priore perché in una intervista recente ha dichiarato che lui ed il giudice Imposimato scoprirono, non si sa in quale momento, che in Francia fra il gennaio ed il marzo 1978 si sapeva che era in preparazione il rapimento od un attacco a Moro. Questo aspetto può essere approfondito e se il giudice Priore ci fornirà elementi in merito, rappresenterebbe uno dei punti che la Commissione dovrebbe ancora esaminare, molto più importante di quale fosse il numero esatto dei brigatisti o di altri particolari: a mio giudizio - ripeto - i punti decisivi sono quelli che ho indicato.

Per quanto concerne il secondo punto, ossia se siano state frenate le indagini per trovare e liberare Moro, viene ripresa ancora oggi la polemica, del tutto inutile, fra la linea della trattativa e la linea dura, della fermezza, che rappresentava una posizione obbligata dello Stato ed un riflesso condizionato di tutti. Dottor Silvestri, lei ha dichiarato che fu rapida la decisione del Partito comunista nel seguire la linea dura; devo dire che allora furono rapide le decisioni non solo dei partiti, ma anche della stampa e dell'opinione pubblica. Fu un riflesso immediato! Ricordo quei giorni nella giunta regionale di cui facevo parte: anche nel suo interno ci fu un immediato riflesso in tal senso. La vera questione, però, è come vennero condotte le operazioni volte alla liberazione di Moro ed alla ricerca della prigione e dei responsabili del sequestro. In merito vi sono problemi molto complicati perché dopo venti anni non siamo ancora riusciti a procurarci la documentazione su come hanno operato tutte le forze di polizia o di sicurezza nazionali in quei 55 giorni e, direi, anche prima. Come erano dislocate le forze e come operarono? Come si comportò la magistratura? Non possediamo alcun verbale.

PRESIDENTE. Dal 3 aprile in poi.

GUALTIERI. In ogni modo, quando il 6 novembre dell'anno scorso Cossiga è stato qui per l'ultima volta, ha detto alla Commissione che aveva creato due comitati: uno tecnico-operativo, frequentato da un lungo elenco di personaggi (che di fatto dopo pochi giorni fu presieduto da Lettieri), cui partecipavano i responsabili anche accompagnati dai loro vice, per cui risultava composto da una cinquantina di persone, fra le quali era inserito anche il vice segretario della Democrazia Cristiana di allora, l'onorevole Galloni, insomma un comitato totalmente composito e di facciata; poi Cossiga ha parlato di un comitato di esperti - invece lei ci ha detto adesso che era un gruppo di consulenti personali - e poi, come risulta dai verbali della Commissione, dichiara: "per il resto feci tutto io".

Di quanto fu fatto dal comitato tecnico-operativo noi dopo una certa data non abbiamo più i verbali; di ciò che è stato fatto abbiamo saputo a pezzi con molto ritardo. Ad esempio, le quattro relazioni che faceste in uscita ci furono inviate nel 1992 dal ministro Scotti; la relazione di Pìeczenik, che è di 14 pagine, lui stesso l'ha dichiarata un falso in una intervista successiva (dopo ci torno sopra, perché non sono d'accordo su questo). In ogni modo, non ci sono i verbali e direi che non c'è neanche una spiegazione di come è stata orientata la ricerca di Moro in quei giorni, cosa che interessa molto alla Commissione. Lei ha ricordato che venne questo esperto americano, che più che un esperto era un pezzo grosso del dipartimento...

SILVESTRI. Era un membro del Governo.

GUALTIERI. Era un membro del Governo, un assistente del dipartimento di Stato. Cossiga, come risulta dal verbale, la racconta in questo modo: che venne dopo che lui cercò nei primi giorni di avere un contatto affinché venissero uomini dell'FBI o della CIA, ma il Governo americano rispose che l'FBI e la CIA non andavano ad operare in casa d'altri su rapimenti; mandarono questo rappresentante del dipartimento di Stato che aveva precedenti esperienze in gestione delle crisi di ostaggi. Poi arrivarono due esperti tedeschi…

SILVESTRI. Che io non vidi, seppi che erano lì.

GUALTIERI. Questi due esperti tedeschi diedero consigli in un certo modo, ma non abbiamo trovato nessuna traccia di quali consigli diedero. In ogni modo, Cossiga dice: quando arrivò Pieczenik lo alloggiammo in una casa sicura del SISMI; siccome sì trovava male, lo alloggiammo in un albergo sotto falso nome. Questo ci diede subito un consiglio: avete fatto un'enorme sciocchezza a dichiarare che non volevate trattare, perché potevate decidere di non trattare, ma non dovevate precludervi la possibilità di trattative anche false o asimmetriche, perché il vostro primo dovere era quello di tenere in vita l'ostaggio il più a lungo possibile. Quindi voi avete sbagliato a dichiarare subito: non trattiamo con nessuno. Questo è il primo consiglio che gli diede. Cossiga prosegue dicendo: io gli risposi che in America questo consiglio andava bene e in Italia no. E qui io devo ancora capire perché su un problema di questo tipo non andasse bene in Italia. Quando rapirono Schlayer in Germania l'anno prima, il Governo aveva deciso di non trattare, però lasciò andare avanti due trattative parallele, una addirittura a livello di Governo, per tenere vivo l'ostaggio. I rapitori lo tennero vivo per 50 giorni, mancarono di poco la prigione per tre volte e poi lo ammazzarono. Però lì tentarono disperatamente di tenere in vita l'ostaggio. Noi non abbiamo nessun documento che provi che cosa abbiamo fatto per prolungare la trattativa e tenere in vita Moro. Non c'è niente, non si sa che strade sono state seguite. Poi Cossiga dice che Pìeczenik - non so se sto pronunciando questo nome nel modo esatto - dà un altro suggerimento (e lo scrive anche Pieczenik): voi dovete separare nettamente la posizione politica di Andreottí e di Cossiga da quella tecnico-operativa. Questa è un'altra cosa di grande intelligenza, perché la ricerca di un ostaggio non la fa la politica, un Ministro dell'interno o un comitato di cinquanta membri; ci si mette nelle mani di un gruppo ristretto, di un pool di poliziotti e gli si dà l'incarico di operare con il metodo del poliziotto. Pieczenik dice: separate tutti i problemi della gestione politica e tenetevi libera la strada della gestione operativa. Pieczenik dopo tre settimane torna in America e in seguito rilascia varie interviste. In una del 1994 alla rivista "Panorama" dice chiaramente: venni via quando mi accorsi che non si voleva liberare Moro. Dice anche: notai che c'era una falla molto in alto nel sistema di sicurezza italiano.

La mia prima domanda è se Pieczenik ha parlato con lei di questo fatto, visto che lei ha avuto modo di incontrarlo anche in America dopo il suo ritorno; se lui era venuto via perché si era accorto che o si pasticciava o non si voleva…perché una cosa è dire che facevano confusione, ma dire: venni via perché mi accorsi che non volevano trovare Moro vivo, è una dichiarazione molto impegnativa. Che poi ci fosse una falla nel sistema noi lo dobbiamo accertare. Per questo abbiamo chiesto di ascoltare Pieczenik: o viene in Italia o bisogna andare in America; comunque noi dobbiamo procurarci le carte, gli elementi, le documentazioni, le testimonianze di cosa veramente è accaduto in questi 55 giorni.

SILVESTRI. Come ho già detto, Pieczenik è il nome di una tribù turca che si era trasferita in Russia alcuni secoli fa; ne è venuto fuori un misto assolutamente impronunciabile.

Píeczenik era molto favorevole ad aprire una trattativa. Lui era un negoziatore e sosteneva questa strada. Ed è vera - lei adesso mi ha fatto ricordare - questa sua tesi della divisione della responsabilità, che è una classica operazione, cioè dividere il livello di responsabilità politica dal livello gestionale-operativo. Questo sostanzialmente in realtà non venne fatto. Noi lo teorizzammo, è vero; ne discutemmo anche con Cossiga, il quale era teoricamente favorevole ad un'ipotesi del genere, ma di fatto si occupava lui direttamente delle faccende per cui non seguì questo tipo di consiglio. L'influenza di Pieczenik fu quella di far prendere in considerazione molto seria - per lo meno a quanto mi risulta - l'idea di nominare un negoziatore umanitario, cioè una persona che negoziava senza impegnare direttamente il Governo ma che poi il Governo sarebbe stato a sentire; questo era il canale. Si erano fatti vari nomi...

