Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

60a SEDUTA

VENERDI' 21 GENNAIO 2000

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

prima parte

seconda parte

 

Prima parte

Indice degli interventi

PRESIDENTE
MACCARI
DE LUCA Athos (Verdi-l'Ulivo), senatore 1
MANCA (Forza Italia), senatore 1 - 2 - 3
MAROTTA (Forza Italia), deputato 1 - 2-
PARDINI (Dem. di Sinistra-l’Ulivo), senatore 1 - 2 - 3
TARADASH (misto-P.Segni-RLD), deputato 1

 

La seduta ha inizio alle ore 9,45.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta. Invito il senatore Athos De Luca, segretario f.f., a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

DE LUCA Athos, segretario f.f., dà lettura del processo verbale della seduta del 1° dicembre 1999.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato. E' approvato.

 

COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE

PRESIDENTE. Comunico che, dopo l’ultima seduta, sono pervenuti alcuni documenti il cui elenco è in distribuzione e che la Commissione acquisisce formalmente agli atti dell’inchiesta. Comunico inoltre che il dottor Rosario Priore, il senatore Ferdinando Imposimato ed il prefetto Ansoino Andreassi hanno provveduto a restituire, debitamente sottoscritti ai sensi dell’articolo 18 del regolamento interno, i resoconti stenografici delle loro audizioni svoltesi rispettivamente l’11, il 24 novembre ed il 1° dicembre 1999, dopo avervi apportato correzioni di carattere meramente formale. Informo altresì che i dottori Gian Paolo Pelizzaro e Sandro Iacometti hanno fatto pervenire un loro elaborato concernente la cronologia ragionata degli eventi relativi alla rete spionistica del KGB in Italia ed al dossier Mitrokhin. Onorevoli colleghi, riprenderemo questo argomento non appena il Comitato di controllo sui servizi avrà depositato la sua relazione, cosa che - come sappiamo - dovrà avvenire a giorni; da tale documento avremo innanzitutto un’autodelimitazione delle competenze. Ritengo, quindi, che per i profili riguardanti la Commissione potremo continuare ad occuparcene nei limiti delle nostre competenze e senza interferire su competenze ulteriori che potranno essere affidate alla Commissione che, come sapete, dovrà costituirsi.

 

INCHIESTA SUL CASO MORO: AUDIZIONE DEL SIGNOR GERMANO MACCARI.

(Viene introdotto il signor Germano Maccari).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del signor Germano Maccari. Onorevoli colleghi, come sapete, Germano Maccari, dopo Morucci e Faranda, è il terzo dei responsabili del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro che audiamo in questa legislatura; tutti gli altri che abbiamo provato ad audire non si sono dichiarati disponibili. Pertanto, prendo atto della disponibilità manifestata da Maccari e mi auguro che, come è già stato soprattutto per l'audizione di Morucci, l'audizione odierna possa risultare utile e fornirci qualche ulteriore contributo nello sforzo che stiamo compiendo per adempiere ad uno dei compiti istituzionali di codesta Commissione, che è quello di aggiornare il Parlamento sugli ultimi sviluppi del caso Moro.

Germano Maccari è stato condannato dalla Corte d'assise di appello di primo grado all'ergastolo per concorso nella strage di via Fani e poi nel sequestro e nell'omicidio di Aldo Moro; in appello, la Corte d'assise di primo grado andò al di là della richiesta avanzata dal pubblico ministero che aveva invece ritenuto che a Maccari dovessero applicarsi almeno le attenuanti generiche. Su appello del Maccari, questa richiesta fu accolta dalla Corte d'assise d'appello di Roma e la condanna venne ridotta a 30 anni. Su ricorso del Maccari, poi, la Corte di cassazione annullò la sentenza quanto alla determinazione della pena. Quindi, sulla responsabilità sia per la strage di via Fani sia per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, si è formato un giudicato. La Corte d'assise di appello di Roma, in sede di rinvio, ha ridotto la condanna a 26 anni. Anche questa sentenza è stata impugnata da Maccari con ricorso per Cassazione e ancora una volta la Corte di cassazione ha ritenuto che ci fossero vizi nel calcolo quantificativo della pena; pertanto, un nuovo processo, che riguarderà soltanto il profilo della quantificazione della pena, si celebrerà a L'Aquila il 24 marzo prossimo venturo. Ho fatto distribuire a ciascuno dei presenti una relazione dell'attento lavoro svolto in questi giorni dai nostri consulenti. Come sempre, per lasciare spazio alle vostre domande, vorrei limitarmi a svolgere un inquadramento iniziale dell'audizione, riassumendo quello che dai giudicati sulla responsabilità formatisi risultano essere gli elementi di partecipazione di Maccari sia alla strage di via Fani sia al sequestro e all'omicidio dell'onorevole Aldo Moro. Terminata questa elencazione, sarò grato a Maccari se vorrà correggere o integrare la mia esposizione.

Maccari partecipa all'approntamento dell'appartamento di via Montalcini, che è il luogo dove, secondo la ricostruzione giudiziaria, Moro sarebbe stato custodito per tutti i 55 giorni; già nel luglio del 1977 sottoscrive, utilizzando la falsa identità di Altobelli, i contratti di utenza e poi costruisce personalmente la cella insonorizzata nella quale verrà custodito Moro. Acquista, poi, la cassa destinata al trasporto del sequestrando. Nella fase successiva, tra le dichiarazioni di Maccari e ciò che è stato accertato in sede giudiziaria, per la verità vi è una discrasia: secondo la ricostruzione giudiziaria, Maccari partecipa con Moretti al trasporto della cassa contenente Moro appena catturato dal garage della Standa in via dei Colli Portuensi sino a via Montalcini; Maccari invece nega questa ricostruzione e sostiene - se ho ben capito - di trovarsi già in via Montalcini ad attendere l'arrivo di Moretti e Gallinari e poi di averli aiutati a trasportare dalla macchina della Braghetti all'appartamento di via Montalcini la cassa con dentro Moro. Secondo la sua versione, solo in quel momento apprende che la personalità politica rapita era Aldo Moro. E' pacifico poi che, già da prima del sequestro, Maccari abbia frequentato assiduamente l'appartamento di via Montalcini perché doveva costruire la falsa identità dell'ingegner Altobelli, convivente della Braghetti. La Braghetti aveva un lavoro normale e Maccari quindi fruiva dell'appartamento avendo con lo stesso il normale rapporto che ciascuno di noi ha con la propria abitazione: quindi, entrava, usciva, vi dormiva e la mattina riusciva. Insomma, non era sempre fisso all'interno dell'appartamento di via Montalcini nei 55 giorni del sequestro. Secondo Moretti, nel libro-intervista "Brigate rosse. Una storia italiana" di Carla Mosca e Rossana Rossanda, Maccari insieme alla Braghetti inizia a trascrivere le registrazioni delle conversazioni che Moro aveva con Moretti. Uso il termine "conversazione" perché è lo stesso usato da Moretti: Moretti, infatti, afferma che non si trattava di un vero e proprio processo (anche se sui comunicati si parlava di processo), ma che, in realtà - per come lui era fatto - nel momento in cui poneva una domanda e Moro iniziava a rispondere, nasceva un dialogo tra lui e Moro che veniva registrato. Di queste cassette Altobelli - dice Moretti, ovviamente senza farne il vero nome - insieme alla Braghetti inizia la trascrizione, però si trattava di un lavoro molto faticoso. Oltretutto Altobelli e la Braghetti non potevano stare tutto il giorno in Via Montalcini, perché la Braghetti aveva un lavoro e Altobelli doveva far vedere di averlo. Ad un certo punto, quindi, questo lavoro viene abbandonato e le cassette vengono distrutte. Maccari ha assicurato che l’appartamento di Via Montalcini non fu frequentato da altre persone se non da lui, dalla Braghetti, da Moretti e da Gallinari, il quale non se ne sarebbe mai allontanato durante quei 55 giorni. La mattina dell’ultimo giorno Maccari insieme a Moretti trasporta Moro in una cesta di vimini dall’appartamento al primo piano di Via Montalcini fino al box. Depongono Moro nel bagagliaio della Renault 4 e mentre la Braghetti resta fuori dal box, dove ad un certo punto incontra un’inquilina del palazzo che convince ad allontanarsi rapidamente, Maccari - secondo la sua ricostruzione - resta vicino a Moretti mentre quest’ultimo esegue la sentenza sparando su Aldo Moro. Sempre secondo la versione di Maccari egli non avrebbe partecipato attivamente all’esecuzione se non passando a Moretti la Skorpion con la quale vennero esplosi gli ultimi due colpi dopo che la prima arma utilizzata da Moretti e che aveva già esploso nove colpi si inceppò.

La sentenza di Assise di primo grado non crede pienamente a questa ricostruzione. Infatti, poiché dalle dichiarazioni della Faranda era pacifico che Altobelli avesse partecipato esplodendo direttamente gli ultimi due colpi, i giudici ritennero che la versione non sembrasse credibile, ritenendo che il ruolo che si pensava avesse avuto Gallinari, al quale si attribuiva l’identità di Altobelli, in realtà fosse stato ricoperto da Maccari. I giudici concludono però che la questione non ha importanza circa la responsabilità del concorso nell’omicidio. Inoltre, per ammissione dello stesso Maccari, appare pacifico che egli insieme a Moretti trasportò il cadavere di Moro da Via Montalcini fino a Via Caetani. Ad un certo punto del percorso – e questo è un altro passaggio in cui non c’è piena coincidenza tra le ricostruzioni di Moretti e Morucci – vengono affiancati da un’altra autovettura in cui si trovano Morucci e Seghetti. Giungono in Via Caetani dove Morucci e Seghetti avevano posto il giorno prima una terza autovettura. Questa viene spostata e la Renault rossa viene parcheggiata al suo posto. Maccari torna immediatamente in Via Montalcini dove provvede a demolire la cella insonorizzata, precedentemente costruita, per eliminare dall’appartamento ogni traccia materiale dell’avvenuto sequestro. Vorrei chiederle se la mia ricostruzione della verità giudiziaria è precisa o se invece ritiene che in alcuni punti essa non corrisponda a verità.

MACCARI. Sostanzialmente questa ricostruzione risponde a verità, tranne che in alcuni punti. Uno riguarda il fatto che io non ho stipulato alcun contratto né di acquisto della casa né relativo a qualsiasi utenza. La Braghetti era incaricata di occuparsi di queste faccende. Il mio incarico era un altro. Non so quanto possa sembrare plausibile quanto sto per dire, e tenete presente che comunque sono passati venti anni. La Braghetti doveva pagare una tranche di circa cinque milioni. Non ricordo se si trattava dell’ultima rata del pagamento …….

PRESIDENTE. Mi scusi se la interrompo ma desidero specificare che l’appartamento di Via Montalcini non era in affitto. Si trattava di un appartamento che la Braghetti aveva acquistato utilizzando parte del denaro che veniva dal sequestro Costa.

MACCARI. Dal sequestro Costa e da altre operazioni illegali delle Brigate Rosse. Dal punto di vista della logica della compartimentazione, della segretezza e della sicurezza di un’organizzazione praticante la lotta armata io non avrei dovuto firmare alcunchè e, sempre dal punto di vista brigatistico, si trattò infatti di un’estrema leggerezza. Le cose andarono in questo modo. Poiché la Braghetti quella mattina doveva recarsi al lavoro e aveva molta fretta mi chiese di riempire un modulo e di pagare. Io lo feci, pur sapendo che dal punto di vista brigatistico non era una cosa ben fatta. Tuttavia tenete presente che in quel momento non sapevo ancora di dover lavorare all’interno di quell’appartamento. Quando entrai nelle Brigate rosse, infatti, mi fu affidato il compito di allestire una base dell’organizzazione, vale a dire un appartamento che poteva essere un deposito di armi, un luogo ove far vivere militanti delle Brigate rosse, una prigione o quant’altro. Solamente in seguito e per gradi sono venuto a sapere di che si trattava. Pertanto, quando ho firmato quel foglio, commettendo dal punto di vista brigatistico una leggerezza, ho semplicemente firmato una distinta.

PRESIDENTE. Era un modulo Acea.

MACCARI. Erano addirittura due i moduli. Uno relativo ad un pagamento bancario e l’altro relativo ad un pagamento della luce.

PRESIDENTE. Vorrei ricordare che questo modulo Acea era stato depositato tra gli atti di questa Commissione. Infatti, quando la sua difesa chiese una perizia grafica sul contratto di utenza di questo modulo Acea il documento non venne rintracciato tra le carte processuali. Alcuni ufficiali di polizia giudiziaria vennero qui e il documento fu ritrovato negli atti della Commissione d’inchiesta sulla strage di via Fani.

MACCARI. Quando nell’ottobre del 1993 fui arrestato, leggendo i giornali a Rebibbia vidi su L’Unità la fotocopia di quel documento con la mia firma ed ebbi molta paura. Sapevo dell’esistenza di quel documento. Vi sembrerà strano ma quando affrontai il processo, poiché ho sempre negato con tutti la mia partecipazione a questi fatti, anche ai miei legali, dissi al mio avvocato di non insistere su quel punto. Egli sosteneva che non avendo io nulla da nascondere dovevo essere favorevole a far emergere tutti i documenti relativi al caso. Poiché non potevo dire al mio legale che ero colpevole cercai di sminuire la cosa, ma egli continuava nella sua linea. Dal punto di vista della mia difesa fu un autogol.

PRESIDENTE. Devo dire che la sua autodifesa era così convincente che, in una proposta di relazione che personalmente ho depositato alla Commissione nel dicembre del 1995, io ponevo in dubbio che lei fosse Altobelli. Infatti, ritenevo che l’accusa fosse quella: la Faranda la sostiene pienamente, Morucci la sostiene con qualche perplessità, ma, per l’idea che ci eravamo fatti dell’ingegner Altobelli, non mi sembrava che quell’identikit potesse esserle facilmente attribuito. Nel dicembre del 1995 dubitavo della sua colpevolezza.

MACCARI. Quando fui arrestato nell’ottobre del 1993 per questa vicenda, ho negato. Era un mio diritto, un diritto riconosciuto anche dalla legge. Non ho mentito, ho tenuto nascosta la verità, anche quando, mentre ero in carcere, fu fatto in mio favore un appello sottoscritto da parlamentari e intellettuali. Credetemi, quando ho confessato, nella mia dichiarazione dissi che avevo approfittato di questa possibilità, non mi sembrava un grande torto, ma chiesi scusa. Lo avevo tenuto nascosto a tutti: ai miei familiari, alla mia ex convivente, ai miei stessi avvocati. Ogni uomo ha i suoi tempi, dopo per me è scattato il tempo di capire e maturare questa decisione.

PRESIDENTE. Mi scusi per l’interruzione. Lei stava facendo un’altra rettifica alla mia ricostruzione della verità giudiziaria.

MACCARI. L’altra rettifica è che la mattina del 9 maggio, nel box, Moretti aveva…..

PRESIDENTE. Prima di arrivare al 9 maggio, vorrei chiederle se lei continua a negare di aver partecipato al trasporto dalla Standa a Via Montalcini. Lei era a Via Montalcini?

MACCARI. Io ero a Via Montalcini. Non capisco in che punto ci sia contraddizione, forse nella dichiarazione della Braghetti. La regola della compartimentazione, che fu molto sentita all’interno di questa organizzazione, divenne quasi maniacale e fu rispettata in maniera precisa durante e in occasione del sequestro del Presidente Moro.

PRESIDENTE. Mi faccia capire bene. Secondo la sua versione chi arriva con la macchina della Braghetti, con dentro la cassa, in Via Montalcini?

MACCARI. Arrivano Moretti e Gallinari. La macchina con sopra la cassa era una Ami 8; erano stati ribaltati i sedili e la cassa di legno, che era abbastanza grande e pesante (tanto è vero che in seguito, nel percorso inverso, fu sostituita con una cesta di vimini ugualmente robusta, perché si capì che la cassa di legno era obsoleta e non adatta), occupava l’intero spazio della macchina, lasciando liberi solamente il posto del guidatore e quello accanto. E’ abbastanza logico che non si poteva stare in tre seduti davanti, correndo il rischio di essere fermati da un vigile o da un poliziotto stradale.

PRESIDENTE. Quindi lei è in Via Montalcini e, insieme a Moretti e Braghetti, trasportate questa cassa dal box al primo piano. Prima stava rettificando sul 9 maggio.

MACCARI. Per quanto riguarda il 9 maggio, lei ha parlato di 8-9 colpi, invece andò così: Moretti, che aveva una Walter PPK silenziata, sparò uno o due colpi al presidente Moro, la Walter PPK si inceppò e, a quel punto, lui mi diede la pistola e io gli passai la mitraglietta Skorpion e Moretti sparò una o due brevi raffiche. Quindi, il corpo del presidente Moro fu colpito prima da uno o due proiettili calibro 9 corto della pistola Walter PPK e subito dopo da una o due brevi raffiche della mitraglietta Skorpion che era di calibro 7,65 civile.

PRESIDENTE. L’ordine dei colpi sarebbe quindi inverso rispetto a quello ricostruito dalla perizia.

MACCARI. Non ricordo neanche bene cosa sia stato detto. L’ho letta ma non la ricordo.

PRESIDENTE. La perizia sostiene che sono due armi a sparare: una spara due colpi, poi spara l’altra. Attribuisce alla seconda arma, che per lei sarebbe la prima, i colpi sparati a distanza più ravvicinata che sono quelli che hanno lasciato gli aloni sulla giacca e quindi sembravano colpi di grazia.

MACCARI. Penso che tutti i colpi siano stati sparati a distanza ravvicinatissima.

PRESIDENTE. Secondo la perizia, due soli colpi con l’arma poggiata.

MACCARI. Questo……..La perizia ha detto tante cose. Prima, addirittura non credevano che il presidente Moro fosse stato ucciso dentro la macchina, poi è bastato dire……

PRESIDENTE. La perizia che ho letto è chiara, ci sono addirittura le ammaccature nella macchina.

