Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

71a SEDUTA*

MERCOLEDI 7 GIUGNO 2000

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

* In sede di revisione del resoconto stenografico compiuta dal dottor Chelazzi, lo stesso ha trasmesso alla Commissione una lettera contenente numerose precisazioni riferite al testo e che egli non ha ritenuto possibile inserire nel corpo del testo stesso. La lettera del dottor Chelazzi è stata pertanto acquisita agli atti della Commissione quale parte integrante, ancorchè separata, dello stenografico sottoscritto dall'audito.

Indice degli interventi

PRESIDENTE
CHELAZZI
BIELLI (Dem. di Sin.-L’Ulivo), deputato 1 - 2 - 3
MANCA (Forza Italia), senatore 1 - 2
TARADASH (Misto-P.Segni-RLD), deputato

 

La seduta ha inizio alle ore 20.35.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.

Invito il senatore Pardini, segretario f.f., a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

PARDINI, segretario f.f., dà lettura del processo verbale della seduta del 24 maggio 2000.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

 

COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE.

PRESIDENTE. Informo che in data 2 giugno 2000 il Presidente della Camera dei deputati ha chiamato a far parte della Commissione il deputato Gianpaolo Dozzo, che stasera non è presente in Aula, in sostituzione del deputato Giovanna Bianchi Clerici, dimissionaria.

Informo altresì che il colonnello Umberto Bonaventura e il dottor Ansoino Andreassi hanno provveduto a restituire, debitamente sottoscritti ai sensi dell'articolo 18 del regolamento interno, i resoconti stenografici delle loro audizioni svoltesi rispettivamente il 23 ed il 24 maggio 2000, dopo avervi apportato correzioni di carattere meramente formale.

Rendo poi noto che il dottor Pier Angelo Maurizio ha depositato un suo elaborato dal titolo «Il parziale ritrovamento dei reperti di Robbiano di Mediglia e la "Controinchiesta" BR su piazza Fontana», corredato da 25 allegati. Su questo argomento non desidero aggiungere nulla; si tratta di un documento interessante che sto studiando in questi giorni.

 

INCHIESTA SUGLI SVILUPPI DEL CASO MORO: AUDIZIONE DEL DOTTOR GABRIELE CHELAZZI, SOSTITUTO PROCURATORE NAZIONALE ANTIMAFIA.

Viene introdotto il dottor Gabriele Chelazzi

PRESIDENTE. Desidero anzitutto scusarmi con i colleghi per il ritardo con cui iniziamo i nostri lavori, ma ho voluto scambiare due parole con il dottor Chelazzi.

L'audizione del dottor Chelazzi avviene su sua richiesta. Ci è sembrato giusto, come Ufficio di Presidenza, rispondergli positivamente, anche se per telefono. Desideriamo verificare se l'audizione del dottor Chelazzi potrà essere utile a completare gli accertamenti che abbiamo già eseguito sulla scoperta del covo di via Monte Nevoso. Il dottor Chelazzi è stato a lungo attivo alla procura di Firenze e potrà, sia rispondendo alle nostre domande, sia sponte sua, aggiungere ulteriori elementi di conoscenza alla Commissione su ciò che riguarda il côté toscano delle Brigate rosse, sul quale, come ricorderete, spesso si è appuntata la nostra attenzione, ritenendolo forse non pienamente conosciuto o, per lo meno, denso di indizi e di tracce che forse non sono state sviluppate fino in fondo. Riferisco questo pensiero alla Commissione perché ne accennammo nel documento che è stato da noi approvato subito dopo l'omicidio D'Antona.

Per semplificare il nostro lavoro, vorrei con il vostro permesso riassumere al dottor Chelazzi il punto di arrivo degli accertamenti della Commissione su via Monte Nevoso, di modo che il dottor Chelazzi potrà dirci se questi accertamenti possano ritenersi esaustivi o se ha qualcosa da aggiungere. La vicenda può essere ricostruita nel seguente modo, sulla base di quello che abbiamo accertato. Su un autobus di Firenze viene smarrito un borsello. In questo borsello vengono rintracciate un'arma da guerra e documenti che sembravano riferibili ad un uomo del terrorismo di sinistra, ad un uomo delle Brigate rosse. Naturalmente, il ritrovamento del borsello fa aprire presso l'autorità giudiziaria di Firenze un fascicolo penale, sia pure contro ignoti, stante, fra l'altro, il possesso di un'arma vietata, di un'arma da guerra. L'utilizzazione intelligente e rapida di alcuni indizi che erano nei documenti ritrovati all'interno del borsello consente ai carabinieri lo sviluppo di un'indagine che, svolgendosi presso uno studio dentistico di Milano e presso un rivenditore di motoveicoli, consente di individuare con sufficiente precisione nel brigatista Azzolini il distratto possessore del borsello smarrito a Firenze. L'individuazione di un ambito cittadino frequentato da Azzolini consente l'individuazione dello stesso Azzolini, con lunghi e attenti pedinamenti a suo carico, che portano a rintracciare altri due covi. Questa è l'attività investigativa che precede il blitz del generale Dalla Chiesa del 1° ottobre 1978.

Dai nostri accertamenti abbiamo appreso anche che tutto ciò non viene per intero trasfuso nel rapporto di polizia giudiziaria che viene poi allegato al fascicolo della scoperta del covo di via Monte Nevoso, che costituisce, per un certo periodo, la verità ufficiale sul ritrovamento del covo e rifluisce, per esempio, anche nella prima sentenza Moro, la cosiddetta sentenza Santiapichi. Le ragioni di questa non piena corrispondenza del rapporto di polizia giudiziaria rispetto allo svolgimento intero delle indagini ci sono state giustificate dai dottori Pomarici e Spataro durante le loro audizioni come avvenute, anzitutto con il consenso dell'autorità giudiziaria e poi dettate dalla necessità di proteggere l'identità dei testimoni che sia presso la rivendita di motoveicoli sia presso lo studio dentistico avevano consentito l'identificazione del brigatista Azzolini. Il nostro non è un organismo giudiziario, ma parlamentare e politico: a mio parere, questa ragione è giustificata, non, come sarebbe stato pure opinabile, sospettabile da parte nostra. Siamo stati accusati di aver messo in dubbio la figura del generale Dalla Chiesa. C'era la necessità di coprire non un informatore o addirittura un infiltrato ma l'identità di alcuni testimoni che vengono trattati come fonte informativa: questo ha determinato lo scarto tra ciò che veramente è avvenuto e il rapporto giudiziario. Il pensiero che ci fosse un informatore o un infiltrato si inserisce nell'ambito di ciò che noi abbiamo addirittura il dovere di pensare o di sospettare; non si poneva minimamente in dubbio la figura del generale Dalla Chiesa. Basterebbe per questo leggere i rapporti di Dalla Chiesa al ministro Rognoni, che abbiamo esaminato durante l'ultima audizione, dove lo stesso Dalla Chiesa riconosceva come da un certo momento in poi, dopo essere stato investito dei noti poteri straordinari, l'azione di penetrazione all'interno delle Brigate rosse si era avvalsa sia di informatori sia di infiltrati. Alcuni giorni fa ho letto la seconda audizione del generale Dalla Chiesa davanti alla Commissione Moro dove esplicitamente egli ha dichiarato di avere in mano un documento che non poteva leggere per intero perché da quello sarebbe emerso il nome dell'infiltrato di cui ci si era avvalsi per individuare il gruppo che poi portò all'individuazione di Peci. A mio avviso, è pacifico e pienamente legittimo, dati i poteri di cui Dalla Chiesa era investito, che ci si sia avvalsi di fonti informative e di infiltrati. L'aver pensato che questo scarto fra la realtà delle indagini, così come erano emerse dagli accertamenti, e il rapporto di polizia giudiziaria fosse dovuto alla volontà di coprire un informatore o un infiltrato, non mi sembra un sospetto che possa giustificare le reazioni che pure ha determinato. Però, allo stato dei nostri accertamenti possiamo dire che a via Monte Nevoso non si arriva né grazie ad un informatore né tantomeno grazie ad un infiltrato e che l’unica esigenza fu quella di coprire l’identità di questi testimoni.

A questo si è pagato un prezzo, sulla cui ragionevolezza personalmente non ho dubbi, perché sempre questa esigenza comportò che al magistrato fiorentino che aveva in mano il fascicolo originario, aperto con il ritrovamento del borsello, e che abbiamo ascoltato, il dottor Tindari Baglione, non fu data la certezza che il possessore distratto del borsello fosse il brigatista Azzolini. Ciò fece sì che il processo si concludesse con una archiviazione, perché ad opera di ignoti.

Questo non è in se il costo che l’intera operazione ha determinato, ma il costo sta nel fatto che sul possesso dell’arma da guerra e sulla sua provenienza non sono mai stati compiuti tutti gli accertamenti che si sarebbero potuti fare. Il collega Mantica in un recente atto di sindacato parlamentare ha avanzato addirittura il dubbio abbastanza pesante che ci potessero essere collegamenti con partite di armi trattate dai Servizi; ma questa pista di indagine non è stata percorsa fino in fondo perché, anche se il dottor Lombardi acquisì dall’autorità giudiziaria di Firenze questa pistola per poter verificare se era quella di cui Azzolini si era servito per commettere un altro omicidio (che non è collegato alla vicenda Moro) e quell’accertamento diede un risultato negativo, a valle di tale risultato l’arma da guerra è stata "rottamata", distrutta e quindi ulteriori accertamenti non sono stati possibili.

Per completezza, direi che anche se i dottori Pomarici e Spataro ci avevano assicurato che non solo questo scarto fra rapporto di polizia giudiziaria e realtà delle indagini per come si erano svolte era stato autorizzato e che l’intera vicenda di via Monte Nevoso si era svolta nella completa regolarità, in realtà l’audizione del colonnello Bonaventura ci ha consentito di accertare che almeno una irregolarità in quella vicenda ci fu. Infatti, la documentazione di Moro rintracciata in via Monte Nevoso fu portata via dai carabinieri da quel covo, fotocopiata e poi rimessa al suo posto. Le fotocopie entrarono immediatamente nella disponibilità del generale Dalla Chiesa.

A questo proposito, vorrei dire che dei poteri di Dalla Chiesa faceva sicuramente parte la possibilità di acquisire immediatamente cognizione della documentazione e di informarne direttamente il vertice politico, perché questo rientrava nei poteri di cui era stato investito, nella "clausola di ingaggio", però certamente il fatto che documenti così delicati siano stati rimossi dal luogo del ritrovamento per essere poi riportati in via Monte Nevoso e che di tutto questo non vi sia traccia nel verbale di sequestro è certamente una ferita che apre spazio a dubbi, ma non deve autorizzare a portare con facilità ad alcuna conclusione.

Poiché intorno a questa nostra attività – come sapete – si sono attivate una serie di polemiche che hanno portato addirittura deputati ad informare il Capo dello Stato di questa nostra attività, tengo a precisare che centinaia di pagine della recente sentenza di Palermo che ha assolto il senatore Andreotti dimostrano – a mio avviso – come il dubbio che intorno a tutta questa vicenda era stato sollevato dalla procura di Palermo non era fondato.

Direi anzi – se posso esprimere un giudizio, sia pure sommessamente – che era anche sbagliata l’ipotesi di indagine, perché scartava dall’albero delle probabilità. Infatti, l’ipotesi accusatoria nei confronti di Andreotti, che si è sviluppata sia a Palermo sia a Perugia, partiva da presupposto che fra le carte dattiloscritte ritrovate in via Monte Nevoso nel 1978 e le fotocopie del manoscritto ritrovate nel 1990 dietro il muro non ci fosse una piena coincidenza; che quindi il dattiloscritto fosse stato in qualche modo ridotto di dimensioni rispetto al manoscritto fotocopiato e che questa riduzione fosse avvenuta perché le parti sottratte al dattiloscritto accusavano il senatore Andreotti (qui lo scarto dall’albero delle probabilità diventa più netto); che di queste carte il generale Dalla Chiesa si fosse impossessato per avere un’arma di pressione nei confronti di Andreotti e, addirittura, questa pressione avesse esercitato attraverso una serie di contatti con il giornalista Pecorelli.

Tutto questo crolla, all’analisi attenta del tribunale di Palermo, per il semplice motivo che se le parti presenti dietro al tramezzo erano fortemente critiche nei confronti di Andreotti, non lo erano meno di quelle parti che erano rimaste invece nel dattiloscritto immediatamente ritrovato. Pertanto, il passaggio dall’una all’altra versione in realtà non intacca la durezza del giudizio che Moro esprime su Andreotti e, quindi, rende inverosimile e incredibile che la riduzione del dattiloscritto rispetto al manoscritto fosse stata operata da Dalla Chiesa addirittura per costruirsi possibili armi di pressione nei confronti del senatore Andreotti e, ancora più probabilmente per me, che un uomo come Dalla Chiesa si potesse avvalere di Pecorelli per esercitare queste pressioni.

Detto tutto questo per chiarire quale sia invece la diversa direzione di indagine, la diversa interrogazione che noi facciamo a noi stessi su queste carte, resta soltanto il problema che indubbiamente ci fu una fase di irregolarità nel sequestro dei documenti; ma a questa non mi sento personalmente di collegare alcuna ipotesi e conclusione, alla stregua di quello che un grande dirigente del tribunale di Palermo ha accertato.

Altre sono semmai le cose sulle quali dovremmo interrogarci, noi e la magistratura che continua ad indagare sul caso Moro. Giorni fa, per esempio, rileggevo la parte finale del memoriale. Lì è impressionante la certezza che Moro dimostra che la vicenda fosse prossima ad una positiva conclusione. Cosa era avvenuto? Quale trattativa si era sviluppata? Quali segnali le Brigate rosse avevano dato a Moro?

Germano Maccari, che abbiamo ascoltato, non ci ha minimamente parlato di questo. Per l’idea che mi sono fatto delle Brigate rosse, non penso che queste avessero la crudeltà di illudere Moro di una sua liberazione, se questo non fosse stato vero.

Cosa avviene fra la stesura di quell’ultima pagina del memoriale e la lettera che Moro scrive alla moglie nel momento in cui scrive che un suo cauto ottimismo purtroppo era caduto, che forse non aveva capito bene e la questione era precipitata?

Questi sono semmai gli interrogativi di cui ci dovremmo occupare, che ovviamente non sottopongo al dottor Chelazzi. A lui domando anzitutto se, rispetto alla ricostruzione che noi abbiamo fatto della vicenda del ritrovamento del covo di via Monte Nevoso egli abbia nulla da aggiungere, da precisare, da correggere.

CHELAZZI. Signor Presidente, ringrazio lei e la Commissione di aver disposto questa audizione. L’ho richiesta proprio perché, essendomi documentato almeno sull’oggetto attuale del lavoro della Commissione, con un minimo di presunzione (ma spero di poter dimostrare il contrario), ho creduto di poter essere in qualche modo utile in ragione di una attività che, per quanto riguarda le Brigate rosse, inizia a Firenze il 19 dicembre 1978, anche se aveva qualche premessa a Milano, dove ho prestato servizio prima di essere sostituto a Firenze, già nell’anno 1977.

Parto dal 19 dicembre 1978 perché questa data segna lo spartiacque tra quello che non ritengo nemmeno di poter chiamare un cenno informativo preliminare e, viceversa, un cenno essenziale ma già circostanziato in merito all’esistenza di un borsello, alle circostanze del suo rinvenimento, ai termini in cui sul contenuto di questo borsello da parte di organi della polizia era stata esercitata una più che tradizionale attività investigativa e sui risultati di questa attività. In sostanza le mie conoscenze datano in prima battuta a non molti giorni prima del 19 dicembre 1978 e, in seconda battuta, a pochissimi giorni dopo quella data. La data del 19 dicembre 1978 si determina perché è il giorno nel quale la DIGOS della questura di Firenze opera, casualmente, l’arresto di quattro appartenenti alle Brigate rosse che si trovavano a transitare su un viale cittadino e che in qualche modo richiamarono l’attenzione del personale di una pattuglia della DIGOS in servizio. Vi fu un blocco per la strada, fu immediatamente ispezionato quanto era nell’auto, furono controllati i quattro occupanti che si rivelarono per quelli che sarebbero poi stati canonizzati, con sentenze ormai irrevocabili da quasi venti anni, come quattro brigatisti. I nomi mi pare che più volte siano emersi anche nei lavori della Commissione: Baschieri Paolo, Cianci Dante, Barbi Giampaolo e Bombaci Stefano Salvatore, più esattamente i primi tre pisani e, il quarto, un giovane di origini siciliane, di Lentini, nella provincia di Siracusa, studente fuori sede a Firenze.

PRESIDENTE. Il quale, se non ricordo male, era l’unico di origine non borghese.

CHELAZZI. È così, Presidente. Sul conto di Cianci Dante, ricordo che era di famiglia pugliese e posso dire che era un ferroviere; viceversa Barbi Giampaolo era un architetto che esercitava la professione, mentre Baschieri Paolo era uno studente universitario di una famiglia della buona borghesia pisana, il cui padre era un illustre clinico nel più importante ospedale di Pisa.

Questa data dunque rappresenta lo spartiacque perché non molti giorni prima – sono sicuro che il Presidente e lor signori mi crederanno, ma è esattamente quanto sta nel mio ricordo, a prescindere da quanto poi le carte, quelle poche che ho controllato, convalidino più o meno con esattezza - del 19 dicembre 1978 incontrai casualmente, nel corridoio della procura, un maresciallo dei carabinieri, Giorgio Saracini, che oggi è in pensione con il grado di maggiore, perché è passato da sottufficiale a ufficiale. Si tratta di un maresciallo che io sapevo effettivo alla Sezione anticrimine di Firenze, che si occupava di eversione, in sostanza una delle tante articolazioni delle strutture del generale Dalla Chiesa e lo sapevo in quanto già da alcuni mesi (credo che il collega, dottor Baglione, abbia sulle date in qualche punto ricordato inesattamente) mi trovavo a Firenze, cioè dal 14 febbraio 1978.

PRESIDENTE. Il dottor Baglione ci ha poi scritto una lettera per dirci che era stato impreciso.

CHELAZZI. Non è stato impreciso sul giorno nel quale sono arrivato alla procura di Firenze: non è stato propriamente esatto sulla data, o per lo meno sulle vicende a partire dalle quali ho cominciato ad occuparmi di terrorismo a Firenze.

