Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

XIII legislatura

Doc. XXIII n. 33

Relazione sull’omicidio D’Antona, con annessi gli atti del dibattito svoltosi sul documento

presentata dal Presidente della Commissione

(PELLEGRINO)

ai sensi dell'articolo 2, comma 2, della legge 17 maggio 1988, n.172, richiamata dall'articolo 1 della legge 23 dicembre 1992, n.499 e successive modificazioni

Comunicata alle Presidenze il 9 settembre 1999

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I N D I C E

RELAZIONE

  1. Premessa
  2. L’audizione del prefetto Ferrigno
  3. L’omicidio D’Antona e la sua rivendicazione
  4. La fase finale dell’esperienza BR
  5. Conclusioni provvisorieù

 

NOTE

QUADRO SINOTTICO SULLE PRINCIPALI FORMAZIONI E SUI FATTI EVERSIVI DI QUESTI ULTIMI ANNI

INTERVENTI SVOLTI NEL CORSO DELLA SEDUTA DEL 27 LUGLIO 1999

 

 

Premessa

L’omicidio del professor Massimo D’Antona richiama l’attenzione della Commissione sulla necessità di adempiere in una prospettiva nuova ad uno dei compiti che le sono stati assegnati dalla legge istitutiva: "accertare (riferendone al Parlamento) i risultati conseguiti e lo stato attuale nella lotta al terrorismo in Italia".

Tale compito nella XII e in questa XIII legislatura la Commissione ha interpretato come teso prevalentemente a formulare una valutazione – in chiave ormai storico-politica, dato il tempo trascorso – della risposta istituzionale data dallo Stato ai fenomeni terroristici di opposta matrice, che caratterizzarono il difficilissimo periodo della storia nazionale, che va dalla strage di piazza Fontana (1969) e dagli attentati che la precedettero nella primavera-estate dello stesso anno all’omicidio Ruffilli (1988), anche se non mancarono momenti di attenzione all’attualità come ad esempio la specifica inchiesta dedicata ai fatti della "Uno bianca".

Ma l’omicidio D’Antona chiama ora la Commissione ad una attualizzazione del suo compito, a domandarsi, cioè, se nel decennio trascorso vi sia stata in sede istituzionale una sottovalutazione del rischio di una nuova insorgenza terroristica e, quindi, a riflettere criticamente sul complesso delle misure e delle attività di prevenzione e contrasto adottate dalle forze di sicurezza, nonché sulla capacità degli apparati repressivi di operare con la dovuta efficacia e tempestività.

In questa riflessione critica una prima valutazione si impone: l’omicidio D’Antona non era sicuramente un fatto prevenibile, non è stato però nella sua tragicità, un evento del tutto imprevedibile, come pure a molti è sembrato.

All’opinione pubblica – pure alla più avvertita – esso è apparso, infatti, come il sorprendente e inatteso ritorno di fantasmi di un passato, che fiduciosamente si riteneva oramai archiviato e in qualche modo passato in giudicato; sicché il suo risorgere improvviso ha determinato l’angosciante interrogativo sulla possibilità che il Paese ricadesse d’un tratto nella pesante atmosfera degli anni di piombo.

Così ovviamente non è e simili enfatizzazioni non giovano, perché fortunatamente la situazione attuale del Paese non è quella degli anni Settanta. Ma colpevole sarebbe anche una minimizzazione dell’evento, insita nel considerarlo come un episodio eccezionale ed isolato, come tale del tutto inidoneo a porsi come l’anello iniziale di un’altra catena sanguinosa.

Non esistono più nel nostro Paese le situazioni di tensione e di vero e proprio scontro sociale che caratterizzarono gli anni Settanta e che determinarono il conflagrare di estremismi di opposto colore; non esiste più, per ciò che in particolare riguarda l’eversione di sinistra, l’ampiezza di un movimento di contestazione che attingeva ad ampi settori del mondo del lavoro e della fabbrica, coinvolgeva in modo vasto la popolazione studentesca delle scuole e delle università, lambiva, sia pur in ristretti ambiti, la borghesia e l’intellettualità italiana (i cattivi maestri). Ma anche una democrazia salda e una società non attraversata da eccessive tensioni convivono nel tempo presente con il rischio concreto di un periodico riaccendersi di fiammate terroristiche; un rischio questo che, se pure esclude un allarmismo eccessivo, impone comunque un grado elevato di attenzione volto alla prevenzione dei fenomeni e in ogni caso ad una efficiente azione di contrasto

 

L’audizione del prefetto Ferrigno.