PRESIDENTE. Quello dell'avvocato ginevrino, per esempio, Payot?

SILVESTRI. Si era parlato di Payot, si era parlato della Caritas; ricordo che si era detto "una persona alla Arturo Carlo Jemolo".

PRESIDENTE. Debbo dire, per avere conosciuto Arturo Carlo Jemolo, che mi sembrava un negoziatore piuttosto improbabile.

SILVESTRI. Infatti come negoziatore non era... io però non lo conoscevo personalmente. Venne fatto anche il nome di Giuliano Vassalli, che però era molto legato alla famiglia Moro.

TARADASH. Qualcuno propose l'Abbé Pierre?

SILVESTRI. No, nessuno propose l'Abbé Pierre a mia conoscenza, ma furono nomi che vennero fuori. Quando andai in America ero convinto che si andasse verso l'individuazione di questa persona, poi non ne ho saputo più nulla. Questa fu l'influenza di Pieczenik, uno degli effetti a mio avviso della sua influenza. Se dovessi dire quindi che c'era una volontà di non trattare... Pieczenik a me non disse mai di avere l'impressione che non si volesse liberare Moro; mi disse che riteneva che ci fossero delle falle nel sistema italiano. Era un sostenitore della tesi del "grande vecchio", quindi di una tesi cospiratoria, una tesi che a lui sembrava logica ed era convinto che la polizia italiana o per incapacità o per non volontà non conducesse bene le indagini; era una sua considerazione. Era anche molto irritato perché non sapeva bene che cosa stava a fare, nel senso che non veniva inserito all'interno del meccanismo. Lui era un operativo, ma non veniva messo in contatto con gli operativi.

PRESIDENTE. Mi scusi, professore, vorrei inserirmi nel suo discorso. C'è però una strana coincidenza temporale: più o meno nello stesso arco di tempo all'interno dei 55 giorni l'esperto americano, per quello che capisco irritato, torna in America; lei se ne va in America; una serie di possibili trattative - vi sono indizi abbastanza seri, anche testimonianze - che sembravano nascere tramite la criminalità organizzata si interrompe. E’ come se da un certo momento in poi la decisione politica di non trattare influenzasse anche l'aspetto istituzionale di non liberare l'ostaggio, cioè come se ci fosse una valutazione politica del tipo: ormai a questo punto diamolo per morto e non parliamone più, quasi quasi speriamo che le Brigate rosse non lo liberino, perché altrimenti il danno politico sarebbe maggiore di quello che potrebbe derivare dalla sua morte. Proprio in quei giorni si situano due vicende: il comunicato del Lago della Duchessa, che noi oggi abbiamo motivi per ritenere sia stata un'operazione gestita dai servizi attraverso un falsario molto vicino alla banda della Magliana, tale Chicchiarelli, e tutta la vicenda di via Gradoli. Ripensando alla vicenda oggi, nella prospettiva del ventennio che è trascorso, vorrei conoscere la sua valutazione.

SILVESTRI. Ho già detto che all'epoca del comunicato del Lago della Duchessa ero negli Stati Uniti e infatti ne parlai con Pieczenik a Washington. Allora, quando me ne andai, francamente pensavo di non avere più nulla da dire e da fare; mi sembrava che, per come si erano messe le cose, o c'era un cambiamento drastico nella gestione della crisi, oppure si sarebbe continuato ad andare avanti, salvo colpi di fortuna, in una direzione di sostanziale non soluzione del problema, quindi sostanzialmente in attesa delle mosse delle Brigate rosse. Quando tornai - non c'era ancora stato il ritrovamento di Moro, era circa una settimana prima - telefonai al Ministro, ma non venni più invitato ad andare al Viminale, quindi come se non si sentisse più il bisogno di ridiscutere della faccenda. Mi pregò solo di mettergli per iscritto le mie valutazioni, i miei suggerimenti successivi, come se la faccenda fosse quasi chiusa. Però da qui a dire che si volesse chiudere... questo non oserei dirlo; direi piuttosto che era come se si fosse persa la speranza, come se ci fosse un senso d'impotenza.

PRESIDENTE. Però anche l'esperto americano, nel constatare l'esistenza della falla, non escludeva che ci potesse essere anche una non volontà nel determinare la falla, e non solo imperizia, se ho ben capito.

SILVESTRI. C'era molto timore, credo, di perdere il controllo del consenso politico, delle varie branche dello Stato e dell’amministrazione, che si scatenasse un elemento di anarchia che sostanzialmente avrebbe potuto avere effetti ancora più disastrosi. C'era un senso come di incertezza sulla capacità di controllo e di tenuta della struttura.

GUALTIERI. Signor Presidente, sarò molto rapido; d'altra parte aspettiamo da venti anni. Nella sua precedente verbalizzazione, che è quella del 1983, rispondendo ad una domanda dell'onorevole Violante lei disse che anche i due esperti tedeschi diedero gli stessi consigli che dava Pieczenik, e cioè di avviare una trattativa in qualche modo pilotata per tenere in vita l'ostaggio. Poi di questi due tedeschi si è perduta traccia, ma il problema è proprio questo: arriva un americano, arrivano due tedeschi, danno consigli sostanzialmente corretti - non voglio dire buoni, ma corretti - su come si gestisce una crisi e vengono ignorati. Poi Violante le domanda: era un'attività di polizia soltanto di facciata o ce n'era un'altra, di una cattiva intelligenza del fenomeno? Che cosa faceva cioè la polizia? Lei dice che in quel momento eravamo impreparati: ma noi avevamo in quell'epoca i migliori investigatori in servizio, sia nei carabinieri che nella polizia. Avevamo Santillo, avevamo Dalla Chiesa, avevamo tutta l'antiterrorismo dei carabinieri; non si può dire che siamo stati presi di sorpresa, eravamo al decimo anno di terrorismo. Un attacco di terroristi ce lo avevano portato un mese prima, quando avevano ucciso a Roma il magistrato Palma; le Brigate rosse erano calate a Roma da due anni, avevano creato una rete di sussistenza, di logistica, ma avevamo i servizi fino al giorno prima... Il SID era l'unico servizio che funzionava, era potentissimo, quindi non lo hanno scalfito con la riforma; era rimasto talmente attivo che è rimasto lo stesso anche dopo. Due trattative sono state impiantate: una è quella della famiglia, che invece di portarla avanti di concerto l'ha portata avanti di nascosto rispetto agli organi investigativi, quindi intralciandosi e pestandosi i piedi a vicenda. L'altra, quella dei socialisti, addirittura è stata fatta contro gli organi stessi; è stato fatto cioè il contrario di quello che si doveva fare per agganciare i terroristi in qualche modo.

L'ultima mia domanda è questa. Ha parlato prima di quando hanno deciso e perché di uccidere Moro e di non liberarlo, e del perché qualcuno (anche Pieczenik) pensava che Moro liberato sarebbe stato meglio per le Brigate rosse. Ad un certo punto nelle sue lettere, in una in particolare, Moro ringrazia le Brigate rosse perché gli hanno salvato la vita, gli hanno detto che non lo avrebbero più ucciso. Dice che si vuole iscrivere al Gruppo Misto, che abbandona la Democrazia Cristiana, spara a zero contro Andreotti, spara a zero contro Cossiga e contro Zaccagnini. Ma la datazione in cui le Brigate rosse gli dissero che lo avrebbero liberato ancora non si è trovata; alcuni giorni dopo cominciano invece nelle sue lettere, nel suo diario, i riferimenti al fatto che gli viene comunicato... quindi c'è stato un momento in cui le Brigate Rosse avevano pensato di non ucciderlo. Ha qualche elemento da fornire su questo? Voi eravate gli esperti in materia ed io devo ancora capire che tipo di trattativa è stata condotta: la Polizia girava a vuoto; i consigli buoni che davano gli esperti compartimentali non venivano seguiti; Cossiga faceva tutto lui. Si poteva salvare Moro? A mio avviso sono stati gli errori del quartier generale a condurre alla morte di Moro e qualcuno deve pagare per questo!

PRESIDENTE. Dalle carte di Moro che avete esaminato avete tratto l'impressione che ci fosse una trattativa sotterranea e che questa si fosse quasi conclusa?