Giusto per dare un riferimento concreto: il 3 maggio del 1978, a Firenze, si verificò una irruzione in una agenzia immobiliare che fu firmata con la sigla Prima linea e Formazioni comuniste combattenti; di quella irruzione ci siamo occupati insieme il dottor Baglione e io, abbiamo anche firmato i provvedimenti insieme: di perquisizione, di arresto provvisorio per falsa testimonianza ed anche l’ordine di cattura che fu spiccato nei confronti di una ragazza, a distanza di anni arrestata, giudicata e condannata anche per questo fatto e come appartenente a Prima linea, provvedimento di cattura del 16 maggio 1978. Questo per dire che l’avvio della mia attività in tema di indagini sull’eversione parte un po’ più da lontano rispetto alla data del 19 dicembre 1978. E siccome l’indagine su questa irruzione veniva condotta congiuntamente dalla DIGOS e dalla Sezione anticrimine dei carabinieri, fatto quasi più unico che raro, e come al solito in qualche misura anche dannoso alle indagini, sta di fatto che a partire da questa data, cominciando a lavorare con la Sezione anticrimine, io inquadrai la figura del maresciallo Giorgio Saracini, che per altro conoscevo già dal 1975 quando facevo l'uditore a Firenze. Non vorrei far perdere tempo alla Commissione con questa reminiscenze poco significative, però il fatto di incontrare il maresciallo Saracini nei corridoi della procura alcuni giorni prima del 19 dicembre del 1978 ha una sua precisa ragion d’essere in quanto lo interpellai sulla ragione per cui si trovava in procura (probabilmente glielo avrò detto anche scherzosamente) uno che doveva essere in giro a cercare terroristi o eversori che fossero, piuttosto che perder tempo nei corridoi della procura. Il maresciallo Saracini mi disse che si accingeva a depositare un borsello all’Ufficio corpi di reato. Dalla prima nacque la seconda battuta di spirito: meno male che la Sezione anticrimine si occupa di oggetti smarriti. Il maresciallo Saracini non raccolse la provocazione amichevole e scherzosa e mi fece solamente capire che quel borsello era qualche cosa di molto delicato, sul conto del quale, quindi, non mi faceva nessuna confidenza, nemmeno quella più innocente. Capii che la questione doveva avere una sua delicatezza, non posi altre domande. Se non che, a distanza di pochissimi giorni dall’arresto dei quattro brigatisti di cui si diceva (arresto che fu accompagnato dall’individuazione di un appartamento che era nella disponibilità di uno dei quattro e per disponibilità intendo disponibilità personale diretta, con tanto di contratto preliminare di acquisto, firmato all’inizio dell’anno, cioè nel mese di gennaio del 1978), poiché fu data notizia dalla stampa non solo dell’arresto dei quattro brigatisti, non solo del fatto che erano armati, ma anche del fatto che nella disponibilità di uno dei quattro si trovava anche un appartamento che era stato individuato, perquisito e quant’altro, il maresciallo Saracini, venne questa volta deliberatamente, a cercarmi per chiedermi se fosse possibile riaprire il corpo del reato nel quale era stato versato il fatidico borsello, suscitando a questo punto delle domande molto più giustificate anche da parte mia: che c’entra questo borsello con questo appartamento che è nella disponibilità di un brigatista? Io non ero il titolare del procedimento relativo al borsello, non lo sono mai stato, non ho mai letto gli atti di questo procedimento, non ho mai visto nemmeno il contenuto del borsello; dubito di aver mai saputo che dentro ci fosse una pistola; ricordo perfettamente però che il maresciallo Saracini mi spiegò – perché io gliene feci espressa domanda – che la ragione dell’interessamento ad ottenere la disponibilità del borsello, o meglio di un mazzo di chiavi che stava dentro il borsello, si legava all’intenzione di verificare se quel mazzo di chiavi apriva la porta dell’appartamento che era stato individuato nella disponibilità di un brigatista. Al che io dissi al maresciallo Saracini che la cosa mi sembrava ragionevole, ma soprattutto chiesi qualche cosa di più; chiesi: "questo borsello come nasce?". Il maresciallo Saracini mi disse che era stato ritrovato su un autobus, in estate; si trattava di un borsello che era stato smarrito; che su questo borsello avevano lavorato l’Arma di Firenze e l’Arma di Milano; che elaborando certi documenti del borsello avevano individuato il detentore nella persona di Azzolini, che sapevo era stato arrestato il 1° ottobre in via Monte Nevoso; e che, elaborando altri documenti (può anche darsi che fin dall’inizio mi abbia parlato del certificato di conformità di un ciclomotore, può darsi ma non ne sono convinto), elaborando altro materiale del borsello (i documenti e il mazzo di chiavi) erano riusciti ad individuare l’appartamento di via Monte Nevoso nel quale meno di due mesi prima avevano compiuto la nota operazione. Questa, non la voglio chiamare confidenza, perché non è una confidenza, è una informativa orale; quella che mi fece il maresciallo Saracini mi mise in una situazione che tutto sommato mi tranquillizzava sotto tre profili. Intanto ho capito che l’iniziativa volta a recuperare le chiavi per effettuare questo esperimento, per vedere se si apre questa porta, fa parte di un discorso che ha già un suo coefficiente di Brigate rosse, non è un’iniziativa estemporanea della quale non so il punto di partenza. Secondo: se colui che ha perso il borsello mi si dice che è un brigatista, ma è anche Azzolini che è stato arrestato, sul momento, salvo vedere l’esito dell’accertamento che si voglia fare, per la nostra indagine fiorentina a carico dei quattro arrestati il discorso poco cambiava, sul momento almeno. Ripeto, salvo vedere l’esito che avesse avuto l’accertamento, anche se non ci sarebbe stato niente di strano, nessun valore aggiunto, nel fatto di scoprire che quattro brigatisti si erano incontrati con un brigatista. Se dei quattro uno almeno disponeva dell’appartamento, e per avventura quelle chiavi di Azzolini avessero aperto quell’appartamento, si sarebbe stabilito, nell’ipotesi, che uno dei quattro brigatisti si era anche visto o incontrato con Azzolini: non cambiava poi molto.

PRESIDENTE. Non ho capito bene: le chiavi trovate nel borsello dovevano essere utilizzate sull’appartamento di Milano?

CHELAZZI. No, di Firenze, quello di via Barbieri, quello che era stato acquistato su compromesso da Barbi Giampaolo, brigatista: lo posso dire, perché è condannato con sentenza irrevocabile come appartenente alle Brigate rosse. Dissi al maresciallo Saracini che, non essendo io il titolare del procedimento relativo al borsello, doveva rivolgersi al magistrato titolare di questo fascicolo. Sul momento io non credo che sapessi che il titolare del procedimento era il collega dottor Baglione, che per l’appunto lavorava da alcuni giorni insieme a me; o meglio: collaboravo con lui, a seconda che piaccia più questa seconda prospettiva, per l’appunto nel processo a carico dei quattro brigatisti. Con ogni probabilità l’ho saputo subito dopo che della questione si occupava proprio il dottor Baglione e, anticipando una domanda che, capisco, sarebbe più che giustificata – mi permetto almeno di anticiparla -, dico subito che non informai il dottor Baglione di quello che mi aveva detto il maresciallo Saracini. Non l’ho informato con piena cognizione di causa, in quanto il maresciallo Saracini, oltre che a spiegarmi che dal borsello si era arrivati a via Monte Nevoso e tutto il resto, mi disse che le ragioni per le quali la prima volta che mi aveva accennato al borsello non mi aveva detto assolutamente niente erano le stesse per le quali oggi me ne accennava…

PRESIDENTE. Sto cominciando a non capire: tutto questo quando avviene?

CHELAZZI. Pochissimi giorni dopo l’arresto dei quattro brigatisti, che avviene il 19 dicembre 1978, quindi il 20, il 21, il 22… immediatamente a valle dell’arresto dei quattro brigatisti e della scoperta di questo appartamento

PRESIDENTE. Qualche certezza che ho raggiunto comincia ad incrinarsi. Ma queste chiavi non sono state utilizzate pure per vedere se aprivano a via Monte Nevoso oppure no?

CHELAZZI. Questo è quello che mi è sempre stato detto e non ho motivo di dubitare; ma siccome pare che in quel borsello di chiavi ce ne fossero diverse, e non una sola, io trovai perfettamente legittimo che trattandosi di un significativo mazzo di chiavi i carabinieri volessero vedere se con qualcuna di quelle chiavi si apriva anche l’appartamento fiorentino.

PRESIDENTE. E questo accertamento che esiti diede?

CHELAZZI. Sul risultato di questo accertamento io fui aggiornato a distanza di qualche settimana, non subito. Chiesi al maresciallo Saracini: "Che fine ha fatto l’accertamento col mazzo di chiavi? Si apre o non si apre via Barbieri?". Risposta: "Non si apre via Barbieri". A questo punto le ipotesi alle quali si poteva collegare l’utilità di sapere ufficialmente che l’appartamento poteva essere stato frequentato anche da Azzolini cadeva nel suo presupposto. Infatti i brigatisti arrestati nel frattempo niente dicevano sulle loro frequentazioni…

BIELLI. Perché non l’ha fatto presente al dottor Baglione?

CHELAZZI. E’ quello che mi accingevo a spiegare, poi ho continuato a rispondere alla domanda del Presidente. Il maresciallo Saracini mi aveva spiegato che: la stessa ragione per la quale era stato più che laconico, la prima volta in cui sapevo che andava a depositare un borsello, militava per la estrema cautela con la quale mi raccontava di via Monte Nevoso, di Azzolini, del ritrovamento estivo del borsello e quant’altro. In sostanza – di questo sono certissimo – mi disse che le indagini erano state fatte con estrema cautela, che si trattava di preservare da rischi per l’incolumità persone che avevano aiutato ad elaborare investigativamente il materiale contenuto nel borsello e che la decisione su questo punto del se e del come ufficializzare, sul momento o nell’avvenire, la relazione che esisteva tra il borsello, Azzolini, il mazzo di chiavi e via Monte Nevoso, ebbene questa decisione era stata rivendicata dall’Arma di Milano e dall’autorità giudiziaria di Milano. E’ un discorso che a me sostanzialmente sembrava corretto all’epoca e continua a sembrarmi corretto oggi.

Rispondo alla sua domanda, onorevole, sul perché non ho avvisato il dottor Baglione. Non l’ho avvisato perché, se si trattava di notizie molto riservate, o semisegrete che fossero (quelle che il maresciallo Saracini mi trasferiva in questa informazione, solo verbale ovviamente), dipendeva dal maresciallo Saracini e dai suoi superiori stabilire se e cosa far sapere al magistrato titolare del procedimento del borsello. Infatti, io ne ero venuto a conoscenza, diciamolo pure, non occasionalmente, ma perché non avevo trattenuto una certa curiosità.

BIELLI. Si vietano le informazioni al titolare dell’inchiesta.

CHELAZZI. Non lo chieda a me, onorevole. Io ho pensato che non fosse mio compito sostituirmi ai carabinieri nella gestione delle notizie, che avevano, presso il magistrato davanti al quale dovevano comunque presentarsi con qualche argomento per farsi aprire il corpo del reato ed estrarre un mazzo di chiavi, se questo era tanto interessante.

BIELLI. Quando è arrivata questa richiesta di estrarre il mazzo di chiavi?

CHELAZZI. Io ho potuto ricostruire le date e ho visto che la mia memoria non è sbagliata perché i carabinieri redigono un rapporto in data 29 novembre 1978 e depositano rapporto e corpo del reato il 13 dicembre 1978. Ho anche verificato che, per dirla con un termine tecnico, la verifica del corpo del reato con l’intervento del magistrato, che non ero io, è stata fatta il 23 dicembre 1978. E il verbale di apertura dà atto che vengono estratte dieci chiavi (non c’è scritto se costituiscono un mazzo solo o sono sfuse) e un certo numero di documenti che ho ragione di ritenere, anche perché in questi termini si è espresso il dottor Baglione, siano arrivati al suo fascicolo, mentre le chiavi sono state prese in consegna – ho ragione di ritenere – dai carabinieri; e cercherò di spiegare questa affermazione.

Ho notato che il dottor Baglione ha fatto presente che non ci sarebbe traccia nei registri della Procura della Repubblica di Firenze del rapporto iniziale, quello con il quale i carabinieri in primissima battuta - nell’estate per intendersi - danno atto che è stato ritrovato un borsello, con quello che segue. In questo senso, è sicuramente il ricordo del dottor Baglione che è corretto. Vedo che ha riferito alla Commissione che nel fascicolo questo rapporto iniziale non solo non esiste, ma non ce n’è nemmeno traccia. Ho fatto una ricerca, che non mi è costata più di tanto, e ho verificato che, viceversa, questo rapporto c’è, è stato depositato l’8 agosto 1978 ed ha un numero preciso, che è il n. 28456 del 1978.

PRESIDENTE. Questo è il rapporto sul ritrovamento del borsello?

CHELAZZI. Sì. E’ un rapporto depositato presso il registro generale della Procura della Repubblica, datato 8 agosto 1978. Nel registro generale si trova la seguente dicitura: "Guidi Silvano. Rinvenimento 765. Firenze 28.7.1978". Questo rapporto è stato preso in carico nel registro B della Procura della Repubblica sotto il numero 28456 del 1978. "B" vuol dire a carico di ignoti.

Perché due procedimenti per lo stesso fatto? Non so cosa accade in altri uffici ma alla Procura della Repubblica di Firenze, finché non è cambiato il codice, è sempre stato così: le tantissime denunzie a carico di ignoti, nate per morire a carico di ignoti, prime fra tutte quelle per furto, venivano fascicolate, con la sola denuncia del privato o con il rapporto, in tante cartelline gialle; ne venivano immagazzinate svariate decine al giorno; queste, periodicamente, a 100, 150, 300 per volta, venivano passate al magistrato di turno o a quello che aveva mezz’ora di tempo da buttare via, il quale siglava la richiesta di sentenza di non doversi procedere per essere rimasti ignoti gli autori del reato.

Quando è stato depositato il rapporto datato 29 novembre – questa è una mia supposizione – forse perché i dati storici del rinvenimento erano tutti lì, non si è andati a ricercare se esisteva un precedente con le stesse coordinate, vale a dire "Guidi Silvano", che mi pare sia il nome dell’autista dell’autobus o del passeggero che ha segnalato all’autista dell’autobus il rinvenimento del borsello. Sono pressoché certo che l’iscrizione di quel rapporto sotto quel numero, che risale appunto all’agosto 1978, con quella dicitura - ripeto - sia esattamente il precedente che poi non è stato riassunto nel fascicolo del quale si è occupato il dottor Baglione e che, invece, ha un numero diverso: il n. 1195 del 29 novembre è il numero del rapporto dei carabinieri depositato il giorno 13.

Quindi, a cavallo della data del 19 dicembre vengo a sapere in due battute la vicenda di un borsello ritrovato nell’estate, con quel che ne segue. Non vorrei ripetermi per non far perdere tempo alla Commissione.

Successivamente (più che nei mesi successivi, dopo uno o due anni) non sono più tornato di mia iniziativa su tale vicenda con i carabinieri della sezione anticrimine o quello che erano diventati nel tempo; però a distanza di tempo ho avuto in via discorsiva altri particolari. Ne ricordo uno per il quale i carabinieri di Firenze erano anche un po’ vanitosi; si trattava di un episodio in cui si coniugava una certa quale abilità – che io riconosco – con l’accettazione del rischio dell’andare a provare le chiavi, il portone prima e la porta poi, dell’appartamento di via Monte Nevoso.

Lo stato delle mie conoscenze è questo ed è questo che mi ha legittimato, quando il dottor Spataro mi ha chiesto se ero stato messo al corrente a suo tempo e se la Commissione mi voleva sentire sul punto, a rispondergli che qualcosa ne sapevo anch’io, ne sapevo fin dall’epoca e quindi poteva tranquillamente fare il mio nome. So che il dottor Spataro ha detto delle cose diverse da quelle che io oggi riferisco, come se fossi stato al corrente di questa storia fin dall’inizio.

Mi si perdoni se lo dico: è abitudine – buona o cattiva che sia – tra pubblici ministeri - ma direi tra magistrati - avere una certa diffidenza per le dichiarazioni che si sanno concordate o che chiamano il sospetto di essere concordate. Con il dottor Spataro al di là di quel "ti ricordi?", "sì me lo ricordo", "puoi dire che questa storia in qualche modo la sapevi?" non siamo andati. Non mi ha mai chiesto quando l’ho saputo, se d’estate piuttosto che d’inverno; gli ho semplicemente confermato che avevo conosciuto la vicenda all’epoca nella quale sostanzialmente essa si era concretizzata.

PRESIDENTE. Quanto ci ha detto il dottor Chelazzi conferma una ricostruzione del ritrovamento di via Monte Nevoso che già avevamo sufficientemente presente. Lei aggiunge che effettivamente le erano state date delle informazioni, delle informative orali, sul fatto che quel borsello era stato utilizzato a Milano per individuare in Azzolini il suo possessore e che, però, di questo il dottor Baglione non era informato. Pertanto, non avendo questa certezza, egli ha finito per archiviare contro ignoti quel procedimento penale e ciò ha portato l’unico pregiudizio della mancata indagine accurata sull’arma da guerra e sulle sue origini. Ritengo che questo, almeno per ora, possa essere un punto di arrivo negli accertamenti della Commissione.

Quali altri esiti, invece, hanno avuto le indagini sull’appartamento fiorentino? Questo aspetto ci interessa perché c’è un contrasto tra Azzolini, Moretti e Morucci sulla storia dei cinquantacinque giorni del sequestro Moro. Moretti, nel libro-intervista a Mosca e Rossanda (e non saprei dire adesso, a memoria, se anche in sede giudiziaria), dice che nella prima parte dei 55 giorni il comitato esecutivo delle Brigate rosse (quindi Moretti, Azzolini, Bonisoli e Micaletto) si riuniva a Firenze. Morucci ce lo ha confermato. Moretti, sempre nell’intervista a Mosca e Rossanda, descrive più o meno anche il luogo: una casa alla periferia di Firenze. Aggiunge che era stata scelta Firenze perché poteva essere raggiunta con facilità sia dai rappresentanti delle colonne del Nord, sia dai rappresentanti della colonna romana. Invece Azzolini, anche in un’intervista rilasciata recentemente a seguito delle indagini della Commissione, ha detto che non è vero, che si riunivano a Rapallo dove, invece, secondo Moretti il comitato esecutivo si comincia a riunire in una seconda parte del sequestro. C’è quindi contrasto su un dato che in realtà sembrerebbe insignificante: perché Moretti deve dire che si riunivano a Firenze se invece non era vero? E perché, se invece fosse vero, Azzolini deve negare questo particolare? E’ un interrogativo al quale vorremmo cercare di dare risposta.