A riflessioni di tal tipo la Commissione fu chiamata già nel dicembre 1996 da una lunga relazione del Direttore centrale della Polizia di prevenzione, prefetto Carlo Ferrigno, audito appunto al fine di un aggiornamento della Commissione sull’azione di prevenzione e contrasto del terrorismo interno ed internazionale. Furono in quella sede esaminati praticamente tutti i profili che potevano determinare in modo diretto e mediato nel nostro Paese una nuova insorgenza del terrorismo, muovendo dal presupposto che l’espressione terrorismo comprende realtà differenti tra loro e spesso eterogenee:

E’, quindi, il quadro internazionale a convincere che nessuna democrazia può oggi dirsi immune dal rischio che il terrorismo, nell’una o nell’altra delle sue varie forme, si manifesti con eruzioni improvvise, che non sempre è possibile prevenire, ma che una democrazia salda e sicura deve essere in grado di isolare, contrastare e sconfiggere in tempo breve.

Le ragioni di questo rischio, che potremmo definire endemico, non sono di difficile individuazione. La complessità sociale determina – è questo un dato innegabile nel presente – sempre nuove sacche di emarginazione e di esclusione, che regole maggioritarie (pur indispensabili per assicurare il governo democratico della complessità) escludono dalla rappresentanza politica.

Ovviamente queste sacche di emarginazione (dal contesto sociale) e di esclusione (dalla rappresentanza politica) non sono in sé terrorismo. Costituiscono però indubbiamente terreni di coltura, in cui il seme del terrorismo, in una delle sue varie forme, può facilmente attecchire. A ciò si aggiunga che la globalizzazione ha reso il mondo in qualche misura più piccolo, escludendo in tal modo che uno Stato possa sentirsi al riparo da tensioni che si generano al di là dei suoi confini; così, ad esempio, le megalopoli di una società multietnica determinano nelle periferie urbane situazioni che agevolano l’operatività di reti internazionali o l’insorgenza di fenomeni di estremismo religioso.

La possibilità concreta di un tal tipo di rischi fu offerta con chiarezza alla riflessione della Commissione dal prefetto Ferrigno, dalla cui audizione, con riferimento al tema specifico della presente relazione, apparve chiaro come al di sotto delle ceneri della disfatta delle BR covassero ancora braci e che quindi fosse reale il pericolo, ove le vicende internazionali ed interne avessero determinato un innalzamento della tensione sociale, di un riaccendersi di nuove fiammate.

Il riferimento fu al riorganizzarsi, già nella prima metà del decennio, di gruppuscoli, che esplicitamente si richiamavano all’esperienza finale dell’ex ala militarista delle BR, utilizzando sigle diverse quali i Nuclei Territoriali Antimperialisti (NTA) e i Nuclei Comunisti Combattenti (NCC); una costellazione di embrionali gruppi clandestini, che manifestavano contiguità con altri, quali i Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo (CARC) e l’Associazione Solidarietà Proletaria (ASP), ai quali, pur privi del carattere della clandestinità, perché agenti con iniziative palesi, era riferibile una copiosa produzione documentale caratterizzata da elementi di coincidenza allarmante con i programmi dei gruppi più occulti, che chiaramente si ponevano già alla metà degli anni Novanta in continuità oggettiva con l’esperienza finale delle BR.

Importante fu, inoltre, nell’audizione del prefetto Ferrigno (in un brano che fu segretato) il riferimento ad un documento (che sarebbe stato acquisito da fonte qualificata) della Cellula per la costituzione del Partito Comunista Combattente, datato giugno 1996. Un documento destinato ad esclusiva circolazione interna che, muovendo dalle note tesi (sostenute da tutte le fazioni delle BR e, dopo il crollo della organizzazione, dai vari gruppuscoli che alla sua esperienza si richiamavano) sulla presunta crisi irreversibile del modo di produzione capitalistico, proponeva di risolvere la questione avanguardia-masse con il ricorso alla forma partito, per giungere all’unità di tutti i comunisti in una visione internazionale del problema della lotta di classe e della lotta alla "borghesia imperialista".

Non vi è dubbio pertanto che il prefetto Ferrigno offrì alla Commissione un quadro allarmante; chiarì anche che l’innegabile - perché sostanzialmente dichiarata - continuità oggettiva delle nuove insorgenze rispetto alla fase finale delle BR si coniugava anche con una continuità soggettiva, affermando – ovviamente sulla base di informazioni in possesso – che, anche se in numero limitato, protagonisti della stagione eversiva degli anni Settanta e Ottanta stavano rivestendo un ruolo importante nella riorganizzazione dei nuovi gruppuscoli.

Può quindi serenamente concludersi che già nel 1996 il rischio di una ripresa del terrorismo di sinistra non fosse sfuggito ad organi della polizia di prevenzione, che apparivano in possesso di un corredo informativo di notevole spessore.

Ciò malgrado, i dati ulteriori che la Commissione ha acquisito dopo l’omicidio D’Antona rendono certo – e impongono su ciò una riflessione critica – che lo stillicidio di attentati e rivendicazioni è proseguito negli anni seguenti. Allegato alla presente relazione è un quadro sinottico degli attentati rivendicati dal PCC, dai NCC e dai NTA, dotato indubbiamente di indiscutibile ed allarmante eloquenza.