SILVESTRI. Io sono stato presente alla prima parte del rapimento Moro. In quel periodo l'unica linea di trattativa di cui si era avuta notizia più o meno certa era quella della famiglia Moro, che però la conduceva in totale polemica e con la volontà di non avere alcun rapporto con lo Stato. C'era pertanto una situazione di non comunicazione e di forte irritazione da una parte e dall'altra. Si cercava di capire se c'era un canale di comunicazione diverso: questa era la situazione come l'ho lasciata io. Il fatto che apparentemente questo canale di comunicazione non sia stato attivato, francamente non so da cosa sia dipeso. Potrebbe essere dipeso da complicazioni interne o da decisioni politiche. Se vuole la mia impressione personale, che però non è suffragata da dati, a livello psicologico questa crisi venne gestita come se fosse una crisi politica, una crisi di Governo. Venne gestita direttamente dagli uomini politici invece di considerarlo un evento da affrontare, certo, con alcune decisioni a livello governativo, ma soprattutto con azioni a livello amministrativo, di polizia, di attività investigativa. Ci si comportò come se ci si dovesse preoccupare della caduta o meno di un Gabinetto governativo o di una segretario di partito. Fu un riflesso quasi automatico. Ma, ripeto, è una mia valutazione del tutto personale.

PRESIDENTE. Tanto per confortare questa sua valutazione personale, visto che spesso il piccolo somiglia al grande, ricordo che un quotidiano della mia città ha pubblicato ì verbali della Direzione della Democrazia cristiana di quel periodo, dai quali emerge che lo scontro fu puramente politico: la corrente morotea si batteva perché si aprisse la trattativa, mentre le correnti di Andreotti e di Forze nuove, con i loro esponenti più autorevoli, sostenevano la necessità politica di non trattare. L'idea che ci potesse essere un poliziotto che, bussando alla porta giusta, scoprisse la prigione di Moro non veniva proprio presa in considerazione. L'idea che la risposta potesse non essere istituzionale non veniva affrontata né dagli uni né dagli altri ed il dibattito sulla liberazione di Moro affrontava questo evento come risultato dell'una o dell'altra scelta politica, non dell'azione degli apparati dello Stato.

TASSONE. Parte di quello che lei sta dicendo è vero, ma faccio presente che sia Zaccagnini sia Pisanu erano esponenti di primo piano della corrente morotea.

PRESIDENTE. Mi riferivo alla Democrazia cristiana della mia città.

TASSONE. Non conosco i leaders democristiani della sua città, che saranno stati certamente, per sintonia coi vertici e per coerenza, degli statisti.

Il professor Silvestri ha partecipato a questo gruppo informale di consulenti, composto senza alcuna ufficializzazione. In una delle sue lettere Moro sostiene che la negoziazione non è una negazione dello Stato. Ripeterà questo concetto e farà anche riferimento ad esempi di altri Stati che hanno trattato senza per questo indebolire, affievolire o ridimensionare, se non addirittura annullare la dignità dello Stato. Dal professor Silvestri volevo avere un'opinione su questa affermazione, sulla base della sua esperienza e dei rapporti internazionali che ha avuto e continua ad avere. Lei, professor Silvestri, ci ha detto anche che il dato prevalente era questa negoziazione tramite Moro richiesta dai brigatisti. Io ritengo però che i brigatisti cercassero soprattutto un riconoscimento dello Stato, per cui a me sembra che il dato prevalente fosse il tentativo di negoziare direttamente con lo Stato. Per questo motivo non c'è stata una scelta da parte dello Stato. Non sono d'accordo che si sia cercato una trattativa con l'interposizione di Moro. Ritengo invece che il dato più importante sia stato il tentativo di instaurare una trattativa tra Brigate rosse e Stato.

Lei ha accennato alla fermezza del Partito comunista italiano nei confronti delle Brigate rosse. Secondo alcuni, però, le Brigate rosse erano schegge uscite dal PCI e dalla Sinistra e, come lei sa, la Chiesa vede di malocchio gli spretati, perché sono i suoi antagonisti più virulenti.

Infine volevo sapere da lei se ritiene che ci fossero solo le Brigate rosse o ci fosse anche un dato di riferimento superiore a quell'organizzazione, qualcuno che potesse guidarla anche senza farne parte. Lei ha capito perfettamente a cosa mi riferisco, anche perché in questi ultimi tempi si è molto discusso in ordine ai possibili condizionamenti delle Brigate rosse.

SILVESTRI. Ci sono stati negoziati da parte di Stati. In genere, in questi casi, si faceva una distinzione netta tra negoziato e cedimento: il negoziato non veniva considerato un cedimento perché veniva svolto a livello tecnico e non comportava quindi la necessità che lo Stato accettasse il negoziato stesso. Era anche quello che consigliava di fare Pieczenick: si doveva riuscire a scindere la responsabilità politica ed il riconoscimento delle BR come interlocutore, che sono tutte cose che avvengono a livello di Governi, di Stati, dalla possibilità di un negoziato tecnico, da parte degli organi investigativi, o di carattere umanitario, nel caso il primo non riuscisse ad andare avanti, volto alla liberazione dell'ostaggio. Si tratta di fare andare avanti il negoziato senza che ciò implicasse tali conseguenze negative: è quello che nel caso Moro evidentemente non è stato fatto o non si è riusciti a fare. Invece la reazione della classe politica italiana mi sembrò all’epoca e mi sembra tuttora improntata al timore che un negoziato avrebbe rotto il consenso politico, avrebbe incrinato il fronte della fermezza.

TASSONE. Intende il consenso politico all'interno della maggioranza?

SILVESTRI. Il consenso politico a livello quasi dell'intero arco costituzionale (che includeva quindi che il Partito comunista) ed il consenso dell'opinione pubblica, in sostanza la tenuta. Questa almeno era l'impressione. Non riuscivano a concepire la scissione dei due momenti.

GRIMALDI. C'erano poi gli altri morti.

SILVESTRI. Senz'altro c'erano gli altri morti, anche quelli procurati alla polizia, ma credo che essenzialmente il discorso fosse quello che ho indicato. Certamente il problema del riconoscimento dello Stato era molto presente. La questione di negoziare o meno attraverso Moro è solo un aspetto particolare, venne discussa perché veniva intesa come sintomo di una scarsa volontà di negoziato da parte delle Brigate rosse, ci si domandava quindi se queste volevano negoziare o se invece non avevano questo desiderio, ritenendo di avere in mano la carta vincente. Certamente il loro obiettivo era un riconoscimento ufficiale come forza politica, come interlocutore dello Stato, come nemico da riconoscere in una sorta di guerra.

PRESIDENTE. Forse più come interlocutore delle forze politiche.

SILVESTRI. Sì, forse è più preciso, e questo è quello che si voleva rifiutare. Per quanto concerne il quesito se si trattasse di una partita tutta all'interno della Sinistra, ritengo indubbio che le Brigate rosse avevano come punto di riferimento la Sinistra, forse non soltanto il Partito comunista, ma l'insieme della Sinistra italiana e la sua complessa storia; se vi fossero altri punti di riferimento è domanda che ci si poneva, ma non si aveva nessuna prova in proposito. Le ipotesi, appunto, dell'eterodirezione, del Grande Vecchio, del contatto e dell'alleanza sono emerse, ma a loro riprova non avevamo alcun elemento.

FRAGALA’. Professor Silvestri, innanzi tutto la ringrazio per la cortesia e la disponibilità con cui ha collaborato con la Commissione; desidero subito porle una domanda: nell'audizione alla "Cominissione Moro" lei ha affermato che la sua attività professionale, nel periodo fra il marzo e l'aprile del 1978, era quella di giornalista e di vice presidente dell’Istituto degli affari internazionali e che era stato convocato - lo ha ripetuto anche oggi - nel Comitato per affrontare il tema degli scenari internazionali e delle connessioni internazionali del sequestro Moro. Ci vuole dire, secondo il suo avviso di allora, ed anche quello di adesso, con il senno di poi, quali erano gli scenari internazionali e quali le ipotesi che lei ha formulato in relazione al contesto del terrorismo internazionale ed alla possibilità che vi potessero essere dei collegamenti o addirittura che questo avesse ispirato o, per esempio, armato o finanziato, l'operazione più eclatante delle Brigate rosse?