Il secondo punto che ci interessa riguarda le carte di Moro. Morucci ci ha detto: "Fatevi dire da Moretti chi era il proprietario della casa dove si riuniva il comitato esecutivo delle Brigate rosse". E poi ci ha detto: "Fatevi dire pure chi era l’irregolare delle Brigate rosse che a Firenze batteva le carte Moro". Quindi, sembrerebbe averci detto che il nome del proprietario della casa potrebbe essere importante per una ricostruzione più completa o della vicenda Moro o della storia delle Brigate rosse. Ci avrebbe pure segnalato che la dattiloscrittura del memoriale Moro sarebbe avvenuta a Firenze.

Azzolini nega tutto questo. Tutto questo si collega al problema dello svolgimento del "processo" a Moro. Maccari ci ha detto che il "processo" avveniva in forma orale, con Moretti che poneva domande a Moro e Moro che rispondeva verbalmente; le risposte di Moro venivano registrate su un magnetofono; nella stessa via Montalcini, la Braghetti e Maccari si dedicarono ad una difficile e complicata opera di dattiloscrittura delle cassette; che questo lavoro era molto difficile, per cui – ci ha detto Maccari – da un certo momento in poi Moretti veniva a via Montalcini con domande predisposte a cui Moro rispondeva per iscritto. Potrebbe essere questa l’origine del memoriale: l’analisi testuale del memoriale, infatti, dà proprio l’impressione che Moro rispondeva ad una serie di domande. Tanto è vero che l’analisi ha pure ricostruito che tipo di domande potevano essere quelle che gli venivano poste.

Certo è che le cassette e la prima iniziale dattiloscrittura fatta da Maccari e Braghetti, secondo Maccari furono portate via da Moretti da via Montalcini e non si sono più ritrovate; che del memoriale Moro, la fotocopia dietro il tramezzo e in parte un testo dattiloscritto, si sono ritrovati a via Monte Nevoso.

Il dottor Spataro ci ha detto: "Noi non demmo molta importanza a questo ritrovamento delle carte; anche perché da altre fonti – Mantovani e compagnia – ci è poi risultato che in realtà queste carte avevano circolato per li rami dell’organizzazione clandestina; così come Moretti aveva detto nel comunicato n. 4 che avevano cambiato idea, non le avrebbero pubblicate, però le avrebbero diffuse nell’organizzazione clandestina. Da una serie di fonti sappiamo addirittura che le Brigate rosse le stavano studiando perché poi dovevano fare una valutazione politica dell’intera vicenda e della gestione del sequestro.

Il punto è non solo che gli originali non si sono mai trovati, ma - stando a quello che ci risulta – in nessun covo delle Brigate rosse è stata trovata anche solo una pagina del dattiloscritto o una sola fotocopia del manoscritto originario.

Tutto questo, allora, in qualche modo forse ci riporta a Firenze. Ecco perché la Commissione è interessata a investigare sui possibili luoghi fiorentini in cui può essersi riunito il comitato delle Brigate rosse o in cui Moretti ha potuto incontrare qualcun altro.

Naturalmente, su questo la fantasia si è sbizzarrita: si è pensato a personaggi strani, a musicisti che avevano rapporti con Firenze eccetera. Certo è che questa è una zona di opacità in cui tutto sommato potrebbe essere importante fare luce.

CHELAZZI. Signor Presidente, ho seguito attentamente le domande. Vorrei fare una premessa.

PRESIDENTE. Lei è un magistrato che ha indagato sulle BR lato toscano, la sua esperienza può essere importante.

CHELAZZI. Sì. Ci terrei a dirlo alla Commissione, agli onorevoli che mi ascoltano: forse non avrei nemmeno fatto richiesta di essere sentito dalla Commissione, se non fossi stato in grado di andare anche al di là dell’episodio abbastanza banale – nel senso che è circoscritto, per quanto mi riguarda – del borsello.

Ovviamente non ho da ostentare nessun curriculum professionale. Ho cominciato ad occuparmi delle Brigate rosse quando ero a Milano, nel 1977, e ho finito di occuparmi di Brigate rosse nel 1992, davanti alla corte d’assise di Firenze per l’omicidio - attentato per finalità di eversione e di terrorismo - di Lando Conti, ex sindaco di Firenze. Si tratta di sedici anni di Brigate rosse, credo, dal 1976 al 1992.

Debbo anche dire – non è certo un appunto per la Commissione – che il processo Conti si è concluso e certe persone non sono state solo accusate, come mi pare di aver letto, sono state anche condannate.

PRESIDENTE. Non c’è dubbio.

CHELAZZI. E sono state condannate – mi si perdoni, non voglio fare polemica, ci mancherebbe altro: ho troppo rispetto per loro – senza un collaboratore, senza un chiamante in correità. Sono state condannate sulla base di una investigazione pura.

PRESIDENTE. Dottor Chelazzi, proprio perché non c’è ragione di polemica - può darsi che quella relazione che abbiamo approvato sul caso D’Antona rechi parole che possono tradire attenzione -, ricordo che abbiamo segnalato che quella è una parte delle Brigate rosse dove l’area dell’irriducibilità è fittissima. Quindi, che non vi siano stati collaboratori è una cosa che davamo per scontata. Il dubbio che ci veniva è se li avete presi tutti.

CHELAZZI. Chi vi parla – lo dico con una punta di immodestia, ma è oggettivo, me ne rendo conto – ha portato davanti alla corte d’assise quattro persone con l’accusa del delitto di cui all’articolo 280 e quelle quattro persone sono state condannate all’ergastolo; si tratta dell’omicidio Conti, che è del 10 febbraio 1986. Cinque sono i processi delle Brigate rosse fatti a Firenze: chi vi parla – vi chiedo nuovamente scusa – li ha fatti tutti, ha fatto tutti i dibattimenti, dal primo all’ultimo, e anche tutte le istruttorie, dalla prima all'ultima.

Lo debbo dire perché, almeno per quello che è stata l’attività giudiziaria, di contrasto del fenomeno eversivo in Toscana, credo di poter rispondere alla Commissione assumendomi le responsabilità, per le manchevolezze quando ci sono state (anche per chi ha lavorato con me), ma forse anche, non dico riconoscimenti o meriti…

PRESIDENTE. Diciamo qualche merito, via!

CHELAZZI. …ma qualcosa che gli assomiglia. Presidente, non me ne vorrà allora se alla fine le chiederò di farmi fare delle puntualizzazioni: sulla vicenda di Giuseppe Ippoliti, detto "Beppe molotov" e sulla vicenda di Elfino Mortati; e poi ancora sulla vicenda del famoso appuntino che reca un elenco di istituti di credito svizzeri. Sono tre punti sui quali francamente credo di poter fare qualche puntualizzazione. Può essere utile alla Commissione? Può essere che non lo sia? Comunque…riprendiamo dunque l’argomento.

PRESIDENTE. Riprendiamo dai covi. Anzitutto una domanda. Sia Moretti (nel libro) sia Morucci (alla Commissione) ci dicono che l’appartamento era stato messo a disposizione dell’esecutivo delle BR dal comitato toscano. I componenti del comitato toscano sono stati individuati?

CHELAZZI. Sono certo di sì; nel senso che, tra l’istruttoria fatta a partire dal 19 dicembre 1978 e quella fatta a partire dal gennaio 1982, avendo portato davanti alla corte d’assise in tutto 33-34 persone (e Firenze non è Milano), sono certo che si sia riusciti a identificare tutti i brigatisti che facevano parte della struttura pre 1978 e post 1978.

La linea di demarcazione è la data del 19 dicembre 1978. Con quali obiettivi? Loro sicuramente conoscono i particolari di alcune operazioni di arresto. Ricorderete i fratelli Paolo e Bianca Amelia Sivieri, veneti di nascita e pisani di adozione . Quando vi fu l’individuazione delle due basi milanesi erano in clandestinità. Come brigatisti sono stati giudicati dall’autorità giudiziaria di Milano non solo per i fatti di via Monte Nevoso ma anche per un episodio specifico, anche se è risultato che avevano fatto parte della struttura del comitato rivoluzionario e avevano fatto il salto di qualità, passando da irregolari di comitato a regolari di colonna. Non furono individuati da parte dell’autorità giudiziaria di Firenze. Un’altra persona, che non so se siamo mai riusciti ad identificare, è colui che effettuò determinate visure al registro automobilistico di Firenze dal giugno fino al dicembre 1978, visure che avevano una precisa ragione, fatte di concerto con Bombaci. In altri termini: accertammo che Bombaci aveva fatto determinate visure e, siccome doveva firmare una certa richiesta, utilizzava il suo nome storpiandolo (ad esempio in Cormaci). Queste visure di Bombaci marciavano parallele a quelle che faceva un’altra persona che si firmava Franceschi Roberto, evidentemente un nome falso. Non ho mai saputo se dietro questo Franceschi Roberto si nascondesse qualcun altro arrestato il 19 dicembre o qualcuno arrestato nella seconda parte investigativa iniziata nel gennaio 1992 con la confessione di Ciucci. Ciucci era quel ferroviere pisano, collega di Cianci, individuato a Padova insieme al generale Dozier: era cioè uno dei suoi carcerieri. Collaborò e ci aiutò a fare la storia del comitato da quando era entrato a farne parte circa alla fine del 1977, fino a quando a sua volta era entrato in clandestinità nella struttura di colonna delle BR.

PRESIDENTE. Nell’aprile 1978 di quali covi era in possesso il comitato?

CHELAZZI. Ho citato Ciucci perché è stata una fonte importante sotto questo profilo. In altri termini: un primo appartamento è stato acquistato, secondo un preliminare di compravendita, da Barbi Gianpaolo e dalla moglie. Questo fatto gettò una luce di ambiguità perché suonò strano l’acquisto di un appartamento da parte di un brigatista non in nome proprio ma insieme alla moglie.

PRESIDENTE. Sarebbe l’architetto?

CHELAZZI. Sì. Nel corso dell’istruttoria fu fatta una richiesta di restituzione da parte della moglie. L’appartamento al momento della perquisizione risultò vuoto, c’era solo un biglietto con scritto: "ricordati di togliere il gas".

PRESIDENTE. Quando fu trovato il covo?

CHELAZZI. Si entrò nel covo poche ore dopo l’arresto dei quattro brigatisti, avvenuto a mezzogiorno circa. Il verbale di perquisizione dei funzionari della DIGOS (perquisizione fatta in base all’articolo 41 delle leggi di pubblica sicurezza) è delle ore 17. Cioè, dal momento dell’arresto al momento della perquisizione passa poco tempo. Non ci fu diffusione di notizie circa l’arresto, si può ipotizzare che qualcuno stesse aspettando queste quattro persone, però è strano che, non vedendoli arrivare, si sia arrivati al punto di svuotare l’appartamento. In pratica, l’appartamento è stato sicuramente reso "freddo" con anticipo rispetto al 19 dicembre. Questo appartamento si trovava in una zona periferica della città: per chi è pratico di Firenze, si trovava dietro l’ospedale di Careggi, in direzione Rifredi e Sesto Fiorentino.

PRESIDENTE. Era facilmente accessibile rispetto alle linee di accesso della città?

CHELAZZI. Sì era facilmente raggiungibile. Firenze ha quattro ingressi dall’autostrada e l’appartamento era vicino all’ingresso di Firenze Nord, dalla parte di Prato Calenzano.

PRESIDENTE. Risponderebbe alla descrizione di Moretti.

CHELAZZI. A me pare di sì.

Devo dire che mi sono occupato di BR, ma mai del sequestro Moro, come non se ne è mai occupato l’allora Procuratore di Firenze, attualmente Procuratore nazionale antimafia, perché la procura di Firenze non aveva titolo per investigare sul sequestro Moro; potevamo investigare sui nostri brigatisti, appartamenti, armi, attentati, fiancheggiatori, ma non potevamo impostare un accertamento che si coniugasse a qualche fase del sequestro Moro.

PRESIDENTE. Nell’aprile 1978, in base agli accertamenti che avete fatto, in Toscana vi era la disponibilità di altri covi oltre questi?

CHELAZZI. No. Il brigatista Giovanni Ciucci, che collaborò dalla fine di gennaio del 1982, segnalò questa situazione: avendo egli fatto ingresso nelle BR alla fine del 77 nel comitato di rivoluzione Toscano, per essere stato cooptato da Cianci e da Baschieri, fu incaricato circa a metà del mese di maggio ‘78 di affittare un appartamento. Concluse questa operazione affittando un appartamento nella zona sud di Firenze, in viale Unione Sovietica. Mi riferisco a fatti che hanno riscontri negli atti dei processi e disponiamo anche dei contratti di affitto. Nel caso dell’acquisto fatto da Barbi il contratto fu addirittura registrato.

L’affitto stipulato da Ciucci porta la data del 15 maggio 1978. Si trattava di un affitto annuale perché così era stato chiesto a Ciucci. Nei mesi immediatamente successivi Ciucci non fu il solo ad avere occasione di frequentare l’appartamento, nel quale si installarono Moretti e la Balzarani che ricevono non solo le visite più o meno periodiche di Ciucci, ma anche quelle di un’altra ragazza che fa parte del comitato, che ha confermato questa storia perché è una di coloro che ha collaborato.

PRESIDENTE. Il comitato dunque non è la struttura di vertice ma l’intera organizzazione degli irregolari.

CHELAZZI. Di coloro che aspirano a diventare regolari: aspira a diventare colonna.

PRESIDENTE. Sono tutte persone che non hanno fatto la scelta della clandestinità.

CHELAZZI. Secondo i periodi, erano sotto tutela, alternativamente, della colonna genovese o di quella romana. All'epoca in cui viene concluso l'acquisto dell'appartamento di via Barbieri, quello dell'architetto, per intenderci, la tutela è affidata alla colonna genovese, tanto che Riccardo Dura consegnerà i soldi a Baschieri, e sono soldi provenienti dal sequestro Costa. Questo per il racconto che in un momento successivo farà Ciucci in maniera grossolana e Savasta in maniera più raffinata.

PRESIDENTE. Dura, quindi, dà i soldi a Baschieri; Baschieri finanzia l'acquisto da parte di Barbi; Barbi acquista l'appartamento, che era l'unico del comitato nel mese di aprile 1978. Non per saltare subito alle conclusioni, cosa che rappresenta un pessimo metodo d'indagine, ma per formulare un'ipotesi: l'architetto Barbi potrebbe essere l'anfitrione di Firenze.

CHELAZZI. Ovvero: lui e gli altri che avevano l'accesso o la disponibilità dell'appartamento di via Barbieri.

PRESIDENTE. Morucci ci ha parlato di "padrone di casa".

CHELAZZI. Signor Presidente, su ciascun punto delle sue domande potrei fornirle risposte più ampie. Per esigenze di conoscenza della Commissione, posso citare le iniziali dichiarazioni di Barbi e di Bombaci, poiché gli altri due, all'epoca, erano i classici irriducibili, erano "prigionieri politici" fin dal momento dell'arresto e non aggiunsero niente. Barbi e Bombaci fecero alcune ammissioni. Barbi dichiarò che in quell'appartamento si erano svolte riunioni e incontri in cui si dibatteva l'«argomento BR» fra appartenenti alle BR. Il racconto di Bombaci fu più articolato. Disse che in quell'appartamento non solo ci si riuniva tra brigatisti a parlare di cose brigatiste ma anche che - anche se lui non lo aveva mai visto - doveva esserci stato un ciclostile, in quanto il comitato aveva bisogno di ciclostilare documenti per rivendicare le proprie azioni militari, che furono svariate. Dirò di più: il comitato sospese la propria attività militare a cavallo dell'operazione Moro.

PRESIDENTE. Questo è interessante.

CHELAZZI. Il comitato compie azioni criminose a partire dal 1977. Si tratta di azioni criminose minori. Di volta in volta, si fa saltare l'automobile di un dirigente di un ufficio politico delle questure (UIGOS o DIGOS), poi di un giornalista, poi di un altro giornalista, poi di un esponente politico. Gli ultimi due attentati sono del 1978 e sono rivolti a due professionisti impegnati nel settore carcerario, il professor Modigliani, responsabile del servizio sanitario nel carcere delle Murate, e l'architetto Inghirami, uno dei progettisti del carcere di Sollicciano. Il 15 e il 16 novembre 1978, quindi trenta giorni prima degli arresti, i due sono gratificati di attenzione da parte del comitato che fa saltare la macchina ad entrambi. Il comitato ha rivendicato tutte le sue azioni con volantini. Noto che, anche se queste azioni non avevano cadenza settimanale, nel periodo in cui è in atto il sequestro Moro, quindi da alcuni giorni prima del 16 marzo fino a pochi giorni dopo il 9 maggio, il comitato rivoluzionario toscano delle Brigate rosse non compie alcuna azione. Bombaci, nelle sue dichiarazioni iniziali, il 20 e poi il 28, rispondendo all'interrogatorio, afferma l'esistenza di un ciclostile che, per altro, dice di non aver mai visto personalmente. Poiché si trattava dell'unica base di cui disponevano e il comitato doveva stampare i suoi ciclostilati - tra l'altro in casa di Bombaci sono stati trovati novanta esemplari del documento di rivendicazione degli attentati ai due professionisti impegnati nel settore carcerario, oltre a molte matrici in bianco - Bombaci situò nell'appartamento di via Barbieri l'esistenza di un ciclostile. In qualche modo, non ci fece tornare i conti perché, se l'arresto era stato, così come era stato, improvviso e casuale e pressoché immediata era stata l'individuazione dell'appartamento, chi aveva potuto far sparire il ciclostile? Tutto questo voleva dire che il ciclostile c'era stato ma che qualcosa o qualcuno o qualche avvenimento, se era vera l'affermazione di Bombaci, aveva causato lo spostamento del ciclostile in un altro posto, per una qualsiasi ragione, quindi.

PRESIDENTE. Fino a quando Moretti e la Balzerani hanno abitato nel secondo covo?

CHELAZZI. Abitano nell'appartamento di viale Unione Sovietica fino ai primi giorni di ottobre del 1978. Quando questa circostanza ci fu rappresentata, da Ciucci in particolare, per noi non aveva uno specifico significato. Si poteva pensare che per una qualsiasi ragione Moretti e la Balzarani, che non dovevano certo chiedere autorizzazioni per decidere su come gestirsi durante la loro clandestinità, avessero deciso di abbandonare Firenze per andare altrove.

PRESIDENTE. Adesso colpisce la coincidenza con il blitz di via Monte Nevoso.

CHELAZZI. Con la rilettura postuma, anche io rilevo che esiste una coincidenza, in termini di date, tra la caduta delle basi milanesi e l'abbandono della base fiorentina.

PRESIDENTE. Che cosa avete trovato nel secondo covo?

CHELAZZI. Abbiamo individuato questo covo sulla base delle dichiarazioni di Ciucci, quando era stato restituito da tre anni al proprietario. Ciucci riceve immediatamente il mandato di andare a chiudere il contratto con il proprietario, con "mille scuse".