MACCARI. Esatto bastava guardare quello. Per il resto, mi sembra che tutto corrisponda. La cosa che non capisco, signor Presidente, è che a questo punto sono quasi sicuro che non ci siano dissonanze tra le versioni riguardo al percorso da Via Montalcini a Via Caetani. Mi sembra che tutti……

PRESIDENTE. Vi siete incontrati a Piazza Monte Savello.

MACCARI. Ci siamo incontrati in Piazza Monte Savello, sul Lungotevere, prima del ghetto ebraico.

PRESIDENTE. Su questo i commissari le rivolgeranno qualche domanda. Io prendo atto che il quadro che ho fatto è fedele alla ricostruzione giudiziaria, anche nei punti in cui la sua versione scarta dalla ricostruzione cui sono pervenute le Corte d’Assise. Come lei sa, questa ricostruzione che è stata fatta in sede giudiziaria dell’intera vicenda del sequestro, in alcuni punti appare poco convincente. Il fratello di Aldo Moro, Alfredo Carlo Moro, magistrato, ha scritto un lungo e interessante libro dal titolo "Storia di un delitto annunciato". Non so se lei lo abbia letto.

MACCARI. L’ho letto in parte.

PRESIDENTE. In esso viene enumerata una serie di inverosimiglianze. Volevo soltanto fermarmi su alcuni di questi aspetti che danno adito a perplessità. Quando trasportate Moro nella cassa, dal box di Via Montalcini all’appartamento, il giorno della cattura, non avevate la preoccupazione di poter incontrare qualcuno per le scale o che Moro potesse gridare dalla cassa, o che potesse sfuggirgli un lamento o un sospiro? L’assunzione del rischio sembra notevolissima.

MACCARI. Certo, ma, Presidente, tenga presente che qualunque azione illegale presenta dei rischi e, per quanto preparate siano le persone che intendano portarla a termine, c’è sempre l’imprevisto, l’incommensurabile. Non si può prevedere tutto, l’estrema prudenza porterebbe a dire di non fare l’azione, ma allora non si farebbe nulla.

PRESIDENTE. Oppure trovate una prigione diversa.

MACCARI. Certo, ma quella prigione è stata trovata. Personalmente ritengo che, per le Brigate rosse di quel periodo, per i mezzi economici e per la storia, quello sia stato l’appartamento, la prigione migliore, più compartimentata e meglio approntata.

PRESIDENTE. Lei conferma che Moro non era narcotizzato.

MACCARI. Lo confermo nella maniera più assoluta, non era narcotizzato durante il trasporto e mai durante i 55 giorni del sequestro. Il Presidente Moro era in uno stato confusionale, sarà stato uno stato di shock. Non sono un dottore, ma penso che qualunque persona sarebbe stata in stato confusionale, ma non è stato mai narcotizzato, è stato bendato. Il problema di portare una cassa dal box all’appartamento, percorso che richiede quaranta secondi, neanche un minuto……

PRESIDENTE. Da quello che ho capito si trattava di due rampe di scale: dal box al piano terreno e da questo all’appartamento del primo piano.

MACCARI. Esatto, c’era una porta che divideva il garage.

PRESIDENTE. Erano le dieci di mattina e la possibilità che qualche inquilino scendesse dalle scale non era scarsa.

MACCARI. Si, però era pur sempre una cassa.

PRESIDENTE. La cassa era una cassa e c’erano comunque due persone che la trasportavano; il problema era che sfuggisse un lamento a Moro e che qualcuno lo percepisse. Moro stesso avrebbe potuto dalla cassa percepire la presenza di terzi.

MACCARI. Io non so come sia stata valutata questa cosa, ma penso che sia stato un rischio che sia stato accettato.

PRESIDENTE. Che fosse Moro glielo dissero nel box o quando apriste la cassa nell’appartamento?

MACCARI. Quando fu aperta la cassa nell’appartamento lo vidi. Io non sapevo che si sarebbe trattato del presidente Moro; sapevo soltanto che si trattava del sequestro di un importante uomo politico della Democrazia Cristiana. Potevo pensare a Fanfani, Andreotti, o Moro: la cosa era abbastanza ristretta. Vorrei dire una cosa, per la quale chiedo quasi una fiducia: nel bene e nel male io sono sempre stato una persona che si è ritenuta corretta. Vorrei aprire una piccola parentesi: io sono stato definito anche dall’Avvocatura dello Stato un brigatista atipico. In primo luogo perché la mia partecipazione nelle Brigate rosse è durata circa un anno. Con questo non voglio sminuire la mia responsabilità, perché di contro io mi ritengo…

PRESIDENTE. Mi scusi, Maccari, ma su questo ritorneremo. Io voglio focalizzare il discorso sui fatti per come li abbiamo ricostruiti fino adesso, anche perché le saranno fatte domande. Lei conferma quanto ha raccontato Moretti, cioè che lei e la Braghetti avete cominciato a trascrivere cassette di registrazioni di Moro?

MACCARI. Sì, lo confermo.

PRESIDENTE. Ed è vero che non avete finito la trascrizione?

MACCARI. Esatto. Ma non perché la Braghetti doveva lavorare, come lei ha detto, Presidente; semplicemente perché era un lavoro immane e non eravamo in grado di farlo. Era un lavoro lungo, estenuante, avevamo un registratore, un Philips, non certo di tecnologia avanzata. Avevamo la cassetta registrata, per trascriverla bisognava mandare avanti la cassetta, poi fermarla, scrivere, poi tornare indietro.

PRESIDENTE. Chi ha distrutto queste cassette?

MACCARI. Io non sono in grado di dirlo. Posso dire che sono uscite dall’appartamento di via Montalcini, sono state portate via da Mario Moretti, non so dove sono state portate, presumo nella casa dove viveva Moretti o comunque all’esecutivo nazionale.

PRESIDENTE. Quindi a Firenze o a Rapallo.

MACCARI. Esatto. Questo lavoro fu interrotto perché a un certo punto, oltre al fatto che ci trovavamo nell’impossibilità di portarlo avanti, fu anche detto che era inutile. E infatti i colloqui tra il presidente Moro e Mario Moretti non furono più registrati.

PRESIDENTE. Poi ci torneremo perché, se lei sta seguendo il lavoro di questa Commissione attraverso la stampa, saprà che io e credo anche molti commissari siamo convinti che uno dei nodi che non viene veramente sciolto né da voi, né da quelli che stavano dall’altra parte della barricata è tutto ciò che riguarda le carte del processo a Moro, le trattative, l’intera gestione della documentazione Moro. Lei continua ad escludere che altre persone siano entrate nell’appartamento di via Montalcini?

MACCARI. Si, nella maniera più categorica.

PRESIDENTE. E come fa ad escluderlo se lei stesso non stava nell’appartamento di via Montalcini?

MACCARI. A parte il fatto che io vi sono stato abbastanza durante quei 55 giorni, praticamente il mio compito era di stare lì. Certo potevo uscire, a volte ho anche trasgredito al codice di comportamento brigatista perché non ero d’accordo su determinati punti, ma questo era un altro problema. Io mi sono assentato 3, 4 o 5 volte, però non c’era motivo che altre persone …

PRESIDENTE. Morucci perché non poteva venire, sempre per un fatto di compartimentazione?

MACCARI. Che io sappia, non si è mai posto il problema del perché Morucci sarebbe dovuto venire nell’appartamento. Morucci aveva partecipato alla prima parte del sequestro e buona regola dice che chi partecipa al sequestro non debba poi sapere dove sta il sequestrato, anche se poi Moretti e Gallinari hanno fatto tutte e due le cose.

PRESIDENTE. Moretti era il capo, Gallinari fa parte del gruppo di fuoco che spara in via Fani e poi è il vero carceriere di Moro.

MACCARI. E’ esatto. Voi non dovete pensare a questa organizzazione delle Brigate rosse come la Spectre di fleminghiana memoria. Era un’organizzazione guerrigliera molto determinata, non bene armata, un’organizzazione fatta da compagni di quartiere, da dirigenti politici. Non dovete pensare ad una macchina perfetta.

PRESIDENTE. Un punto su cui si accentra la nostra riflessione è proprio questo, che per essere quelli che eravate avete tenuto il campo validamente troppo a lungo. Questa è l’impressione che noi abbiamo: che non siate stati contrastati fino in fondo, che non siano state usate tutte le possibilità che vi erano per contrastare. Un punto però è sicuro: eravate un’organizzazione che aveva una forte direzione politica. E allora, perché c’è questo contrasto tra la verità dei 55 giorni che emergeva dai vostri comunicati e la versione che voi avete dato su quello che era il processo a cui Moro veniva sottoposto? Voi nei comunicati avete sempre molto sottolineato questo aspetto del processo; sin dal primo comunicato avete detto che sarebbe stato processato e dicevate che gli atti del processo sarebbero stati resi pubblici. Poi nel comunicato numero 3 dite che il processo continua con la piena collaborazione del prigioniero. Nel comunicato numero 6 dite che il processo è terminato, che la confessione di Moro è stata piena, e enumerate, sia pure in maniera generica, una serie di fatti importanti che Moro vi avrebbe detto, quindi o attraverso la scrittura del memoriale, o con le risposte alle domande da voi poste che venivano registrate su quelle cassette che avevate cominciato a trascrivere e che poi avete dato a Mario Moretti. Poi improvvisamente in quel comunicato vi è una frase che mi ha sempre colpito, che dice che è evidente che non ci sono "clamorose rivelazioni". Poi continuate e dite: a questo punto facciamo una scelta, non renderemo pubbliche le carte del processo perché non vale la pena renderle pubbliche attraverso la stampa di regime, capitalista, asservita, eccetera. Devo dire che questa in realtà era una valutazione che voi potevate pure fare, perché chiaramente il sistema vi rispondeva neutralizzando preventivamente tutto ciò che Moro vi poteva raccontare, perché si sosteneva che Moro non era lui, la grafia non era sua, era drogato, era in preda alla sindrome di Stoccolma, eccetera. "A questo punto facciamo una scelta, renderemo pubblica questa documentazione attraverso i mezzi di informazione dell’organizzazione clandestina". Poi, dopo molti anni, Moretti dà la nota intervista a Mosca e Rossanda e dice che il processo non è più un processo, che quello che diceva Moro erano cose che voi non riuscivate a capire; "lo stesso memoriale di Moro, sì, a leggerlo oggi capisco l’importanza" – dice Moretti – "di tutte le cose che ci ha detto ma in quel momento ci sembravano una serie di banalità, perché Moro parlava un linguaggio così diverso dal nostro che noi non riuscivamo a capire la gravità, per il sistema, delle cose che aveva detto".

Tutto questo – è il vero nodo – ha un forte contenuto di inverosimiglianza, perché voi eravate troppo politicamente preparati e intelligenti per non capire come il sistema potesse aver paura delle cose che Moro stava raccontando. Quindi, secondo me, l’idea che queste carte poi non vengano utilizzate in alcun modo, che non si apra una trattativa sul contenuto delle carte resta un fatto inverosimile. Per banalizzare al massimo, potevano quanto meno essere usate come mezzo di autofinanziamento: qualsiasi organo di stampa, radio o televisione avrebbe pagato a peso d’oro le cassette con la voce di Moro che parlava alle Brigate rosse; qualsiasi giornale a peso d’oro avrebbe pagato gli autografi di Moro che venivano in qualche modo intercettati dal sistema e, in alcuni casi, non venivano resi pubblici. Tutto questo, che dai vostri documenti risulta essere l’aspetto centrale della vicenda dei 55 giorni, improvvisamente poi diventa un fatterello: "Sì, raccontava, parlava, non capivamo". A proposito di quelle cassette Dalla Chiesa, giustamente disse alla Commissione Moro: "Mi piacerebbe sapere chi ha recepito tutto ciò". Tutto questo sta a significare che quel sistema, che era stato così inefficace nello scoprire la prigione di Moro e nel cercare di liberarlo, diventa improvvisamente efficacissimo quando in pochissimi giorni riesce a capire in quale parte d’Italia stavano le carte di Moro, a via Monte Nevoso a Milano, e riesce a fare un blitz a via Monte Nevoso appena due giorni dopo che Bonisoli aveva portato in quella via le carte di Moro. Tutto questo mi spinge a dire: queste carte avevano una loro centralità e mi domando se in questo c’è una specie di accordo tra voi e il sistema, perché se uno sente la polizia, il Ministro dell’interno, i carabinieri dell’epoca … Noi abbiamo sentito Rognoni, il quale ha minimizzato questo aspetto, come sta facendo lei. Questo è il vero punto che a me sembra abbastanza inverosimile, più di una serie di altre aporie come la cassa, il rischio, eccetera.

MACCARI. Io non minimizzo il dossier scritto dal presidente Moro. Dico soltanto questo: innanzitutto non sono convinto dell’estrema intelligenza politica dei dirigenti delle Brigate rosse, perlomeno dei capi storici, a differenza di lei, Presidente; dico poi che le cassette registrate furono una o due, credo di più una, per cui quel lavoro di trascrizione finì subito.

Per quanto riguarda il memoriale di Moro devo dire che c’era un abisso intellettuale tra il presidente Moro e l’operaio della Sit-Siemens Mario Moretti, per quanto possa essere cresciuto, eccetera. Non sono convinto dell’intelligenza delle Brigate rosse perché, da un punto di vista guerrigliero, se fossero state più intelligenti avrebbero lasciato vivo il Presidente, tanto più che egli aveva detto che sarebbe uscito dalla Democrazia cristiana e si sarebbe messo nel Gruppo Misto e che si sarebbe adoperato per cambiare le cose in senso migliorativo. Forse le Brigate rosse temevano questo. Il presidente Moro ha collaborato con le Brigate rosse; intendiamoci, egli ad un certo punto ha capito che per salvarsi doveva sgretolare il muro del partito della fermezza e in questo senso ha collaborato con le Brigate rosse, cioè ha lavorato per la sua salvezza. Quindi ha cominciato a scrivere ai suoi amici, ai compagni di partito, ha scritto un po’ a tutti. Il presidente Moro non si è prestato inizialmente; alle prime cose che Moretti gli chiese, cioè di parlare degli scandali, eccetera, il presidente Moro non si è prestato a questo livello. Poi, nel memoriale ha scritto delle cose che però le Brigate rosse non hanno capito, non erano all’altezza politica di capire determinate cose.

TARADASH. Lei dice sempre le "Brigate rosse", ma lei era un brigatista rosso: perché non dice "noi" anziché dire "loro"?

MACCARI. Le ripeto, come ho detto poc’anzi, che sono stato un brigatista atipico. Io sono uscito dalle Brigate rosse. Ma se lei preferisce che io dica così … l’importante è capirsi.

MANCA. Lei è stato delle Brigate rosse.

MACCARI. Sono stato delle Brigate rosse, ma sono stato anche uno dei primi ad uscirne e non per formare un’altra banda armata, ma perché ero in netto contrasto. Tant’è vero – e questo è accertato – che quando sono uscito, il 12 o 13 maggio del 1978, non sono più entrato in nessuna banda armata e ho smesso di fare politica. Per questo motivo, perché dovrei dire "noi"? Lei mi costringe …

TARADASH. Ci stava lei, non c’ero io.

MACCARI. Lo so, in quel momento io ero delle Brigate rosse. Presidente, non ricordo cosa stavo dicendo.

PRESIDENTE. Lei stava dicendo che le Brigate rosse non riuscirono a percepire l’importanza delle cose che Moro aveva scritto nel memoriale.

MACCARI. Quando il presidente Moro parla di una struttura della NATO, e non usa il termine Gladio o stay behind…

PRESIDENTE. "Non abbiamo mai enfatizzato l’importanza". E’ tutto scritto nello stile di Moro.

MACCARI. Per quello che era la cultura della sinistra extraparlamentare di quel momento, il presidente Moro non stava dicendo nulla di eclatante. Tutto il movimento rivoluzionario, ha sempre sostenuto che nello Stato c’erano chissà quali strutture che preparavano colpi di Stato, poi non fatti o solo approntati. Per il movimento rivoluzionario lo Stato era il male assoluto e in quel senso il presidente Moro non è che dicesse chissà quali cose. A distanza di anni può essere …

PRESIDENTE. Questo lo abbiamo detto più volte. Ma il problema, messo così, è messo male. E’ chiaro che rispetto all’idea che voi avevate dello Stato imperialista delle multinazionali, del potere democratico cristiano le cose che diceva Moro non aggiungevano nulla, davano semmai la conferma a quella che era stata fino a quel momento la vostra analisi. Il problema era quanto poteva essere devastante per il sistema il fatto che venisse reso pubblico che Moro aveva riconosciuto l’esattezza di quel giudizio, che poi costituisce tutta la parte iniziale del comunicato n. 6 in cui si dice che ha riconosciuto tutti i crimini di regime. Lei, che aveva un ruolo non di comando nelle Brigate rosse, deve però valutare che c’è questa stranezza nel comportamento di Moretti. Lui ha in mano un’arma. Lei ha detto che addirittura la logica di Moro non si capisce, perché Moro che scrive una prima lettera al Ministro dell’interno dicendo: "Potrei dire cose molto spiacevoli e potrei anche dire cose pericolose per la sicurezza dello Stato", nel momento in cui vi consente di dire che aveva collaborato e che il processo si era chiuso addirittura con la piena confessione del prigioniero, in realtà indebolisce la sua posizione per ciò che riguarda la salvezza della sua vita. Infatti, da quel momento in poi il danno che poteva fare lo aveva già fatto. E ciò che poteva essere invece ulteriormente dannoso erano le carte. C’era quindi la necessità di neutralizzare le carte e, secondo me, si condusse un’opera, fatta molto bene, di contro informazione, poiché si cominciò a dire che ciò che diceva Moro non era vero. In tal modo, si cercava di depotenziare la possibilità che venisse fuori la verità. C’erano delle cassette; non vi furono registrazioni complete; di queste registrazioni, fu iniziata la trascrizione che poi venne interrotta. Le cassette furono affidate a Mario Moretti che le portò fuori da via Montalcini. Gli ulteriori scritti di Moro rimanevano in via Montalcini o venivano, con la stessa rapidità, portati fuori?