 

L’omicidio D’Antona e la sua rivendicazione.

Il 20 maggio 1999 alle ore 8,25 circa a Roma in via Salaria due sconosciuti a volto scoperto uccidevano Massimo D’Antona esplodendogli contro diversi colpi di pistola. Già la personalità della vittima (un docente universitario stretto collaboratore del Ministro del lavoro e già collaboratore del Ministero della funzione pubblica) e le modalità esteriori dell’agguato richiamavano immediatamente lugubri rituali del passato, come veniva confermato subito, alle ore 14,30 dello stesso giorno, dalle modalità della rivendicazione e dai contenuti della stessa. Una telefonata anonima al quotidiano "Il Messaggero" rivendicava l’omicidio in nome delle Brigate Rosse, indicando un cassonetto per la raccolta dei rifiuti urbani in via Crispi dove i giornalisti rinvenivano l’ormai noto documento rivendicativo.

Trattasi di un documento ideologico e programmatico composto da 28 fogli a stampa verosimilmente realizzato con sistema di videoscrittura o personal computer, sormontato dalla scritta BR contrassegnata da una stella a cinque punte circoscritta da un cerchio che rivendica l’uccisione di Massimo D’Antona a nome delle "Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente".

L’analisi del documento rivendicativo operata in Commissione - che in gran parte coincide nei risultati con analoghe analisi acquisite dal Comando ROS dei carabinieri e dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione - consente di pervenire a due preliminari conclusioni, che riguardano:

Per il primo dei cennati profili colpisce nella rivendicazione la reiterazione di concetti e valutazioni già espressi in occasione di precedenti agguati, ed in particolare del ferimento del professor Gino Giugni, nonché degli omicidi Tarantelli e Ruffilli (1983, 1985, 1988):

Per ciò che concerne, invece, l’inserirsi dell’omicidio D’Antona nel più ampio contesto di riorganizzazione eversiva innanzi esaminato, rilevante appare nel documento rivendicativo l’adesione alla proposta di ricostruzione delle forze rivoluzionarie, già portata avanti attraverso l’attacco dei NCC alla sede della Confindustria (1992), nonché il richiamo espresso all’attentato del 1994 eseguito sempre dai NCC alla NATO di Roma, con cui si intese riproporre e rilanciare la capacità operativa dell’Organizzazione combattente.

Forti sono dunque le analogie che si rilevano anche tra la rivendicazione dell’omicidio D’Antona e quella diffusa in occasione dell’attentato alla sede NATO del Defence College di Roma. In entrambi i documenti si afferma la necessità della costruzione di un "Fronte Combattente Antimperialista", si indica la NATO come obiettivo centrale della lotta armata, si sollecita un’offensiva contro PDS e sindacati confederali, complici della "borghesia imperialista", termine ripetutamente utilizzato nel documento D’Antona. Ciò rende evidente la continuità delle ricostituite BR-PCC rispetto ai NCC, le cui esperienze armate sono espressamente riconosciute e sostanzialmente rivendicate dalle BR-PCC, che si pongono in tal modo in continuità (verosimilmente non soltanto oggettiva) con i NCC.

Nessun richiamo è operato invece alla – pur intensa – attività dei NTA, probabilmente ricompresi nella generica dizione "movimento rivoluzionario". Ciò conferma che le nuove insorgenze non sono interamente riconducibili ad un gruppo unitario e cioè ad un’unica organizzazione, ma all’unitarietà di un contesto caratterizzato da una pluralità di gruppuscoli che, pure all’interno di una comune matrice ideologica, operano opzioni politico-operative non pienamente coincidenti e si pongono quindi in un rapporto reciproco di concorrenzialità, o almeno di dialettica, dove l’azione armata costituisce anche un elemento di propaganda funzionale all’assunzione della leadership del movimento.

Inoltre, nella rivendicazione dell’omicidio D’Antona:

Oltre ad una evidente impostazione che richiama l’esperienza dell’ala militarista delle BR, va notato come il documento oggetto di analisi riproduca concetti ed espressioni tratti anche da documenti più recentemente prodotti da detenuti brigatisti irriducibili attraverso il CARC. Il che sta a significare la continuità della ideologia brigatista, la volontà di reclutare proseliti e riattivare vecchie militanze nella popolazione carceraria brigatista, tra i principali destinatari della rivendicazione. E’ un dato, quest’ultimo, che parrebbe contraddire la affermazione di novità della struttura armata, la pretesa discontinuità con le precedenti esperienze terroristiche, la dichiarata continuità solo "oggettiva" della nuova formazione BR-PCC con le vecchie BR.