PRESIDENTE. Dopo che viene lasciato da Moretti e dalla Balzarani. E il terzo?

BIELLI. Lei ha parlato di altri frequentatori del covo.

CHELAZZI. Gli altri frequentatori del covo - che conosciamo e che sono codificati nelle sentenze - sono Baschieri, Fruzzetti Annunziata e Ciucci Giovanni. Fruzzetti e Ciucci sono dissociati e collaboratori di giustizia già nel 1982 mentre Baschieri, che non è mai stato dissociato o collaboratore, ha fatto la sua detenzione, molto lunga per la verità: conosciamo questi frequentatori dell'appartamento di viale Unione Sovietica.

Il terzo appartamento viene preso nuovamente in affitto da Ciucci, di nuovo su mandato di Baschieri. L'affitto si concretizza su un appartamento in via Pisana, in un'altra periferia fiorentina, con decorrenza non ricordo se 1° o 15 settembre 1978. Anche questo appartamento, così come il suo proprietario e il relativo contratto, è stato identificato a seguito della rappresentazione di Ciucci. Ci siamo trovati davanti ad una situazione singolare e all'epoca di difficile interpretazione. Se esisteva l'appartamento di via Barbieri, per quale ragione se ne aggiunge un secondo, quello di via Pisana? Perché quello di via Pisana, come ci raccontò Ciucci, viene smobilitato di gran carriera il 19 dicembre, anche se non è stato scoperto dalla polizia, mentre quello di via Barbieri viene smobilitato in epoca ancora precedente agli arresti? Se gli arresti hanno provocato la smobilitazione di via Pisana, cosa ha provocato la smobilitazione del covo di via Barbieri, visto che prima del 19 dicembre non c'erano stati arresti? Non so se sono stato chiaro. Se gli arresti del 19 dicembre provocano lo smantellamento del covo di via Pisana, che è attivo dagli inizi di settembre, siccome prima del 19 dicembre non ci sono arresti qual è il diverso avvenimento che ha provocato lo smantellamento del covo di via Barbieri, che noi ritroviamo vuoto lo stesso giorno?

PRESIDENTE. Provo a rispondere. E’ la ragione che aveva indotto il comitato esecutivo a non riunirsi più a Firenze bensì a Rapallo. Questa potrebbe essere una risposta, il problema è che non conosciamo la ragione.

CHELAZZI. Signor Presidente, il mio mestiere non è molto delineato. Io provo a tener conto di tutti i dati del problema: ma il giorno in cui cadono le basi milanesi Moretti e Balzerani abbandonano viale Unione Sovietica: non sarà che queste realtà stanno tutte insieme?

MANCA. Dovrebbe essere logico.

CHELAZZI. Perché dotarsi di un secondo appartamento in via Pisana quando esistevano ancora le basi di via Barbieri e di viale Unione Sovietica, dove si trovavano ancora Moretti e Balzerani? Perché dotarsi di questo terzo appartamento con decorrenza primo settembre?

Potrei ipotizzare che sia successo qualcosa che ha avuto una ricaduta complessiva: ha indotto a abbandonare via Barbieri, a prendere in affitto un nuovo appartamento in via Pisana, a mettere sul chi vive Moretti e Balzerani che, all’indomani della caduta delle basi milanesi, abbandonano precipitosamente viale Unione Sovietica.

PRESIDENTE. E’ una spiegazione logica.

Cosa ci dice di Ippoliti e dei conti svizzeri?

CHELAZZI. Se consente, signor Presidente, vorrei fare una piccola aggiunta a questo discorso.

Se si parte dall’assunto che ci sia del vero – e personalmente ritengo di sì, anche se non per intero, dato che qualcosa non torna – nell’intervista rilasciata da Azzolini il 21 marzo 2000, non è difficile, almeno per me, delineare un quadro di questo genere. Azzolini ha smarrito il borsello e sa esattamente che questo può portare in due direzioni.

Chiedo scusa se mi permetto questa riflessione di carattere personale, ma credo di avere più chiari alcuni concetti, oggi, per il lavoro che ha svolto la Commissione (non è per fare loro un complimento, sarei sciocco)…

PRESIDENTE. Di questo la ringraziamo, perché sembra che noi siamo qui per perdere tempo, per pestare l’acqua nel mortaio.

BIELLI. E’ quasi la prima volta che viene detto.

CHELAZZI. Sono stato stimolato a compiere delle riflessioni su un argomento che – ripeto – non è mai stato di competenza dell’autorità giudiziaria di Firenze, cioè la vicenda Moro. Sono stato stimolato in questo perché in qualche modo mi sentivo non dico chiamato in causa ma nella possibilità astratta, forse, di essere utile. Allora ho cercato di rileggere con attenzione nuova la vicenda e credo che le dichiarazioni di Azzolini, se corrispondono a verità, possano essere una chiave di lettura importante.

In altri termini, se è vero che Azzolini ha abbandonato un borsello casualmente su un certo autobus (ha detto che forse si trattava di un tram: non è vero ma "forse": gli assomiglia); se è vero che questo borsello sulla carta metteva a rischio le basi milanesi dell’organizzazione, poteva mettere a rischio anche qualche elemento fiorentino perché Azzolini a Firenze si riuniva con il comitato esecutivo. Noi sappiamo che di tale comitato faceva parte almeno un altro fiorentino, sia pure contingentemente, cioè Moretti, di modo che, nel caso che Azzolini pensasse di avere smarrito il borsello (come a ciascuno di noi può capitare), e soprattutto nell’eventualità che non si trattasse di uno smarrimento ma che qualcuno glielo avesse rubato, magari perché lo stava tenendo sotto controllo e sotto pedinamento (è una ipotesi che faccio, ma cerco di ragionare con la testa del brigatista dell’epoca), chi poteva escludere che seguendo Azzolini non si potesse individuare anche dove si trovava Moretti?

Allora: l’appartamento di via Barbieri è a rischio pressoché immediato: mi sono documentato, operazione che non ho fatto prima (qualche riservatezza il Presidente della Commissione me la consentirà, per una ragione che tra un attimo dirò, ma su qualcosa non posso essere riservato): il famoso autobus sul quale è stato ritrovato il borsello passava esattamente da via Barbieri. Secondo la mia ricostruzione, l’appartamento di via Barbieri diventava dunque immediatamente critico e c’era la necessità di smobilitarlo immediatamente; si incarica Ciucci di procurarne immediatamente un altro e, in capo a un mese, lui risolve il problema, perché da settembre è disponibile un nuovo appartamento a via Pisana. Nel frattempo, Moretti e Balzerani, avvertiti (come credo realmente siano stati), si mettono in allarme e, non appena apprendono la notizia della caduta del covo di via Monte Nevoso e di altri covi milanesi, non sapendo quante carte hanno i carabinieri fra le mani, dalla sera alla mattina abbandonano l’appartamento di viale Unione Sovietica.

MANCA. Questo ragionamento per Milano non vale. Azzolini si accorge di aver smarrito il borsello o che qualcuno glielo ha preso, da qui nasce una serie di allarmi che porta a cambiare i vari covi di Firenze per evitare la scoperta delle persone che li frequentavano. A Firenze vengono prese delle precauzioni, mentre queste non vengono adottate a Milano.

Azzolini frequentava anche Milano e per di più le chiavi nel borsello erano di un appartamento di quella città. Come mai, allora, fa scattare l’allarme a Firenze e non anche a Milano?

CHELAZZI. Direi che lo fa scattare anche a Milano se è vero che alcune precauzioni sono state adottate: fondamentalmente, quella di cambiare la serratura.

La mia valutazione può forse essere sbagliata o soggettiva, ma tenga conto che non è una cosa semplice smantellare una base. Osservando la consistenza della base di via Monte Nevoso e delle altre, si capisce che l’operazione di smantellamento non si poteva certo realizzare in 48 ore. Non avrei voluto trovarmi nella posizione dei brigatisti milanesi e sono convinto che se questo episodio fosse accaduto non in un periodo difficile come quello estivo sarebbe stata adottata qualche cautela in più, forse anche cambiare le basi.

PRESIDENTE. A questo forse si potrebbe aggiungere una sottovalutazione da parte di Azzolini della capacità dei carabinieri di risalire, da piccoli indizi che erano all’interno di un borsello perduto a Firenze, a lui che era un brigatista che stava a Milano. Probabilmente è questo che sottovaluta; mentre invece avendo smarrito il borsello a Firenze ritiene che tale città "bruci" di più perché lì c’era Moretti e il comitato militare e politico dell’intera organizzazione.

MANCA. Questa sottovalutazione non avrebbe portato a cambiare la serratura.

PRESIDENTE. Ci sono delle incongruenze. Comunque farei finire il dottor Chelazzi per poi porgli tutte le domande. Questa mi sembra una delle audizioni più interessanti che abbiamo fatto fino ad ora in Commissione.

CHELAZZI. Dicevo un attimo fa che a mio parere il discorso che sviluppa Azzolini nell’intervista è all’insegna della sincerità, salvo un punto. Se leggo bene, l’intendimento di Azzolini è di non passare oggi per l’infiltrato dell’epoca, o per il doppiogiochista o per lo spione, quello che si vuole. Siccome è difficile per chiunque essere creduto in verba magistri, Azzolini deve dare – come ha fatto, secondo me – quell’elemento in più, anzi, più di un elemento che consenta di predicare di autenticità la rivendicazione a sé dello smarrimento del borsello. Attraverso quali dati? Azzolini mette insieme questi elementi: l’autobus, l'appartamento, la riunione del comitato esecutivo e il fatto che l’appartamento era stato individuato dagli inquirenti. In tutte le dichiarazioni (libresche, durante gli interrogatori, davanti alla Commissione) nessuno aveva mai messo insieme tutti questi dettagli, perché è vero che Moretti aveva detto che l’appartamento era stato messo a disposizione dal comitato e che si trovava nella periferia fiorentina, però non aveva mai detto se si trattava di un appartamento individuato o no. Franceschini si muove in un’ottica di ancora maggiore genericità, perché dice semplicemente che era un appartamento messo a disposizione su Firenze.

PRESIDENTE. E Moruccci pure.

CHELAZZI. Non dicono nemmeno se era un appartamento nella disponibilità del comitato.

PRESIDENTE. Morucci ce lo ha detto.

CHELAZZI. Forse su questo punto ricordo male io. Invece Azzolini compie il vero salto di qualità perché non solo conferma che l’appartamento era nella disponibilità del comitato, ma dice che l’appartamento fu poi scoperto e che per andare o per tornare (questo ha poca importanza) da quell’appartamento dove si faceva la riunione prese un certo autobus dove smarrì il borsello. E l’autobus nel quale il borsello fu smarrito è appunto quello che passa in via Barbieri, che oltretutto è anche una strada corta, parallela di una strada molto trafficata, cioè via delle Panche, che porta dalla periferia fiorentina fino a Sesto Fiorentino, ma nel tragitto di ritorno passa per l’appunto da via Barbieri. Quindi mi pare che Azzolini abbia voluto dire: a sapere che tutte queste cose stanno assieme non può essere altro che colui che davvero è stato sull’autobus, che ha perso sul serio il borsello, che sapeva dove portava il borsello, che sapeva che quell’appartamento esisteva e sapeva che poi quell’appartamento è stato sequestrato; chi altri poteva azzardare al buio su quattro o cinque elementi come ha fatto Azzolini? Azzolini non ha azzardato, perché li conosce uno per uno, questi elementi, li ha integrati nella sua presa di posizione che mira a scrollarsi di dosso il sospetto di essere stato un infiltrato o uno spione; salvo che su un punto, a mio parere, sul punto cioè che era la prima volta che metteva piede a Firenze. Qui credo che la Commissione abbia come un coro che, armonico o meno, individua Firenze come il luogo dove il comitato esecutivo si è riunito almeno nei primi tempi del sequestro Moro. L’unica voce dissonante è quella di Azzolini, che però del comitato esecutivo faceva parte. Pertanto a mio parere si tratta di stabilire se su questo punto sono in quattro o cinque a dire la verità, a cominciare da Moretti, o se la dice solo Azzolini che butta fuori da Firenze il comitato esecutivo durante il sequestro Moro. La mia personale opinione è che dica la verità il coro e che stoni questa volta il solista.

MANCA. E perché?

CHELAZZI. Il solista a mio parere stona per la semplicissima ragione che non può salvare "capra e cavoli" e cioè da un lato accreditarsi per colui che non ha mai tradito le Brigate rosse e nello stesso tempo dare così tante informazioni da far capire che il comitato esecutivo si è riunito nello stesso appartamento nel quale lui si recava, o dal quale tornava, allorché montando su un autobus perse il borsello. Non volendo passare per un doppiogiochista dell’epoca io credo che dubiti di voler passare per un delatore oggi.

In definitiva, quello che non dice Moretti, a mio parere, nasce dall’esigenza di non essere delatore al di là dello stretto indispensabile per aiutare in qualche modo la ricostruzione storica di quegli avvenimenti. La motivazione di Azzolini credo sia sostanzialmente la stessa.

PRESIDENTE. Non credo che sia una mia fissazione, ma tutto quello che lei ci ha detto stasera porta a valorizzare ancora di più delle cose che noi avevamo sempre valorizzato. Leggo con precisione la frase di Morucci quando, parlando di Moretti, dice che potrebbe dire chi altri partecipava a quelle riunioni, dopo aver detto che le riunioni avvenivano in un appartamento di Firenze messo a disposizione dal comitato toscano, se c’era un anfitrione o no, chi era il padrone di casa, chi era l’irregolare che batteva a macchina i comunicati del comitato esecutivo, che poi erano distribuiti in tutta Italia, sul caso Moro: "Certo, ritengo siano cose che non cambiano radicalmente la questione ma penso che andrebbero dette". Quello che abbiamo ipotizzato questa sera sta tutto là dentro, sono tutte cose che non cambiano radicalmente la questione, ma indubbiamente sono cose che andrebbero capite – ma forse le stiamo capendo – e poi dette, perché consentono di ricostruire meglio tutta questa vicenda lasciando solo un punto interrogativo, perché in nessuno di questi covi – lei può confermarlo – da nessuna parte si sono trovate altre carte sul sequestro Moro.

CHELAZZI. No, sono certissimo di questo. So che il dottor Baglione ha fatto un’affermazione diversa, ma io sono sicuro del fatto che nelle operazioni di perquisizione e sequestro che hanno portato al rinvenimento di documenti non sono mai stati trovati, in ambito investigativo toscano, documenti relativi alla vicenda Moro.

PRESIDENTE. A questo punto le ipotesi da avanzare potrebbero essere due: o chi entrava nei covi e trovava delle carte aveva l’ordine di farle sparire (gli apparati) oppure che i brigatisti avessero preso ad un certo punto la decisione di distruggere tutto ciò che riportava al sequestro Moro. Ritengo questa ipotesi molto più probabile della prima (seguendo l’albero delle probabilità) perché in via Monte Nevoso i brigatisti dissero subito che c’erano dei soldi e infatti dopo sono stati trovati. Normalmente i brigatisti hanno contestato la versione ufficiale dei ritrovamenti quando loro sapevano che qualche cosa in più ci sarebbe dovuta essere, mentre non è mai avvenuto che in altri covi i brigatisti abbiano detto che c’erano altre carte sul sequestro Moro e non si era detto di averle trovate. Questo mi fa pensare che ci dev’essere una ragione, non so quale, per cui ad un certo momento arriva l’ordine, attraverso un’organizzazione molto compartimentata come quella delle Brigate rosse, di distruggere tutto ciò che poteva portare al sequestro Moro, qualsiasi copia, qualsiasi appunto o fotocopia. Perché questo è avvenuto francamente non lo possiamo dire, mi sembra che sia una delle ultime cose che restano da spiegare.

CHELAZZI. Non so se posso essere utile, per quello che ricordo su questo aspetto. Poco fa ricordavo che le indicazioni processuali furono nel senso che l’appartamento di via Barbieri fu comprato con denaro che proveniva dal sequestro Costa.

PRESIDENTE. Che era lo stesso sequestro da cui veniva il denaro che nel 1990 si trova dietro il tramezzo di via Monte Nevoso.

CHELAZZI. Se non mi sbaglio, dal sequestro Costa vengono anche i denari impiegati per procurare all’organizzazione la base di via Montalcini. Mi pare che questo emerga proprio da lavori della Commissione che lei presiede.

Questa sovrapponibilità dei due approvvigionamenti, se vogliamo adoperare questo termine, un appartamento a Roma e, dopo non molto tempo e comunque con un anticipo congruo rispetto all’operazione Moro, con questo comune denominatore viene posta.

PRESIDENTE. Si dà l’idea del carattere strategico dell’appartamento di via Barbieri. I soldi si trovano in via Monte Nevoso, sono serviti per prendere l’appartamento in via Montalcini e per prendere l’appartamento in via Barbieri, quindi il ruolo diventa strategico pure sotto forma di investimento.

CHELAZZI. Ricordo che ha formato oggetto di un capo di imputazione nella seconda istruttoria delle Brigate rosse, quella alimentata dalle dichiarazioni soprattutto dei collaboratori Ciucci ed altri; ricordo che a cavallo tra il 28 febbraio e il 1° marzo 1978, nella notte, fu compiuto presso la facoltà di matematica dell’università di Pisa un furto di materiale genericamente utile per una stamperia delle Brigate rosse: un duplicatore e un lettore elettronico di matrici. Questo furto fu confessato da uno degli autori, Ciucci Giovanni, che chiamò in causa Baschieri, Bombaci e Cianci. Cianci nel dibattimento, anche se la legge sulla dissociazione non era ancora entrata in vigore, assunse un atteggiamento che anticipava gli effetti della legge sulla dissociazione; sostanzialmente confessò, e lasciò stupiti la confessione di Cianci perché, avendo fatto processi ed anni di galera con irriducibilismo convintissimo, venne a quel dibattimento, nel quale rispondeva di alcune imputazioni aggiuntive trainate dalle dichiarazioni di Ciucci, e confessò di aver partecipato al furto di questo materiale dalla facoltà di matematica dell’università di Pisa. Ciucci non ha mai saputo sul momento dove finì questa attrezzatura, perché la prese in consegna Baschieri, però ricorda che questa attrezzatura riapparve (in un certo senso riapparve) in viale Unione Sovietica, nella disponibilità quindi di Moretti e di Balzerani, aggiungendo che, in base ai suoi ricordi, questa attrezzatura era stata anche utilizzata per realizzare un qualche documento BR. Ora, siccome è da escludere che Moretti e Balzerani si occupassero della pubblicistica del comitato rivoluzionario toscano, si deve pensare che questo materiale servisse alla pubblicistica dell’organizzazione nel senso stretto del termine. Potrebbe essere che da questo materiale, nel periodo in cui è stato in viale Unione Sovietica, provenga editorialmente quel documento datato ottobre 1978 "Diario di lotte nelle fabbriche", che è un documento importante delle BR, che soprattutto si occupa della situazione dell’ambiente genovese: le grandi fabbriche, l’Ansaldo ed altre.