MACCARI. Venivano di volta in volta portati fuori, sempre da Mario Moretti, man mano che il Presidente……

PRESIDENTE. Quindi è Mario Moretti a gestire l’intera documentazione.

MACCARI. Esatto.

PARDINI. Su questo tema vorrei chiedere una precisazione. Lei prima ha detto che il lavoro di trascrizione era immane, che lo avevate interrotto proprio per tale motivo, perché non avevate la tecnologia, perché era troppo lungo, non ce la facevate. Subito dopo però ha detto che le cassette erano una o due…..

MACCARI. Probabilmente una.

PARDINI. ….. e che quindi il lavoro era stato finito subito. Ma il lavoro è stato finito o no? Cosa vuol dire lavoro finito? Era stato trascritto tutto quello che Moro aveva detto?

MACCARI. Ci fu una mattinata o un pomeriggio di colloquio o interrogatorio tra il Presidente e Mario Moretti, registrato su nastro. Poi, cominciammo a trascrivere questo nastro. Dopo un’ora o due di questo lavoro ci siamo resi conto che non era un metodo pratico da seguire in quanto avevamo davanti a noi un lungo processo.

PARDINI. Avete quindi abbandonato l’idea di registrare immediatamente il primo giorno?

MACCARI. Esatto.

PRESIDENTE. Conferma che soltanto Moretti interrogava Moro?

MACCARI. Sì, lo confermo.

PRESIDENTE. Soltanto Moretti e Gallinari entravano nella cella insonorizzata?

MACCARI. Esatto.

PRESIDENTE. Lei non ha mai visto Moro in quei giorni?

MACCARI. Se volevo, potevo vederlo attraverso un occhiolino che era stato messo sulla porta.

PRESIDENTE. Ma non ha mai avuto contatti con Moro? Neanche la Braghetti?

MACCARI. No, assolutamente. Gallinari aveva contatti soltanto per portargli da mangiare o capi di vestiario, non si è mai neanche fermato a dialogare.

PRESIDENTE. Quando finì il processo o il colloquio fra Moretti e Moro e si decise invece che forse era opportuno che Moro redigesse il memoriale?

MACCARI. Non so datare esattamente quel momento ma credo che risalga alla metà del sequestro, dopo 20–30 giorni. Non posso essere preciso. A un certo punto, Moretti ha capito, ha dato carta libera al Presidente, gli diede una serie di domande, un elenco …….

PRESIDENTE. Quindi gli fa una serie di domande. Questo è importante perché leggendo il memoriale sembra chiaro che Moro risponda a domande precostituite.

MACCARI. Gli fornisce una serie di domande o di argomenti, non saprei dire con esattezza se erano domande precise, ma ricordo un foglio, una scaletta, un qualcosa, che fu dato da Moretti al presidente Moro, che non era neanche tenuto a seguirlo in quell’ordine.

PRESIDENTE. Ma alcune volte leggiamo nel memoriale parole come "a questo punto ho già risposto prima". Sembra che stia rispondendo a delle domande e gli analisti sono anche riusciti a ricostruirne alcune.

MACCARI. Fu dato qualcosa del genere.

PRESIDENTE. Questo è un punto importante. Vorrei un chiarimento. Gli appunti che Moretti passa a Moro e che costituiscono lo scheletro del memoriale, sa se erano farina del sacco di Moretti o di altri?

MACCARI. Non saprei dirlo, Presidente, non sono in grado di dirlo.

PRESIDENTE. Lei ha letto il memoriale?

MACCARI. In quei giorni non l’ho letto.

PRESIDENTE. Non dico in quei giorni, ma in questi venti anni.

MACCARI. Sì.

PRESIDENTE. Non ha avuto l’impressione che Moro parlasse di argomenti che non erano interessanti per la riflessione brigatista? Cosa poteva importare a voi della vicenda di Medici o della Montedison, tanto per fare un esempio?

MACCARI. Non sono in grado di dirlo. Bisognerebbe chiederlo a Mario Moretti perché non mi sono curato di questo aspetto.

PRESIDENTE. Anche Morucci ci ha rimandato a Moretti che però non parla.

MACCARI. Non ho mai parlato, anche intellettualmente non ne ero in grado, non era il mio compito, il mio compito era un altro, nella circostanza ero un soldato.

PRESIDENTE. Pur attribuendo a Moretti una statura intellettuale che non è quella dell’operaio della Sit–Siemens, stanotte rileggevo la sua intervista a Mosca e a Rossanda e ho avuto la conferma di questo mio apprezzamento, si ha l’impressione, leggendo il memoriale, che Moro risponda a domande che non vengono dalla cultura brigatista, ma da informazioni di persone molto più addentro al sistema di potere. Non può dirci nulla su contatti di Moretti con intellettuali che hanno potuto contribuire alla redazione di quegli appunti?

MACCARI. No, nella maniera più assoluta. Tenga presente che dentro la struttura delle Brigate rosse cominciavo ad essere, per Moretti e per Gallinari, una persona con cui cominciavano a sorgere contrasti. Non ho mai avuto un feeling con Moretti e con Gallinari. Se avessi avuto un feeling, questo mi avrebbe permesso, durante le pause, in quelle giornate, di avere rapporti più amichevoli con loro. Cominciavo a capire di essermi messo in una avventura maledetta.

PRESIDENTE. Lei veniva da Potere operaio, movimento in cui erano presenti molti intellettuali. Lei e Morucci avete potuto fare da tramite fra questi intellettuali e Moretti, per cui alcuni di questi intellettuali hanno potuto partecipare alla individuazione degli argomenti su cui era bene che Moro rispondesse nel memoriale?

MACCARI. Non sono in grado di dirlo. In Potere operaio c’erano tanti intellettuali, molti artisti contribuivano economicamente, ma Potere operaio è una cosa e le Brigate rosse sono un’altra cosa. C’è anche un lasso di tempo abbastanza lungo, anche se molti militanti di Potere operaio sono passati nelle Brigate rosse.

PRESIDENTE. Qualche intellettuale di Potere operaio non poteva far parte della direzione strategica delle Brigate rosse? Potrebbe aver dato questo contributo di conoscenza alla gestione del processo?

MACCARI. Questo non lo so. Potere operaio si è sciolto nel 1973, il sequestro Moro è del 1978. Era un’organizzazione legale della sinistra extraparlamentare, anche se aveva un piccolo braccio armato, una parte di servizio d’ordine della quale facevamo parte anche io e Morucci. Se qualche intellettuale legato, non so bene in quale modo, a Potere operaio, sia poi entrato, negli anni successivi, nelle Brigate rosse, non lo so. Non posso escluderlo ma non lo so.

PRESIDENTE. Veniamo all’ultimo giorno di Moro. Ancora una volta, perché ucciderlo nel box e non nell’appartamento? Perché assumere il primo rischio, quello della discesa dall’appartamento al box, con Moro addirittura in una cesta di vimini? Teniamo presente che nella prima fase, quando portate Moro nell’appartamento dentro una cassa - quindi siamo all’alfa e all’omega dei 55 giorni - Moro poteva essere sotto shock, poteva già in quel momento aver deciso di giocare una partita all’interno dell’intera vicenda, di diventare, dall’interno di via Montalcini, il capo del partito della trattativa. Ma in quel momento, da quello che ho capito, Moro sa o intuisce che voi avevate deciso di eseguire la sentenza. O gli avevate detto che stava per essere liberato?

MACCARI. Noi gli abbiamo detto che non stava per essere liberato, ma che dovevamo spostarci da quell’appartamento. Non lo so. Tuttavia, in ogni caso, a volte Moretti parlava con Moro e gli diceva: "Questa è una struttura che stanno cercando e lei si deve augurare che le forze dell’ordine non trovino questa base, perché ci sarebbe un conflitto a fuoco e la situazione sarebbe drammatica". Quindi, credo che Moro abbia saputo che l’organizzazione aveva problemi di sicurezza. Quella mattina o la sera prima – ora non ricordo bene – gli fu detto di prepararsi perché dovevamo spostarci. Signor Presidente, tenga presente un fatto: in quei 55 giorni abbiamo avuto modo di verificare anche la personalità del presidente Moro, vivendo con lui a contatto. Il presidente Moro non era un uomo d’azione; non ci ha mai dato l’idea di essere un uomo che potesse tentare una sortita, nel senso che non aveva una prestanza fisica, perché era debilitato, era un intellettuale, un uomo pacifico, calmo. Mi ricordo che una volta facemmo una riflessione del genere, nel senso che dicemmo che il presidente Moro non sarebbe stato in grado di fare un gesto ….

PRESIDENTE. Perché lui combatteva una battaglia per la vita solo con l’intelligenza e non con altro? Questo lei vuole dire?

MACCARI. Voglio dire che avevamo valutato che il presidente Moro, se ci fosse stata la necessità di un trasferimento o di un qualcosa del genere, avrebbe collaborato. Sarebbe stato un uomo calmo, mite, in attesa, nel senso che non avrebbe opposto resistenza e non avrebbe tentato alcuna sortita.

PRESIDENTE. Lei, però, capisce qual è il nodo? Sono d’accordo che probabilmente sarebbe stato questo….

MACCARI. Questa è una valutazione che era stata fatta.

PRESIDENTE. ...salvo che non avesse saputo che ormai la partita era chiusa e che stavate per ucciderlo. Il punto, cioè, è che, se gli avete detto che lo stavate per trasportare in un altro posto, il comportamento di Moro nella cesta, il vostro comportamento nel metterlo nella cesta di vimini e quello dello stesso Moro nel bagagliaio della Renault 4 mentre la Braghetti parla con la Ciccotti, assumono una logica.

MACCARI. Sì.

PRESIDENTE. Moro continua a sperare che, sia pure portandolo in un luogo diverso, la vicenda del sequestro possa non concludersi con la sua morte?

MACCARI. Credo che sia andata in questo modo.

PRESIDENTE. Se invece fosse vero quello che dice Moretti – Moretti, sempre nell’intervista alla Rossanda, dice che Moro capisce, quando gli dicono che devono uscire, che non c’è più niente da fare – allora il comportamento di Moro, per quanto mite e rassegnato, diventa di una tale passività da risultare inverosimile.

MACCARI. Presidente, questa è una cosa molto delicata. La differenza tra le cose è davvero minima, secondo me. Un fatto è certo: il presidente Moro ha sempre saputo di essere in pericolo di vita. Questo è chiaro. Il presidente Moro, forse per sua educazione, per sua cultura e per il suo modo di essere, era un uomo mite ..… Non so che dirle. Il comportamento degli uomini di fronte alla morte non è uguale per tutti. C’è anche chi si rassegna, chi crede in un’altra vita, chi accetta la morte con rassegnazione. Certo, posso dire con certezza che il presidente Moro sapeva dei rischi a cui andava incontro; sapeva che la trattativa era bloccata, anzi che non era mai stata avviata; sapeva che i suoi amici di partito lo avevano abbandonato. Tuttavia, ritengo anche che, da uomo cattolico, fino all’ultimo abbia sperato.

PRESIDENTE. Le rivolgo una domanda che potrebbe risolvere un problema. Lo avete bendato prima di metterlo nella cesta?

MACCARI. Sì, lo abbiamo bendato. Forse eravamo bendati noi. Non ricordo esattamente. Non cambiava molto. Intendo dire che eravamo bendati con il passamontagna quando Moro è stato fatto uscire dalla cella per andare dentro la cesta. Non ricordo questo particolare, ma credo… No, francamente non ricordo. Non sono in grado di dirlo con esattezza, perché non ho un ricordo preciso.

PRESIDENTE. Le ho rivolto la domanda perché questo particolare potrebbe dare una spiegazione logica a tutto. Se Moro era bendato e stava pensando che lo stavate solo spostando di carcere, non percepì nemmeno visivamente che stavate per sparare, nel senso che non vide Moretti puntargli contro l’arma. Quindi, si capisce perché fino alla fine resta così passivo.

MACCARI. Un fatto è certo perché lo ricordo bene. Quando il presidente Moro, arrivati nel box, venne fatto scendere dalla cesta di vimini per salire sulla Renault, noi non avevamo più il passamontagna – quindi, prima c’eravamo messi il passamontagna – e pertanto eravamo scoperti. Il Presidente, volendo, ci ha potuto vedere in volto, anche se è stata veramente una questione di uno o due secondi. Infatti Moro, chiuso e rannicchiato in una cesta, con una luce tenue dentro il box, di mattina presto, è stato fatto alzare dalla cesta per salire nel bagagliaio della Renault.

PRESIDENTE. Era o meno bendato?

MACCARI. Mi sembra di no. Tuttavia, dico in questo momento che mi ricordo, invece, di un altro gesto, che fu quello del Moretti di mettergli un lembo di coperta sul viso. C’era una coperta nel bagaglio dell’auto ed il Presidente fu fatto adagiare sopra tale coperta, rannicchiato, quasi seduto. Moretti, prima di sparargli, gli mise un lembo della coperta. Quindi, il Presidente non era… In quest’istante, da questo potrei dedurre che il Presidente non era bendato.

PRESIDENTE. Quando Moro viene ritrovato in via Caetani, sotto la giacca ha dei fazzoletti di carta, che chiaramente servivano a tamponare un’eventuale emorragia esterna più massiva di quella che poi in effetti ci fu. Ricorda chi fece questo gesto?

MACCARI. Mi ricordo che, durante il processo – non so se in primo grado o in appello – questo fu un fatto che il pubblico ministero sottolineò quasi a… Mi fu contestato come una contraddizione. Non ho proprio un ricordo visivo del gesto. Tuttavia devo dire che, poiché è stata fatta una perizia sul corpo del Presidente, furono trovati questi fazzoletti e fotografati. Probabilmente Moretti li deve aver messi in quell’istante. Tenga presente, signor Presidente, che in quel momento ero abbastanza sconvolto e quindi non ricordo certi particolari, anche un po’ macabri. Forse la mente, per autodifesa, li ha cancellati. Tuttavia, è plausibile, probabile che Moretti possa aver messo degli stracci, dei fazzoletti, o non so che cosa, per tamponare un’uscita di sangue, perché in ogni caso si trattava sempre di un corpo che doveva essere trasportato per il centro di Roma.

PRESIDENTE. Capisco che è difficile per lei il ricordo, come è difficile per me rivolgerle queste domande, almeno quest’ultima parte di domande. Con quale velocità, dopo aver sparato, siete usciti dal box?

MACCARI. Molto tranquilli e normali, con un’andatura…

PRESIDENTE. Il mio problema è il seguente. Sparate, poi chiudete subito il bagagliaio, salite in macchina e partite o restate per un po’ di tempo nel box?

MACCARI. No, pochi secondi, il tempo di mettere le armi in una sacca di tela, di parlare con la Braghetti per sapere se è libera la strada, di salire in macchina. Io consegno la borsa alla Braghetti e usciamo con un’andatura molto tranquilla.

PRESIDENTE. Che cosa conteneva la borsa?

MACCARI. Le due pistole silenziate.

PRESIDENTE. Quindi, non vi accorgete che Moro non era morto?

MACCARI. Non so se Moretti fosse in grado di fare quel gesto proprio dei dottori di sentire alla giugulare… In ogni caso, non sono stati fatti… Penso che un uomo colpito da più di dieci proiettili a distanza ravvicinata…

PRESIDENTE. Sì, però l’autopsia accerta che Moro impiega un quarto d’ora per morire, perché ebbe una forte emorragia interna. Questo è un dato dell’autopsia. L'ultima cosa: lei conferma, poi, di essere tornato subito in via Montalcini a smontare la cella?

MACCARI. Sì.

PRESIDENTE. Chi era rimasto in via Montalcini?

MACCARI. Non mi ricordo se la Braghetti quella mattina sia andata a lavorare o sia rimasta lì: questo non me lo ricordo. Gallinari di sicuro c'era. Io ritornai e cominciammo subito, anzi trovai che Gallinari aveva già cominciato a togliere qualcosa. Smantellammo la prigione in uno o due giorni.

PRESIDENTE. C'erano documenti? Erano rimaste carte o Moretti le portò subito via?

MACCARI. Sì, Moretti portava via quello che riteneva utile e credo tutti gli scritti furono portati via prima. Sì, ci potrebbero essere state carte o quaderni su cui Moro scriveva, ma non mi sembra che vi fossero carte scritte o cose particolari.

PRESIDENTE. Ho terminato le mie domande. Do la parola al vice presidente Manca.

MANCA. Anch'io voglio sottolineare il gesto compiuto dal signore qui presente per essere venuto a collaborare con noi e a sottoporsi alle nostre domande, cosa che non hanno fatto altri. Quindi, sotto certi punti di vista, esprimo anche un apprezzamento per questa scelta.

Da quello che ho letto e ho sentito oggi dovrei concludere che il suo è stato un ruolo logistico perché era incaricato di predisporre e poi di smantellare l'appartamento. Credo, però, che a volte coloro che hanno un ruolo logistico, non dico che sappiamo più di chi dirige, ma comunque hanno tempo per riflettere, per sapere e per sentire. Quindi, le rivolgerò alcune domande anche sulla base di tale considerazione. Prima di tutto, però, vorrei che mi chiarisse un aspetto emerso poc'anzi mentre rispondeva alle domande del presidente Pellegrino. Ad un certo punto, mi è sembrato che lei fosse nelle condizioni di poter affermare come erano strutturate le domande e se un certo documento rispondeva solo ad un colloquio con Moretti, ma poi in un altro punto ha detto che non entrava mai nella cella e guardava solo ogni tanto dallo spioncino. Come faceva, allora, a ricostruire la dinamica e l'articolazione dei colloqui se afferma di non essere mai entrato nella cella e di guardare solo dallo spioncino?