L’apparente contraddizione può essere, peraltro, agevolmente risolta dalla constatazione che la riorganizzazione eversiva avviene in un contesto mondiale ed interno, che è profondamente mutato rispetto a quello nel quale le BR consumarono la loro esperienza finale. La mutazione del contesto è nel documento rivendicativo oggetto di analisi, e introduce nello schema organizzativo, nella definizione dei programmi, nella individuazione degli obiettivi, indubbi elementi di novità, che pure non contraddicono i rilievi di continuità oggettiva e probabilmente soggettiva tra vecchie esperienze e nuovi fenomeni eversivi. Indicativa in tal senso è, ad esempio, la sostituzione della vecchia categoria del SIM (lo Stato Imperialista delle Multinazionali) con la nuova categoria della BI (Borghesia Imperialista) già apparsa in documenti anteriori, che innanzi sono stati richiamati.

Altri soggetti destinatari della propaganda armata brigatista sono le fasce di emarginazione sociale, il proletariato urbano e l’area del pacifismo.

Analogie in tal senso, specie in ordine alla insistenza con cui si vede nel sottoproletariato urbano il soggetto rivoluzionario, possono cogliersi anche rispetto a più antichi documenti del partito-guerriglia di Senzani, che chiamava a raccolta le fasce della disperazione meridionale e napoletana in particolare (disoccupati, precari, corsisti, eccetera), sollecitando un’alleanza stabile fra queste, le organizzazioni della criminalità comune, i detenuti e gli ex detenuti.

In particolare non sembra possibile dubitare che il documento rivendicativo tenda a sollecitare una specifica interlocuzione, con quello che ben può definirsi, come nel passato, il "segmento carcerario" dell’intero movimento. Sul punto le acquisizioni in possesso destano fondate preoccupazioni, atteso che allo stato attuale, come ha riferito a questa Commissione il sottosegretario per l’interno Sinisi, nelle nostre carceri si trovano 150 BR reclusi, 81 dei quali sono irriducibili.

Il dato desta particolare allarme alla luce delle ricorrenti dichiarazioni di adesione espresse da brigatisti detenuti al documento diffuso dal BR-PCC dopo l’omicidio D’Antona (così Francesco Aiosa, Cesare Di Lenardo, Ario Pizzarelli, Fabrizio Minguzzi, Daniele Bencini, Antonino Fosso, Anna Maria Cotone ed altri) i quali, anche attraverso documenti fatti uscire dal carcere, hanno inteso fornire copertura politica al crimine con sospetta tempestività. Inoltre, 48 brigatisti sono tuttora latitanti, e, di questi, 29 si trovano in Francia.

Infine, ben 70 detenuti godono dei benefici della legge penitenziaria e tra questi "non pochi sono gli irriducibili" tra cui, come ha ancora riferito a questa Commissione il sottosegretario Sinisi, pluriomicidi e noti terroristi professionali.

In conclusione, due appaiono le direttrici strategiche perseguite dalle attuali BR: l’attacco allo Stato per "disarticolare i progetti neocorporativi della borghesia e dei revisionisti" e gli attacchi militari alle strutture che "rappresentano il dominio della borghesia imperialista", al fine di "trasformare la guerra imperialista in guerra di classe".

Va da ultimo annotato che l’attenzione verso un ruolo eversivo da assegnare alla diffusa cultura pacifista esistente nel nostro Paese ed alle forme di esasperazione che essa ha assunto, anche se in dimensioni limitate, in occasione delle azioni militari dei paesi NATO nei Balcani, potrebbe anche presupporre (ed insieme essere indicativo di) un tentativo revanscista di vecchi apparati segreti dei Paesi ex comunisti, teso ad indebolire l’Italia agli occhi dei suoi alleati, creare tensioni interne, far circolare veleni favorevoli ai vecchi equilibri di Yalta.

Del resto, infiltrazioni o comunque tentativi di condizionamento delle attività delle formazioni eversive operanti in Italia da parte di servizi segreti stranieri non sarebbero una novità; in tale prospettiva la scelta dei tempi per portare a compimento l’assassinio D’Antona, che ha suscitato perplessità, troverebbe una sua giustificazione nella fase politica, densa di tensioni anche interne, indotte dal conflitto NATO-Serbia.

Tuttavia sarebbe pericoloso se considerazioni di tal tipo inducessero, nel ripercorrere antichi sentieri, a commettere errori che già in passato furono commessi, se cioè inducessero a ritenere che le BR (anche nella nuova fase riorganizzativa) siano cosa diversa da ciò che dicono (e dissero) di essere (e di essere state): una formazione armata che non nascose mai (come oggi non nasconde) il suo credo ideologico e fa (come già in passato fece) del terrorismo lo strumento per la realizzazione di obiettivi intermedi e fini ultimi apertamente dichiarati e annunciati; avanguardia armata di un movimento antagonista di contestazione (con il quale interloquisce e si dialettizza), che fortunatamente oggi, come già avvertito, ha dimensioni notevolmente minori rispetto al passato.