SILVESTRI. Quello che mi domandavo e ci domandavamo all'epoca era quanto l'azione delle Brigate rosse potesse essere eterodiretta o comunque rilevante per interessi contrari al nostro paese o alla politica italiana. La situazione era molto ambigua in quanto si dovevano valutare diversi elementi: uno era l'interesse del paese in quanto tale e la collocazione dell'Italia nel Mediterraneo, nella NATO e nei rapporti con i Balcani, e l'altro era l'evoluzione politica interna, la posizione di Moro e del Partito comunista, la formazione del nuovo Governo con un appoggio esterno. La domanda che ci si poteva porre era quindi se il sequestro Moro rappresentasse un attacco di tipo classico contro gli interessi nazionali geostrategici del paese (riguardante quindi la collocazione dell'Italia) o fosse più mirato contro la particolare evoluzione politica in corso e lo scenario che sembrava delinearsi in Italia. All'epoca mi sembrava che, tendenzialmente, le percezioni della nostra classe politica fossero orientate più verso la seconda che non verso la prima ipotesi; però che le Brigate rosse si muovessero in questa direzione o con alleati che avevano questi obiettivi non era noto, anche perché a quel punto ci si sarebbe dovuti domandare quali sarebbero potuti essere gli alleati delle Brigate rosse in una operazione del genere. In merito si potevano ipotizzare risposte molto diverse: alleati dell'Est, ma anche dell'Ovest e pertanto a quel punto ogni valutazione diventava complessa. La mia analisi della posizione degli Stati Uniti, in particolare, fu che gli americani non erano interessati alla destabilizzazione dell'Italia; ho già detto che la posizione dura assunta dal Partito comunista fu percepita in modo positivo in America, cosa che probabilmente non sarebbe avvenuta se gli interessi fossero stati diversi.

Personalmente svolsi la tesi che se esistevano alleanze internazionali delle Brigate rosse erano tattiche, occasionali contatti con questo o quel servizio segreto o con loro singoli esponenti che potevano facilitare i gruppi nell'acquisto di armi o nel trovare soldi o rifugi, non rientranti, probabilmente, in una politica mirata da parte di uno specifico servizio segreto o Governo; sostenni, però, che naturalmente in una situazione del genere non si poteva escludere anche questa ipotesi e che quindi sarebbe stato prudente tenere quanto più possibile "le bocce ferme" a livello internazionale e non compiere né troppe aperture, né chiusure, cercando di risolvere la crisi in maniera autonoma nei limiti del possibile, ma accogliendo eventuali offerte di assistenza (da un punto di vista tecnico o di altro genere) e di informazioni; che io sappia, infatti, una richiesta di informazioni venne fatta. Questa era la nostra valutazione all'epoca e non mi sembra vi sia molto più da dire.

PRESIDENTE. Dottor Silvestri, vorrei rivolgerle una domanda cui la prego di rispondere con la maggiore sincerità possibile: lei era esperto di faccende americane; l'America è un grande paese, una grande democrazia e come tale è attraversata da dialettiche interne, quindi è ragionevole pensare che negli Stati Uniti le valutazioni sul Governo di solidarietà nazionale e sull'azione politica di Moro non fossero tutte omogenee. Sarebbe sbagliato pensare che lei era vicino ad ambienti americani in cui tale valutazione era positiva (e fu poi rafforzata dal comportamento del Partito comunista), mentre altri esperti contattati dall'allora Ministro dell'interno, come per esempio il professor Cappelletti, erano vicini ad ambienti americani in cui si compivano valutazioni contrarie ed opposte?

SILVESTRI. Personalmente mi ero anche esposto: il mio Istituto era stato favorevole attivamente ad una presa di contatto fra gli Stati Uniti ed il Partito comunista, in particolare con alcuni suoi esponenti quali Segre e Napolitano, perché ritenevano che la situazione si fosse evoluta e vi fosse una opportunità che anche gli Stati Uniti non dovevano mancare.

FRAGALA’. Di che cosa si occupava per la precisione il suo Istituto?

SILVESTRI. Si occupa di politica internazionale, organizzavamo spesso anche incontri con americani, l'Istituto, infatti, ha sempre collaborato con Istituti d'oltreoceano ed ha ricevuto anche fondi per le sue ricerche da fondazioni statunitensi. Abbiamo pertanto una forte rete di contatti con gli Stati Uniti e abbiamo promosso molte conferenze per discutere delle situazioni politiche interne europee (non solo italiane, quindi) cui hanno partecipato americani. Era l'epoca in cui gli americani studiavano l'Italia in continuazione; c’erano più studiosi in America dell'eurocomunismo di quanti ce ne fossero in Italia. Quindi c'era l'interesse e la valutazione di questo tipo di cose; c'era una forte discussione che facevamo con gli americani sul futuro dell'Alleanza Atlantica, sul problema, se ì comunisti venivano al potere in Italia, che avevamo dei comunisti in un Governo dell'Alleanza Atlantica, dei comunisti che potevano partecipare alle decisioni del Consiglio atlantico, che potevano conoscere alcuni aspetti dei piani nucleari, dei piani militari della NATO. Questo tipo di dibattito era vivo in America e veniva avanzato. Noi sostenemmo la tesi dell'apertura, quindi chiaramente i nostri contatti americani lo sapevano, sia quelli che erano contrari alla nostra tesi sia quelli che erano favorevoli, per cui non credo che sarebbero venuti a dirmi che bisognava affondare Moro. Però devo dire che, anche da contatti con esponenti relativamente di destra americani, che sapevo non essere d'accordo con la mia posizione, il giudizio sul comportamento del partito comunista a posteriori fu anche da parte loro positivo. Però questo non esclude quanto lei dice, signor Presidente, e cioè che potessero esserci altri contrari. All'epoca il Governo americano era un Governo democratico, per cui probabilmente...

PRESIDENTE. Ma il riferimento di questi ambienti contrari potrebbe essere stato il professor Cappelletti?

SILVESTRI. Di questo francamente non ho idea. Non vorrei dare al professore Cappelletti un ruolo…

PRESIDENTE. Ma che faceva?

SILVESTRI. Non so assolutamente cosa facesse. Lo avrò visto una volta Cappelletti.

FRAGALA’. Mi inserisco su questa curiosità del Presidente per chiederle una cosa specifica. All'interno della Commissione è stato più volte il presidente Pellegrino a porre il problema della stranezza di questo comitato e di alcuni dei suoi membri, tra cui il professor Cappelletti, mentre lei questa sera ci ha detto che il comitato non soltanto non era un comitato vero e proprio, ma soltanto l'appello ad alcuni esperti di settori particolari, che peraltro diedero al Governo italiano delle informazioni corrette su come gestire la crisi, soltanto che il Governo per motivi di politica interna disattese queste indicazioni corrette. Le chiedo se durante la sua permanenza quale consulente di questa crisi le hanno mai messo a disposizione le analisi, gli studi, i rapporti o le informative provenienti dagli apparati di intelligence.

SILVESTRI. No, le informazioni che avevamo erano mediate da Cossiga. Cossiga diceva: leggi queste due pagine, che cosa ne dici? Non avevo rapporti diretti. Ho avuto qualche incontro lì con le persone che si occupavano della crisi. Per questo dico che scoprii ad un certo punto che venivamo considerati un comitato, con mia meraviglia, perché non c'era nessun comitato, non abbiamo mai fatto una riunione formale. Non sapevo neanche chi ne facesse parte; ho appreso dai giornali che ne facevano parte questo o quello. C'erano delle persone che venivano consultate. L'unica persona che vedevo più frequentemente era il criminologo Ferracuti; effettivamente mi è capitato di vederlo varie volte lì al Ministero, abbiamo fatto anche delle riunioni insieme con Cossiga.

PRESIDENTE. Ma ripensando oggi alla tesi di Ferracuti sulla sindrome di Stoccolma, che ne pensa?

SILVESTRI. Forse c'era un elemento, perché sicuramente l'interesse di Moro a salvarsi la pelle penso che sia stato forte. Questo può aver portato anche ad una distorsione della sua percezione; alcune delle frasi che c'erano in queste lettere sembravano distorte, però, da qui a dire che erano tutte psicologicamente distorte, questo francamente non era del tutto convincente. Ripensandoci oggi, direi che sicuramente era consona la linea dura di dire che le lettere provenivano da un ostaggio, quindi non credibili. Io non ho l'impressione che i politici, in particolare Cossiga, le considerassero poi così non credibili. Ferracuti aveva teorizzato questa tesi, ma non è che ...

FRAGALA’. Quindi il partito della fermezza aveva una posizione ipocrita rispetto alle lettere.

SILVESTRI. La posizione - anche perché poi non le conosceva tutte, ce ne erano una marea che circolavano - era di dire: non possiamo prendere le lettere come base della trattativa.