MACCARI. Io non entravo nella cella perché non c'era motivo che vi entrassi per parlare con il presidente Moro, tant'è vero che non l'ho mai fatto: questo compito lo aveva Moretti. Tenga presente, però, che quando Moretti finiva o prima di entrare parlavamo: era un'appartamento, eravamo quattro militanti delle Brigate rosse e parlavamo tra noi. Moretti ci riferiva le sue impressioni, ci diceva se il Presidente aveva risposto o no e se quanto affermava ci serviva o meno. Insomma, c'era un dialogo tra noi. Per questo sono in grado di dirle che mi ricordo di questo foglio, di questa scaletta, che non ho letto, ma di cui sapevo, proprio perché Moretti ci diceva che scriveva a Moro quattro cose in modo che lui potesse orientarsi e rispondere.

MANCA. E' molto importante sapere questo!

PRESIDENTE. E' una delle cose importanti. Mi sembra che le cose importanti che Maccari oggi ci ha detto siano due ed una è proprio questa.

MANCA. Veniamo ora alle mie domande. La prima parte riguarderà una serie di pareri che le chiederò perché, come lei sa e comunque le ripeto, noi siamo chiamati soprattutto a ricostruire le ragioni e le cause che hanno impedito di individuare i mandanti o comunque di evitare le stragi. Per scrivere le nostre relazioni abbiamo bisogno di testimonianze e di pareri di chi ha vissuto un certo momento e un certo evento. Lei ha mai sentito parlare nei colloqui o comunque ha mai visto anche in forma scritta qualcosa in merito ai collegamenti esistenti in quel periodo tra il mondo delle Brigate rosse e il mondo universitario di Bologna?

MACCARI. No.

MANCA. Ha sentito parlare o ha letto successivamente di una seduta spiritica avvenuta nella campagna bolognese in cui è emerso il nome di Gradoli?

MACCARI. Sì, questo l'ho sentito. Negli anni passati chi non lo ha sentito in Italia! Sì, ho sentito questa cosa.

MANCA. Nel vostro ambiente non è mai stato fatto un discorso relativo ai collegamenti con gli ambienti universitari, a queste soffiate? C'è una tesi secondo cui si trattava di una strada che si voleva seguire dall'ala non militarista e comunque non giustizialista delle Brigate rosse per favorire la liberazione di Moro. Questi discorsi non li ha mai sentiti o li ha mai fatti? Ci ha mai riflettuto?

MACCARI. No, durante il sequestro non si parlava di questo. Non ho mai sentito parlare di rapporti tra le Brigate rosse e lo specifico ambiente universitario di Bologna. Dopo il sequestro, dopo la mia uscita dalla Brigate rosse, poi, non ho più avuto rapporti o contatti con altri brigatisti; li ho incontrati in carcere, anche recentemente, nel 1993, ma non abbiamo parlato di questo.

PRESIDENTE. Penso che il senso della domanda - che mi sembra puntuale - rivoltale dal vice presidente Manca sia il seguente: noi non crediamo agli spiriti e pensiamo che non ci creda neanche lei. Ex post, che valutazione ha fatto sulla fonte della soffiata?

MACCARI. Non so cosa dirle, perché l'ultima cosa risale a ieri sera, all'intervista andata in onda in televisione in cui Craxi parla di una cena con il presidente Leone durante la quale la signora Leone ha parlato di Via Montalcini: cosa devo dirle? Di questa spia o meglio di questa fantomatica soffiata non so niente. Sui giornali è uscito fuori che si trattava di un elemento bolognese di autonomia operaia: io non ne so nulla.

PRESIDENTE. Adesso, però, ha l'impressione che eravate meno impermeabili di quello che pensavate?

MACCARI. Presidente, finora non ho mai avuto questo dubbio, però negli anni, forse grazie anche a quanto è uscito sulla stampa, il dubbio mi è venuto. Ma mi riferisco ad una cosa che ho letto sul settimanale "Diario" (di cui ho una copia qui) in cui Franceschini, persona che conosco bene per averla incontrata nell'area omogenea di Rebibbia (quindi, negli anni 1984-85), ha fatto una dichiarazione. Posso anche criticare Franceschini per alcuni atteggiamenti, ma sicuramente non credo possa dire una menzogna quando per la prima volta, facendo un nome e cognome, ha affermato che un tale Francesco o Franco Marra di Quartogiaro, Milano, pescivendolo (lo dico ora perché tutti i reati che possono essere ascritti a questo tal Marra sono oggi prescritti e affermo, per inciso, che il carcere non lo auguro neanche al mio peggior nemico!), era militante delle Brigate rosse, addirittura ha partecipato a varie rapine di finanziamento negli anni 1970-1972 e ha partecipato al sequestro Sossi. Questo sequestro fu compiuto da diciannove brigatisti: soltanto diciotto sono stati individuati ed arrestati e quindi il diciannovesimo era proprio Francesco Marra e non è stato mai arrestato.

PRESIDENTE. Franceschini lo ha detto anche a noi. Il suo sospetto era che si trattasse di un infiltrato dei carabinieri.

MACCARI. Se questo è vero, significa che i carabinieri sono riusciti a mettere un uomo. Non parlo di Pisetta, quelle potevano essere le prime cose, e poi l'organizzazione si sarà fatta le ossa. E’ probabile che dal 1974 in poi le Brigate Rosse siano state molto attente al problema dell’infiltrazione e abbiano preso enormi precauzioni. Tuttavia, io, pur non essendo d’accordo con Franceschini su tante cose, (lo considero il ministro di grazia e giustizia del partito guerriglia) su questa storia di Marra personalmente gli credo. Quindi, rispondendo alla domanda del Presidente qualche dubbio mi è venuto. Certo, per quel poco di conoscenza che ho delle Brigate rosse – torno a ripetere che la mia militanza è stata soltanto di un anno e anche molto criticata all’interno – è probabile che per il mio passato politico esse non si siano aperte tanto con me in ragione del mio dissidio con loro e sapendo che sarei comunque uscito dall’organizzazione. Ma che dirle, non sono più sicuro di niente.

MANCA. Sempre in tema di collegamenti delle Brigate rosse con altri ambienti (poc’anzi abbiamo parlato dei legami con il mondo universitario), avrà letto in questi giorni che si parla molto di un collegamento tra le Brigate rosse e il Kgb. Qualcuno afferma addirittura che potrebbe esserci stato un concorso nel rapimento. Cosa ne pensa di queste affermazioni? Ha mai sentito parlare di collegamenti, diretti o indiretti, con i servizi segreti stranieri?

MACCARI. Ho un’idea precisa di questa faccenda. Stiamo parlando delle Brigate rosse non della Norodnavaia nel 1860, né del partito Bolscevico di Lenin. Una cosa è certa: noi combattevamo lo Stato per cui i nostri nemici erano p olizia, carabinieri, servizi segreti e magistratura e quindi vedevamo queste istituzioni con il fumo negli occhi. Sicuramente sarebbe stato molto difficile per un militante delle Brigate rosse venire in una struttura dell’organizzazione, a partire dalla brigata di quartiere alla colonna fino alla direzione strategica, e affermare di avere un contatto con i servizi segreti chiedendo di poterlo sfruttare. Per la mia piccola esperienza nelle Brigate rosse – un po’ più lunga nel movimento rivoluzionario e nelle piccole bande armate negli anni dal 1974 al 1976 – presumo che questo fosse impossibile. Questa persona sarebbe stata isolata, emarginata e magari perché si poteva pensare che i servizi segreti fossero più forti e meglio organizzati di noi e quindi sarebbero stati loro a guadagnarci. Non era un organizzazione in grado di gestire rapporti con qualunque servizio segreto.

Altra cosa è che un servizio segreto possa agire autonomamente e per suo conto sfruttando le mosse di un’organizzazione terroristica. Mi sembra logico che un servizio segreto – per chi si è interessato delle problematiche relative ai servizi segreti, ma anche ripercorrendo la storia di movimenti rivoluzionari del passato – possa infiltrarsi e addirittura manovrare una piccola banda armata composta di 7–8 al massimo 10 elementi. Non credo tuttavia che esista al mondo un servizio segreto in grado di gestire le Brigate rosse, vale a dire circa 4.000 persone in tutta Italia con una rete di supporto, di simpatizzanti, quindi di persone che tifavano per le Brigate rosse molto ampia. Parliamo di 30-40.000 persone. Credo che ciò sia materialmente impossibile.

MANCA. Non è detto che il servizio segreto debba gestire tutto il movimento. E’ sufficiente che abbia dei contatti con alcuni, con i capi di un settore o di una colonna.

MACCARI. Questo non posso escluderlo ma ritengo sia molto difficile che esca fuori un Azef nelle Brigate rosse.

MANCA. Non le risulta una parola, uno scritto, niente relativamente a questi rapporti?

MACCARI. No.

MANCA. Si dice che alcuni esponenti delle Brigate rosse abbiano svolto addestramento di tipo militare fuori dall’Italia. Vorrei sapere se lei, relativamente all’attentato di Via Fani, abbia partecipato alla preparazione.

MACCARI. No.

PRESIDENTE. No, Maccari nega questo e afferma di aver saputo del rapimento di Moro solo quando arrivò in Via Montalcini. Dall’appartamento non avevate sentito la notizia alla radio? Quando arrivò Moro la notizia era già stata diffusa dalla radio.

MACCARI. Io stavo in strada, nella via perché non sapevo a che ora sarebbero tornati per cui non ho sentito la radio. Forse la Braghetti che era rimasta su e si affacciava ogni tanto aveva ascoltato la notizia. Io camminavo lungo Via Montalcini.

MANCA. Non si può affermare che uno non abbia partecipato alla preparazione solo perché non si trovava a Via Fani quel giorno. La preparazione comprende anche chi ha posizioni marginali.

PRESIDENTE. Maccari sostiene di sapere che doveva essere rapito un uomo politico democristiano, ma altro non fece se non comprare la cassa e attrezzare la cella.

MACCARI. No, ho fatto tante cose.

MANCA. Non ho chiesto notizie sulla sua partecipazione diretta. Tuttavia, poiché molti sostengono che alcuni esponenti delle Brigate rosse hanno svolto addestramento militare fuori dall’Italia, le chiedo se in preparazione dell’attentato di Via Fani le risulta che nelle settimane precedenti tali addestramenti siano stati ripetuti. In caso affermativo vorrei sapere chi vi abbia partecipato e se erano presenti istruttori non appartenenti all’organico delle BR e degli stranieri. In sostanza, c’è stata una prova generale del rapimento in Via Fani o è stato tutto improvvisato?

MACCARI. Ho saputo in seguito che fu fatta una prova generale con le macchine in una casa nei Castelli romani. Questo lo deve aver riferito Morucci e forse anche altri. L’organizzazione aveva una base fuori Roma, forse a Velletri ma non ricordo bene la località, dove si riuniva la colonna romana e nel cui giardino (probabilmente doveva trattarsi di una villetta) furono fatte addirittura delle prove generali.

PRESIDENTE. La domanda è se vi erano addestratori non interni all’organizzazione alla guida del rapimento.

MACCARI. Credo che il senatore Manca voglia conoscere la mia impressione. Ora la mia impressione è questa: se le Brigate rosse o altre bande armate si fossero addestrate in paesi dell’Est, una volta tornati in Italia avrebbero portato con sé una conoscenza di gran lunga superiore a quelli che erano i mezzi effettivi delle Brigate rosse. Pensiamo, ad esempio, all’armamento di cui disponeva l’organizzazione. Era sicuramente un armamento misto, variegato.

MANCA. Ma lei legge i giornali?

MACCARI. Sì.

MANCA. Non ha letto che ormai vi sono prove inconfutabili di addestramenti in Cecoslovacchia?

MACCARI. Sì. Ho letto circa il cosiddetto rapporto Havel e cose del genere. Personalmente, non mi sono mai addestrato nei campi all’estero, ma a Ponte Galeria, nei prati lungo la Prenestina e ritengo che i militanti delle Brigate rosse si addestravano come facevo io. Tenga presente che un addestramento al fuoco, cioè recarsi nella campagna romana e sparare uno o due caricatori di pistola o di fucile era per le Brigate rosse - stiamo parlando del top della lotta armata, non di Prima linea o di altro - un’impresa difficilissima e rischiosissima. Per valutare il rischio, era come andare a fare una rapina nel centro di Roma, bisognava cioè conoscere il posto, sapere che non c’erano "coppiette" o cacciatori o la polizia. Spostare un nucleo di tre, quattro o cinque persone era un’impresa, era un’azione militare: questi addestramenti venivano fatti con patema d’animo, con molta attenzione, erano molto sbrigativi. Ripeto, questa è la mia esperienza diretta. Secondo la mia impressione, se qualcuno si fosse addestrato in Cecoslovacchia avrebbe portato armi efficienti, tecnologia e sapere. Le Brigate rosse erano ancora a livello artigianale nella predisposizione dei documenti falsi: sì, c’era una scienza tramandata dai vecchi partigiani nei primi anni ’70, ma era tutto molto artigianale. La logica mi dice dunque che addestramenti all’estero non ci sono stati perché, altrimenti, il livello militare delle organizzazioni guerrigliere sarebbe stato più alto di quello che, in effetti, è stato. Questa è una mia deduzione, il mio ragionamento.

MANCA. Per accontentare il Presidente che giustamente vuole dare la parola agli altri le pongo un’ultima domanda.

PRESIDENTE. Se posso fare un commento a quanto affermato da Maccari……

MANCA. Non volevo fare commenti per lasciare più tempo ai colleghi.

PRESIDENTE. Rivolgerà poi la domanda. In via Fani, su due armi automatiche, secondo la loro ricostruzione, se ne inceppano due, cioè i mitra di Morucci e Bonisoli; nell’esecuzione di Moro, su due armi automatiche, se ne inceppa una. Effettivamente, non doveva trattarsi di un armamento di grande efficienza.

MACCARI. Presidente, ad alcuni brigatisti è caduto addirittura il caricatore della pistola, altri hanno dimenticato sul tram il borsello con i documenti. Non mitizziamo le Brigate rosse.

PRESIDENTE. Per quanto riguarda uno di quei borselli ho più di una perplessità.

MANCA. Voglio allora dire questo. Il fatto di essere addestrati in Cecoslovacchia non significa riportare armi efficienti: l’addestramento è un fatto, la disponibilità…..

MACCARI. Lei parla di addestramento al tiro e basta?

MANCA. Parlo di addestramento nel senso di come si fanno le guerriglie.

MACCARI. Allora le ho risposto: se fosse accaduto quanto lei sospetta, sicuramente il livello di sapere guerrigliero sarebbe stato maggiore. Infatti, se qualcuno si fosse recato in Cecoslovacchia avrebbe poi riferito e alzato il livello di armamenti, di logistica della propria organizzazione. Questo non è avvenuto, obiettivamente i livelli sono sempre stati minimi. Che io sappia, l’addestramento è sempre avvenuto nella periferia romana. La prima volta che usai una pistola silenziata fu in un parco pubblico a 50 metri da casa mia, in via Olevano Romano, a Centocelle, di sera: sparai due colpi con quella pistola, c’erano persone a circa venti metri e volevo vedere se sentivano. Cose allucinanti dunque, non c’erano gallerie insonorizzate e via dicendo.

MANCA. L’ultima domanda che rivolgo è sull’onda di un fatto d’attualità. Mi sento di rivolgere un pensiero al presidente Craxi e soprattutto mi chiedo in cosa ha sbagliato la Commissione stragi che non ha avuto la fortuna di andarlo ad ascoltare.

PRESIDENTE. Non penso che abbiamo sbagliato, penso che, oggi, molti di quelli che erano contrari a quell’audizione, non in questa Commissione ma all’esterno, abbiano capito – lo spero - che sbagliavano.

MANCA. Almeno questo, per un fatto di reverenza.

PRESIDENTE. Qualche imbarazzo che c’è oggi non ci sarebbe stato se fossimo potuti andare ad Hammamet. Questo è il mio personale pensiero.

MANCA. E’ vero che ho perso una cena, ma almeno ho questa soddisfazione perché ero uno di quelli che insisteva di più. Vorrei sapere, perché sicuramente ne avrà discusso e sentito parlare, quale è stato il giudizio delle Brigate rosse sulla posizione umanitaria che assunse Craxi e il partito Socialista nell’affare Moro.

PRESIDENTE. La domanda è importante perché Maccari non ha detto che, secondo la sua versione, egli era uno di quelli, all’interno delle Brigate rosse, contrari all’esecuzione.

MANCA. Quindi era molto interessato alla posizione dei socialisti.

PRESIDENTE. Innanzitutto vorremmo sapere se lei sapeva del contatto con i socialisti attraverso quelli che erano stati i vertici di Potere operaio e quale valutazione facevate di questo atteggiamento, che poi fu reso pubblico, del Partito socialista che, come ci ha detto Signorile, era non tanto favorevole alla trattativa quanto contrario all’immobilismo istituzionale.

MACCARI. Durante i 55 giorni del sequestro tenevamo in gran conto la posizione e l’operato del Partito socialista e speravamo che qualcosa riuscissero a fare nella direzione di smuovere l’opinione pubblica e i partiti per addivenire ad una soluzione pacifica. Infatti, le Brigate rosse chiedevano qualcosa ma non è stato dato. Riguardo ai contatti di Morucci con alcuni esponenti di Potere operaio - il Presidente si riferisce a Pace e a Piperno - durante quei 55 giorni, non se ne sapeva, per lo meno io, assolutamente nulla. Ne sono venuto a conoscenza dopo, negli anni successivi, e ho pensato che ci voleva poco a far pedinare queste persone, eppure non è stato fatto. Mi metto dal punto di vista dello Stato, degli inquirenti.

MANCA. E’ una delle domande che intendevo rivolgerle.

MACCARI. Oggi penso, sono certo, che sicuramente in Italia c’è stato qualcuno delegato al problema della sicurezza interna che probabilmente......... Mi rifiuto di pensare che sapesse ma non abbia parlato perché se qualcuno avesse saputo che il presidente Moro era in Via Montalcini sarebbe emerso, sarebbe diventato Papa, forse.