Tutto ciò ovviamente non esclude – come già osservato – che l’esperienza delle BR conosca processi di attraversamento, di congiunzione, di contatti e di contaminazioni che già conobbe nel passato e che oggi ben possono riprodursi, sia pure in forme nuove, in ragione della notevole diversità del contesto internazionale ed interno.

 

La fase finale dell’esperienza BR.

Le considerazioni che precedono inducono pertanto la Commissione a segnalare, anche come compito proprio, la necessità di maggiori approfondimenti indagativi, che abbiano ad oggetto la fase finale dell’esperienza storica delle BR, cui più direttamente si riallacciano le nuove insorgenze.

Tale approfondimento indagativo appare opportuno, atteso che la storia delle BR, dalla loro fondazione almeno fino al sequestro Dozier, può dirsi sufficientemente conosciuta, per come ricostruita in sede giudiziaria, anche e soprattutto utilizzando la collaborazione di molti dei suoi protagonisti, ed in seguito arricchita dall’ampia memorialistica, cui alcuni di essi si sono dedicati (anche se ovviamente non mancano zone di opacità e di dubbio, che in particolare si addensano sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro).

Così non è, invece, per la fase successiva, in particolare per quella che seguì la ritirata strategica del 1982. Le tappe della stessa, alla stregua della ricostruzione operata in sede investigativa e giudiziaria, possono essere sinteticamente ricostruite come segue.

Nel corso del 1982 le BR, duramente colpite sia militarmente che politicamente, annunciano la "ritirata strategica". La disfatta è totale tanto che, anche al loro interno, si verifica una frattura:

All’interno della prima posizione nascono le BR-PCC, della seconda, le UCC.

Le UCC si rendono responsabili del ferimento del capo dipartimento economico della Presidenza del Consiglio Da Empoli (21 febbraio 1986) e dell’assassinio del generale Licio Giorgieri (20 marzo 1987). Risultano coinvolti nelle indagini relative all’omicidio: Francesco Maietta, Claudia Gioia, Maurizio Locusta, Paolo Cassetta, Daniele Mennella, Claudio Nasti, Fabrizio Melorio e Gerardina Colotti.

Appartengono viceversa alla storia delle BR-PCC i seguenti crimini.

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Una prima considerazione, quindi, si impone. Nei protagonisti di tale fase finale dell’esperienza brigatista più spessa è l’area della cosiddetta irriducibilità. Sicché fondata è l’ipotesi che la ricostruzione completa del quadro dell’intera fase non sia ancora avvenuta e che pertanto nella stessa permangano zone di non identificazione, e quindi di impunità; l’ipotesi concerne, quindi, militanti, anche impegnati in ruoli marginali, che sono riusciti a sfuggire alla cattura e che in seguito non hanno voluto rassegnarsi all’estinzione dell’organizzazione, accettando l’evidenza della disfatta della lotta armata, e si sono quindi resi protagonisti di fenomeni riorganizzativi, non appena nuove condizioni (di disagio sociale interno e di tensione internazionale) hanno reso possibile una nuova attività di proselitismo.

Non può trascurarsi sul punto una valutazione che alla Commissione consta sia stata recentemente operata da parte della polizia di prevenzione.

Il gruppo di terroristi che avevano portato a segno l’attentato a Ruffilli, era tutt’altro che sbandato, potendo contare su un covo a Milano (individuato nel maggio 1988 in via Dogali) ed altri quattro a Roma e provincia (scoperti nel settembre dello stesso anno), nonché su una struttura "Sud", con sede a Napoli, ed una "Estera", operante a Parigi (queste ultime scoperte e disarticolate nel successivo settembre 1989). Certi ne erano anche i collegamenti internazionali, atteso che nei covi vengono trovati documenti non solo di contatti fra le BR-PCC, la RAF (Rote Armee Fraktion) tedesca e quello che restava della francese AD (Action Directe), ma un vero e proprio patto d’azione tra BR e RAF con testo bilingue. Si tratta di un dattiloscritto di due pagine con i simboli e le sigle di entrambe le formazioni terroristiche, che esordisce col ribadire la necessità di superare le diversità ideologiche che dividono "le forze combattenti ed il movimento rivoluzionario in Europa occidentale" per convergere su una comune strategia di attacco all’imperialismo senza per questo pretendere di fondersi in un’unica organizzazione.

Si era in presenza, quindi, non della retroguardia sbandata di un esercito in ritirata, ma di un gruppo fortemente organizzato, dotato di notevole capacità offensiva; un rilievo che rafforza sia pure in termini probabilistici la possibilità che non tutti i suoi componenti siano stati individuati; essendo comunque certo che non tutti sono stati assicurati alla giustizia (così la Giorgieri).