FRAGALA’. A proposito di queste lettere, di cui una parte notevole è tuttora sconosciuta perché i destinatari non le hanno rese note, soprattutto le lettere ai familiari, ad amici, ad esponenti del Vaticano, eccetera, lei si è posto, prima e dopo, quale esperto chiamato per aiutare a dirimere questa crisi del cosiddetto canale di ritorno, l'interrogativo di come faceva Moro, attraverso le lettere, a conoscere quali erano i conciliaboli, gli intendimenti, le discussioni, le posizioni diverse all'interno dei gruppi politici del suo partito e degli altri partiti, per cui poi nelle lettere Moro diceva: rivolgetevi a Misasi, fate questo, fate quell'altro, ho saputo di questo, ho saputo di quello? Cioè, gli aspetti più segreti delle discussioni e dei conciliaboli dell'élite politica Moro - e quindi le Brigate rosse - li sapeva in tempo reale. Vi siete posti il problema di questo canale di ritorno, cioè di un esponente che aveva un rapporto diretto con le Brigate rosse e informava di quale era il livello della discussione all'interno della classe politica?

SILVESTRI. Ci si era posti questo problema. In parte direi che si aveva l'impressione che le informazioni arrivassero attraverso il canale della famiglia.

FRAGALA’. Ma la famiglia non era a conoscenza delle discussioni politiche.

SILVESTRI. Ma aveva dei contatti con gli esponenti politici della Democrazia Cristiana.

FRAGALA’. Questa era la vostra tesi.

SILVESTRI. Per lo meno era l'impressione che avevamo. Poi c'era anche la tesi del grande vecchio, della talpa, della falla.

FRAGALA’. A proposito di questa tesi del grande vecchio, che lei dice che per la prima volta fu valutata dal consultante americano, la Commissione ha recentemente, attraverso l'audizione di Morucci e poi in altre occasioni, avuto un'indicazione rispetto ad un cosiddetto anfitrione di Firenze, un soggetto che ospitava nella sua casa o nel suo ufficio a Firenze il comitato esecutivo delle Brigate rosse, che si occupava direttamente dell'interrogatorio di Moro e della strategia del sequestro (cioè era la sala di regia del sequestro e stava a Firenze). Un'informativa dei Servizi di allora avvertiva che un medico partecipava all'interrogatorio di Moro direttamente ed era in effetti quello che poneva le domande sulla Democrazia Cristiana, sui rapporti interni delle correnti, eccetera.

PRESIDENTE. Un medico?

FRAGALA’. Sì, un medico. Recentemente ho visto un'informativa di questo genere che adesso farò pervenire alla Commissione. Ancora, un terzo elemento sul grande vecchio porta a ritenere che, quando si fece quel falso comunicato del Lago della Duchessa, in effetti questo comunicato venne da un settore delle Brigate rosse che voleva lanciare a Moretti un messaggio preciso; il Lago della Duchessa era un messaggio che si riferiva proprio al comitato esecutivo, all'anfitrione, alla moglie dell'anfitrione, al posto a Firenze dove si riuniva il comitato esecutivo. Voi rispetto a questi temi che riguardano proprio la regia del sequestro che poteva avere dei protagonisti intellettuali di arca, esponenti di un certo tipo di ambiente, eccetera, vi siete posti, oppure lei si è posto, anche dopo, con il senno di poi, qualche interrogativo, e si è dato qualche risposta?

SILVESTRI. Ripeto che, per quello che è, il problema venne posto, che cioè ci fosse una regia e che questa regia fosse vicina a qualche ambiente politico o comunque diciamo legate; più in là di così non andammo e non avevamo informazioni per andare. Se queste informazioni che lei dice erano effettivamente disponibili all’epoca, ciò conferma la mia idea che in realtà l'inefficienza nella gestione e nella circolazione delle informazioni all'interno dell'amministrazione fosse altissima - e ritengo che sia ancora piuttosto alta, nella nostra struttura che è molto piramidale, molto a comparti isolati - e che questo fosse un elemento di grande debolezza; al di là di questo, però, noi non andammo. Con il senno di poi, non lo so, non ho abbastanza informazioni per dire se una tale regia esistesse, per farmi una convinzione sulla sua esistenza o meno; sicuramente dovevano esservi delle complicità di ambiente e forse alcune di queste complicità ambientali potevano essere più specifiche, di tipo intellettuale; quanto peso avessero però sulla gestione delle Brigate rosse, questo non saprei dirlo.

FRAGALA’. Ancora una domanda, professore. Vi siete posti, nel momento in cui lei è stato chiamato per individuare scenari internazionali ed anche interni, il tema del perché gli apparati investigativi antiterrorismo tra il 1974 ed il 1978 erano stati completamente smantellati (mi riferisco al nucleo antiterrorismo di Santillo, al nucleo antiterrorismo di Dalla Chiesa e così via dicendo) per cui lo Stato tra il 1974 e il 1978 si trovò praticamente in mutande rispetto alle Brigate rosse? Vi siete chiesti se tale smantellamento era dovuto ad un input di tipo politico che veniva dalla grande influenza che il Partito comunista aveva nella cultura, nell'editoria, negli apparati, per cui indagare a sinistra era quasi un delitto di lesa maestà e le Brigate rosse si chiamavano "sedicenti" Brigate rosse o fascisti travestiti e via dicendo?

SILVESTRI. No, direi che esulava dai nostri compiti; noi eravamo chiamati lì durante una crisi, quindi la speranza era che tutto funzionasse per il meglio. Non ci ponevamo il problema di andare a fare noi una ricerca nelle responsabilità precedenti; questo esulava completamente da quello che era il nostro compito. Quanto poi all'altra domanda, all'epoca direi che la percezione che le Brigate rosse fossero una cosa di sinistra era chiarissima; tra l'altro anche il nostro colonnello di cui non ricordo il nome ci fece una lezione, piuttosto inutile, molto barbosa, su Lenin.

FRAGALA’. Un'altra domanda, sempre brevissima. Ho letto in un giornale che lei di recente, quale membro del Comitato tecnico scientifico della rivista "Limes", collegata al gruppo L'Espresso-La Repubblica, ha presieduto a Forte Boccea, sede del SISMI, un simposio sul futuro dei servizi segreti cui hanno partecipato Massimo Brutti, Sottosegretario alla difesa, l'ammiraglio Battelli, direttore del SISMI, il vice direttore della CIA e il direttore dei servizi segreti russi, ex KGB. Ebbene, lei crede o ha elementi di fatto da suggerire a questa Commissione sul fatto che all'interno delle carte disponibili degli ex servizi segreti sovietici o tedesco-orientali ovvero dei servizi segreti americani vi siano delle carte utili per il prosieguo del lavoro di questa Commissione per quanto riguarda il sequestro Moro e la gestione del sequestro? Vedo infatti che lei ha contatti di altissimo livello con esponenti dei servizi segreti di tutto il mondo.

SILVESTRI. Questi contatti sono contatti dei nostri servizi. Il SISMI mi ha invitato a presiedere una tavola rotonda - ne sono state fatte anche altre - per studiare il problema della riforma dei servizi.

GUALTIERI. Quindi fa parte della Commissione Iucci?

SILVESTRI. No, io no; è un altro Silvestri, è il costituzionalista. Silvestri è un nome comune. Comunque non c'entra con questo tipo di cose. Non lo so, onorevole, penso che glielo si possa chiedere ma francamente la mia impressione del tutto personale è che le Brigate rosse fossero un fenomeno molto italiano; se avevano dei contatti internazionali, forse li avranno anche avuti, ma si trattava di contatti episodici o tattici, sarà interessante quindi vedere se verrà fuori qualche informazione, sempre che ce la vogliano dare. Però non so quanto di più si può avere; francamente, non saprei che dirle.

FRAGALA’. Un'ultima domanda, sempre di scenario. Secondo la sua opinione, dato che lei ha detto poco fa che il Partito comunista militava nel partito della fermezza (perché un'eventuale trattativa con le Brigate rosse avrebbe potuto tracimare anche rispetto ad una posizione di chiusura totale del partito comunista, di persecuzione delle sue ali estreme), ora, se Moro fosse stato liberato dalle Brigate rosse, come l'ala trattativista delle Brigate rosse chiedeva come risultato politico, Moro libero sarebbe stato funzionale ed utile al perseguimento della politica del compromesso storico e dell'alleanza con il Partito comunista o invece sarebbe stato assolutamente un elemento di rottura di questo equilibrio e quindi un nemico, alla luce delle lettere che lui ha scritto?