PRESIDENTE. Salvo quello che Craxi dice di aver saputo dalla signora……..

MACCARI. Ormai non si può più accertare, dovevate farlo prima.

PRESIDENTE. La signora Leone c’è.

MANCA. Come commentavate queste vicende?

MACCARI. Che cosa?

PRESIDENTE. La posizione socialista.

MANCA. Non solo, ma anche il fatto che non c’era una risposta da parte dei servizi di sicurezza operativamente valida.

MACCARI. Tenga presente che l’organizzazione era sicura. E’ come quando uno svolge un compito e, alla fine, dice: sì, l’ho svolto bene, ho fatto tutto quanto. Ho preso un appartamento seguendo regole di compartimentazione e di sicurezza. Non è che noi temevamo o ci aspettavamo le teste di cuoio con l’elicottero, non abbiamo mai avuto sentore di questo. Certo, 55 giorni sono lunghi e cominciavamo a sentire il fiato sul collo, per dirla in gergo. Personalmente ho sempre detto che è stato uno degli aspetti che ha affaticato i militanti delle Brigate rosse e forse anche accelerato certe decisioni. Probabilmente la stanchezza, il logorio, il fatto che un’organizzazione non poteva tenerlo per chissà quale tempo, che bisognava alla fine giungere ad una conclusione.

MANCA. Torniamo su Craxi.

MACCARI. Io mi auguravo che comunque questo sequestro fosse giunto non all’esito tragico della morte. Personalmente ritengo che sarebbe bastato, per esempio, liberare Buonoconto, che era un brigatista malato che stava in carcere, quello che poi pochi anni dopo è uscito dal carcere e dopo pochi anni ancora si è ucciso.

MANCA. Moretti ha mai parlato con lei di questa questione della posizione umanitaria di Craxi?

MACCARI. Io non sapevo di contatti con nessun partito, però indubbiamente tra un Partito comunista che era fermo e inamovibile e un Partito socialista che invece era più possibilista ed era per la trattativa, ovviamente speravamo che questo partito potesse fare qualcosa di più.

MAROTTA. Presidente, io sono sempre dell’avviso che di fronte al fatto certo che a sequestrare Moro e ad ammazzarlo sono state le Brigate rosse, questo indugiare sui particolari mi sembra del tutto marginale, a meno che – ma questo si esclude – non ci fosse la prova di un complotto tra Brigate rosse ed organi dello Stato. Questa prova voi dite che non c’è, cosicché le omissioni e le inefficienze rimangono tali a mio giudizio. Ma questa era una premessa. Dagli studi svolti dagli uffici, risulta che il signor Maccari si è definito brigatista atipico, non organico; comunque, lei dice di essere stato portatore di un bagaglio tutto personale di concetti, di opinioni. Quali furono le sue opinioni sulle Brigate rosse in quegli anni, visto che lei dice di essere stato portatore di opinioni un po’ diverse? E per quale motivo, se le divergenze fossero state notevoli, lei in qualche modo partecipò a questa operazione, della quale subito avvertì – dice lei – la gravità, augurandosi una uscita morbida?

PRESIDENTE. Direi che la domanda ha poi un aspetto sotteso: perché fu scelto lei, che pure non aveva un ruolo importante, per svolgere una funzione che fu importantissima?

MAROTTA. Questo l’avrei chiesto dopo la risposta alla mia prima domanda, Presidente.

MACCARI. Lei mi fa una domanda che richiede un minimo di spiegazioni. La mia storia politica comincia nel 1969 in un quartiere della periferia degradata di Roma, Centocelle. Io sono uno studente liceale, divento un dirigente dei medi, provengo da una famiglia di comunisti, probabilmente ho respirato determinati ideali già nel grembo di mia madre. Mi sono sempre interessato delle lotte per le case, per dare una casa ai diseredati, eccetera. Nella situazione italiana io capisco ad un certo punto che non basta la lotta ma, visto che veniamo attaccati dalla polizia, eccetera, occorre difendersi, respingere gli attacchi, eccetera. E, forse per mia predisposizione, ma è una cosa che non so spiegarle, anche i dirigenti di Potere operaio capiscono e mi affidano dei compiti, che sono dei compiti di servizio d’ordine, quindi più inerenti all’ambito militare dell’organizzazione. Io sono quello che spara, ferendolo alle gambe, un capo reparto della Fatme, il signor Uras nel 1972 -73, quindi da giovanissimo compio queste cose. Dentro Potere operaio lavoro con Valerio Morucci in una struttura chiamata "lavoro illegale"; non eravamo una banda armata, però cominciavamo a pensare a come fare la guerriglia in una situazione metropolitana, a conoscere le armi. Poi veniamo al tentativo di colpo di Stato del principe Valerio Borghese. Io personalmente temo una simile eventualità, per cui, magari con uno spirito forse un po’ romantico, ritengo che sia meglio morire su una barricata o in un conflitto a fuoco piuttosto che essere lanciato da un elicottero come è successo a tanti compagni in Cile. Per cui cominciammo a pensare di armarci, di costituire dei depositi di armi, cominciammo a leggere dei libri particolari, facendo delle ricerche; sto parlando degli anni di Potere operaio fino al 1973. Poi nel 1974 formiamo alcune bande armate; è un periodo storico in cui il movimento rivoluzionario è un magma incandescente in continua ebollizione, ci sono bande armate che si formano e che si sciolgono, sono bande armate composte di 10-15 militanti. Fino ad arrivare, nel 1976, allo scioglimento del Lap (Lotta Armata Potere Proletario), che è la banda armata che io ho costituito insieme a Morucci, alla Faranda e a Bruno Seghetti. Durante questo percorso mano a mano vedo l’atteggiamento della sinistra, c’è una certa millanteria, parlo sempre di piccole bande armate. La mia teroria era quella di formare delle strutture che fossero estremamente legate alle lotte di massa. Secondo la mia visione guerrigliera, per esempio, se c’era una lotta contro le bollette telefoniche per dare un esempio, un segnale, magari si colpisce un dirigente della Sip. Io non avevo una visione della clandestinità; per me la clandestinità doveva essere una cosa purtroppo necessaria, cioè se qualcuno veniva individuato dalle forze dell’ordine è evidente che avrebbe dovuto nascondersi. Però questa teoria di far crescere i militanti, di farli vivere, di sdradicarli dal loro ambito di appartenenza, dalle lotte, dal movimento, questo mito della clandestinità io non l’ho mai condiviso. Anzi, al contrario, io pensavo più alla semi clandestinità, cioè le persone dovevano vivere nella propria famiglia e poi avere quasi una seconda vita. Questo anche perché ritenevo, anche per aver letto dei libri di Giovanni Pesce ed altri, che la clandestinità una persona può reggerla uno o due anni, è una cosa molto dura; mi ponevo anche il problema di quali persone sarebbero state dopo due o tre anni di clandestinità. Ritenevo che anche umanamente il clandestino si sarebbe indurito troppo, avevo questo tipo di natura. Questo per dirle che mai io pensavo in quegli anni, il 1974-75-76, alle Brigate rosse, che teorizzavano la clandestinità, il discorso del partito. Una volta qualcuno mi chiese se io ero stato comunista ed io risposi che il Pci era stato comunista, le Brigate rosse erano state comuniste; forse io sono stato un ribelle, un rivoluzionario. Probabilmente se fossi vissuto in Ungheria sarei stato contro l’Unione Sovietica; forse sarei stato davanti al carro armato come quello studente in Cina.Io non avevo questa concezione, le Brigate rosse invece si. Lei mi chiederà perché poi alla fine sono entrato nelle Brigate rosse. Devo dire allora che nel 1976 si scioglie il Lap (una banda armata minore, quella che ha compiuto l’attentato alla SIP in via Cristoforo Colombo) e io comincio ad avere dei dubbi anche sulla serietà di certi atteggiamenti: vedevo persone dentro Potere operaio che consideravano la rivoluzione quasi come un gioco; per contro, avevo grande fiducia e stima di persone come Bruno Seghetti e Valerio Morucci. Quando queste piccole bande armate si sciolgono, prima Morucci e poi Seghetti entrano nelle Brigate rosse (credo che siamo intorno al 1976); prima Morucci e poi Seghetti vengono da me e mi fanno la proposta di entrare nelle Brigate rosse. Questo perché, anche se molto giovane, ero uno che aveva fatto tantissime azioni guerrigliere e quindi avevo una grossa esperienza sotto questo punto di vista, mi conoscevano e avevano una estrema fiducia in me. Probabilmente quando le Brigate rosse hanno formato la colonna romana avevano bisogno di militanti; forse avevano anche bisogno di persone con l’esperienza militare che potevamo avere io, Morucci e Bruno Seghetti. Probabilmente se noi di Potere operaio non fossimo entrati nelle Brigate rosse queste ultime non sarebbero riuscite nemmeno ad organizzare il sequestro Moro. Sono tanti gli esponenti di Potere operaio, da Alvaro Lojacono a Casimirri, da Barbara Balzerani a Bruno Seghetti, da Faranda a Morucci a me e a tanti altri. Inizialmente risposi a Morucci che non volevo entrare, però gli dissi che sarei stato disponibile a reperire armi, soldi e a dare un contributo a questa organizzazione. Egli mi disse molto seriamente che le Brigate rosse non erano come il Lap (cioè come le bande armate che avevamo fatto noi), che erano serie e che non accettavano questo rapporto: o ero delle Brigate rosse oppure no. Alla fine mi sono lasciato convincere ad entrare nelle Brigate rosse. Mi fu chiesto inizialmente di svolgere compiti più logistici, studiare cioè come venivano fatti i silenziatori, eccetera, cosa che ho fatto. Questa è una cosa che non ho detto neanche ai processi perché non mi è stata chiesta, signor Presidente, ma non ho nulla da nascondere. Studiai appunto il modo di fare delle cose in questo periodo. Non mi sono mai voluto nascondere dietro un dito, mi sono assunto le mie responsabilità. Mi sono assunto il sequestro e l’omicidio di Moro, non vedo perché dovrei nascondere che io sapevo di via Fani: che cosa mi cambia dal punto di vista giuridico della somma di anni che dovrò prendere? Non mi cambia nulla. Quando dico che non sapevo di via Fani è perché è la verità, io non sapevo di via Fani. Non ero come Morucci che magari parlava con la sua compagna, si faceva raccontare le cose, per cui la Faranda è riuscita a sapere cose che non ha visto, perché in accusa parlava per sentito dire. Io ero una persona che dentro le Brigate rosse non faceva domande; facevo ciò che mi era stato assegnato di fare; ero, da un punto di vista guerrigliero, una persona seria, affidabile, tant’è vero che alcuni, anche i giudici, si sono posti una domanda: "ma lei come ha fatto a uscire dalle Brigate rosse e non gli ha fatto niente nessuno, così, tranquillo?". E’ perché le Brigate rosse mi conoscevano, si fidavano e sapevano che mai e poi mai avrei tradito o fatto arrestare nessuno. Ho iniziato un viaggio con loro che è durato un anno, quello del sequestro Moro; durante questo periodo mi sono reso conto che si trattava di un viaggio sciagurato, un viaggio dannato; non è che sono sceso dalla barca e ho abbandonato i miei compagni; non è che gliel’ho detto, ma dentro di me io ho ragionato così, perché sono fatto così. Mi sono detto: "Io finirò questo viaggio, però sia chiaro che con voi non intraprenderò più nessun altro viaggio". Qualcuno mi ha detto: "ma lei, la notte dell’8 maggio, visto che era contrario ad uccidere Moro, perché non ha girato la maniglia, è uscito e se ne è andato?". Per la stessa ragione perché non sono uno che lascia. A parte che non avrei salvato il presidente Moro, perché probabilmente se avessi fatto una cosa del genere forse lo avrebbero ucciso la notte stessa, si sarebbero impauriti. Non è, come qualcuno ha cercato di farmi dire, che io temevo per la mia famiglia. No, io sapevo che le Brigate rosse non sono la mafia, sono state un’altra cosa. Qualcuno potrà dire forse peggio, non lo so, ma sono state altra cosa rispetto alla mafia. Non erano criminali comuni. Oggi lo riconosce l’ex presidente Cossiga, lo riconosceva il senatore Ugo Pecchioli , che è morto, nel suo libro "Tra misteri e verità".

PRESIDENTE. Per quel che può valere è anche la mia idea.

MACCARI. Con lei, Presidente, avrei da discutere una cosa privatamente, sul problema dell’indulto, della necessità o meno. Ho avuto un piccolo scambio tramite i giornali in cui lei, Presidente, cortesemente mi ha risposto.

PRESIDENTE. Possiamo discutere seriamente di indulto adesso grazie alla vicenda delle Brigate rosse.

MACCARI. Per finire la risposta, voglio dire che ho partecipato a questa cosa vivendo con loro. Sono entrato nelle Brigate rosse nel luglio 1977, una cosa del genere, e ho conosciuto pochissime persone dentro quell’organizzazione. Ho rincontrato Seghetti e Morucci che già conoscevo; poi ho conosciuto Moretti.

PRESIDENTE. Ha rincontrato Lojacono?

MACCARI. No, dentro le Brigate rosse mai. In ordine cronologico ho incontrato Seghetti, Morucci, Moretti (che ha cominciato a dirmi che dovevo lavorare in quella base), poi la Braghetti che già conoscevo da anni prima. E poi, dentro la prigione, ho conosciuto anche Gallinari. Al di fuori di queste persone non ho conosciuto nessun altro.

PARDINI. E Franceschini?

MACCARI. No, ho detto poc’anzi che Franceschini l’ho conosciuto nel 1984, nell’area omogenea di Rebibbia, l’area della dissociazione politica dal terrorismo. Quando sono uscito dalle Brigate rosse fu fatto un tentativo di convincermi a rimanere, magari lavorando in un ambito più di movimento

PRESIDENTE. Da chi?

MACCARI. In maniera blanda da Gallinari, in maniera molto sconclusionata. Non potrò mai dimenticare che Gallinari, dopo il 9 maggio, mentre smantellavamo la prigione mi disse: "Germano, tu dovresti entrare in Prima Linea, sai, loro sono più movimentisti, più adatti a te". Io mi misi a ridere, gli dissi di lasciar perdere, che con lui non ci parlavo e me ne andai via. Il tentativo più serio lo fece poi Morucci che fu da me cercato. Infatti, chiesi all’organizzazione, visto che non riuscivo a dialogare né con Moretti né con Gallinari. Loro mi dicevano di abbandonare la mia compagna, che era una femminista, che non faceva parte di alcun movimento armato. Avrei dovuto lasciarla e avrei potuto avere altre storie con i militanti nostri. Queste cose non le capivo, non le ammettevo, non c’era un problema di sicurezza, a mio avviso potevo uscire, incontrarla, stando attento, ero una persona intelligente, dal punto di vista militare ero più attento e forse mi sacrificavo più di loro. Infatti, in milioni di pagine di verbali di pentiti e di collaboratori di legge, il mio nome non è mai uscito, segno evidente che io non parlottavo con loro, non facevo parte del vociare e del chiacchiericcio che per tanto tempo ha portato avanti la sinistra rivoluzionaria. Io ero un'altra cosa.

PRESIDENTE. Lei ha letto il libro di Moretti? Sembra che egli abbia nei suoi confronti un debito di gratitudine.

MACCARI. Un debito di gratitudine nei miei confronti?

PRESIDENTE. Cerca di proteggerla in ogni modo. Ad esempio, parla di Altobelli ma dice "il nome non ve lo faccio perché saperlo o non saperlo non aggiungerebbe niente alla storia delle Brigate rosse e alla storia del sequestro Moro". Attribuisce a lui e a Gallinari la costruzione della cella, non dice che l’aveva costruita lei.

MACCARI. E’ vero, Moretti e Gallinari hanno alzato il muro con il tramezzo di gesso, prima che io entrassi. Io l’ho poi insonorizzato.

PRESIDENTE. Non dice niente del suo ruolo di appoggio durante la fase dell’esecuzione.

MACCARI. Tante volte mi sono chiesto perché ad un certo punto Moretti lo abbia chiesto a me, la sera dell’8 maggio. Ero in grande imbarazzo, avrei preferito che ad accompagnare Moretti ci fosse andato Gallinari, visto che aveva più pelo sullo stomaco di me. Invece lui lo chiese a me. La Braghetti non ci poteva andare perché occorreva anche una persona esperta di armi, di modo che se fosse successo l’imprevedibile, se la macchina fosse stata fermata da un posto di polizia, fosse stata in grado di fronteggiare la situazione. Eravamo quattro persone, tre uomini ed una donna; non ho mai saputo perché non lo abbia chiesto al Gallinari, forse lo riteneva più imbranato di me da questo punto di vista. Infatti, era risaputo che Gallinari non era un guerrigliero, era una persona estremamente decisa, con una volontà di ferro, ma io mi riferisco all’aspetto militare. Alla fine ho accettato e ho obbedito. La sera dell’8 maggio Moretti aveva detto che lo avrebbe fatto lui, che avrebbe sparato lui. E’ stato chiesto a me e forse, lo ripeto, il motivo era questo. Si trattava poi di portare la macchina dentro il centro di Roma. Per quanto riguarda la macchina di copertura, non ho mai capito perché l’hanno messa soltanto a via Monte Savello, potevano metterla prima, a Piazzale della Radio, ad esempio. Potrei pensare, Presidente, forse per non far capire a Seghetti o a Morucci la zona dove era la prigione, perché il tutto era molto compartimentato, non doveva saperlo nessuno, al di fuori delle quattro persone che stavano là dentro. Non sono in grado di dire, per esempio, se l’esecutivo - quindi Bonisoli, Azzolini o Micaletto - sapesse che la prigione era in via Montalcini 8. Per rispondere alla sua domanda, Presidente, lei ha detto che Moretti ha un debito verso di me….

PRESIDENTE. Ho avuto questa impressione, che lui cercasse il più possibile di minimizzare il suo ruolo nella vicenda, il ruolo del fidanzato della Braghetti.