Non può nemmeno escludersi che i positivi risultati che soprattutto dal 1982 (1) in poi l’azione di contrasto dello Stato indubbiamente otteneva, abbiano in qualche modo generato un impegno minore nell’approfondimento indagativo, limitandosi, dinanzi alla ritirata di un esercito in disfatta, a colpire i nuclei di retroguardia, che manifestavano ancora un’apprezzabile capacità offensiva; lasciando invece che sbandati delle forze sconfitte potessero in qualche modo completare senza disturbo la ritirata. Più grave sarebbe ipotizzare – ma della ipotesi non sussistono allo stato riscontri di una qualche consistenza – che prezzi di impunità siano stati pagati al fine di ottenere informazioni utili ai successi che si andavano conseguendo. Comunque sia di ciò, alla riflessione della Commissione appare in ogni caso certo che le zone di opacità che caratterizzano la storia delle BR si addensino in particolare nella fase finale della loro esperienza; un rilievo che si accentua con specifico riferimento alle vicende del brigatismo toscano da Moro in poi (2). Un simile deficit di conoscenza (così come le inerzie nell’ottenere l’estradizione dei numerosi protagonisti della stagione eversiva, che pur avendo ricevuto definitive condanne, hanno trovato rifugio all’estero e soprattutto in Francia) potrebbe forse ritenersi tollerabile, ove si fosse in presenza di fenomeni definitivamente appartenenti al passato. Ma dinanzi al suo riprodursi, l'impegno per superare il deficit appare indubbiamente dovuto, nella certezza che i fantasmi del passato probabilmente ritornano, se con quel passato i conti non si sono fatti davvero fino in fondo.

 

Conclusioni provvisorie.

E’ sulle basi che precedono che la Commissione ritiene di poter adempiere al compito individuato nella premessa della presente relazione, esprimendo una prima valutazione sull’omicidio D’Antona, sul nuovo contesto eversivo in cui lo stesso è avvenuto, sulla risposta istituzionale che alle nuove insorgenze lo Stato ha dato e sta dando.

Ad avviso della maggioranza della Commissione non sembra riscontrabile nell’attività di prevenzione condotta né una sottovalutazione, né una conoscenza insufficiente dei nuovi fenomeni.

L’audizione del prefetto Ferrigno, le relazioni ottenute dalla Direzione Centrale per la polizia di prevenzione e dal Comando dei ROS dei Carabinieri dimostrano, infatti, come da tali organismi i fenomeni medesimi – attraverso un opportuno interscambio informativo con i servizi di sicurezza – siano stati da anni accuratamente monitorati nella loro evoluzione ed attentamente analizzati.

Solo da parte di alcuni commissari perviene, infatti, il rilievo che le informazioni di cui il prefetto Ferrigno dimostrò di essere in possesso già nel 1996, avrebbero potuto avere negli anni successivi uno sviluppo ulteriore, che sarebbe mancato anche in conseguenza delle modifiche apportate dal Governo a strutture centrali di investigazione quali lo SCICO.

Per quanto riferito alla Commissione dal sottosegretario Sinisi, l’attività di monitoraggio e di analisi è peraltro sfociata, tutte le volte che ha determinato l’individuazione di fatti costituenti reato, in puntuali informative alle autorità giudiziarie competenti per territorio, perché queste svolgessero le attività investigative e giudiziarie di propria competenza. Se in tale fase ulteriore non si è giunti ancora a risultati apprezzabili – come sembra almeno alla stregua dei dati di cui la Commissione è in possesso – ciò è dipeso probabilmente dal fatto che il singolo ufficio giudiziario investito da un numero ridotto di notizie di reato (rientranti nella propria competenza territoriale) – o addirittura di una sola – può averne sottovalutato l’importanza, perché non in grado di considerarle inserite nel quadro di insieme, stante anche la ridotta offensività dei singoli attentati che, prima dell’omicidio D’Antona, avevano riguardato in misura modesta solo le cose e non avevano mai coinvolto la incolumità delle persone.

Ciò ha anche probabilmente ostacolato che, presso il singolo ufficio giudiziario, le indagini giungessero ad un grado di maturazione tale da consentire l’attivazione delle procedure di scambio informativo, di coordinamento e di collegamento attualmente previste dal codice processuale penale.

Pure l’esperienza del passato dimostra che nel contrasto a fenomeni eversivi quali quelli in discorso, che già nella prima fase organizzativa tendono ad interessare più zone del territorio nazionale, il coordinamento delle indagini tra uffici giudiziari diversi costituisce passaggio ineludibile per il raggiungimento di risultati apprezzabili. Fu questa la scelta operativa che consentì, intorno alla metà degli anni ’70, a magistrati fortemente impegnati in indagini su fatti di terrorismo (molti dei quali pagarono con la vita il loro impegno coraggioso) di conseguire eccezionali risultati, pure in assenza – allora – di specifiche previsioni normative volte a favorire e disciplinare il coordinamento di indagini in corso presso uffici giudiziari diversi.