SILVESTRI. Questo è molto difficile da dire. Certo Moro non doveva essere molto contento del comportamento del Partito comunista e della Democrazia Cristiana in quel momento; una delle cose più teoriche che mi ricordo discussa in quel momento fu l'ipotesi: se liberano Moro nella sua attuale condizione psicologica - ammesso o meno che avesse la "sindrome di Stoccolma", comunque era chiaramente arrabbiato - che cosa si fa? E mi ricordo che Cossiga aveva svolto questa sua tesi: spero moltissimo che lo liberino, ho già pronta l'ambulanza che lo prende e lo rapisce per cinque giorni.

GUALTIERI. Il piano Victor.

SILVESTRI. Però mi sembrava una delle cose più teoriche.

DE LUCA Athos. A me questa audizione è servita per confermarmi in una convinzione, che espliciterò in seguito. Prima di tutto vorrei sapere: c'è traccia di questi appunti che lei ha consegnato a Cossiga?

PRESIDENTE. In parte li abbiamo: sono quelli che ha ricordato il senatore Gualtieri e che ci vennero consegnati dall'ex ministro dell'interno Scotti.

DE LUCA Athos. Sono questi gli appunti cui lei faceva riferimento all’inizio?

SILVESTRI. Non ho idea di quali siano gli appunti di cui voi disponete.

DE LUCA Athos. Sarebbe utile avere la certezza che disponiamo di tutti quegli appunti.

GUALTIERI. Ci ha detto che fece due appunti, uno all'inizio ed uno alla fine.

SILVESTRI. Anche di più.

(Il presidente Pellegrino sottopone un documento al professor Silvestri).

Questo è uno scenario che feci il secondo giorno dopo essere stato contattato. Proprio per questa ragione è estremamente teorico. Infatti poi mandai un secondo appunto, di cui però non ricordo il contenuto. Alla fine mandai un appunto relativo agli insegnamenti da trarre da questa vicenda, cioè quello scritto nel quale sì parlava della necessità di appurare con una sorta di inchiesta come si era proceduto all'interno dell'amministrazione per studiare cosa potesse essere affinato.

DE LUCA Athos. Per cui ci sono altri appunti che non sono agli atti.

PRESIDENTE. Esistono molte carte che non si riescono a trovare. Per esempio, ho chiesto alla Presidenza del Consiglio, al Ministero della difesa e a quello dell'interno se esistono documenti riguardo alle dimissioni del prefetto Gaetano Napoletano da direttore del CESIS: abbiamo ricevuto la risposta burocratica che queste carte non si trovano o non ci sono.

DE LUCA Athos. Il professor Silvestri ci ha detto che risorse ed informazioni disponibili non venivano sfruttate o bene utilizzate in quel periodo. Sappiamo che anche altre persone vennero coinvolte per dare un contributo in questa vicenda, ma ci hanno detto di non essere state utilizzate a sufficienza. Quindi non si tratta più di un fatto particolare, singolo: è una situazione molto diffusa. In una situazione di emergenza, di crisi, venivano convocate persone e mobilitate energie e professionalità che poi però non venivano sfruttate a dovere. Perché non lo erano? Se ciò è avvenuto per dolo, allora uno scenario possibile è che si organizzarono comitati per far vedere che si faceva qualcosa e poi non si prendevano in considerazione le loro tesi perché sì voleva gestire, come lei ha detto un momento fa, direttamente l'intera vicenda: tutto passava attraverso Cossiga, che dava le carte da leggere. Si è anche detto chiaramente che gli esperti, quindi lei, l'americano e i tedeschi, eravate tutti concordi su un punto, cioè che era necessario dividere i due aspetti della vicenda. Sembra un fatto assolutamente elementare e risponde peraltro alla prassi normale di tutte le polizie che non si deve dichiarare immediatamente la non volontà di trattare: si lascia aperta questa possibilità e si dà modo di entrare in contatto. Anche questo errore è stato commesso non ascoltando il parere degli esperti convocati, che pure erano molto autorevoli. Alla fine di queste considerazioni appare evidente che, se il compito di questa Commissione è appurare responsabilità politiche, queste ultime emergono chiaramente. Chi allora ha gestito il Ministero dell'interno, cioè il senatore Cossiga, si è assunto delle gravi responsabilità di cui credo dovrebbe rendere conto.

Da questa mancata utilizzazione delle risorse disponibili, dall'aver disatteso i consigli, anche quelli più semplici, chiarì e comprensibili degli esperti, lei cosa deduce tra gli scenari che ho fatto prima? Che non si sia voluto farlo perché si aveva in mente un disegno politico, perché c'era una gestione politica che non consigliava di fare le indagini e ritrovare Moro? Oppure, come ci hanno detto Cossiga e Andreotti, ma anche altri auditi, ciò si è verificato perché lo Stato italiano era disorganizzato, perché eravamo impreparati, non organizzati a fronteggiare una situazione di questo tipo? Questo capovolgerebbe la situazione. Infatti da un lato ci viene detto che le Forze di polizia erano disorganizzate e quindi più di tanto non potevano fare; dall'altra parte apprendiamo che le persone coinvolte a tutti i livelli non venivano ascoltate, a volte neppure utilizzate. Quale di questi due scenari è secondo lei più verosimile?

SILVESTRI. Siamo a livello di opinioni personali. Ritengo sia più verosimile l'ipotesi della disorganizzazione, della cattiva utilizzazione dei dati; con l'aggiunta del timore di essere incapaci, nella fattispecie, nel caso Moro, di riuscire a gestire questo rapimento come se fosse un normale caso di polizia. Non era vissuto così dalla nostra classe politica, dai media e dalla società e ciò molto probabilmente ha ulteriormente paralizzato la capacità di fare scelte che tecnicamente potevano sembrare ovvie. Devo dire che personalmente ero del partito della fermezza e sono rimasto tale. Non ero favorevole alla trattativa ma all'idea di trovare un canale.

DE LUCA Athos. Ci ha detto che negli ambienti americani - governativi, suppongo - venne dato un giudizio positivo del comportamento dimostrato dall'allora Partito comunista. Da quali fonti aveva appreso questi giudizi?

SILVESTRI. Essenzialmente da ambienti politici di parte democratica e da persone dell'Amministrazione, del Dipartimento di Stato. Si aveva la netta impressione di una dimostrazione di serietà, di poter in qualche maniera contare su un impegno dei comunisti.

PRESIDENTE. Dottor Silvestri, qualche anno dopo la conclusione del caso Moro esplode in Italia la vicenda della P2, preferisco questa espressione a "si scopre l'esistenza della P2" perché sono convinto che l'esistenza della P2 fosse nota a tutti, nessuna forza politica la ignorava. Sulla vicenda ha indagato una specifica Commissione d'inchiesta parlamentare che ha concluso i suoi lavori con una nota relazione (la "relazione Anselmi") e si è innescata una lunga vicenda giudiziaria che è invece terminata con un verdetto sostanzialmente assolutorio. Da un lato, quindi, abbiamo la visione parlamentare della P2 come cancro che si era annidato all'interno dello Stato, che attraverso metodi surrettizi e sostanzialmente non democratici cercava di assumere il controllo della Repubblica, e dall'altro invece vi è la conclusione giudiziaria per cui si sarebbe trattato, in gran prevalenza, di un gruppo di carrieristi e di affaristi, ma non di un fenomeno pericoloso per le istituzioni democratiche. Personalmente ho avanzato un'ipotesi diversa che ha trovato riscontri positivi da parte di molte personalità che abbiamo audito, sia da appartenenti agli apparati istituzionali (cito a memoria Maletti e Bozzo) sia da esponenti politici come Taviani. La mia ipotesi è che la P2 fosse soprattutto un centro di rifugio dell'oltranzismo atlantico, di persone vicine a circoli americani oltranzisti, sicuramente non amiche dei suoi amici democratici. Che valutazione dà di questa ricostruzione? E’ a conoscenza di fatti che possano sorreggerla? Sono domande attinenti al caso Moro perché si è scoperto che tutti i vertici di allora appartenevano alla P2.