MACCARI. Non credo che gli sia costato fatica perché il mio ruolo nella vicenda è stato minimo. Forse non capirò nulla, ma penso che sia stato Moretti a farmi individuare, tramite il libro di Rossana Rossanda e Carla Mosca, anche se in quel libro non fa mai il mio nome. Fino ad allora, gli investigatori non avevano prove.

PRESIDENTE. Salvo Flamigni, che aveva capito che non poteva essere Gallinari.

MACCARI. Questo lo avevano capito in tanti perché Gallinari era un uomo corpulento, Altobelli era alto e magro.

PRESIDENTE. C’era il problema di chi restava nell’appartamento con Moro. In tre non ce l’avreste fatta.

MACCARI. In un passo di quel libro, Moretti, alla domanda "chi è il quarto uomo", risponde che è un romano. Vorrei ricordare il clima politico. C’era stata l’intervista del ministro di grazia e giustizia Conso e del pubblico ministero Marini che dicevano che "prima i brigatisti dicano tutta la verità e poi si farà clemenza". Le giornaliste Mosca e Rossanda vanno al carcere di Opera, propongono a Moretti di scrivere questo libro-intervista. I fatti importanti riguardano le date. Quando chiedono di dire i misteri, Moretti risponde che non ci sono misteri, che l’unico mistero è il quarto uomo, che non è un bulgaro, non è un palestinese, non è un intellettuale, è un compagno in gamba, dai nervi d’acciaio, è un romano, amico dei romani. Già il cerchio si restringe anche perché siamo nell’epoca del computer. Il dottore della Digos che ha coordinato il mio arresto ha detto di aver usato la tecnica della "margherita". Moretti gli dice che è un romano, amico dei romani, che è stato in carcere……

PRESIDENTE. Lei pensa che Casimiri avrebbe potuto dare ulteriori informazioni che la riguardavano?

MACCARI. Casimiri non mi ha mai conosciuto, non l’ho mai visto. Ho visto la faccia di Casimiri due anni fa, quando il Corriere della Sera…..Non l’ho mai visto, non ho mai saputo di Casimiri, non l’ho mai conosciuto.

MAROTTA. Lei ha detto che non sapeva che doveva essere sequestrato Moro, sapeva che doveva essere sequestrato un personaggio democristiano.

MACCARI. Questo solo dopo che ero entrato, dopo che già lavoravo. A un certo punto ho saputo che bisognava approntare una prigione, la prigione serve a tenere un sequestrato. Sapevo che doveva essere un democristiano ma non sapevo il nome. La Faranda avrebbe chiesto di chi si trattava, ma io non lo chiedevo.

MAROTTA. Dopo avrà saputo dalla discussione che si trattava di un importante uomo politico della DC, ma perché Moro e non, ad esempio, Fanfani? E’ stato un fatto del tutto accidentale? Forse era più aggredibile? C’era una ragione specifica?

MACCARI. Credo che sia stata una scelta motivata e dettata probabilmente …..Si sa che all’inizio le Brigate rosse, quando Franceschini venne per la prima volta a Roma, volevano sequestrare l’onorevole Andreotti. Franceschini racconta che lo strusciò, lo toccò. Mi risulta che hanno scelto Moro anziché un altro perché, dal punto di vista militare, era più facilmente sequestrabile. Il senatore Andreotti aveva macchine blindate, una scorta più numerosa.

MAROTTA. Il senatore Manca le ha rivolto una domanda sull’addestramento che non intendo ripetere.

PRESIDENTE. Mi scusi, onorevole Marotta. La prego di fare l’ultima domanda.

MAROTTA. Vorrei sapere se dietro le Brigate rosse ci fosse o meno una forte direzione politica unitaria. C’era o non c’era un "grande vecchio"? Lei sa qualcosa?

MACCARI. No. Non so che cosa intende per "Grande Vecchio", o meglio lo so ma… C’era la direzione strategica e l’esecutivo. Abbiamo nominato prima chi erano queste persone; si trattava di persone che, dal punto di vista della militanza rivoluzionaria, erano il meglio che ci potesse essere; persone che non si sono pentite, ma si sono dissociate. Erano persone valide dal punto di vista rivoluzionario. Quella era la direzione delle Brigate rosse. Per me le Brigate rosse non sono mai state eterodirette, come ormai si suole dire. Questo è il mio pensiero.

PRESIDENTE. Nella direzione strategica c’erano intellettuali il cui nome non è noto? Non le chiedo di farne il nome.

MACCARI. Guardi, Presidente, anche perché… Lo scrittore Trifonov riporta un episodio a proposito di Dostoevskij, che era uno che condannava i terroristi, i nichilisti e scrisse anche il libro "I demoni". Trifonov riporta che Dostoevskij alla domanda che gli veniva posta: "Ma se tu venissi a sapere che, da qui a mezz’ora, mettono una bomba al Palazzo d’Inverno, che cosa faresti? Li denunceresti?" rispose: "No, non li denuncerei, perché non potrei vivere poi con l’intellighenzia di sinistra che mi addita come una spia". Era Dostoevskij, uno che con i terroristi aveva un pessimo rapporto.

PRESIDENTE. Quindi?

MACCARI. Voglio dire che non lo so, perché non facevo parte della direzione strategica e non so nemmeno chi ne facesse parte. So soltanto che era più numerosa dell’esecutivo nazionale. Quindi, non so se c’è questo intellettuale. Mi domando soltanto una cosa: come sono stato sacrificato io, non vedo perché oggi delle persone quali – per esempio – Azzolini e Bonisoli, che come me si sono dissociate politicamente per distinguersi anche dal fenomeno del pentitismo… Penso che ammetterebbero magari l’esistenza ma non farebbero nomi. Se hanno detto che non c’è questo personaggio, personalmente gli credo, anche perché uno come Moretti…

PRESIDENTE. Il problema è che lei è venuto in Commissione, ma Azzolini, Bonisoli e Moretti non vogliono venire e né avrebbe senso costringerli a farlo, perché si avvarrebbero della facoltà di non rispondere.

MAROTTA. Voglio rivolgere un’altra domanda. L’omicidio ultimo del professor D’Antona sembra attribuito a delle Brigate rosse. Lei pensa che siano le stesse Brigate rosse, la stessa organizzazione, oppure che vi sia un altro collegamento tra le Brigare rosse vecchie e quelle presunte nuove alle quali viene attribuito l’omicidio D’Antona, del quale non sappiamo niente. Si è detto, mi sembra da parte del prefetto, che sarebbero riducibili a 10–15 uomini ma, se così fosse stato, non si spiegherebbe questa maestria – per così dire – nell’esecuzione del delitto. Ancora oggi non sappiamo niente.

MACCARI. Mi scusi: perché dice maestria nell’esecuzione del delitto? Dovrebbe dire maestria nell’individuazione dell’obiettivo da colpire. Per sparare ad un uomo inerme che cammina per strada, non occorre una grande maestria, ma occorre soltanto o una grande vigliaccheria o una grande determinazione.

MAROTTA. Forse non mi sono spiegato bene. Sta di fatto che, a distanza di mesi, pur di fronte ad una piccola organizzazione come ha detto il prefetto, gli organi di polizia non sono arrivati a nessuna conclusione.

PRESIDENTE. Mi sembra che il punto centrale della domanda sia il seguente: quali legami ci sono, secondo lei, tra le neoricostituite B.R.-P.C.C. e le vecchie B.R.?

MACCARI. Che legami ci sono? Ovviamente non so nulla, perché sono tagliato fuori. Penso sicuramente che le nuove Brigate rosse non si fiderebbero di me. Spero di no, ma potrei essere un obiettivo da colpire per alcune interviste che ho rilasciato, quando ho detto che dovevano deporre le armi e arrendersi perché erano ancora in tempo. Tuttavia, sempre per la mia esperienza, mi rifiuto di pensare che delle persone che hanno conosciuto il carcere, un carcere lungo e duro, possano oggi pensare ancora che sia possibile una via armata in Italia nel duemila. Non ci sono nemmeno le premesse sociali: è cambiato tutto e non c’è niente di ciò che potevamo noi addurre come motivazione negli anni ’70. E’ evidente che un gruppo di 10–15 persone si possa riunire e possa trovare anche nella letteratura consensi al suo operato. Si può dire tutto e il contrario di tutto. Si chiudono, cioè, da una parte e possono arrivare a pensare di essere… Non credo che ci siano rapporti con le vecchie Brigate rosse, che nel 1986 o 1987 – non ricordo – hanno dichiarato conclusa quell’esperienza. Parecchi si sono dissociati, parecchi stanno fuori e non si sono dissociati, ma comunque hanno rivisto il loro passato in maniera critica. Non tutti.

Per aver letto soltanto alcuni stralci di quel documento sui giornali, penso che siano dei giovani rivoluzionari. Vorrei che lo Stato non commetta l’errore che ha commesso in passato di pensare ad altre cose. Questi, cioè, sono italiani e sicuramente hanno compiuto un’azione terribile; forse, se lo Stato non li cattura, potrebbero compierne altre. Spero di no, spero che abbiano capito e che si siano fermati. Tuttavia, sono persone… Bisogna capire che, se uno vuole affrontare il nemico, lo deve conoscere. Questi sono dei giovani – potranno essere operai, intellettuali o studenti – magari guidati da qualche quarantenne che se l’è scampata negli anni ‘70. Sono persone che fanno politica, che credono di stare nel giusto come diceva Pecchioli nel libro: "Tra misteri e verità". Non bisogna, cioè, demonizzarli, perché non sono la Banda della Magliana. Bisogna capire. Magari sono ingenui e sicuramente non hanno imparato la lezione dei fratelli che si sono pentiti e dissociati; magari sono persone ottuse, ma ritengono…

PARDINI. Ho fatto una proposta operativa. Per fare le domande ciascuno deve avere un tempo, altrimenti prolunghiamo l’audizione sine die e, oltretutto, con un costrutto difficilmente recepibile, anche attraverso la lettura. Se rileggete, infatti, il giorno dopo i verbali delle audizioni, i due terzi sono difficilmente comprensibili per il modo in cui si svolgono le audizioni stesse. Questa è la mia opinione. Ritengo che l’audizione si debba tecnicamente condurre in modo diverso. In ogni caso, voglio ora rivolgere alcune domande precise e avere anche delle risposte altrettanto precise. Per quanto concerne il periodo dei 55 giorni, lei ha detto in precedenza che gli interrogatori sono stati condotti solo ed esclusivamente da Moretti.

MACCARI. Sì.

PARDINI. Gallinari non vi ha mai partecipato?

MACCARI. No.

PARDINI. Durante quel periodo le risulta che ci siano state discussioni e divergenze tra Moretti e Gallinari in merito alla conduzione degli interrogatori? Eventualmente queste discussioni sono state portate all’esterno, nel senso che anche lei che era presente vi ha partecipato o avvenivano nella stanza insonorizzata? In sostanza, le chiedo qual è stato il rapporto durante i 55 giorni tra Moretti e Gallinari e su che cosa vertevano le eventuali discussioni e se sono effettivamente avvenute.

MACCARI. Le discussioni avvenivano sempre, ma per discussione s’intende il dibattito fra militanti di una stessa organizzazione e non litigate o piazzate. In generale esse avvenivano su tutto: sulla rivoluzione, su ciò che leggevamo sui giornali, sull’andamento del processo, sulle possibilità, ossia su tutto.

PARDINI. A questo proposito, nel suo racconto è stato dato molto poco spazio all’ambiente in cui vivevate. Voi in pratica eravate quattro persone più un ostaggio all’interno di un appartamento. Tutti i giorni stavate sui giornali e tutta Italia parlava di voi. E’ vero che lei aveva delle difficoltà nel rapporto con Moretti e Gallinari - ce l’ha detto lei - ma immagino che tra di voi, in ogni caso, commentavate le notizie riportate dai giornali e quello che diceva Moro.

MACCARI. Sì, l’ho appena detto.

PARDINI. Non è scaturito molto dal suo racconto. Ecco, volevo chiedere qualcosa in più. Ad esempio, dopo le notizie che uscivano, le perquisizioni, il viaggio al lago della Duchessa, via Gradoli (che per voi voleva ben dire qualcosa), avevate la sensazione che il cerchio si stava restringendo intorno a voi? In poche parole, molti di noi ritengono - almeno sicuramente io lo ritengo - che tanti avvenimenti di quei giorni in realtà siano stati determinati dai messaggi, che non mandavate voi all'esterno ma che dall'esterno vi venivano inviati, con cui vi si diceva di fare attenzione perché il cerchio si stava chiudendo intorno a voi. Avevate questa percezione? Lei l'aveva? Ne parlava con Moretti e Gallinari?

MACCARI. Non c'è arrivato alcun messaggio, né via etere né via cavo, relativo al fatto che il cerchio si stava chiudendo intorno a noi; questa era una cosa che vedevamo man mano che trascorrevano i giorni: avevamo l'uomo politico più importante d'Italia e forse d'Europa e quindi sapevamo che ci stavano cercando; avevamo la televisione, leggevamo i giornali e qualcuno di noi poteva uscire e vedere i posti di blocco. E' normale questo! Tra noi parlavamo di tutto. Tutto si può dire, ma non che Moretti fosse un despota; è vero che era un accentratore, però se qualcuno gli chiedeva conto o gli rivolgeva delle domande lui rispondeva, ovviamente dicendo quello che gli pareva e pensava.

PRESIDENTE. La domanda dell'onorevole Pardini è volta a sapere se, nel momento in cui il covo di via Gradoli viene scoperto con quelle modalità e nel momento in cui lo stesso giorno viene fuori il falso comunicato del lago della Duchessa, percepite - Moretti lo ha anche scritto nel libro di Mosca e Rossanda - che si trattava di un messaggio con cui vi dicevano di non perdere tempo, di ammazzarlo e di non parlarne più.

MACCARI. No, non come un messaggio. Ne abbiamo parlato anche con Moretti nella prigione. Moretti, essendo l'unico che usciva e stava in contatto con il resto dell'organizzazione (la Braghetti usciva per andare a lavorare, ma non incontrava altri militanti dell'organizzazione e tanto meno lo facevo io), ci riferiva anche l'opinione e il parere dell'organizzazione. So, quindi, che le Brigate rosse hanno tradotto il fatto del lago della Duchessa come se fosse la prova generale dei funerali di Stato: poiché si era capito che lo volevano morto, che non gliene fregava niente, volevano vedere come avrebbe reagito l'opinione pubblica all'idea che il presidente Moro fosse morto, venisse ucciso dalle Brigate rosse. Il fatto di Gradoli, poi, è stato tradotto come la caduta di una base dell'organizzazione: ce ne sono tante! Moretti non ha detto - tanto meno lo ha detto a me - che quella era la base in cui andava a dormire. Io non lo sapevo. Sapevo solo che era caduta una base dell'organizzazione come erano cadute a Milano o a Genova e come sarebbero continuate a caderne altre. L'appartamento però era sicuro o piuttosto era quanto di meglio si poteva avere. Tenga presente, poi, la mentalità di un guerrigliero: certamente fa di tutto per non farsi scoprire, però se questo accade, affronta il nemico, affronta lo scontro a fuoco e affronta anche il carcere. Fa parte dei rischi che uno corre e non si devono fare demonizzazioni. Se dobbiamo fare una cosa, dobbiamo farla al meglio, perché deve andare bene per l'organizzazione. Facciamola al meglio, anche se comporta dei rischi.

PARDINI. Vorrei rivolgerle un'altra domanda relativa al trasporto. A parte una certa discrepanza tra le sue affermazioni e quelle della Braghetti (che afferma che siete usciti alle ore 9 mentre lei ci ha detto che siete usciti molto presto, alle 6,30 del mattino), il cadavere viene ipoteticamente lasciato sul posto di via Caetani alle ore 9. Lei ci dovrebbe descrivere, se possibile, esattamente cosa succede dalle ore 6,30 alle ore 9, parola per parola cosa avete fatto nelle due ore e mezza per arrivare da via Montalcini a via Caetani….

MACCARI. Chi dice che siamo arrivati alle 9 in via Caetani?

PARDINI. Così risulta. Addirittura ci sono delle perizie secondo cui Moro sarebbe morto tra le 9 e le 10 del mattino (addirittura in un orario successivo!). Come le ha ricordato poc'anzi il presidente Pellegrino, Moro non è morto immediatamente: voi siete su una Renault 4, con una persona ferita a morte, ma non deceduta; è vero che non avete il riflesso di toccare la carotide perché non siete medici, però una persona ferita a morte ma viva ancora per un quarto d'ora o forse più emette dei suoni, si muove e non è pensabile che stia assolutamente immobile perché l'agonia di una persona ha speciali caratteristiche. Io sono medico e posso dirle che è assolutamente così. Ecco, voi non percepite niente nell'automobile? Vorrei chiederle, allora, come avviene il trasporto e cosa percepite della presenza di una persona che non è ancora morta.

MACCARI. Non percepiamo che il presidente Moro sia ancora vivo; questo fatto me lo ha poc'anzi riferito il presidente Pellegrino ed io neanche lo sapevo. Ritengo - ma questa può essere una illazione, una mia impressione - che, se Moretti avesse saputo una cosa del genere, probabilmente gli avrebbe sparato ancora, perché sarebbe stata una crudeltà lasciare un uomo morire dissanguato.

MANCA. Se siete arrivati a sparargli!

MACCARI. C'è modo e modo! Io cerco di spiegare tutto.

PARDINI. Ci può dire cosa avete fatto nel tragitto, dove siete andati?