E’, quindi, auspicabile che nella nuova situazione di allarme determinata dall’omicidio D’Antona le possibilità di scambio informativo, coordinamento e collegamento, ora previste dall’ordinamento, siano utilizzate nel grado massimo di operatività, per consentire che risultati apprezzabili si raggiungano a legislazione processuale invariata.

In tal senso la Commissione prende favorevolmente atto dell’iniziativa, ampiamente riportata dalla stampa, che ha visto riuniti a Roma pubblici ministeri di diverse città interessate al fenomeno del terrorismo recente che hanno concordato sull’opportunità di un coordinamento a livello nazionale e territoriale delle indagini al fine di evitare dispersioni del patrimonio di conoscenze dei singoli uffici giudiziari: il coordinamento dovrebbe avvenire a ritmi quotidiani e alla Procura di Roma sarebbe affidata una funzione di guida.

Ciò consente, almeno allo stato, ad avviso della maggioranza della Commissione, di ritenere non attuali le proposte di recente avanzate sia in sede istituzionale che in sede politica di affidare la investigazione giudiziaria su fatti di terrorismo ad una organizzazione del tipo di quella alla quale negli ultimi anni è stato affidato il contrasto alla criminalità organizzata; un modulo operativo che, pure accolto inizialmente con resistenza e perplessità, ha indubbiamente consentito il conseguimento di notevoli successi; ovvero ancora la possibilità di estendere ai reati tipici del terrorismo le competenze delle attuali direzioni distrettuali antimafia e della procura nazionale antimafia, anche in considerazione del fatto che il confine fra terrorismo e criminalità organizzata non sempre è netto, e non è da escludere l’inverarsi di pericolose zone di commistione.

Largamente prevalente è, infatti, nella Commissione la valutazione della sufficienza della nostra legislazione sostanziale e processuale per una valida azione di contrasto rispetto a nuove insorgenze terroristiche.

E’ noto infatti come il nostro ordinamento, a differenza di ordinamenti stranieri, conosca una pluralità di figure criminose di tipo associativo, idonee, in se stesse, a criminalizzare l’appartenenza a bande armate o ad associazioni sovversive, i cui partecipanti soggiacciono quindi alla sanzione penale indipendentemente dalla commissione di specifici attentati alle cose e/o alle persone, dei quali i partecipanti si rendano protagonisti e rispetto ai quali il delitto associativo si pone in un rapporto di mezzo a fine.

Ed è altrettanto noto come l’utilizzazione della categoria dei reati associativi abbia consentito in passato notevoli successi nel contrasto al terrorismo di matrice politica ed in atto come forma di contrasto alla criminalità organizzata. A ciò si aggiunga che, per ciò che riguarda le associazioni di tipo mafioso, la prassi giudiziaria – di cui la Commissione non può non prendere atto – tende ad estendere l’ambito di punibilità del reato associativo attraverso il ricorso, pur molto discusso, alla categoria del concorso esterno all’associazione criminosa.

Circa la possibilità di utilizzare la categoria del "concorso esterno" anche nel contrasto con associazioni terroristiche, favorevolmente valutata da alcuni commissari, è stato segnalato da parte della maggioranza dei commissari il pericolo che in tal modo vengano criminalizzate ingiustamente attività rientranti nella libera manifestazione del pensiero o nella espressione di opinioni politiche, con la creazione di un clima emergenziale, che è invece opportuno evitare.

Piano è comunque il rilievo che, in disparte quanto precede, sussistono altre forme (quali il favoreggiamento e l’istigazione) di reato che consentono di incidere, in applicazione della legge e nel rispetto delle garanzie individuali, sugli ambiti di contiguità con i fenomeni terroristici, al fine di "asciugare l’acqua in cui i pesci nuotano"; ovviamente escludendosi, perché incompatibile con un ordinamento democratico, una indiscriminata criminalizzazione di ogni area di "antagonismo sociale".

Non vi è bisogno di leggi eccezionali. Una democrazia contrasta il terrorismo con le leggi vigenti nel rispetto delle garanzie e dei diritti individuali. E’ opportuno peraltro che le leggi vigenti siano puntualmente applicate, senza indulgenza, utilizzandone appieno l’operatività, con l’impegno dovuto, perché è evidente il pericolo in ogni forma di sottovalutazione.

Non vi è dubbio che il tragico episodio dell’omicidio D’Antona abbia costituito un improvviso balzo in avanti rispetto al tipo di attentati che avevano caratterizzato il contesto eversivo in cui è venuto ad inserirsi: perché è in questo e soltanto in questo che può accettarsi la valutazione di una sua imprevedibilità, nel senso che nella logica di una naturale escalation era logico attendere che si fosse passati da attentati alle cose ad una fase di attentati alle persone (sequestri, ferimenti), di tipo non omicidiario. In realtà il gruppo autore dell’assassinio, nel riassumere il nome di BR-PCC e quindi nel riaccordarsi a tale esperienza, ha inteso ripartire dal livello di offensività già proprio dell’esperienza medesima, nel momento in cui si era interrotta. E’ quasi come se al nuovo documento rivendicativo fosse premesso un tragico heri dicebamus.