PRESIDENTE. Macchine da scrivere a caratteri piccoli non ne avete trovate?

CHELAZZI. Questa attrezzatura, Presidente, per il racconto di Ciucci, non si è trattenuta in viale Unione Sovietica fino a quando Moretti e Balzerani si sono indirizzati altrove, bensì è stata portata via ancora in periodo estivo (poteva essere agosto o settembre) da Anna Ludman (questo è il racconto preciso di Ciucci) che si presentò a viale Unione Sovietica, accompagnata da un ragazzo che Ciucci non ha mai saputo identificare, ma che verosimilmente doveva essere un militante della colonna genovese. Anna Maria Ludman – ripeto – portò via da viale Unione Sovietica questa attrezzatura.

PRESIDENTE. Compresa una macchina da scrivere?

CHELAZZI. No. D’altra parte, che questa attrezzatura potesse servire al comitato è abbastanza poco plausibile perché il comitato la sua attrezzatura ce l’aveva prima del furto a Pisa, come ha continuato ad averla successivamente al giorno in cui la Ludman portò via quella che c’era dall’appartamento di viale Unione Sovietica. Il comitato ha sempre ciclostilato i suoi documenti, e ciò vuol dire che la sua attrezzatura ce l’aveva, a prescindere da quella che viene dal furto della facoltà di matematica dell’università di Pisa.

PRESIDENTE. Ippoliti e i conti svizzeri.

CHELAZZI. I punti sono tre, Presidente. Partiamo dal più semplice, o dal più spinoso che dir si voglia. A me non risulta assolutamente che Elfino Mortati abbia fatto parte delle Brigate rosse. Assolutamente. Elfino Mortati si è reso responsabile dell’omicidio che sappiamo; aveva 18 anni e qualche mese quando compie l’omicidio, trascorre cinque mesi scarsi di latitanza e viene arrestato il 4 luglio 1978 a Pavia. E’ vero che ha con sé un foglietto con su scritto Brigate rosse e la falce e martello: sarebbe il primo brigatista che viaggia non con un documento di identità falso, che non aveva (Elfino Mortati in quell’occasione era senza documenti), ma con una stilizzazione a dir poco inconsueta: io non ho mai visto documenti delle Brigate rosse con la sigla Brigate rosse e poi la falce e martello. Dei tanti collaboratori che abbiamo avuto in ambito BR locale e nazionale, nessuno ha mai gratificato Elfino Mortati di appartenenza alle Brigate rosse, anzi, c’è chi l’ha escluso recisamente: Savasta, in un interrogatorio condotto dal pubblico ministero di Firenze. Personalmente so qualche cosa della figura di Mortati: nasce nell’ambito di un collettivo, ma nello stesso giorno in cui raggiunge la maggiore età stava per finire la sua esperienza politica e stava per inguaiarsi nella storia dell’omicidio del notaio Spighi. Nasce in un contesto molto particolare, ma senza alcuna caratterizzazione nel senso vero del termine. E poi l’azione da lui condotta… io non credo che Mortati abbia mai detto di essere brigatista, che è altro rispetto ai documenti che può aver firmato durante la detenzione. Mortati ha trascorso un lungo periodo di detenzione a Trani, insieme ad altri irriducibili. Che abbia firmato documenti BR durante la detenzione è un conto, che sia stato brigatista a 18 anni è altro, e io personalmente lo escludo. Il comitato all’epoca si muoveva a livello di quelle azioni militari che io definisco di "opzione di secondo profilo" e nello stesso tempo mette una pistola in mano ad un ragazzo che ha poco più di 18 anni per mandarlo a fare una rapina nello studio di un notaio, nel corso della quale questo avventatamente spara addosso al notaio? L’unica azione militare contro la persona che il comitato aveva progettato, il comitato che esce di scena nei suoi vertici il 19 dicembre del 1978, è la gambizzazione di un uomo politico fiorentino, un esponente della locale Democrazia Cristiana, Giovanni Pallanti. Non c’è mai stata alcuna altra azione militare, che avesse come obiettivo una persona, che sia stata progettata dal comitato rivoluzionario toscano.

Dirò di più. Quando furono arrestati i quattro brigatisti del 19 dicembre, in tasca ad uno di questi, Bombaci, fu trovato un appuntino, a mo’ di schizzo, che riproduceva sicuramente un crocevia, una piazza, una fermata di un autobus, con qualche cosa che completava la rappresentazione: palline o crocettine che potevano "essere" persone. Forse addirittura questo schizzo era in più fasi: primo momento, secondo momento, terzo momento. In un primo tempo si ipotizzò che questo schizzo potesse avere a che fare con un attentato che era successo quattro giorni prima, il 15 dicembre del 1978 a Firenze allorché qualcuno sparò e gambizzò un pretore, il dottor Silvio Bozzi (pover’uomo, è morto) che si occupava di locazioni e di sfratti. Fu ipotizzato un accostamento fra l’appuntino che era nella disponibilità dei brigatisti, e quindi di Bombaci, e il ferimento di questo pretore. Ovviamente la cosa non stava in piedi, perché intanto il fatto era già stato rivendicato da un’altra organizzazione, poi perché sarebbe stata la prima volta in cui un brigatista a distanza di tre – quattro giorni da un attentato si continua a portar dietro il knowhow, in forma grafica, dell’attentato. Rimasto però senza risposta l’interrogativo che questo schizzo suscitava, la risposta venne data da Giovanni Ciucci, collaboratore che io, ma soprattutto i giudici, le Corti d’Assise hanno considerato pienamente attendibile. Secondo Giovanni Ciucci il progetto, che questa volta mirava a una persona e non più alle vetture, coinvolgeva la figura di quell’uomo politico cittadino del quale ho fatto il nome poco fa. Se l’attentato fosse nell’imminenza di essere commesso o se si trovasse in una fase preliminare, antecedente di qualche giorno, questo assolutamente non si può dire. Non è stata elevata accusa per difetto di conoscenza sul grado di elaborazione del proposito.

TARADASH. Per tornare ad Elfino Mortati, perché è stato preso così sul serio dai magistrati di Roma che gli hanno creduto quando ha detto che durante il sequestro Moro poteva esserci un covo delle Brigate rosse nel Ghetto, tanto che è stata fatta con lo stesso Mortati una ricognizione al Ghetto e si è aperta anche la pista del Mossad e tanti altri aspetti di cui stiamo ancora discutendo?

CHELAZZI. Sia ben chiaro che non è per scansare la domanda, ma io credo di poter dare una sola risposta: questa embrionale collaborazione di Mortati, se non sbaglio, è di poco successiva al suo arresto. Siamo ancora nei mesi estivi del 1978, quando cioè delle Brigate rosse, quelle toscane ma non solo, nessuno ha praticamente ancora scritto una pagina, passato il momento degli anni 1975-1976. Non voglio dire che i colleghi abbiano commesso un errore di valutazione ma è certo che, se a distanza di tempo avessero interpellato una serie di brigatisti (io un nome l’ho fatto: Antonio Savasta) per sapere se Mortati aveva mai avuto niente a che fare con le Brigate rosse, probabilmente avrebbero ottenuto la risposta che ho avuto io, ossia che Mortati con le Brigate rosse non aveva alcun rapporto.

TARADASH. Il problema è che ancora recentemente ci hanno detto che questo Mortati era un teste attendibile. Se ne è riparlato in Commissione poche settimane fa.

CHELAZZI. Io parlo sulla base di quello che so. So di aver chiesto ad Antonio Savasta, se non mi sbaglio il 3 marzo 1982: "La figura di Elfino Mortati rappresenta qualcosa nella vicenda brigatista nel suo complesso?". Savasta, che aveva presente la persona, mi ha chiesto: "Ma chi è, quel giovane che ammazzò il notaio?". "Sì, si tratta esattamente di lui". "Quello con le Brigate rosse non ha niente a che fare".

PRESIDENTE. Il problema non è quello del ruolo che Mortati poteva avere nelle Brigate rosse, se facesse o no parte dell’organizzazione. Il problema è sapere se Mortati nella latitanza, dopo l’uccisione del notaio, stando a Roma era venuto a sapere qualcosa che poteva riguardare il sequestro Moro. Ciò che insospettisce è la rivelazione su "La Nazione" di questa sua collaborazione, fatta da Guido Paglia.

CHELAZZI. L’ho letto. Ho conosciuto Elfino Mortati soltanto nel periodo in cui la legge sulla dissociazione dava tempo ai detenuti e ai condannati di fare certe dichiarazioni e di adempiere a certe formalità per fruire dei benefici previsti. Pertanto non ho avuto un contatto diretto con la vicenda giudiziaria di Mortati, della quale conosco qualche dato grossolano. Con la persona di Mortati ho avuto un rapporto allorché non solo io, ma noi pubblici ministeri andavamo di carcere in carcere a raccogliere le dichiarazioni di dissociazione perché molti furono quelli che non si fecero scappare la scadenza del termine di legge. Ho letto dagli atti della Commissione che si è registrata una fuga di notizie, ma non ne avevo ricordo. Non dubito che sia andata così, che ci sia stata una fuga di notizie, però mi pare di ricordare che le indicazioni dei luoghi dove aveva condotto la sua latitanza - a me non pare che avesse mai parlato di prigione di Moro, ma di luoghi dove lui aveva condotto la sua latitanza - non so se in forma più compiuta o più grossolana Mortati le abbia date anche al giudice istruttore del suo processo (parlo del processo per l’omicidio) e soprattutto del processo per "una specie" di reato di associazione ex articolo 270 del codice penale che fu istruito nei confronti di Mortati e di un numero piuttosto cospicuo di persone che venivano dall’autonomia pratese e soprattutto dall’autonomia fiorentina, dei quali ricordo alcuni nomi. Non ho più ritrovato uno di quelli che appartenevano alla "nebulosa Mortati" nella storia delle Brigate rosse della Toscana. Comunque - ripeto - Mortati dette alcune indicazioni su come aveva trascorso la latitanza anche al giudice istruttore del suo processo che, sempre che io non sbagli, mi pare sia stato il dottor Tricomi (erano due o tre i giudici istruttori di Firenze che si occupavano di terrorismo).

Per quanto concerne la figura di Giuseppe Ippoliti, la Commissione rileva un mancato approfondimento dell’indagine che lo riguarda. Non so se c’è stato un mancato approfondimento: so quello che è stato fatto per capire fino in fondo la figura di Giuseppe Ippoliti e dirò che in primo grado la Corte d’Assise di Firenze, su richiesta di chi vi parla, lo condannò per partecipazione a banda armata (Brigate rosse toscane), mentre la Corte d’Assise d’Appello con sentenza irrevocabile lo assolse. La formula era quella dell’insufficienza di prove, ma comunque l’assoluzione di Ippoliti come brigatista è acquisita storicamente e in maniera irrevocabile.

Il punto di partenza della vicenda Ippoliti è dato da una sua iniziativa che si colloca tra la fine del gennaio e i primi del febbraio 1976, allorché con un porto d’armi falsificato e un libretto di assegni proveniente da un furto, peraltro fatto a Firenze, acquistò una serie di pistole in armerie fiorentine, fino a farsi arrestare in flagranza di reato mentre tentava l’ennesima truffa in una armeria pisana il 4 febbraio 1976. Ippoliti rimane detenuto ininterrottamente fino al 20 marzo 1978, data dalla quale comincia a fruire di alcuni permessi. Ovviamente non mi sono occupato della fase iniziale dell’interessamento giudiziario sulla figura di Ippoliti. Ero a Milano, anzi nel febbraio 1976 ancora non mi avevano assegnato le funzioni, che ho avuto a settembre; anche se fossi stato a Firenze, quindi, non me ne sarei potuto occupare. Però me ne sono occupato a partire dai giorni immediatamente successivi la fatidica data del 19 dicembre 1978 quando il dirigente della DIGOS di Firenze il 30 dicembre prese carta e penna per fare un rapporto sulle armi che erano state sequestrate sia nell’automobile dove i quattro si trovavano al momento dell’arresto, sia nelle loro abitazioni e in particolare nell’abitazione di Dante Cianci, il ferroviere pisano. La DIGOS verificava che due pistole trovate presso l’abitazione di Dante Cianci erano state acquistate, una per intero l’altra per metà (perché era frutto dell’assemblaggio di due armi diverse), con un porto d’armi intestato ad un certo Lunerti Armenio. Era un porto d’armi che, se non ricordo male, era stato rubato negli ultimi mesi del 1975 a Roma, nella zona di Morlupo. Più esattamente era stata saccheggiata un’automobile di tre cacciatori, ciascuno dei quali aveva il suo porto d’armi, che fu ovviamente rubato. Non so se furono rubati anche dei fucili, se ce li avevano in macchina: non lo ricordo. Un porto d’armi dunque è quello di Lunerti Armenio e serve per acquistare due pistole che alla fine del 1978 si troveranno nella disponibilità di un brigatista toscano, Dante Cianci; ma è anche utilizzato per comprare almeno un’arma che si trova in via Gradoli, che se non sbaglio è un fucile, questa volta: un’arma lunga invece che un’arma corta. Può essere che questo porto d’armi di Lunerti Armenio – dovrei controllare gli appunti, ma cerco di sintetizzare – abbia comprato anche qualche altra arma rinvenuta nelle disponibilità delle BR. Per certo abbiamo le due pistole nella disponibilità di Cianci Dante e l’arma lunga nel covo di via Gradoli.

Il secondo porto d’armi è intestato a un certo Alori; il nome non lo ricordo. Questo porto d’armi verrà trovato nella tipografia di Triaca. Il terzo porto d’armi, intestato a Collabolletta Giovanni, è quello che adotta Ippoliti per comprare le armi di cui dicevo poco fa, nelle armerie di Firenze e di Pisa. Mi sembra che in tre o quattro giorni abbia comprato 10-11-12 pistole.

PRESIDENTE. Dunque, dottore, per sintetizzare: lei ci dice che non è vero che non si è indagato bene. Accetto questa interlocuzione, probabilmente lei ha ragione e noi abbiamo torto. Tuttavia ci conferma in qualche modo che pure la figura di Ippoliti tende a ricentralizzare il problema del comitato toscano.

CHELAZZI. Presidente, ci sono dei dati ancora più significativi sotto questo aspetto, molto più significativi. Mi permetto di dissentire da una affermazione, quella secondo la quale Ippoliti è stato l’armiere del gruppo BR che ha eseguito il sequestro Moro.

PRESIDENTE. Di questo prendo atto. Io la ringrazio della sua disponibilità. Non penso mai di non poter dire alcune sciocchezze, ma quello che non ammetto, e che mi sembra profondamente ingiusto, è che si dubiti delle intenzioni che ci fanno dire a volte cose giuste e a volte sciocchezze. Può darsi che noi, procedendo a tentoni, a volte andiamo a sbattere contro cose che non sono vere, prendiamo lucciole per lanterne, diamo corpo a ipotesi che poi non si verificano. Però proprio l’audizione di stasera sta dimostrando che questo nostro muoverci non è senza effetti, perché serve a far riflettere noi e altri, a determinare mosse da parte di altri (come l’intervista di Azzolini), che se poi uno le guarda con intelligenza possono tutte servire a ricostruire la realtà. E’ questo il compito istituzionale che teniamo e che forse non svolgiamo nemmeno divertendoci o appassionandoci molto: dobbiamo farlo per dovere istituzionale. Che si dubiti di questo mi sembra una cosa assurda, che si incomodi il Presidente della Repubblica, mandandogli strane lettere in cui si dubita di magistrati che collaborano con noi, che vorrebbero arrivare alla dimostrazione di chissà quale tesi…

Noi cerchiamo di fare chiarezza in quegli ambiti limitati che sono rimasti oscuri. Non penso che tutta la storia delle Brigate rosse e tutta la storia del sequestro Moro debbano essere interamente riscritte, perlomeno non ho elementi che mi consentono di formulare un’ipotesi di questo genere. Però so con certezza che vi sono ambiti che ancora non sono stati capiti per intero. Scusi l’interruzione che è stata un po’ uno sfogo.

CHELAZZI. Di tutte le armi comprate da Ippoliti, con certezza non si può affermare che ne sia stata trovata neppure una; con qualche approssimazione si può dire che un’arma è stata ritrovata: era nella disponibilità di due giovani, un ragazzo e una ragazza, Lulli Lucia e Pisanò Domenico, pisani di adozione, non mi pare di nascita, studenti universitari, i quali nell’ottobre 1977, mi pare intorno al 20, fecero uno dei consueti attentati alle automobili, nella specie mi pare a un esponente politico di Massa. Furono arrestati dalla polizia prima che qualcuno avvisasse l’organizzazione che non era il caso di fare la rivendicazione (visto che erano stati arrestati). Una delle due armi – perché ciascuno di loro era armato – aveva il numero di matricola devastato dal trapano, ma un numero è stato leggibile per quattro quinti. Allora, se oltre ai quattro quinti, il quinto quinto corrisponde a un certo numero (non ricordo, 3 o 4 o 7), allora vuol dire che quella era un’arma che veniva dallo stock acquistato da Ippoliti Giuseppe.

Rimettemmo Ippoliti Giuseppe all’ordine del giorno per effetto di questa rappresentazione della DIGOS del 30 dicembre 1978. Con il procuratore Vigna, piuttosto che con il dottor Baglione, cominciammo a lavorare accanitamente, e forse trovammo anche qualcosa in più di questo elemento della pistola probabilmente finita nella disponibilità di Lulli e Pisanò. Per esempio, trovammo che la carta di circolazione che era stata rubata insieme alla vettura e al libretto degli assegni, che Ippoliti aveva utilizzato per truffare i vari armieri, ancora agli inizi del 1979 stava dentro una 128, trovata nella pineta di Viareggio tra gennaio e febbraio 1979, che costituiva una vera e propria base mobile del comitato rivoluzionario toscano delle Brigate rosse.

Quindi, non tanto e soltanto un’arma che forse è quella che avevano nelle mani i brigatisti, ma addirittura il libretto di circolazione della macchina che "tu hai rubato" insieme al libretto degli assegni che "hai" sicuramente utilizzato per comprare le "tue" pistole; libretto di circolazione che tre anni dopo sta sempre nel logistico del comitato rivoluzionario toscano: questo è, secondo me, un elemento più forte che non quello della pistola: significa che "ti sei mosso" in un’ottica che non era tangenzialmente vicina agli interessi e alle attività delle Brigate rosse, ma probabilmente era trasversale.