MACCARI. Dal palazzo di via Montalcini usciamo da Villa Bonelli per una strada e sbuchiamo su via della Magliana (vecchia o nuova non ricordo, ma si trattava della via principale); giriamo a sinistra verso il centro di Roma e andiamo in zona piazzale della Radio e passiamo sotto al cavalcavia verso Porta Portese e da lì prendiamo il Lungotevere fino a piazza di Monte Savello dove sappiamo che troveremo una macchina dell'organizzazione con due militanti a bordo che ci faranno da scorta nel tragitto che riteniamo più pericoloso; dobbiamo passare, infatti, davanti alla Sinagoga, sul Lungotevere, davanti al Ministero di grazia e giustizia, per via Botteghe Oscure, fino ad arrivare in via Caetani dove l'organizzazione - come ha detto poc'anzi il Presidente - ha preventivamente messo un'altra automobile che viene spostata dal Morucci o dal Seghetti (questo non lo ricordo, ma non cambia molto). Moretti, che guida la Renault 4, si mette al posto dell'altra macchina.

PARDINI. Il tutto quanto dura?

MACCARI. Secondo me può durare tre quarti d'ora, un'ora al massimo.

PARDINI. Quindi, Moro è in via Caetani, morto, dalle 7- 7,15.

MACCARI. In via Caetani? Guardi, non ho un ricordo esatto. La sensazione che ho è che siamo usciti dall'appartamento alle 6,30-6,45; poi, saranno passati circa dieci minuti e, quindi, saremo usciti verso le 7. Presumo pertanto che saremo arrivati lì verso le 7,45-8, ma purtroppo non posso essere più preciso perché non riesco a ricordarlo.

PARDINI. Lei sa che c'è tutta una letteratura sulla possibilità che Moro sia stato tenuto in un covo del ghetto ove poi sia avvenuta l'esecuzione prima di portarlo in via Caetani? Lei esclude questa ipotesi?

MACCARI. Sì, lo escludo nella maniera più categorica.

PARDINI. Questo si contraddice con certi livelli di sicurezza che un'organizzazione come la vostra si sarebbe dovuta dare.

MACCARI. Che cosa contraddice?

PARDINI. Il rischio di effettuare un percorso così lungo con il cadavere di Moro.

MACCARI. Ma se le Brigate rosse avevano deciso di lasciarlo lì, quello era il percorso e quello andava fatto!

PARDINI. Del covo del ghetto lei, quindi, non sa assolutamente nulla?

MACCARI. No.

PARDINI. Vorrei rivolgerle un'ultima domanda. Ci diceva che nell'appartamento parlavate. Ci interessa sapere se parlavate anche della fine dei documenti. Moretti portava via di volta in volta i documenti, il resoconto dell'interrogatorio di Moro: nessuno di voi si è mai posto il problema di cosa ne veniva fatto? Ne parlavate? Non le risulta che questi documenti siano mai stati dati a nessuno di diverso al di fuori del Comitato esecutivo? No sa se, ad esempio, Moretti tre giorni dopo ha commentato che il giorno prima avevano parlato delle dichiarazioni di Moro su questo o quell'altro? Parlavate tra voi di questi documenti?

MACCARI. Ne parlavamo, ma non in maniera maniacale e comunque tenga presente che se Mario Moretti, che è il dirigente massimo delle Brigate rosse, porta via qualunque cosa - anche uno spillo - e lo dà all'organizzazione, nessuno gli chiede dove lo stia portando e se stia al sicuro. Questo non è il modo di fare di una organizzazione guerrigliera. C'è la fiducia reciproca, cioè il fatto di sapere che comunque è un dirigente, anche superiore a me, e quindi io gli delego e gli do questa fiducia.

PARDINI. Dopo l’assassinio di Moro, nel momento in cui smontate l’appartamento, qualcuno di voi si pone il problema di dove sono questi documenti? Quando una banda di sequestratori prende un ostaggio ha un unico tesoro come arma, vale a dire l’ostaggio; perso l’ostaggio voi ne avevate un secondo - caso unico nella storia dei sequestri –, vale a dire i documenti che Moro aveva scritto. Qualcuno ha pensato di sfruttare questo tesoro?

MACCARI. Lei dovrebbe fare un ulteriore sforzo, cioè mettersi nei panni di un guerrigliero comunista – capisco che è difficile e oltremodo scomodo – e non di un sequestratore sardo. Nessuno ha pensato che il memoriale fosse un tesoro. Si trattava di carte politiche e se ne fece un uso politico.

PRESIDENTE. Dalla Chiesa però ci pensò.

MACCARI. Dalla Chiesa non era delle Brigate Rosse, era un generale dei Carabinieri.

PRESIDENTE. Potevate fare lo sforzo di pensare nei termini in cui pensava Dalla Chiesa.

MACCARI. Io non mi posi il problema di dove portare quelle carte. Del resto non avevo l’autorità per chiedere una cosa del genere né ne avevo motivo. Sapevo che le portavano nell’organizzazione e poiché si diceva che l’organizzazione avrebbe reso noto tutto al popolo pensai che il memoriale sarebbe stato divulgato. Uscito dalle Brigate rosse non mi sono più posto questi problemi.

PRESIDENTE. Le faccio presente che Morucci è venuto qui, seduto dove ora è seduto lei, e ci ha detto "Perché non vi fate dire da Moretti chi era l’ospite attivo della casa di Firenze dove si riuniva il comitato esecutivo delle Brigate Rosse e chi era l’irregolare che batteva a macchina i manoscritti del memoriale Moro?". Lei ha mai parlato di questo con Moretti? Morucci ce lo ha riferito come se lui sapesse dare una risposta a queste domande ma ritenesse che fosse un dovere di Moretti darvi risposta.

MACCARI. No, non ho mai parlato di questo con Moretti né so cosa riteneva Morucci.

PARDINI. Quindi lei non sentì mai il nome di questo direttore d’orchestra di cui avrà sentito parlare nei giornali.

MACCARI. No, assolutamente. Sono convinto – come ho riferito anche in una intervista – che queste siano informazioni trasmesse a voi personalmente e che facciano parte della serie "mischia lo vero con lo falso acciocché nessuno sappia più cos’è lo vero e cos’è lo falso", come diceva Machiavelli.

PARDINI. Per sapere il vero noi abbiamo chiamato lei.

MACCARI. Voi chiamate uno che sa poco.

PRESIDENTE. Questo è probabile però presuppone che tutto il vero non lo conosciamo. Può darsi pure che ci mandino falsi messaggi, ma è come se si volesse coprire qualcosa che ancora non si sa.

MACCARI. Se esiste questo anfitrione, che taluni sostengono sia l’affittuario di uno dei due covi, a parte che recentemente ho letto una dichiarazione di Bonisoli e Azzolini che hanno negato addirittura l’esistenza di una base dell’organizzazione a Firenze, io non lo so.

PRESIDENTE. Moretti invece descrive con precisione anche dove si trova questa base.

MACCARI. So molto bene cos’è lo spirito che anima la posizione giuridica della dissociazione politica per essere stato tra i fondatori di questo movimento nel carcere di Rebibbia. Uno non fa nomi né avanza un’accusa perché potrebbe essere una persona che magari oggi si può essere rifatta una vita e ha soltanto affittato una casa. Quindi non farebbero nomi perché, come dice lo stesso Franceschini, il carcere non si augura nemmeno al peggior nemico. Magari però questo personaggio esiste, anche se non viene detto nemmeno da alcuni soggetti che egli sia esistito. Lei, quindi, non può chiederlo a me, o meglio me lo chieda pure ma io non so risponderle.

PARDINI. Due ultime domande. Lei non ha mai saputo niente di rapporti tra BR e Banda della Magliana e Chicchiarelli? Non sapeva chi fosse costui?

MACCARI. No, assolutamente. Ho saputo di Chicchiarelli per aver letto il libro di Bianconi.

PARDINI. Come mai, secondo lei, alcuni brigatisti tra cui lo stesso Franceschini hanno avuto molta difficoltà ad attribuirle l’identità di Altobelli? Vi è stato persino un contrasto tra Faranda e Morucci. Ciò accadde per difenderla?

MACCARI. No, erano semplicemente convinti che non fossi io perché non lo sapevano e perché Franceschini mi aveva conosciuto. Anzi, io chiesi anche la sua testimonianza al processo perché sapevo che non sapeva di me.

PARDINI. Via Caetani fu scelta per la sua valenza simbolica in quanto vicina a Botteghe Oscure o a caso?

MACCARI. Fu scelta per la sua valenza simbolica essendo vicina sia a Piazza del Gesù sia a Botteghe Oscure, proprio per dire che la responsabilità di quella morte era da dividere in parti uguali tra PCI e Democrazia Cristiana. Così mi è stato detto.

PARDINI. Un’ultima domanda. Non ha mai avuto dubbi sulla "identità politica" di Moretti, sui rapporti tra Moretti e Hyperion, sul Moretti come l’uomo dalle molte facce? Non ha mai avuto dubbi che potesse essere in rapporto con servizi stranieri o italiani e che avesse comunque una duplice veste? Alcuni brigatisti storici si sono posti il problema se Moretti non fosse realmente uomo dei servizi.

PRESIDENTE. Quella che poi è la tesi di Franceschini.

MACCARI. Ma chi, a parte Franceschini, si pose il problema? Io questo non lo so né francamente ho avuto questa impressione. Ci sono molte cose che mi differenziano da Moretti e devo dire che non ho mai avuto questa impressione. Per contro penso che Franceschini possa essere stato mosso da una sorta di rancore personale perché Moretti non ha fatto mai nulla per cercare di liberarlo. Questa organizzazione che, bene o male, aveva soldi, uomini e mezzi non si è mai mossa in maniera seria ed efficiente sul terreno delle evasioni.

PARDINI. Finora non abbiamo mai nominato la famiglia Moro. Non avevate nessuna percezione di azioni dirette della famiglia Moro ai fini della liberazione? Inoltre, può escludere che nei 55 giorni del sequestro un emissario della famiglia, un sacerdote, possa essere venuto a parlare con Moro.

MACCARI. L’ho già detto nei vari processi che escludo in maniera categorica che qualcuno possa essere entrato nell’appartamento di Via Montalcini. Lo escludo anche per essere mancato solo per brevissimi periodi. Qualcuno ha anche affermato che una persona potrebbe essere entrata in quelle due o tre ore nelle quali io non c’ero. Ciò è impossibile e poi perché nascondermelo. In ogni caso l’avrebbero saputo la Braghetti e il Gallinari. Inoltre vigeva una regola ferrea in base alla quale l’appartamento poteva essere frequentato soltanto da noi quattro. Quindi il militante è tranquillo quando cade Via Gradoli perché è consapevole che sebbene quella base sia caduta, un’altra è sicura. Per questo c’è questo pensiero. Non so come spiegarvi. Quella struttura era stata creata seguendo tutte le regole del perfetto brigatista, da manuale. Se il prete fosse entrato si sarebbe saputo. Comunque, lo escludo, ma mi domando come mai nessuno è andato a chiederglielo.

PRESIDENTE. Abbiamo convocato Don Mennini, ma egli si è trincerato dietro lo status di ministro del Vaticano per non venire in Commissione.

MACCARI. Non era un appunto alla Commissione, quello che intendevo dire è come mai nessun giornalista lo ha intervistato, anche quando stava fuori dall’Italia. Nessuno lo ha cercato, neanche i giornalisti.

PARDINI. Durante l’interrogatorio di Moro, lo chiamavate Presidente?

MACCARI. Si, Moretti lo chiamava Presidente, ma non ricordo bene.

PRESIDENTE. Per un completamento della prima domanda del senatore Pardini: se la Renault 4 con il cadavere di Moro arriva in Via Caetani alle otto, perché tardate tanto a fare la telefonata al professor Tritto?

MACCARI. Non lo so perché non ho fatto io quella telefonata.

PRESIDENTE. Ogni minuto che passava c’era il rischio che qualcuno guardasse nella Renault 4 o che il cadavere sanguinasse e dunque che qualcuno potesse accorgersi.

MACCARI. Non so dirglielo. Poiché non sono in grado di stabilire l’ora esatta, né quanto è durato il tragitto, posso presumere poiché conosco bene il percorso…….

PARDINI. Chi ha fatto la telefonata al professor Tritto?

PRESIDENTE. Non vorrei dire una sciocchezza ma l’ha fatta Moretti.

MACCARI. Credo la faccia Moretti. Poiché conosco bene il tragitto, posso presumere che, percorrendolo all’andatura che noi desideravamo, ci si possa impiegare tre quarti d’ora, ma non so dirle a che ora esatta siamo scesi.

DE LUCA Athos. Innanzitutto ringrazio Maccari per la sua disponibilità. Come hanno già detto altri colleghi, in altre occasioni ho insistito e ho espresso un forte disappunto - per usare un eufemismo - nei confronti di ex brigatisti che non hanno raccolto l’invito di questa Commissione, che pure beneficiano del trattamento che lo Stato riserva a chi in qualche modo collabora con la ricerca della verità. Pertanto la ringrazio, così come, signor Presidente, colleghi, sottolineo che sono molto amareggiato per il fatto che questa Commissione, che ripetutamente aveva chiesto un’audizione con Craxi, non ha potuto farla. La scomparsa di Craxi, come parlamentare e membro di questa Commissione, mi lascia questa grande amarezza. In quella circostanza abbiamo constatato che c’è stata una volontà di interferire nella nostra decisione, prima con alcune motivazioni, poi, ritenute queste insoddisfacenti, con altre, perché, secondo qualcuno, non ci dovevamo incontrare con Craxi. Abbiamo sentito Maletti, abbiamo sentito decine di persone, credo che Craxi andasse ascoltato perché poteva aiutarci. E’ stata dunque un’occasione perduta e ci tenevo che rimanesse agli atti della Commissione all’indomani della morte di Craxi.

PRESIDENTE. Su questo, come ho già detto, sono d’accordo. Sono rimasto sorpreso nell’ascoltare alla trasmissione televisiva "Porta a porta" l’avvocato di Craxi quasi dare la colpa alla Commissione perché si era fatto clamore intorno a questa nostra iniziativa e ciò avrebbe allarmato il Governo tunisino. Il clamore non lo abbiamo fatto noi; semmai c’è stato per le polemiche successive alla decisione che avevamo assunto di andare a sentire Craxi. Comunque, è evidente che una Commissione d’inchiesta non poteva recarsi segretamente ad Hammamet: i giornalisti avrebbero finito per saperlo.

DE LUCA Athos. La motivazione del clamore è stata poi superata. Poiché è stata ritenuta improponibile dagli stessi, si è usato l’argomento reale, la salute di Craxi, ma sappiamo che Craxi è stato, per mesi e mesi, in condizione di rilasciare interviste a tutti e quindi poteva benissimo essere ascoltato. Il Presidente ricorderà che ebbi anche un contatto, che riferii in Commissione, in cui mi fu detto personalmente da Craxi che egli era desideroso di parlare con la Commissione.

Chiusa questa parentesi, mi sembra che in questa audizione ci siano spunti interessanti. Un aspetto che mi pare rilevante è che lei ha in qualche modo confermato una sensazione, una convinzione che alcuni di noi hanno. Lei ha parlato dell’organizzazione dicendo più volte che non va mitizzata, "mica vi credete che eravamo…" citando altre organizzazioni. Nella nostra immaginazione ha anche rappresentato questo concetto attraverso esperienze della sua stessa vita, che andava nei prati a sparare e così via, dandoci un’immagine reale, ferma restando la determinazione e le caratteristiche di quei guerriglieri (termine che lei usa spesso). Tutto ciò ci ha confermato, almeno nella mia convinzione -mi corregga se sbaglio- che anche lei si è domandato come mai un’organizzazione di quel tipo non sia stata individuata e quindi scoperta prima, per cui vi è stato, da un certo punto di vista, un successo del sequestro e delle altre operazioni. Questo mi pare uno spunto politico importante perché alcuni di noi ritengono che vi era una volontà in quel momento, da parte dei servizi -non abbiamo tempo di approfondire questo aspetto- in ogni caso di alcuni, che in quel momento volevano la morte di Moro.

L’altra questione è un passaggio delicato. Mi sembra di aver colto che lei per diverso tempo ha vissuto in libertà, poi a un certo punto indirettamente la sua cattura è legata a rivelazioni o comunque segnalazioni fornite da alcuni ex brigatisti che, fino a quel momento, le avevano dato una copertura, avevano mantenuto il silenzio, l’avevano cioè tutelata, e che questo sia avvenuto nel momento in cui, come lei ha detto, il ministro Conso e il pubblico ministero Marini esortavano a dire tutta la verità, a vuotare il sacco perché poi sarebbe arrivata la clemenza. Vorrei sapere se è vero in questi termini: se cioè, per semplificare, chi le ha dato copertura fino a quel momento poi ha creato le condizioni per la sua cattura, più o meno direttamente; non siamo a conoscenza di altri particolari.

MACCARI. Per quanto riguarda la prima domanda, ho già detto e ripeto che non bisogna mitizzare e enfatizzare la preparazione delle Brigate rosse, ci sono tanti episodi che dimostrano questo. Per contro, nell’ambito del movimento rivoluzionario è sempre stata apprezzata maggiormente la determinazione, la fermezza e la convinzione politica piuttosto che la bravura nello sparare: le Brigate rosse non cercavano uomini come "Rambo", erano interessati al dirigente politico, ad una persona conosciuta, seria, che avesse fatto le lotte. Questo era il personaggio che poteva interessare le Brigate rosse, non tanto il maestro d’armi. Per quanto riguarda la seconda domanda, cioè la mia cattura, è soltanto un’ipotesi, anche dolorosa, quella che faccio, ma non ho elementi per avvalorarla. Cioè, ci sono delle date che sono certe: l’intervista viene fatta nei mesi di luglio e agosto del 1993, io vengo arrestato nell’ottobre del 1993. C’è da fare una premessa. Mario Moretti, per quel poco che l’ho conosciuto io, è sempre stato un personaggio veramente fissato sui problemi di sicurezza, uno molto attento, molto scrupoloso, un grande organizzatore, uno che non lascia niente al caso, che pensa e ripensa sulle cose. Io mi rifiuto di pensare che Mario Moretti trascorsi 10-12 anni da detenuto fa un intervista in un carcere e non pensa che possa essere registrata, come poi è in effetti accaduto. E allora lui in questo libro dice che il quarto uomo esiste, che è un romano, amico dei romani, un buon compagno, e che è stato in carcere non per le Brigate rosse ma per altre storie. Il cerchio si stringe a 2-3-4 nomi…

DE LUCA Athos. Perché l’avrebbe fatto?