SILVESTRI. Signor Presidente, ho avuto pochi contatti con l'oltranzismo atlantico estero; si trattava di persone che in genere erano estremamente schematiche nella loro analisi della situazione italiana, appoggiavano le forze politiche più ovvie ed avevano una visione poco articolata: consideravano la Democrazia Cristiana assolutamente inaffidabile e ne ricordavano il neutralismo di una parte (mi riferisco alla posizione di Dossetti) all'epoca della firma dell'Alleanza Atlantica. Non so quanto contassero effettivamente. Per quanto riguarda la sua domanda non dispongo di dati per affermare che la P2 avesse rapporti con l'oltranzismo atlantico o con interessi americani, né con esponenti più o meno mafiosi o affaristici che magari si facevano usbergo dell'oltranzismo atlantico per nobilitare semplici affari. A mio parere in una operazione di tal genere possono esservi in parte entrambi gli aspetti. Se devo pensare ad ambienti di questo genere, penso più facilmente a quelli in contatto con Sindona piuttosto che ad ambienti politici veri e propri; però questa è una mia reazione a caldo rispetto a quanto lei ha chiesto.

TARADASH. Professor Silvestri, la mia prima domanda si origina dalle considerazioni del Presidente: mi sembra che se c'è un caso che dimostri l'improponibilità della tesi dell'oltranzismo atlantico sia proprio il caso Moro. Innanzi tutto va chiarito cosa si intenda per "oltranzismo atlantico": con questa espressione ci si riferisce chiaramente a quello statunitense (perché non credo che il Belgio o la Germania, ad esempio, che facevano parte anche loro dell'Alleanza Atlantica, avessero gran voce in capitolo) e quindi, in sostanza, si intende l'Amerika, proprio con la "k".

L'Amerika, di fronte al caso Moro che cosa si aspetta? Non che il Partito comunista sia per la linea della fermezza e, se ha i dubbi prima indicati sulla Democrazia Cristiana, non si aspetta neppure che questa scelga a sua volta la politica della fermezza. Mi domando perché invece si aspetti che la P2 la scelga. Perché la P2 sceglie tale politica, esattamente come il Partito comunista, la Democrazia Cristiana, "la Repubblica" ed "il Corriere della Sera". Moro viene preso in ostaggio dalla Brigate rosse che sono contro il compromesso storico, come lo sono anche due partiti: il Partito socialista per un verso, ed il Partito radicale per un altro che, a differenza di quanto viene ripetuto anche in questa Commissione, non erano per la fermezza: il Partito socialista era per la trattativa…

PRESIDENTE. Sì, ma questa posizione viene assunta nella seconda metà di aprile.

TARADASH. Va bene, non all'inizio, ma ad un certo momento, politicamente più significativo, i socialisti scelgono la linea della trattativa. Anche il Partito radicale sceglie, dall'inizio, non la trattativa, ma il dialogo e combatte duramente contro la fermezza; ripeterà la sua azione in occasione del rapimento del giudice D'Urso. Da una parte, quindi, ci sono il Partito socialista ed il Partito radicale contro il compromesso storico, quindi contro l'alleanza che permette al Partito comunista di entrare nella sfera del Governo e dall'altra parte c'è, sul versante della fermezza, il Partito comunista, che dovrebbe essere il nemico dell'oltranzismo atlantico, insieme alla Democrazia Cristiana ed agli uomini dell'oltranzismo atlantico, ossia della P2. Se Moro fosse stato liberato sicuramente sarebbe stato un nemico del compromesso storico e quindi è comprensibile che chi sosteneva la fermezza non volesse la liberazione di Moro dall'inizio. E’ anche evidente - credo non ci sia bisogno di andare a scavare nei misteri - che non vi è stato alcun doppio delitto: semplicemente faceva comodo a chi era entrato con la fermezza in un quadro politico diverso che Aldo Moro venisse alla fine ucciso; poi vi possono essere stati coloro che lo volevano e chi non lo voleva ma tutti hanno fatto poco per liberarlo; ciò non esclude che ci possono essere stati anche alcuni che hanno fatto molto ed hanno tentato inutilmente tutto il possibile per liberarlo. Il discorso politico è di fronte agli occhi di tutti: le compromissioni, i rallentamenti e le ambiguità sono evidenti. Le Brigate rosse rapiscono ed uccidono Aldo Moro, c'è un interesse (descritto con parole terribili da Moro stesso) comune, della Democrazia Cristiana e del Partito comunista, a che il sequestro si concluda con l'omicidio. Mi domando francamente come tutto questo possa incastrarsi nella logica, che percorre tutte le analisi di questa Commissione, di un'Italia soggetta all'oltranzismo atlantico per impedire al Partito comunista di entrare al Governo.

Desidero domandare al professor Silvestri alcune precisazioni; mi scusi se le faccio questa domanda, ma ho letto quanto ha dichiarato il giudice Imposimato, ex senatore, che ha affermato: "Un altro mistero che ancora non si è chiarito riguarda il gruppo di quei grandi mascalzoni che stavano al Ministero dell'interno nei 55 giorni del sequestro, il gruppo di esperti che faceva parte del comitato per la sicurezza". Così vi definisce Imposimato; le domando: si è chiesto perché vi abbia attribuito questa etichetta? Imposimato esamina i membri di questo comitato e sostiene che Ferracuti, amico di Gelli, faceva parte della CIA (l'uomo quindi che stabilisce la tesi della sindrome di Stoccolma e che sostiene una politica condivisa dal Partito comunista e dalla Democrazia Cristiana sarebbe stato uomo della CIA) e che Pieczenik, in quanto membro del Governo americano, era anch'egli amico della CIA (proprio lui però cerca di convincere tutti, Cossiga in particolare, a prendere una strada che porti alla liberazione di Moro e gli fornisce indicazioni tecniche perché si arrivi a questo risultato). Poi c'è lei; è amico della CIA? Faceva parte della CIA allora? Fa parte della CIA?

SILVESTRI. No, né della CIA né di altri servizi segreti.

TARADASH. In questo quadro l'oltranzismo atlantico è rappresentato da Ferracuti evidentemente e da un uomo, che però è emissario del Governo americano, che addirittura ipotizza il grande vecchio (non si sa se poi questo grande vecchio lo ipotizzasse in quale direzione, in quale settore, ma è lui che fa questa ipotesi). Mi sembra che frani un po’, poi lei mi risponderà. Quindi, la prima domanda riguarda questa valutazione di Imposimato e che cosa lei pensa che abbia fatto la CIA in quel periodo.

La seconda domanda riguarda la sua funzione, i legami internazionali. Lei era stato invitato perché esperto di cose internazionali. Mi domando se c'è stata una valutazione dei legami internazionali delle Brigate Rosse, se si è ipotizzata qualche strada, se si è verificata qualche ipotesi a questo proposito. E oggi, con l'esperienza che ha maturato in questi vent'anni, lei è in grado di formulare qualche ipotesi più specifica, rispetto ai legami internazionali delle Brigate rosse?

SILVESTRI. In primo luogo, ovviamente non condivido l'idea di Imposimato che io fossi, sia pure per associazione con altri, un grande mascalzone. Ritengo che Imposimato lo dicesse perché ... non so, fatti suoi. Ferracuti era amico di Gelli, questo lo abbiamo saputo dopo: da quanto ho capito faceva parte della P2 pure lui. Che sia o sia stato uomo della CIA non ne avevo assolutamente nozione. Non so quale possa essere stato il ruolo della CIA. Pieczenik non è venuto come uomo della CIA. Lui era, ripeto, deputy assistant secretary of State, che equivale, per capirci, alla funzione di vice segretario di Stato; quindi è una funzione governativa, una nomina governativa, è un ruolo politico all'interno dell'Amministrazione americana molto preciso, Evidentemente, come responsabile della gestione delle crisi all'interno del dipartimento di Stato doveva avere contatti con i Servizi, ma li ave va da politico e soprattutto da persona che li utilizzava, non da agente; per lo meno questo era il suo ruolo.

Che cosa abbia fatto o se abbia fatto qualche cosa la CIA per il rapimento Moro non ne ho idea. La posizione americana all'epoca di Carter fu: vi vorremmo aiutare moltissimo, se abbiamo informazioni ve le diamo, non possiamo mandarvi la polizia o l'FBI perché c'è una legge del Congresso che ce lo vieta; se volete mandare gente a fare del training qui in America, benvenuti, ma noi non possiamo mandarvi del personale. Sostanzialmente era questa la posizione.

FRAGALA’. Per l'omicidio di Falcone li mandarono però.

SILVESTRI. Può essere, non lo so. Quella fu la risposta all'epoca che ebbe l'ambasciatore Gardner. Per lo meno così mi fu detto, poi non è che vidi carte ufficiali.

TARADASH. La domanda che le pongo come esperto di questioni internazionali è se è ipotizzabile che la CIA o il Governo americano potessero preferire Andreotti piuttosto che Moro.