Con questo elemento e con qualche altra cosa portammo in giudizio Ippoliti Giuseppe, che non ha mai voluto collaborare, limitandosi a ripetere quello che aveva detto nel processo di primo grado, cioè che aveva fatto queste truffe di armi in un momento in cui attraversava un disordine mentale tanto serio che ci fu anche una perizia psichiatrica che lo dichiarò seminfermo di mente; seminfermità grazie alla quale, a norma di codice, ovviamente ottenne anche una pena più bassa di quella che spetta a chi seminfermo non è. Però, stavo dicendo al Presidente che c’è di più. E questo sta scritto nelle sentenze che l’autorità giudiziaria di Firenze ha pronunziato. Mi limito allo stralcio di una sentenza che, se lei mi consente, vorrei leggere. Il giudice estensore della sentenza, che per questa parte è divenuta irrevocabile (come narrazione del fatto, perché non ci sono state contestazioni), dice: "Alle ore 18 dell’11 gennaio 1979, in Viareggio, nella via Maroncelli, all’angolo con la via Gioberti, nei pressi dell’ospedale, i carabinieri rinvenivano un’autovettura Fiat 128 di colore bleu, sprovvista di targhe e con gli sportelli chiusi, tranne quello anteriore destro che si presentava privo di sicura. Nella bauliera di detta auto venivano rinvenuti: un fucile… una pistola… una pistola… un revolver… cartucce… cartucce… candelotti di esplosivo da cava… materiale atto per falsificazioni… targhe anteriori e posteriori di autovetture, patenti di guida, certificazioni amministrative di vario tipo, certificati e contrassegni assicurativi per la responsabilità civile auto, sette opuscoli in fotocopia delle Brigate rosse, recanti sul frontespizio la stella a cinque punte e la scritta ottobre 1978" – questo è il documento a cui facevo riferimento prima – "Diario di lotta nelle fabbriche genovesi Ansaldo e Italsider", (identici a quello trovato a Bombaci), una matrice da ciclostile parzialmente incisa, intestata: ‘Brigate rosse-Comitato rivoluzionario della Toscana’. Il giorno 13 marzo 1979, agenti della DIGOS rinvenivano in Firenze, nella piazza Bernardino Pio" – siamo non lontani da viale Unione Sovietica, per intenderci, anche se secondo me non c’è relazione fra i due fatti, perché viale Unione Sovietica è stata abbandonato molto tempo prima – "un’auto Simca 1100, di colore verde, targata Livorno, con targhe che risultavano contraffatte e che sono l’assemblaggio di targhe diverse. Tra l’altro nella Simca vi erano due contrassegni assicurativi emessi da Les Assurances Nationalles, mentre altri contrassegni e certificati di detta compagnia assicuratrice erano stati trovati a bordo della Fiat 128 di Viareggio. Orbene, veniva accertato poi che le chiavi della Simca erano tra quelle sequestrate a Baschieri al momento del suo arresto". Poi si dice altro sul conto della 128, e così via: "La documentazione assicurativa rinvenuta a bordo di entrambe le autovetture proveniva dal furto consumato in Pisa il 3 gennaio ’76 in danno di Malasoma Lido, agente della compagnia assicuratrice prima citata. Del materiale identico a quello rinvenuto sulla "128" di Viareggio veniva ritrovato nel maggio ’79 nell’appartamento occupato in Roma da Morucci Valerio e Faranda Adriana, imputati in altro processo e appartenenti alle BR. Si tratta di carta intesta all’Istituto storico universitario di Firenze, alla Regione Toscana, alla Camera dei deputati e al Notaio Clerici di Firenze". Morucci e Faranda, arrestati nel ’79, avevano quindi una documentazione analoga a quelle indicate. I rapporti e le integrazioni di informazione, almeno sulla carta, sono stati possibili a partire dal ’79, in primo luogo con i colleghi di Milano, Torino, Roma e Napoli.

"Contrassegni assicurativi, pure provenienti dal suddetto furto in danno di Malasoma, erano stati rinvenuti nell’auto "Renault 4" ove in Roma fu ritrovato il cadavere dell’onorevole Aldo Moro il 9 maggio 1978, nell’auto "Diane" usata dagli attentatori dell’esponente della DC romana Mechelli, nel veicolo sul quale viaggiava nel momento del suo arresto certo Mazzocchi Giuliano, imputato di appartenenza alle BR". Che vi sia stata una integrazione, che non so spinta fino a che punto, e che questa integrazione sia stata sindacata dalle Corti di Assise e positivamente sanzionata, sulla base di informazioni di questo genere, tra le strutture toscane delle BR e le strutture centrali romane e milanesi, mi pare sia un dato di fatto a disposizione di tutti.

PRESIDENTE. Quindi, indubbiamente, quanto ho scritto in una nota della relazione sulla vicenda D’Antona che consente di ipotizzare un limite nell’attività indagativa (anche con riferimento al ruolo che il brigatismo toscano ebbe nella vicenda Moro) probabilmente ho espresso un giudizio ingiusto, perché l’attività indagativa c’è stata, ma concreto perché il problema è che non mi sembra che il risultato di questa attività sia stato fino in fondo utilizzato nelle indagini specifiche sul caso Moro. Dunque, a volte non si individua in pieno il bersaglio e si commette un’ingiustizia, ma si dice qualcosa vicino alla verità, perché non solo le sentenze, ma tutta la pubblicitistica che si è articolata attorno al caso Moro ha finito per sottovalutare questo elemento. Lei ha citato diversi fatti e quello dei contrassegni mi colpisce moltissimo, perché tende a ricentralizzare una parte della storia delle BR, che probabilmente le stesse hanno voluto tenere coperta, e tutto acquisterebbe una logica, perché la storia finale delle BR è soprattutto una storia toscana e, se dovesse venir fuori che la ripresa del brigatismo, che purtroppo abbiamo subìto poco più di un anno fa con la morte di D’Antona, viene ancora da lì, il legame fra l’esperienza del passato e quella del presente ancora una volta dimostra questa scarsa utilizzazione di quel lavoro indagativo e acquisterebbe importanza, non perché vogliamo sindacare o fare processi a qualcuno, ma perché stiamo cercando di dare qualche piccolo contributo, per quanto possibile ad una Commissione di inchiesta parlamentare. E per quanto riguarda i conti correnti?

CHELAZZI. Ho con me le fotocopie dei due famosi appunti, quello che fu sequestrato a Baschieri e quello di Cianci. La mia opinione di allora come oggi, è che si tratti di indirizzi di istituti di credito. Il collega Priore ha parlato di estremi di conti, ma secondo me si tratta di indirizzi. Su questo materiale vi è stato un approfondimento investigativo da parte del Giudice istruttore perché, nei quaranta giorni a disposizione di termine massimo per l’istruzione sommaria, non c’era la possibilità di andare oltre la pura registrazione del dato. L’accertamento del giudice istruttore non dette risultati in tempo utile, cioè in un anno di termine massimo per la carcerazione preventiva: dal 19 dicembre ’78 l’istruttoria formale doveva chiudersi il 19 dicembre 1979, e così avvenne. Il Giudice istruttore non ottenne risposta. La mia opinione, a costo di apparire un ingenuo, è che dietro questi indirizzi ci sia qualcosa che può forse evocare, alludere al proposito di movimentare denaro all’estero da parte di Cianci e Baschieri. Però, il dubbio riguarda il fatto se su ben dodici indirizzi siano state costituite queste disponibilità finanziarie. Cioè: per acquistare l’appartamento di via Barbieri a Baschieri i soldi vengono da Dura, ma Baschieri avrebbe avuto disponibilità per conto dell’organizzazione in dodici istituti diversi? Francamente non ho mai saputo da Baschieri nulla in proposito, perché non ha mai risposto su questo punto, né da Cianci che aveva quasi una fotocopia dell’appunto, cioè lo stesso elenco. Mi pare inoltre che non vi sia mai stato un brigatista di qualità che abbia aperto scenari sul fronte delle disponibilità finanziarie costituite all’estero. Comunque, la mia è sola una interpretazione e quindi censurabile.

PRESIDENTE. Le do atto che è una ipotesi e lei ha ragione nel dire che non si tratta di conti correnti perché sembrano più indirizzi. Il problema è che dobbiamo sempre rispondere (non penso che ce la faremo in questa Legislatura), il paese deve rispondere ad un interrogativo che si pose il Generale Dalla Chiesa, il quale, ascoltato dalla Commissione Moro, sottolineò che non si erano trovate le cassette, gli originali delle carte di Moro, la prima battitura dattiloscritta di via Monte Nevoso e disse:" mi farebbe piacere sapere chi ha recepito tutto ciò". Leonardo Sciascia, che forse significa qualcosa nella storia del nostro paese, gli rispose:" sono lieto che lei si ponga questo interrogativo". Siamo ancora allo stesso punto, continuiamo a porci lo stesso interrogativo che è il vero punto oscuro della vicenda.

CHELAZZI. Io non avevo niente più di un dato di cronaca e una interpretazione personale.

MANCA. Stavo praticando un attimo di respiro dopo un fiume di domande del Presidente ed un fiume di risposte da parte del dottor Chelazzi, al quale vanno i miei complimenti. Questa sera, infatti, si sta effettuando un'audizione molto importante e dettagliata. Proprio in omaggio alla sua persona, vorrei ricordarle ciò che due suoi colleghi hanno detto a proposito della data in cui lei sarebbe stato interessato al caso del borsello. Questo mi serve per una mia considerazione generale nell'ambito di altri casi che la nostra Commissione ha seguito ed anche per sottolineare che, nel caso in cui persone di una certa categoria non ricordano bene, viene considerato un indizio di colpevolezza, mentre invece, dopo tanti anni, si può non ricordare bene, così come dimostra ciò che sto per leggere. Nel corso dell'audizione in questa sede, il dottor Spataro ha detto testualmente: "Per quanto riguarda Firenze, vorrei dire che conosco molto bene il dottor Chelazzi, con il quale ho parlato di questa audizione. Egli mi ha detto di essere pronto a riferire in qualsiasi momento, se necessario, che venne avvertito del ritrovamento del borsello quando le indagini partirono e quando i carabinieri di Firenze andarono a Milano. Venne dunque quindi avvertito prima di noi, per la semplice ragione che noi non lo sappiamo". Lei ci ha chiarito tutto. Questa dichiarazione ci serve per sottolineare che anche i magistrati, non certo in mala fede, dopo anni ricordano male. Questa conversazione, addirittura, sembra avvenuta poco prima che il dottor Spataro venisse qui. Ricorda male, quindi, anche a distanza di pochi giorni o mesi.

CHELAZZI. La conversazione fra me e Spataro ha preceduto di pochi giorni la sua audizione.

MANCA. Rimanendo nel caso Moro e a Milano, come teatro operativo, le risulta che all'epoca delle indagini sul caso Moro c'erano forti contrasti all'interno dell'Arma dei carabinieri, in particolare a Milano?

CHELAZZI. Personalmente non mi risulta, ma è anche vero che i miei interlocutori sono l'Arma di Firenze e gli organismi della polizia fiorentina.

MANCA. Lasciamo via Monte Nevoso e torniamo a Firenze. Nel novembre 1986 si è occupato anche di Giovanni Senzani.

CHELAZZI. Molto prima.

MANCA. Si è occupato di Senzani nell'ambito delle attività eversive del comitato rivoluzionario toscano, quella struttura utilizzata come supporto, non solo logistico, alle colonne di Genova e Roma. Da quel filone di indagine, sono emersi contatti tra Giovanni Senzani e Salvatore Bombaci che, oltretutto, abitavano nello stesso palazzo?

CHELAZZI. Sì.

MANCA. Ci può sintetizzare gli sviluppi più importanti dell'inchiesta? Può condividere la sensazione, l'intuito, il sospetto, che fin dal 1978 ci potessero essere contatti fra Moretti e Senzani a Firenze, un collegamento fra Bombaci brigatista, fra Bombaci amico di Senzani? Perché non escludere che, nello scenario terroristico, ancor prima di quando sia veramente uscito, Senzani sia quell'ideologo, quella persona di livello superiore, quella persona con cui Moretti si incontrava a Firenze?

CHELAZZI. L'accostamento della figura di Bombaci a Senzani, e viceversa, non è contestuale all'arresto di Bombaci ma - lo debbo dire - è un'inesattezza del collega dottor Baglione. L'accostamento della figura di Senzani a Bombaci, tuttavia, è di pochissimo successiva. Il dottor Baglione ha fatto un'affermazione secondo la quale, quasi in costanza dell'arresto, qualcuno in questura si sarebbe posto il problema di avvisare Senzani del fatto che in casa aveva un brigatista o comunque una persona candidata a prendersi una buona condanna per banda armata. E' un'affermazione che, sulla base delle mie conoscenze, non solo non posso condividere ma sono anche portato ad escludere, per una semplice ragione: quando Bombaci fu arrestato, risultava residente anagraficamente in via Crespello, una strada che congiunge San Casciano a Mercatale in Val Di Pesa, siamo quindi alle porte del Chianti fiorentino. A distanza di pochi giorni, in virtù di un appunto che aveva Bombaci e che rimandava ad un'agenzia del Monte dei Paschi, si stabilisce che, precedentemente alla residenza nel comune di San Casciano, ha abitato, questa volta senza residenza, in via Fibonacci a Firenze, quindi nella zona dello stadio. A gennaio - febbraio, non dopo, emerge la circostanza che Bombaci ha abitato fino alla fine del 1977 in via Borgo Ognissanti n. 104, nello stesso stabile in cui abitava Senzani. Lo stabile era composto - mi pare - di tre unità immobiliari. Come emerge la coabitazione di Senzani e Bombaci sotto lo stesso condominio? Il signor Negri, cioè il padrone di casa che aveva dato in locazione l'appartamento non a Bombaci ma prima a due ragazzi persiani, poi ad un altro ragazzo di origine siciliana, studente fuori sede, si presentò alla polizia per dire che quel signore, la cui faccia vedeva tutti i giorni sui quotidiani fiorentini, era stato nell'appartamento che gli era stato riconsegnato alla fine dell'anno precedente, quindi del 1977, e che lui stava adesso risistemando a proprio uso e consumo. Da questo punto, la DIGOS, non il magistrato - per il quale Senzani era un illustre sconosciuto - accosta la figura di Bombaci a quella di Senzani, nel senso che lo segnala al pubblico ministero, soprattutto alla luce di un dato: il signor Negri, che ho personalmente interrogato, disse di aver notato questo giovanotto che continuava a frequentare lo stabile per andare a trovare nessun altro che Senzani - almeno secondo il signor Negri -. All'ultimo piano, infatti, viveva una signora; l'appartamento in cui aveva abitato Bombaci era in disarmo da tempo: non rimaneva altri che Senzani. Sulla base di questo e forse - ma non lo so - di altre indicazioni in possesso della DIGOS, la DIGOS sottopone al pubblico ministero quindi al dottor Vigna e a me… (il dottor Baglione non è più nell'indagine in questo momento, e siamo nel mese di febbraio 1979: sono passati due mesi dall'arresto di Bombaci)... dopo due mesi dall'arresto si dà il via ad un'attività investigativa anche sul conto di Senzani, in ragione dei rapporti con Bombaci, rapporti che si intravedono. L'epoca è stata ricostruita: in particolare la hanno determinata i giudici della Corte d'assise di Firenze quando hanno condannato Senzani per partecipazione alle Brigate rosse, anche della struttura definita Comitato rivoluzionario toscano, e lo hanno condannato anche per gli attentati compiuti alla fine del 1977.

PRESIDENTE. Quando emerge il ruolo di Senzani nelle BR, secondo gli accertamenti giudiziari?

CHELAZZI. Secondo chi sostenne l'accusa, prima della seconda metà del 1977. Secondo la Corte d'assise che lo ha condannato con sentenza irrevocabile, almeno dall'autunno del 1977.

PRESIDENTE. Quindi era già nell'organizzazione durante il sequestro Moro.

CHELAZZI. Alla luce delle mie conoscenze, delle mie convinzioni e delle sentenze irrevocabili, lo si può affermare con certezza.

PRESIDENTE. Però non è mai stato incriminato per il sequestro Moro.

CHELAZZI. Non lo so. Non so se qualcuno abbia mai scritto il nome di Senzani nel registro degli indagati. Sicuramente non è mai stato condannato.

MANCA. Quindi, quelle che sembravano deduzioni campate in aria trovano conferma, cioè che Senzani frequentava quell’ambiente molto prima del sequestro Moro e quindi, data anche la personalità dello stesso, non è escluso che chi frequentava Moretti in quel di Firenze potesse essere proprio Senzani. Che ne dice?

CHELAZZI. Non vorrei citare a sproposito una pagina dell’istruttoria, ma mi pare che ci sia un’affermazione positiva in questo senso.

MANCA. Questo è un risultato notevole. La persona che frequentava Moretti durante il sequestro Moro e che aveva un certo livello…

CHELAZZI. Ho detto una cosa diversa. Ho parlato di un rapporto positivamente accertato tra Moretti e Senzani, non negli anni ’80.

MANCA. Durante il sequestro Moro.

CHELAZZI. Mi spiego: Bombaci nelle sue dichiarazioni iniziali, in cui fece alcune ammissioni, andò affermando e ripetendo che nelle Brigate rosse era stato in qualche modo inserito e reclutato da parte di una persona di cui non volle mai fare il nome, ma che ci fece capire doveva gravitare prevalentemente su Firenze (può anche averci preso in giro, però questo è il senso della sua affermazione), mentre - ripeto - gli altri erano tutti pisani: gli architetti, i ferrovieri e altri ancora.

Quando la Digos propone un’attività investigativa sul conto di Senzani a fine febbraio 1979 quest’attività sfocia in una perquisizione, che mi viene richiesta il 19 marzo 1979 e che dispongo io personalmente. La stessa sera del 19 Senzani viene perquisito con l’intervento personale dei magistrati; nell’occasione, oltre alla Digos, c’era il dottor Vigna e c’ero io. La perquisizione porta ad acquisire una certa documentazione, in particolare un’agenda che Senzani – ricordo benissimo – aveva nella giacca sull’appendiabiti nell’ingresso di casa. Se non ricordo male, fu il dottor Vigna che infilò la mano nelle tasche per controllare quello che c’era nei vari vestiti (Senzani aveva famiglia, una moglie e delle figlie; le perquisizioni o si fanno così o non si fanno) e nella giacca da uomo – l’unico in famiglia era Senzani – trovò questa agenda. Il professore fu citato – cosa che era ampiamente consentita e lo sarebbe ancora – verbalmente e direttamente dal pubblico ministero a formalizzare in questura le attività compiute. Sul conto di questa agenda Senzani rese delle affermazioni che non ci sembrarono per niente plausibili e intorno a mezzanotte o all’una Senzani fu raggiunto da un provvedimento cautelare, cioè andò per alcuni giorni al carcere delle Murate con la contestazione che ci stava prendendo in giro, che stava raccontando il falso, perché voleva a tutti i costi far passare un certo numero come una partita IVA o una matricola INPS di qualche studente: insomma, discorsi che non erano coerenti.