MACCARI. Io non lo so. Potrebbe averlo fatto, ma questa è una mia ipotesi, anche per dimostrare che non c’erano misteri, l’unico mistero è questo, fate la soluzione politica, così con la soluzione politica tireremo fuori anche Maccari. In altri termini, sono stato l’agnello sacrificale di questa operazione. Però tengo a precisare che non c’è stato nessun patto, né di sangue né altro, fra me e Moretti. Lei ha detto che io sarei stato tutelato: no, niente di tutto questo. Io sono uscito dall’organizzazione e le Brigate rosse sapevano che mai e poi mai li avrei traditi. E con il passare degli anni mi è aumentata dentro la sensazione che prima o poi sarebbe successo qualcosa e sarei stato individuato. Infatti non ho rancore di nessun tipo verso Moretti, anche se fosse vera la mia ipotesi su come sono stato individuato. Probabilmente anche alla Rossanda – siamo sempre nel campo delle ipotesi – devono aver detto che lo Stato era pronto a fare la soluzione politica. Poi però, di fatto, lo Stato non capisce, perché di fatto la legge sull’indulto è ferma; lo Stato ha scelto un'altra via, quella della legge Gozzini, quella del lavoro esterno, però non ha il coraggio di fare una seria discussione sugli anni '70, andare a vedere come mai un’ intera generazione ha potuto pensare di imbracciare le armi.

PRESIDENTE. Si potrebbe attribuire a Moretti un’intenzione più sottile. In effetti, nel momento in cui si è scoperto che lei e’ l’ingegner Altobelli, non è che sulla ricostruzione complessiva della vicenda Moro venga poi fuori un quadro completamente diverso. E allora, non potremmo pensare che Moretti ha voluto dare in questo modo la prova che in realtà non ci sono ulteriori cose che varrebbe la pena sapere perché consentirebbero una lettura diversa della vicenda, e ha lasciato una traccia perché attraverso la scoperta della coincidenza della sua persona con l’ingegner Altobelli questo venisse verificato sul campo? Di fronte a testardi tentativi, o intellettuali, come quelli di Flamigni, o come il nostro, svolto per dovere istituzionale, ci viene sempre risposto che l’aver saputo che Maccari era l’ingegner Altobelli lascia le cose al punto di prima. Quindi, non c’è niente altro che si possa sapere. Se questo fosse vero, significa allora che c’è qualche altra cosa che sarebbe interessante sapere e che invece per una sorta di patto di silenzio non viene detta né dagli apparati politico-istituzionali, né da Moretti.

MACCARI. Può essere, non posso escluderlo. Io mi ricordo di un intervista fatta da Curcio ad un giornalista di "Frigidaire", in cui Curcio dice delle cose…

PRESIDENTE. Lo dice quando parla di Rostagno e dice che ci sono parole che non riusciamo a pronunciare che attengono al rapporto fra noi e il potere e se queste parole noi riuscissimo a trovarle, in quelle sarebbe la vera storia nostra e del potere, la vera storia dell’Italia degli anni ’70. E’ una frase che mi ha sempre colpito.

MACCARI. Però si parlava non solo di Rostagno, ma anche di Calabresi e della strage di piazza Fontana.

PRESIDENTE. Benissimo, e i due episodi che nomina sono Calabresi e la strage di piazza Fontana. La cosa bella è che questa frase io l’ho vista citata da Giorgio Bocca che è fra quelli che dicono: tutti sappiamo che della direzione strategica delle Brigate rosse fanno parte intellettuali; non riesco a capire perché sia insana la nostra curiosità di sapere chi fossero. La frase, che ora posso leggerle, è questa: "Perché ci sono tante storie in questo Paese che vengono taciute o non potranno mai essere chiarite per una sorta di sortilegio? Come piazza Fontana, come Calabresi, che sono andate in un certo modo e che per venture della vita nessuno può più dire come sono veramente andate; sorta di complicità fra noi e i poteri, che impediscono ai poteri e a noi di dire cosa è veramente successo. Quella parte degli anni ’70, quella parte di storia che tutti ci lega e tutti ci disunisce, cose che noi non riusciamo a dire perché non abbiamo le parole e le prove per dirle, ma che tutti sappiamo".

DE LUCA Athos. Lei in parte ha già risposto, però le chiederei di precisare questo. Lei era un irregolare, aveva questa storia e questa situazione diversa, però viene scelto per un compito molto delicato, una fase cruciale di tutta la storia almeno di questo gruppo rivoluzionario, malgrado la sua filosofia anche strategica era diversa, il contatto col popolo, non la clandestinità; eppure si trova ad essere protagonista dell’atto cruciale. Lei ci ha risposto che forse hanno scelto lei per le sue qualità di guerrigliero, nel senso di lealtà, eccetera. Ma è sufficiente questo per far fronte della delicatezza di un fatto del genere? C’era un conflitto di filosofia delle cose, lei non condivideva delle cose, non c’era quella cordialità, quel feeling, eccetera.

MACCARI. Però quella cordialità, quel feeling è una cosa che io ho verificato durante i 55 giorni, cioè quando praticamente il primo giorno ho visto che per prendere un uomo politico erano stati lasciati sull’asfalto cinque tra carabinieri e poliziotti e già questo mi fece subito pensare che la trattativa, cioè lo scambio, sarebbe stata difficilissima. Fino ad allora le Brigate rosse avevano fatto dei sequestri, ma non avevano ucciso nessuno. Il sequestro più eclatante era stato quello del giudice Sossi, che fu rilasciato libero. Vorrei poi fare un inciso. Per entrare nelle Brigate rosse dovevi diventare un militante, cioè dovevi accettare la loro linea strategica e politica. Ed io, ad onor del vero, alla fine ho accettato: mi sono convinto e ho accettato. Dopo di che, dicevo, tra le Brigate rosse si parlava, lo so perché mi fu detto, che i sequestri dovevano essere due in contemporanea: un importante uomo politico a Roma, per il quale stavo approntando la prigione, e un importante uomo del mondo imprenditoriale e, dopo anni, ho saputo in carcere che si pensava a Leopoldo Pirelli. Si trattava di due sequestri, pensavo che forse c’era la forza per riuscire a piegare lo Stato e a farci dare non soltanto qualche militante carcerato ma, cosa forse anche più importante, un riconoscimento politico. Le premesse però erano quei cinque morti, per cui pensavo che sarebbe stato molto difficile. Quando ho capito che non c’era più niente da fare, perché Moretti diceva che lo Stato non poteva pensare sempre che noi avremmo lasciato Moro come è avvenuto con Sossi, perché dovevamo dare una certa immagine, ho cominciato a capire, ripeto, che forse ci poteva essere la disgraziata eventualità di doverlo uccidere e lì ho cominciato a dire la mia, che non ero d’accordo, con i miei limiti.

DE LUCA Athos. Quindi lei ha proprio espresso questo suo dissenso?

MACCARI. Si, più di una volta.

PRESIDENTE. Moretti vi disse che Morucci era sulla sua stessa linea?

MACCARI. No, assolutamente, penso se ne sarebbe guardato bene. Nonostante mi trovassi in una struttura chiusa e sentissi il bisogno anche di uscire e di sentire il movimento, i compagni che cosa ne pensano, avevo soltanto radio, televisione e giornali. Moretti assolutamente non mi ha detto che Morucci, che c’erano altri militanti … Ho sempre pensato che fosse impossibile che ci fosse questo monolite; io non sono d’accordo, la Braghetti non è d’accordo, per cui ho sempre pensato che ci potessero essere altri come noi.

PRESIDENTE. Anche la Braghetti non era d’accordo?

MACCARI. Anche la Braghetti non era d’accordo e comunque la viveva come una cosa drammatica, così come l’hanno sempre vissuta tutti.

PRESIDENTE. Poi voi avevate un rapporto personale.

MACCARI. Esatto. Quando manifestavo le mie idee, la Braghetti mi appoggiava, con lei trovavo uno spazio per il dialogo, mentre gli altri erano duri e mi rispondevano che "la rivoluzione non è un pranzo di gala". Ricordo il mio dissenso, ma non è che ho fatto là dentro chissà che cosa.

PRESIDENTE. Qui arriviamo a uno dei nodi della questione. Quello che emerge è che chi veniva da un certo tipo di esperienza (Piperno, Pace, Morucci, lei) valutava politicamente che ammazzare Moro fosse un errore, perché con la morte di Moro inizia poi la fine delle Brigate rosse. Questo oggi lo riconosce anche Moretti. E allora perché Moretti dà importanza a quello che pensavano Micaletto, Azzolini e Bonisoli, che, per l’idea che me ne sono fatta io, non erano degli intellettuali o dei leader politici raffinati, ma piuttosto dei soldati che ragionavano con la logica a volte un po’ gretta dei militari? Invece, quel discorso di lasciare Moro libero e farlo diventare una mina vagante nel sistema, anche perché, come lei ha ricordato egli aveva detto che si sarebbe iscritto al Gruppo Misto e avrebbe lasciato la Democrazia cristiana, poteva essere una scelta molto più raffinata politicamente, tant’è vero che il sistema era terrorizzato dall’idea di quello che Moro avrebbe potuto dire immediatamente dopo la liberazione; tant’è vero – questo è certo – che elaborano il piano Victor, un piano per cui Moro doveva essere completamente sequestrato almeno per una quindicina di giorni subito dopo la sua eventuale liberazione, che veniva sì auspicata, ma che nello stesso tempo faceva paura. Perché Moretti, che pure era un leader politico che aveva una sua raffinatezza, poi finisce per bloccare sulla decisione dell’ala militarista (Micaletto, Bonisoli, Azzolini, Gallinari); tra i quattro che erano nel covo di via Montalcini le due persone che avevano un’esperienza un po’ diversa, cioè lei e la Braghetti, non erano favorevoli. Gallinari, che veniva da quell’altro tipo di formazione culturale invece era per l’uccisione dell’ostaggio. Per dirla quindi in maniera brutale: sembrava che i due più grossi partiti volessero condurvi ad uccidere l’on. Moro (questa è la spiegazione che Moretti dà: la DC e il PCI non l’hanno voluto salvare, noi non lo volevamo ammazzare), in qualche modo avevate l’impressione che il sistema vi spingesse in quella direzione, perciò per metterlo in crisi sarebbe stato necessario proprio fare la mossa contraria.

MACCARI. Posso dire con certezza, perché ne abbiamo parlato, che le Brigate rosse chiedevano la liberazione di tredici detenuti, ma tra di noi si diceva che anche se ne avessero liberato uno soltanto, o se avessero dato anche solamente un riconoscimento politico, che si può dire che c’è stato a posteriori dal presidente Cossiga e da tutte le persone che hanno detto che questi non erano criminali ma erano giovani imbecilli, fanatici però generosi, partiti da delle motivazioni sane e poi …

PRESIDENTE. Faccio un altro esempio: sull’immagine nazionale della magistratura, in fondo, le parole che aveva detto Sossi pesarono moltissimo, ma proprio perché Sossi non lo avevate ammazzato. Poi fu liberato e continuò a dire per un certo periodo quello che aveva detto prima dei suoi colleghi.

MACCARI. Sì, però io non so misurare l’intelligenza…, cioè se questi potevano capire che il presidente Moro da vivo sarebbe stato dirompente e poi perché lo hanno ucciso. C’è una logica, che è quella guerrigliera, che è anche quella della propaganda armata, di dare un’immagine di sè: di fronte ad uno Stato duro nella sua fermezza, bisogna essere altrettanto duri. Moretti diceva sempre: "se questi non ci danno niente e lo liberiamo diamo di noi un’immagine di debolezza". Però, posso dirlo con certezza, fino all’ultimo si era sempre detto che sarebbe bastato veramente un gesto, un qualcosa di concreto perché Moro fosse liberato.

DE LUCA Athos. Lei ha ripetuto più volte: il carcere non si augura nemmeno al peggior nemico. Poi ha parlato della sua coerenza e che l’hanno lasciata uscire dalle BR perché era una persona seria, sapevano che era fedele, affidabile, eccetera. La domanda è la seguente: questa sua serietà e affidabilità e la frase che lei dice (il carcere non si augura a nessuno) le impediscono oggi di collaborare a pieno con la giustizia, in altre parole, di poter collaborare e dire tutto quello che lei sa? Lei afferma di dire tutto quello che sa, mi corregga se sbaglio, ma questa fedeltà e l’affermare che dalle cose che si dicono può nascere il carcere per qualcuno, le impediscono di collaborare? Vorrei che lei ci chiarisse questo punto.

MACCARI. Negli anni 1982-83, quando ci fu il fenomeno del pentitismo, io e altri militanti e compagni nelle carceri ci siamo sforzati di trovare un’alternativa, una seconda strada. Le vie erano due: l’irriducibilismo o il pentitismo. Siccome pensavamo che, nonostante i tragici e tremendi errori di questa generazione un minimo, un qualche cosa di buono si poteva salvare, abbiamo pensato di dare forma di dignità, anche dal punto di vista etico e morale, a quello che era un riallacciarsi allo Stato, a quello che una volta era stato un nemico, e di farlo senza arrivare a dover denunciare, a fare il delatore e dare dei nomi. Abbiamo inventato questo movimento politico, che nelle carceri è stato fortissimo, della dissociazione politica dal terrorismo e dalla lotta armata, proprio per distinguerci dai pentiti. Personalmente ritengo che dal punto di vista politico questo movimento sia stato molto più efficace del pentitismo. E’ vero, i movimenti rivoluzionari se poggiano su solide basi possono avere al loro interno pure mille spie, mille pentiti, ma non verranno sconfitti, ce lo insegna l’IRA, ce lo insegna l’ETA e le organizzazioni più antiche ancora. Però voglio dire che noi abbiamo dato un contributo notevole allo Stato, da un punto di vista politico, di fare un’autocritica, di parlare ai giovani e anche di dare ai giovani la possibilità di reinserirsi nella società facendolo a testa alta, ammettendo i propri errori. Io ho collaborato con la giustizia, nel momento in cui ho confessato non ho collaborato? Che cosa intendete voi per collaborazione? Questo Stato intende solamente il pentito che fa dei nomi ma magari non si occupa di quello come me che ha un rimorso, che per tanti anni ha vissuto con grande rimorso. Poi l’ho tirato fuori. Non ho denunciato i miei compagni. Se lei mi chiede "lo farebbe", perché poi questo lei mi ha chiesto, non so se lo farei, non vorrei farlo, ma penso che scriverei, che parlerei, che direi come ho fatto. Sull’omicidio D’Antona ho scritto un articolo su Il Tempo e prima ancora su La Repubblica, in cui dicevo "state sbagliando, deponete le armi, abbandonate questa strada". Non so se i miei articoli sono stai letti dalla Commissione.

PRESIDENTE. Personalmente li ho letti.

MACCARI. La fortuna mi ha aiutato. Siccome sono stato "L’ultimo dei Mohicani", l’ultimo ad essere arrestato, non ho più nomi da fare, sono stati arrestati tutti, non conosco nessuno, nelle Brigate Rosse ho conosciuto 5 o 6 persone che sono state tutte individuate e arrestate. Ho questa fortuna, non devo quindi mettermi alla prova. Forse è più importante il fatto di avere un rimorso dentro di sé, poi lo si tira fuori, si cerca di fare qualcosa per riabilitarsi nella società. Magari si pensa di lasciare agli altri la stessa libertà di arrivare alle medesime conclusioni, magari di farsi avanti, di alzare la mano. Per contro, c’è anche l’atteggiamento dello Stato e dell’attuale classe dirigente. Ad esempio, dal 1989 è ferma in Parlamento una proposta di legge sull’indulto per i reati di terrorismo, che ancora non è stata approvata. Vorrei citarvi un episodio. Nel 1973 in Francia c’era la Gauche Proletariènne, un gruppuscolo della sinistra extraparlamentare, ancora più piccolo in termini numerici di Potere operaio. (Il signor Maccari estrae dalla sua borsa un fascicolo). Nel 1973 Potere operaio fece il noto congresso di Rosolina, a cui parteciparono esponenti dell’Eta, dell’Ira, dell’Olp.

PRESIDENTE. Il teorema di Calogero, il 7 aprile nasceva da Rosolina.

MACCARI. Nel 1973 la Gauche Proletariènne era pronta a fare la lotta armata allo Stato francese, avevano fondi, provento di rapine e di attività illegali, avevano basi, avevano già studiato come farla. Nel 1972 viene ucciso il vigile Tramonie, una guardia armata della fabbrica della Renault di Prince, il quale, a sua volta, nel 1968–69 aveva ucciso un operaio maghrebino. Quindi, la Gauche Proletariènne fece un attentato e uccise questo vigile. Nel 1974 ci fu l’elezione del presidente Giscard d’Estaing che concesse la grazia o l’istituto similare che esiste in Francia. Fu un atto politico, un atto pubblico, l’attentatore uscì di galera perché fu graziato e la Gauche Proletariènne non ha più fatto la lotta armata allo Stato francese. In Francia, il 1968 è durato 6 mesi, in Italia la lotta armata è durata 18 anni. Oggi ci sono dei giovani imbecilli che stanno ancora pensando – non so da dove traggono le loro radici a livello ideologico nel sostenere le proprie tesi – alla lotta armata. Perché non pensare all’indulto? Quale giovane potrebbe essere affascinato dalle tesi di questi nuovi brigatisti, nel dire che combatte uno Stato che è uno Stato clemente con i vinti, uno Stato capace di dare clemenza, che dà questo segnale?

PRESIDENTE. Le darò una risposta al termine dell’audizione.

I lavori vengono sospesi dalle ore 13,11 alle ore 13,16.

Fine prima parte

prima parte

seconda parte

Home page Commissione stragi