SILVESTRI. Tutto può essere. Andreotti ha sostenuto il contrario successivamente, cioè che lui in realtà ha pagato uno sfavore americano. Non credo che gli americani si fidassero molto di Andreotti; lo ritenevano un uomo politico italiano di grossa statura, certamente una persona con cui si potevano fare affari, diciamo così; lo consideravano sicuramente in un certo senso un alleato degli Stati Uniti ma non il loro uomo.

Moro non lo capivano proprio. Su Moro ci sono le pagine di Kissinger; Moro in genere andava in America con un suo traduttore personale, l'attuale ambasciatore Armellini, che era in grado di tradurlo perché lui è un bilingue perfetto italiano-inglese e non traduceva Moro, ma il senso della frase di Moro. Una volta Moro andò in America con un traduttore "normale", il quale traduceva esattamente le parole che diceva Moro in americano senza preoccuparsi di interpretare: ci furono tutta una serie di pasticci inenarrabili che dovettero essere sciolti ogni volta successivamente perché non si capivano. Per cui c'era un elemento di comunicazione di Moro nei confronti degli americani che era molto difficile. Quindi, questo non lo so. Lei sembra suggerire che tutto sommato gli americani, essendo favorevoli alla trattativa, potevano volere la destabilizzazione...

TARADASH. No, è il contrario. E’ esattamente il contrario. Questa volta ho parlato poco chiaro anch'io.

SILVESTRI. Comunque non credo che fossero gli americani in maniera particolare. La mia impressione è che Pieczenìk ragionava esattamente da tecnico degli ostaggi, cioè non aveva una mentalità particolarmente politica, anzi era annoiato dai discorsi politici che facevano gli italiani. Lui aveva una visione molto tecnica del problema e questa manteneva.

Quali siano poi i legami internazionali delle Brigate Rosse? All'epoca non avevo uno straccio di documento, che fosse uno, che mi potesse far dedurre un qualche legame internazionale delle Brigate rosse, erano chiacchiere. L'impressione che ho avuto successivamente è che le Brigate rosse, se hanno avuto contatti internazionali, li hanno avuti - ripeto - di tipo tattico più che altro. Certamente c'era un'internazionale del terrorismo, e questo già si sapeva all'epoca; non nel senso però di uno Stato estero o di un servizio segreto estero che guidava le Brigate rosse, ma che c'erano dei collegamenti tra i gruppi terroristici europei, mediorientali o altri, e quindi che questo poteva di traverso far avere contatti anche con Servizi o con Stati esteri. Questo si sapeva, ma su quale fosse la dimensione di questa internazionale, la solidità dei legami al suo interno, non avevo alcun dato e, tutto sommato con il senno di poi, mi sembra che fossero abbastanza tenui, anche se contatti sicuramente, secondo me, ci sono stati, soprattutto con i tedeschi ma anche con ambienti palestinesi ed altri.

PRESIDENTE. Questo ormai risulta, però in una logica che conferma la sua valutazione, cioè che fossero soprattutto contatti tattici, perché una strategia comune non nacque mai.

Io dovevo una risposta all'onorevole Taradash. C'è un punto che non mi convince della sua impostazione: la distinzione tra politica ed istituzioni. Ci possono anche essere forze politiche che, attraverso un ragionamento di interesse politico, possono ritenere non conveniente la salvezza di un ostaggio. Il guaio è se questo diventa però il punto di vista di una impropria politica di chi sta al vertice degli apparati di sicurezza. Il problema della P2 è questo, che ad un certo punto la neutralità degli apparati istituzionali entrava in gioco, perché la fedeltà alla Repubblica si accompagnava alla fedeltà ad una loggia.

TARADASH. Signor Presidente, non ho detto questo. Ho detto che è difficile far risalire queste responsabilità all'oltranzismo atlantico.

PRESIDENTE. Ma il problema è che c'erano degli apparati di sicurezza che avevano una serie di doveri; lo ha detto con chiarezza il collega Gualtieri. Fatta la scelta della fermezza, però, poi bisognava andare a trovare dove stava.

TARADASH. La domanda che le pongo è come fa risalire la contraddizione così chiara che c'è all'oltranzismo atlantico.

PRESIDENTE. Io cerco di domandarmi che cos'è la P2.

TARADASH. Appunto per questo.

PRESIDENTE. E valuto che fino adesso una risposta precisa non c'è stata, perché c'è una divaricazione tra una Commissione parlamentare che ha ipotizzato la famosa "piramide rovesciata" e il fatto che non ha avuto risposta, non ha dato risposta alla domanda su che cosa fosse la piramide rovesciata.

TARADASH. Tutti coloro che erano a sfavore dell'ingresso dei comunisti nell'area di Governo erano per la trattativa; la P2 era per la fermezza. La P2 non amministra bene le indagini...

PRESIDENTE. Ma no, La P2 può essere stata...

TARADASH. L'esperto americano invece tenta di far funzionare le indagini.

PRESIDENTE. Onorevole Taradash, se sovrapponiamo le nostre voci creiamo soltanto problemi agli stenografi. Il problema è che ci può essere stato - ce lo ha detto pure come ipotesi il professor Silvestri questa sera - al vertice degli apparati chi volutamente non ha voluto liberare l'ostaggio; il che non contraddiceva la strategia della fermezza, ma faceva diventare la scelta della fermezza una scelta non idonea alla salvezza dell'ostaggio. Nemmeno con il generale Dozier si tratta, però Dozier viene liberato da un'operazione di polizia. Con Cirillo si tratta, e i danni istituzionali sono stati quelli che sono stati nella vicenda Cirillo.

TARADASH. Lei come risale da questo all'oltranzismo atlantico?

PRESIDENTE. Ho fatto un'ipotesi e qui sono venuti degli illustri personaggi a direi che sicuramente era così. Do atto che il professor Silvestri...

FRAGALA’. Ma chi lo ha detto?

PRESIDENTE. Innanzitutto Taviani, poi Maletti, poi il generale Bozzo poi, adesso vado a memoria, ma se andiamo a riguardare tutte le audizioni...

FRAGALA’. Con la domanda retorica e suggestiva del Presidente per farsi dire di sì da quel poveretto che sta in Sudafrica!

PRESIDENTE. Non è vero. Domando al professor Silvestri se ha avuto l'impressione ... onorevole Fragalà, se c'è un'accusa che non mi può essere fatta è quella di fare domande suggestive.

FRAGALA’. "Generale Maletti, lei rispetto a questa mia ipotesi dice che è possibile sì o no?" E Maletti rispose: "E’ possibile".

PRESIDENTE. E su una serie di ipotesi mi ha detto di no. Quando ho domandato a Maletti se riteneva possibile...

FRAGALA’. Ma per favore!

PRESIDENTE. Come disse una volta Almirante, non è obbligatorio non essere ben educati, quindi mi faccia concludere. Alla domanda che feci a Maletti se vi poteva essere un accordo fra i servizi occidentali e orientali la risposta fu: queste sono cose che avvengono soltanto nei romanzi di Le Carrè. Poi abbiamo scoperto che Haas era una doppia spia, che lavorava per un servizio e per l'altro; questo sta nell'oggettività dei fatti che sono avvenuti in questa Commissione. Comunque è un discorso che riprenderemo fuori dalle audizioni.

Penso che l'audizione odierna possa ritenersi conclusa; mi auguro che, quando rileggeremo il verbale di questa audizione e quello dell'audizione del professor Silvestri nella Commissione Moro, vedremo di aver acquisito anche oggi una serie di utili elementi, e di questo ringrazio veramente il professor Silvestri.

SILVESTRI. Sono io che ringrazio lei, signor Presidente.

GUALTIERI. Vorrei dire che dopo l'audizione di questa sera a mio parere risulta sempre più necessario fare ogni sforzo per avvicinare Pieczenik, diventa utile anche per sollevare il professore da questa cosa di Imposimato. Noi abbiamo convocato Priore, ma a dire che avevano saputo che in Francia si sapeva del rapimento di Moro erano Priore e Imposimato, quindi Imposimato può fare meno il furbo e venire qui a rispondere.

PRESIDENTE. Va bene, in sede di Ufficio di Presidenza si decideranno le altre audizioni. Pieczenik ci ha risposto che ha tante cose da fare e non vuole venire in Italia, vedremo se accetterà una nostra visita in America.

La seduta termina alle ore 22,05.

Home page Commissione stragi