E’ anche vero che a mente fredda, dopo due o tre giorni, si considerò che se questa persona stava dicendo il falso per non ammettere proprie responsabilità meritava la comunicazione giudiziaria ma anche, nello stesso tempo, di non stare in galera come falso testimone: per forza di cose. Così fu e, dopo pochissimo tempo dall’ottenimento della libertà, Senzani si rese irreperibile. Egli rimase reperibile a Firenze ancora ad aprile e maggio, ma a giugno non lo era più.

Dico questo sulla base di un ricordo dell’attività della polizia giudiziaria: la DIGOS continuò in qualche modo a lavorare su Senzani; non furono compiute attività di intercettazione, che ricorderei, ma dopo qualche tempo la Digos stessa avvisò che Senzani probabilmente non era più in circolazione. Questo non lo dice soltanto la DIGOS ma anche i collaboratori del 1982, in particolare Ciucci che, essendo stato tagliato fuori da tutta la vicenda del comitato con gli arresti del 19 dicembre (perché i suoi referenti erano Cianci, suo collega di lavoro, Baschieri, perché sapeva dove trovarlo, ma non sapeva se Bombaci stava a Mercatale piuttosto che al Galluzzo piuttosto che altrove), casualmente riallaccia i contatti con l’organizzazione perché, facendo il ferroviere, incontra casualmente Moretti sul treno. Ciucci faceva il conduttore talvolta anche sulla linea Firenze-Roma, Moretti qualche volta prendeva il treno per andare da Roma a Milano o chissà dove: in questo modo Moretti e Ciucci si incontrano e si riconoscono perché si sono visti l’anno prima, probabilmente un paio di volte, in viale Unione Sovietica: non sono due estranei. Mi pare che a questo punto sia Moretti che dà a Ciucci le coordinate per un incontro, che poi avverrà (siamo nella primavera del 1979 o forse poco più in là) durante il quale si materializza Senzani.

Ciucci non conosceva Senzani prima dell’estate.

MANCA. Non si è parlato della sensazione che i due si conoscessero da prima?

CHELAZZI. Mi pare di sì e mi pare che qualcosa di ancora più impegnativo l’abbia detto Savasta. Se ricordo bene, Savasta conosceva meglio di Ciucci la vicenda brigatista, per ovvie ragioni, tanto che ottenne da Senzani la confidenza che gli ci era voluto un po’ di tempo per entrare in clandestinità, perché aveva problemi con la famiglia. Addirittura (particolare che credo molti poliziotti e pubblici ministeri ignorassero all’epoca) Savasta raccolse da Senzani anche la "confessione" che gli era toccato fare qualche giorno di galera con una imputazione un po’ burrascosa del pubblico ministero di Firenze. Era vero, ma non era un episodio che aveva riempito le pagine dei giornali; la notizia di un professore di università che va in galera tre giorni per falsa testimonianza non interessa certo mezza Italia.

Savasta centra la figura di Senzani in maniera più adeguata rispetto a tutta l’esperienza del comitato. Lo stesso fece Fenzi, il cognato brigatista collaboratore, il quale disse che per quanto ne sapeva i contatti fra Senzani e il comitato erano stabili e in questi, ovviamente, Senzani faceva valere un certo rango culturale e quindi anche un certo ascendente.

MANCA. Era laureato in criminologia?

CHELAZZI. Conosceva molte vicende, anche di criminologia. Aveva compiuto molti studi sul Welfare State, era uno studioso ante litteram delle problematiche dello Stato sociale; lo ricordo per la perquisizione fatta il 19 marzo 1979.

Fenzi colloca la figura di Senzani (certo non la può deprimere come figura, perché non è deprimibile) con largo anticipo; e l’altro collaboratore del Partito guerriglia, Buzzatti Roberto, che aveva partecipato tra l’altro alla soppressione di Roberto Peci, dice che Senzani era stato il leader, il capo, il vertice del comitato rivoluzionario toscano. Ed è sulla base di questo che poi la Corte d’assise di Firenze ha condannato Senzani; ha avuto difficoltà nello stabilire a partire da quando gli andava riconosciuta la qualità di leader del comitato, di vertice, di organizzatore e di quant’altro si voglia, ma glielo ha riconosciuto e lo ha condannato anche per fatti per i quali non c’era la dimostrazione di una sua partecipazione di ordine materiale. Gli attentati di novembre – non è una sottolineatura che io ho fatto casualmente –riguardano due professionisti impegnati nel settore carcerario. Ebbene, un mese prima e poi ancora otto mesi prima a Roma era no stati uccisi dalle Brigate rosse due magistrati impegnati sul fonte carcerario. Non so se è mai stata fatta una lettura di questo tipo.

MANCA. Quindi si potrebbe dire che durante il sequestro Moro il grande irregolare delle Brigate rosse poteva essere il Senzani.

CHELAZZI. Credo che, al pari degli altri, Senzani fosse sicuramente un irregolare, anche all’epoca del sequestro Moro, se la datazione della sua appartenenza alle Brigate rosse fatta dalle sentenze è giuridicamente e storicamente praticabile, nel qual caso è sicuramente uno – tra gli altri irregolari – compatibile.

MANCA. Per quanto riguarda il caso Moro, signor Presidente, mi fermerei qui.

PRESIDENTE. La ringrazio per le domande che ha posto, perché hanno consentito di compiere un ulteriore salto in avanti.

MANCA. Come premio, signor Presidente, mi permetterei di porre delle domande sul caso D’Antona.

L’8 giugno del 1999, dottor Chelazzi, lei, in una dichiarazione fatta all’ANSA in merito all’omicidio del professor Massimo D’Antona, ha testualmente detto: "Potrebbe darsi che tutto sia già scritto: dal livello organizzativo, che si può definire mediocre, alla necessità di rapportarsi con aree minori come i Nuclei comunisti combattenti, fino alla enunciazione di un percorso politico in formazione e diretto quindi più verso l’interno del movimento rivoluzionario che verso l’estero". Vista allora la sua decennale esperienza - di cui sta dando una prova evidentissima - sul fronte della lotta al terrorismo, ci può illustrare meglio il concetto che ha espresso in quell’occasione all’ANSA?

CHELAZZI. Fermo restando che quello che io ho detto a un organo di stampa è detto con una cautela della quale non mi vesto davanti a loro.

MANCA. Di questo la ringraziamo.

CHELAZZI. È difficile sottrarsi ai giornalisti dell’ANSA o di altre testate quando succedono avvenimenti tragici come quello di D’Antona. Purtroppo, essendo uno che ha passato un bel po’ di tempo dietro queste storie, non ne ho potuto fare a meno. Sostanzialmente è la mia opinione; può essere che sbagli: intendevo dire che le premesse, da un punto di vista concettuale ma anche operativo, delle Brigate rosse del 1999 e quindi dell’organizzazione che ha compiuto, non solo rivendicato, anche quel delitto fossero già state tutte scritte. In altri termini io ho sempre pensato che fosse estremamente significativa la strategia perseguita dai Nuclei comunisti combattenti, perché riproducevano negli anni ’90, e in scala minore, i due temi strategici degli anni ’80, temi sui quali poi si alternavano le azioni militari da un anno all’altro: nel 1982 si compie una certa azione (Dozier), quindi si guarda all’Italia e alla sua posizione…

PRESIDENTE. Io ho fatto questo conto: mancherebbero pochi mesi all’altro attentato.

CHELAZZI. Ora, se si vuole – ma può essere che questo sia un mio capriccio e che mi sbagli - la denominazione Nuclei comunisti combattenti è un po’ troppo precisa per esserlo solo casualmente. Coniugare cioè i due termini "comunista" e "combattente" non fa parte di tutto il panorama della nebulosa eversiva dagli anni ’70 a noi; non sono poi tanti quelli che lo hanno fatto: le Unità comuniste combattenti negli anni ’70; negli anni ’80 l’Unione dei comunisti combattenti, che poi viene dalla Seconda posizione (si potrebbe dire che è un parto di secondo letto delle Brigate rosse e siamo sempre nell’ambito BR), e poi troviamo i Nuclei comunisti combattenti, fino ad avere, sia pure a distanza di qualche anno, nuovamente le Brigate rosse per la costruzione del Partito comunista combattente. Secondo me c’è una continuità. Comunque, a parte la continuità dall’esterno, proviamo a guardare da quell’altra parte: perché hanno adoperato la sigla "Nuclei" e non hanno adottato una sigla diversa? Potevano adottare la sigla "Brigate" nel 1992 e poi nel 1994? Non potevano chiamarsi ancora una volta "Brigate"? Perché c’è stato bisogno di arrivare al 1999 per chiamarsi "Brigate"? Ci sono due aspetti: uno è di organizzazione, l’altro è di legittimazione politica all’utilizzo della sigla. Non può essere utilizzata la sigla "BR" da chi delle Brigate rosse non è; è un problema di correttezza tra organizzazioni che praticano l’eversione e la lotta armata, per cui non ci si impossessa l’uno della sigla dell’altro; si è certosini e farmacisti. Voglio aggiungere che se il termine odierno è "Brigate" è perché è superato il momento in cui esisteva solo una struttura, nel qual caso si sarebbe dovuto parlare di "Brigata". Siccome è impensabile adoperare una sigla "Brigata comunista combattente", la situazione è dovuta maturare fino al punto in cui l’organizzazione fosse in grado di esprimersi al plurale, come "Brigate", con la denominazione completa. Questo è l’aspetto organizzativo dell’utilizzo; poi c’è l’aspetto della legittimazione politica. Questo intendevo dire: il termine "Nuclei", (non come sigla, che mi lascerebbe tutto sommato indifferente presa di per se stessa) se viene inquadrato in una gestione della terminologia che non è casuale, mi fa pensare che i Nuclei siano stati gli eredi, non nel senso che hanno trovato questo patrimonio politico-militare abbandonato da qualcuno in un angolo, ma sono gli eredi nel senso che c’è un dante causa e un avente causa rispetto alla storia politica e organizzativa delle Brigate rosse. Può essere che l’avente causa, in un periodo di tempo circoscritto, avendo necessità di manifestarsi all’esterno, si sia manifestato con la sigla "Nuclei", perché non erano maturi i tempi per adottare la sigla "Brigate".

PRESIDENTE. Ma la maturazione dei tempi ed il salto di qualità possono essere stati determinati da qualche autorevole ritorno?

CHELAZZI. Qui vado un po’ in controtendenza rispetto al mio mestiere, che è quello di fare il magistrato, perché qui davvero mi devo lanciare in un’interpretazione, Presidente: potrebbe essere. E’ compatibile, perché la legittimazione politica non è un problema da sottovalutare nell’utilizzo della sigla. Non ci sono appropriazioni indebite, per l’esperienza mia, che magari termina all’inizio degli anni ’90, ma non ci sono appropriazioni indebite di sigle in un ambiente eversivo.

MANCA. Dottore, mi viene spontaneo immaginare che il nostro colloquio sia seguito dall’uomo della strada, come indirettamente lo è tramite i giornalisti. E allora, l’uomo della strada si trova dalle 21 di fronte ad un uomo che sa tanto sulle Brigate rosse, che sa tanto sul terrorismo e si sta dimostrando anche che sa tanto su posizioni, su collegamenti, su logiche per quanto riguarda D’Antona. E allora l’uomo della strada chiede: lei è stato mai interpellato? Si sono mai serviti della sua esperienza i suoi colleghi, oppure no?

PRESIDENTE. Rispondo io a questa domanda. Il problema non riguarda il dottor Chelazzi, il problema riguarda questa Commissione che non approvò la proposta del Presidente che tendeva ad affermare che sarebbe stato opportuno affidare le indagini sul terrorismo ad una struttura centralizzata, o sul modello della procura nazionale antimafia, o alla stessa procura nazionale antimafia, attraverso una piccolissima modificazione della legge che avrebbe investito la procura nazionale antimafia anche nei reati di terrorismo in un paese come questo dove il confine tra criminalità organizzata e terrorismo non è poi mai così netto.

MANCA. Questo è vero, ma è comunque valida la mia domanda.

PRESIDENTE. Mi consenta di averle risposto io. Togliamo il dottor Chelazzi da un imbarazzo istituzionale.

MANCA. Ma a prescindere da quello che dice il Presidente, che è giusto, questo patrimonio di conoscenze che lei ha non è conosciuto dai suoi colleghi?

PRESIDENTE. Perché fa un mestiere diverso, fa il sostituto procuratore nazionale antimafia.

MANCA. Ma al cittadino della strada non gli importa niente di questo.

PRESIDENTE. Dovremmo decidere noi, che siamo il Parlamento.

MANCA. Ma non ha risposto alla mia domanda.

PRESIDENTE. Preferisco che non risponda. Cosa le deve dire? Quello che ho detto.

CHELAZZI. Mi scusi, Presidente. Io so per certo che a valle del delitto del 20 maggio dell’anno scorso le procure della Repubblica hanno integrato nel modo migliore possibile le loro attività e le loro conoscenze. Io so che alla procura della Repubblica di Firenze vi è il procuratore aggiunto, il dottor Fleury, che è uomo di altissima esperienza nel settore anche dell’eversione; può essere che le sue idee su qualche passaggio siano meno documentate delle mie, ma sicuramente io non avrei avuto posto per integrare, dalla mia collocazione nella Direzione nazionale antimafia, un’idea o una conoscenza nelle attività e nelle esigenze degli altri uffici…

MANCA. A questo punto faccio mio quello che ha detto il Presidente; preferisco non commentare quello che lei sta dicendo.

BIELLI. Io la ringrazio per lo sforzo che a mio parere ha fatto, anche comprendendo il ruolo della nostra Commissione. Noi stiamo cercando di indagare per diradare alcune nebbie e il fatto che ci siamo mossi ha risvegliato forse anche qualcuno, anche come lei, che ha sentito il bisogno di intervenire su questa vicenda. Credo che da questo punto di vista si scopre anche che la Commissione può svolgere un ruolo, e aggiungo anche sperando che altri personaggi sentano il bisogno al pari di lei di venire a riferire qualcosa. Perché io sono convinto che altri possono dirci qualcosa. Lei sicuramente ci ha dato una mano, ed io le sono grato.

Detto questo, che può apparire un fatto formale, ma è sostanziale, io vorrei anche porle tre domande, e lo faccio con lo spirito con cui lei si è posto rispetto ai nostri problemi cercando di darci un contributo; poi valuteremo noi, nel senso che mi pare che siamo tutti alla ricerca di una verità difficile da trovare, ma in cui cerchiamo di dire la nostra opinione. La questione che le pongo è la seguente, e ritorniamo sempre al famoso borsello di Azzolini, ritorniamo a questa vicenda. Forse anche per noi si pone un problema, nel senso che il borsello almeno io ho pensato che fosse stato utilizzato diversamente rispetto ad alcune opinioni che lei ha espresso. Oggi, ad esempio, rispetto a questa questione io chiedo a lei se non c’è stata opera di depistaggio, oppure opera per cui si è utilizzato il borsello per arrivare a via Monte Nevoso. Presumo che sia vero quello che lei ha detto, che è stato veramente perso da Azzolini, ma quello che ne viene fuori rispetto agli atti che immediatamente ne sono seguiti è che Azzolini pare essersi comportato conseguentemente rispetto alla necessità di non scoprire troppo le carte. Ma di pari passo, però, ci rendiamo conto di un dato: che dal borsello parte un’operazione in cui in qualche modo Monte Nevoso per un verso e i covi di Firenze fanno pensare quasi che ci sia stato un qualcuno o un qualcosa (io non so individuare chi) che abbia voluto lanciare dei segnali comunque a Moretti. Per via Monte Nevoso e Firenze Moretti riesce a trovarsi in qualche modo in una situazione in cui pare, se non che sia stato protetto, che gli sia stata data la possibilità di agire in una certa maniera. Cosa ne pensa lei di questa mia opinione?

CHELAZZI. Spero di aver inteso al meglio le sue domande, onorevole Bielli. Io registro che, se l’operazione di via Monte Nevoso avesse avuto da qualche parte un soggetto capace di prefigurarla, e che magari abbia utilizzato oggettivamente, non strumentalizzato, lo smarrimento del borsello da parte di Azzolini, quasi che, avendo già messo nel mirino una certa situazione milanese, nella quale avevano già il loro posto, almeno una base, due o tre latitanti regolari, Azzolini e Bonisoli a via Monte Nevoso (carichiamo tutto sopra la storia del borsello, così il resto possiamo tenercelo per noi e non farlo sapere), se questo si fosse voluto fare da parte di qualcuno, perché non "sbattere il borsello in prima pagina" davanti al magistrato? Io sono abituato a vedere che quando la polizia, la polizia giudiziaria in senso lato, vuol mascherare l’esistenza di una fonte fiduciaria, o almeno la vuol mascherare al punto da impedire un’identificazione, si parla di qualche cos’altro: magari (non dico per me), ci si inventa falsi ideologici, ma questo qualche cosa di diverso del quale ci si serve lo si mette in primo piano per rimuovere in qualche modo quei dubbi che potrebbero anche, non dico rigenerandosi, ma alimentandosi criticamente l’uno con l’altro, far intravedere (nell’esempio che sto facendo) l’esistenza di una fonte fiduciaria, e quindi quella fonte fiduciaria che possa, per questo, non identificarsi in altro che nella tal persona. Invece vedo che in questo caso, se il borsello è mai stato una messa in scena, è una messa in scena gestita in maniera ridicola, perché è quasi semiclandestinizzata. E’ quasi semiclandestinizzata a Firenze mentre invece – ripeto – la regola sarebbe stata quella di ostentarla, sbandierarla a Milano. Questa è una considerazione, onorevole, che nasce da una massima di esperienza poco codificata, però plausibile. Perciò, se ci fosse stata la possibilità, in virtù di qualcuno (non riesco a pensare a qualcosa devo necessariamente pensare a qualcuno) di prefigurare, o meglio di fotografare con largo anticipo la situazione milanese, questo "qualcuno" non era in grado allo stesso tempo di dare la possibilità di intervenire con altrettanta efficacia sulla struttura toscana delle Brigate rosse?

PRESIDENTE. Questo passaggio non riesco a capirlo.

BIELLI. Lei ha ragione rispetto a quello che dice, se non ci fosse una questione che è l’opposto. Ma agire in questo modo non può essere stato funzionale in qualche modo a far fuggire qualcuno in tempo utile? Allora venne evidenziata la necessità di fare una rete di protezione per coloro che avevano dato indicazioni per motivi di riservatezza. Ebbene, dopo due mesi fu scritta una nota in cui erano indicati i nomi, i cognomi, gli indirizzi, come erano fatti. Dopo due mesi l’esigenza di riservatezza, l’esigenza di tenere queste fonti coperte era ancora valida eppure sembra che non esistesse più. Come è possibile?

CHELAZZI. Vuole sapere perché dopo due mesi questi nomi compaiono in atti ufficiali dell’Arma?

BIELLI. Con una nota esplicita vengono indicati anche i numeri di telefono.

CHELAZZI. Questo lo apprendo oggi da lei perché quando ho detto che non ho mai letto un foglio del fascicolo del borsello le ho detto esattamente la verità. Però l’importante, secondo me, non era tanto non scrivere questi nomi quanto non saldare le due realtà.

BIELLI. Allora siamo d’accordo.

PRESIDENTE. L’ipotesi di Bielli è l’ipotesi estrema e quindi, in quanto tale, si allontana dall’albero delle probabilità. L’ipotesi più vicina potrebbe essere quella, invece, che la "clandestinizzazione" avviene a Firenze perché quello che si vuole coprire è un problema dell’Arma (questo è poi il "non detto" delle mie osservazioni iniziali). In fondo, la mancata attribuzione fiorentina del borsello ad Azzolini ha evidenziato un deficit di indagini che riguarda l’Arma. Se fosse vero ciò che è contenuto all’interno di un recente atto di sindacato parlamentare, non si voleva far uscir fuori chi aveva dato quell’arma ad Azzolini.

CHELAZZI. Signor Presidente, su questo punto non so darle un’indicazione né formulare un’ipotesi. Tuttavia, tornando a quanto ipotizzava l’onorevole Bielli, se qualcuno è stato in grado di orientare con anticipo le indagini, a prescindere dalla vicenda del borsello che in questo caso diventerebbe una specie di paravento dell’ultimo minuto da tirar fuori quando ce ne è bisogno, perché è caduto soltanto un pezzo dell’organizzazione, quella milanese, e non sono caduti anche alcuni pezzi dell’organizzazione fiorentina? Mi verrebbe da pensare che ci sia stata una specie di epurazione fatta dall’interno in concorso con l’Arma dei carabinieri e condotta fino a un certo punto.

PRESIDENTE. Per questo dicevo che era una ipotesi estrema.

BIELLI. La sua ovviamente è una considerazione. Lei capirà che può trovare un terreno fertile alle cose che dice, ma da questo punto di vista vorrei porle un’altra domanda. Il colonnello Bonaventura ci ha detto che rispetto alle fonti si utilizzava un criterio: c’erano le fonti che non erano più necessarie e quindi si potevano in qualche modo eliminare; poi c’erano le cosiddette "fonti verdi" che venivano conservate.

PRESIDENTE. Qualche volta più delle fonti, addirittura qualche brigatista. Questo ce lo ha detto Bonaventura.

BIELLI. Quindi, in una logica di un certo tipo, può darsi che ci fosse una fonte che a quel punto non si riteneva abbastanza forte ma che poteva diventare buona per il futuro. E’ una spiegazione, però questo significa che nel futuro la fonte doveva essere seguita. Ma è una considerazione che potremmo sviluppare in altri ambiti.

PRESIDENTE. Vorrei aggiungere un’osservazione. C’è un punto che viene fuori dall’audizione di Dalla Chiesa e che invece nell’audizione dei dottori Spataro e Pomarici viene sottovalutato. Quando Dalla Chiesa riferisce alla Commissione Moro dice con chiarezza che lui riteneva un grande successo quello di via Monte Nevoso non solo perché là dentro era stata presa una buona parte del vertice delle BR, ma perché era l’unico posto dove erano riusciti ad arrivare alle carte di Moro. Quindi dice con chiarezza – quello che a me sembrava evidentissimo – che uno dei compiti affidati a Dalla Chiesa era proprio quello di ritrovare le carte.

BIELLI. Tornando alla vicenda del borsello, questo ritorna a Firenze. Lei ci può spiegare come ritorna a Firenze, se ad esempio le chiavi sono state provate in tutti e tre gli appartamenti a cui ha fatto riferimento. C’è stato un utilizzo di quelle chiavi, hanno scoperto qualcosa a Firenze?

CHELAZZI. Le chiavi non hanno scoperto niente nel senso che posso escludere in piena tranquillità che i carabinieri siano più tornati sull’argomento chiavi con me o con altri per andare a verificare una serratura in viale Unione Sovietica o in via Pisana o da qualche altra parte. Anzi, le chiavi tornarono in Procura dopo che il maresciallo Saracini mi disse che era stato senza esito il tentativo fatto in via Barbieri; mi raccomandai che le chiavi non rimanessero da qualche parte: "Affrettatevi, se non vi servono più, a farle tornare alla stazione di partenza perché devono tornare nel fascicolo o nell’ufficio corpi di reato". Di questo sono certissimo.

Non mi sarei ricordato le modalità sennonché, leggendo l’audizione del collega dottor Baglione, ho trovato il riferimento ad una certa busta nel fascicolo sul borsello (e quindi sulle chiavi) intestata a me. Sono convinto che, salvo ovviamente non farmi particolare carico di eventuali lacune nella memoria, voi mi crediate circa la storia del borsello per come la conosco e come l’ho raccontata all’inizio. Ma il particolare della busta con il mio nome, a prescindere da tutto il resto e da quanto io posso ricordare, dimostra che in relazione a quelle chiavi c’è stata una presa di contatto tra me e i carabinieri. In effetti, leggendo quella parte dell’audizione, mi è tornato in mente che un bel giorno probabilmente lo stesso maresciallo Saracini si è presentato da me con la busta con le chiavi e io devo avergli detto: "Illustre maresciallo, io non sono il titolare del procedimento delle chiavi. Fermo restando che non sono servite ad ottenere nulla di positivo" - così gli dissi - "devono tornare dal magistrato titolare". Può anche darsi che, siccome la busta era intestata a me, io l’abbia fisicamente presa, che sia andato dal collega dottor Baglione e gli abbia detto: "Guarda, ci sono questi reperti che hanno messo in una busta indirizzata a me, ma deve essere qualcosa che riguarda un tuo procedimento perché si parla di chiavi e di borselli". Sicuramente, a costo di apparire realista fino al cinismo, al dottor Baglione nemmeno nel momento in cui gli ho restituito le chiavi - fu una scelta che ritenni di fare all’epoca - ho partecipato il contenuto delle informazioni verbali avute dal maresciallo Saracini.

BIELLI. Due curiosità, dottor Chelazzi. La prima è la seguente. Il maresciallo Saracini si rivolge a lei in un primo momento a seguito - diciamo così - di un incontro casuale. Perché non ha sentito anche l’esigenza di rivolgersi al suo superiore, che era il titolare dell’inchiesta? Giustamente non è una responsabilità sua se il Saracini non ha parlato con il dottor Baglione, però sicuramente questo è un aspetto un po’ anomalo.

Non so se lei è in grado di rispondere alla seconda domanda. Abbiamo parlato di Ippoliti, ma chi è il perito che riscontrò la seminfermità di Ippoliti? Lo ricorda?

CHELAZZI. Per quanto riguarda la prima domanda, credo che Saracini si rivolse a me non solo perché c’era una certa confidenza, ma anche perché siamo vicini di età, visto che è poco più vecchio di me. Lo avevo conosciuto mentre facevo uditorato con un magistrato che loro conoscono bene, anche se non è più parlamentare, il dottor Casini, che era sostituto. Il dottor Casini si occupava di una storia di una complicazione straordinaria, sullo sfondo della quale addirittura sembrava di vedere i bagliori dell’Italicus; una storia che poi non portò a nessun concreto risultato.

Il maresciallo Saracini, che lavorava al nucleo investigativo, era fra i sottufficiali che affiancavano il dottor Casini dalla mattina alla sera e qualche volta anche dalla sera alla mattina. Può essere in parte per questo, in parte perché cercando il dottor Baglione quella mattina non lo trovò, può essere perché comunque sapeva che della storia (gli arrestati, via Barbieri) me ne occupavo anch’io, quindi per una serie di ragioni, tutte o una sola, mescolate in qualche modo, venne a chiedermi se era possibile mettere le mani su quel borsello per fare un tentativo. Io non mi posi neppure il problema; o meglio, me lo posi, dissi: voglio vedere come lo risolvono. Anche se sarà il collega che gli dirà: "voglio una risposta scritta per… voglio che mi facciate un verbale, oppure voglio che procediate in altro modo". Non mi posi neanche il problema di come avrebbero fatto i carabinieri ad andare con queste chiavi ad aprire la serratura di un appartamento messo sotto sequestro dalla DIGOS, perché poteva anche succedere una specie di scontro istituzionale, sia pure in tono minore. Comunque, questa era la richiesta; io gli dissi che capivo il fondamento e che se egli l’avesse presentata davanti al magistrato competente, sicuramente non avrebbe trovato difficoltà; e mi pare che non ne abbia trovate, perché il corpo di reato fu verificato.

Per quanto riguarda la seconda domanda questa sentenza del 6 ottobre 1976 del tribunale di Firenze recita: "…dichiara Ippoliti Giuseppe colpevole di tutti i delitti ascritti con le attenuanti generiche e con la diminuente del vizio parziale di mente per tutti i reati… Lo condanna alla pena…". Non ho letto tutta la sentenza, so che esiste e che poi ha creato un grosso problema. Vediamo se riesco a trovare dove si parla di determinazione della pena e in ragione di che cosa… No, della perizia psichiatrica non dice molto, onorevole: "…dovrà essere inflitta la pena prevista per il delitto più grave, aumentata ai sensi dell’articolo 81… La perizia psichiatrica sull’Ippoliti, con dovizia di motivazioni, ha evidenziato a carico di quest’ultimo uno scompenso depressivo reattivo esisten… (e qualche cosa)… per cui a ragione è da ritenere che all’epoca dei fatti l’imputato si trovasse in stato di infermità mentale, tale da scemare grandemente la capacità di intendere e volere. Devesi quindi concedere a costui la diminuente…". Non mi sembra che ci sia il nome del perito.

PRESIDENTE. La può lasciare questa sentenza?

CHELAZZI. Non ho alcuna difficoltà.

PRESIDENTE. Perché ha creato un problema?

CHELAZZI. Ha creato un problema per i termini di carcerazione preventiva di Ippoliti. Tutti i reati di Ippoliti andavano dimensionati su quello che aveva fatto all’inizio del 1976. Allora eravamo alle prese con reati di partecipazione a banda armata, partecipazione ad associazione sovversiva, per i quali il termine massimo di custodia cautelare era di sei mesi. Questo termine diventava più lungo – per molti di questi processi – per effetto delle norme speciali della legge del ‘75 sulle armi, in particolare gli articoli 23 e 29, sulla detenzione di armi, esplosivi e quant’altro, per finalità di sovvertimento, per compiere attentati, per mettere in pericolo la sicurezza della persona. Erano reati a cattura obbligatoria e quindi ad essi era correlato un termine base di un anno. Ippoliti aveva finito la sua pena, la carcerazione preventiva si restaurò con l’ordine di cattura che gli facemmo il dottor Vigna ed io: ritenendo che fosse compatibile con il precedente giudicato, gli contestammo il reato dell’articolo 23 della legge sulle armi dell’ottobre 1975, come titolo autonomo di responsabilità, per quanto fosse già passata in giudicato la sentenza che lo condannava per porto e detenzione di armi comuni da sparo. In realtà, l’ordine di cattura fu sindacato davanti alla Cassazione la quale disse: questa contestazione incontra il divieto del ne bis in idem, oggi "non potete" riqualificare alla luce di una norma diversa quello che è già stato giudicato. Quindi, il capo di imputazione relativamente alla detenzione di armi, che sorreggeva i termini, si perse strada facendo; il termine ritornò ad essere di sei mesi, Ippoliti fu scarcerato. Per qualche tempo osservò gli obblighi che gli erano stati imposti, dopodiché si rese inosservante. Ebbe un nuovo mandato di cattura al quale rimase latitante e da latitante fece il suo processo di primo e secondo grado; è nel processo che nasce il 19 dicembre 1978 che la sua posizione fu veicolata. Si pensava – io personalmente lo penso ancora, anche se da magistrato non lo penso né lo posso dire – che, anche per le coordinate temporali, il suo ruolo non fosse dissimile da quello di chi era finito in carcere nel 1978. Lui era andato in carcere nel 1976, ma la vicenda criminale e giudiziaria non poteva essere diversa. Ecco perché la sentenza ha rappresentato un problema.

BIELLI. Le faccio due ultime domande.

Prima si è parlato di Senzani; ne parlo spesso, perché io sono di Forlì e Senzani di rapporti con Forlì ne ha avuti. Quando si parla di Senzani, a più riprese viene fuori che in qualche modo potrebbe aver avuto rapporti con Mannucci Benincasa. Lei, nelle indagini che ha fatto, di questi rapporti fra il Senzani e il Mannucci Benincasa era a conoscenza? Ha avuto modo nelle indagini di notare che vi sono stati questi rapporti? Penso, ad esempio, a qualche libro di Sergio Flamigni, in cui si parla del famoso appartamento in cui vi era la possibilità di ascoltare le conversazioni con il telefono. Nelle indagini che ha fatto è emerso qualcosa rispetto a questo episodio?

Vista l’ora non voglio annoiare i colleghi che sono rimasti, né stancare ancora di più lei che credo abbia avuto una serata faticosa. L’ultima domanda è al seguente. Lei ha condotto delicate e importanti indagini a Firenze, ha condotto anche indagini sulla P2 a Firenze e in Toscana. Mi pare anche che abbia interrogato intorno a questa questione il giornalista dell’ANSA Coppetti, in particolare in merito a contatti che avrebbe avuto con il SIOS dell’Aeronautica Umberto Nobili. Rispetto ai contatti, ai rapporti, alle affermazioni fatte dal Coppetti a cosa è pervenuta l’indagine che lei ha fatto?

CHELAZZI. Di Senzani ho smesso di occuparmi alla fine del 1985, il giorno in cui ho chiesto una certa condanna che poi la corte d’assise ha pronunciato. Fino a quella data, onorevole Bielli, non ricordo che, nelle indagini svolte a Firenze, negli atti di iniziativa del pubblico ministero, o negli atti della polizia giudiziaria, vi sia mai stato qualcosa che facesse intravedere in qualche modo un rapporto tra Senzani e la persona di cui si parla, cioè a dire il capo centro del Servizio di sicurezza militare di Firenze. Questo sulla base del mio ricordo; e non credo di sbagliare, perché se fosse emerso qualcosa a questo livello…

PRESIDENTE. E per quanto riguarda Musumeci?

CHELAZZI. Conosco il famoso incontro, so da dove proviene la dichiarazione.

PRESIDENTE. Non è un aspetto che ha approfondito, dunque.

CHELAZZI. Non l’ho mai controllato. Circa Mannucci Benincasa, l’indagine che lo riguardò per il ritrovamento dell’arsenale è stata fatta dal dottor Marziani (per qualche anno a Firenze e ora al tribunale di Roma) che mi pare si sia occupato di questa storia nel ’91. Il dottor Marziani seguì questa storia da solo, oppure con il consiglio, l’alto patrocinio del Procuratore Vigna. Credo che se in quella sede fosse emerso qualcosa che portava a Senzani, Vigna me lo avrebbe detto. Ho letto degli appartamenti di Mannucci Benincasa e Senzani, dislocati in un certo modo rispetto all’Arno, ma preferirei non fare una valutazione.

Per quanto riguarda il giornalista Coppetti, se l’ho ascoltato, devo averlo fatto nel 1981, quando varie procure della Repubblica si occuparono delle ricadute della perquisizione di "Villa Vanda". La Procura di Milano rappresentò una certa situazione delle famose liste di "Villa Vanda" con nomi di alcuni fiorentini. Da come questi atti venivano trasmessi a Firenze si poteva capire che la scrematura era stata fatta in sede milanese. Se ho interrogato Coppetti, non posso averlo fatto che in quell’ambito, e non vedo questo giornalista da dieci anni. Se l’ho interrogato, l’ho fatto in un ambito di interesse giudiziario per la P2. C’erano in queste liste dei nomi di persone fiorentine o per residenza o per attività. Ricordo di aver interrogato più di una persona, non ricordo di essere riuscito a trovare nulla di serio. Ciascuno di questi badava a dire che era stato iscritto quasi abusivamente: c’era il titolare di una farmacia e una persona che non era un vero e proprio frate, o non lo era del tutto.

PRESIDENTE. Forse un frate minore.

CHELAZZI. In quell’indagine mi trovai davanti ad una serie di affermazioni fra loro sicuramente omogenee, non so se concertate. Qualcuno conosceva Gelli, in particolare il titolare della farmacia che aveva sede nella sacrestia di Santa Maria Novella, una famosa farmacia con una lunga storia.

BIELLI. Il riferimento a Coppetti non le ricorda Dalla Chiesa e le BR?

CHELAZZI. No.

PRESIDENTE. In tutta questa importantissima indagine alla quale si è interessato sulle BR, ci sono mai stati episodi in cui la polizia giudiziaria o i carabinieri del nucleo di Dalla Chiesa abbiano utilizzato infiltrati?

CHELAZZI. Tutte le indagini che ho fatto sulle BR le ho fatte con la polizia di Stato.

PRESIDENTE. Abbiamo un problema. Il generale Dalla Chiesa parla di infiltrati, ne parla nei rapporti a Rognoni, ne ha parlato alla Commissione Moro. Abbiamo recentemente sentito un suo collaboratore, Bonaventura, che ci ha detto che non c’erano infiltrati. Capisco che vi sia il segreto sul nome di un infiltrato (il nucleo di Dalla Chiesa aveva anche compiti di intelligence) ma perché negare l’esistenza di infiltrazioni? Tenga presente che Bonaventura ci ha raccontato che le carte di via Monte Nevoso sono state prima portate via e poi rimesse a posto.

CHELAZZI . L’indagine del ’78, come altre, ha come organo di polizia giudiziaria la polizia di Stato.

PRESIDENTE. Penso di esprimere un ringraziamento a nome dell’intera Commissione per questa audizione che ho trovato interessantissima e che mi ha suscitato un rimpianto: da anni abbiamo deciso di sentire Vigna, purtroppo questa audizione non è mai stata formalizzata. Se tutte le cose che lei ci ha detto le avessimo sapute un anno fa, il nostro lavoro sarebbe stato più semplice e avrebbe potuto avere sviluppi ulteriori rispetto a quelli che potrà avere dato il breve termine che ci separa dalla fine della Legislatura. Comunque, la ringrazio sentitamente.

La seduta termina alle ore 00,05 dell’8 giugno 2000.

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