D’altro canto è indubbio che l’omicidio D’Antona abbia suscitato perplessità anche in ambienti da sempre contigui all’eversione, che, pur non avendo mai abiurato l’esperienza del passato, sono rimasti interdetti di fronte alla gravità dell’episodio; ora bollandolo come l’azione sterile di "imbecilli senza tempo", ora soltanto definendola come una pericolosa e prematura "fuga in avanti".

Non è un caso che immediate ed ulteriori rivendicazioni siano venute da irriducibili del settore carcerario e cioè da condizioni umane che nulla hanno da perdere da un salto di qualità della tensione.

Il limite dell’efficacia propagandistica che gli autori dell’omicidio hanno affidato alla sua commissione e alla sua rivendicazione è probabilmente questo; e la pioggia di rivendicazioni adesive postume, che ha fatto seguito ad oltre un mese di distanza dall’evento, costituisce un probabile tentativo dei suoi autori di dimostrare un consenso all’azione sanguinaria più intenso del reale, a fini propagandistici e di ulteriore proselitismo.

Ma tutto ciò non riduce la pericolosità della risorta cellula brigatista, che probabilmente si affida a nuovi moduli organizzativi, basati su compartimentazione e clandestinità ancor più accentuate rispetto al passato e sul concorso di nuovi e selezionatissimi militanti, prevedendo un retroterra logistico ridotto al minimo ed un obbligo di clandestinità limitato soltanto a chi non ne può fare a meno, perché noto o ricercato.

Ma se ciò rende indubbiamente non facile l’individuazione degli autori dell’omicidio al fine di assicurarli alla giustizia, opportunamente, almeno a giudizio della Commissione, l’attività inquirente appare indirizzarsi anche verso un livello diverso, che concerne il più vasto contesto eversivo, in cui l’omicidio D’Antona è venuto ad inserirsi. Perché non vi è dubbio che in tale direzione successi indagativi appaiono di più agevole portata, soprattutto se gli strumenti offerti dalla legge verranno utilizzati nel massimo della loro operatività.

In questa prospettiva, da alcuni commissari è stata ipotizzata, pur nel rispetto dell’autonomia dell’autorità giudiziaria, l’opportunità anche di una revisione dei benefici carcerari di cui, secondo quanto riferito alla Commissione dal sottosegretario Sinisi, godono molti degli irriducibili, poiché nella nuova situazione determinata dalle attuali insorgenze l’irriducibilità potrebbe – almeno in alcuni casi – qualificarsi come idonea di per sé ad individuare un grado elevato di pericolosità sociale.

E’ proposta che, peraltro, alla maggioranza della Commissione è apparsa non concretamente praticabile e non opportuna, perché idonea ad ingenerare quel clima emergenziale che la situazione attuale non giustifica.

E’ quindi in una diversa prospettiva che la Commissione rileva come, anche a protagonisti di fasi anteriori della complessiva vicenda BR, benefici carcerari siano stati con larghezza assegnati; pur in presenza di palesi limiti nel ripensamento critico del proprio passato, chiaramente evidenti nel rifiuto di apporti collaborativi ulteriori, sia con l’autorità giudiziaria inquirente, sia con la stessa Commissione; apporti che pure sarebbero utilissimi oggi nel contrastare le nuove insorgenze e che invece vengono rifiutati da protagonisti di quel fosco passato che, dalle ribalte con troppa generosità loro offerte dai media, assumono inaccettabili atteggiamenti di sufficienza, affermando che null’altro hanno da dire, perché tutto è già noto; quando invece ne è evidente a volte la reticenza, a volte l’attitudine ad una persistente menzogna (3).

Le nuove insorgenze quindi inducono la Commissione a persistere nel suo atteggiamento di ostinata investigazione sui dati del passato (con particolare riferimento al caso Moro) e la inducono, peraltro, ad assumere anche moduli operativi diversi - che spetterà all’Ufficio di presidenza modulare e precisare - al fine di seguire nell’intero territorio nazionale l’evoluzione delle indagini, nella prospettiva di uno scambio fecondo di informazioni e dei risultati di analisi.

 

N O T E

(1) Dal gennaio 1982 un’efficace attività investigativa consentì di sgominare, soprattutto in ambito romano, le due fazioni in cui le BR si erano divise, e cioè le "BR partito guerriglia" di Senzani (che fu catturato) e le "BR per la costruzione del partito comunista combattente" (di Petrella e Di Rocco); mentre nel medesimo arco temporale la liberazione di Dozier e la cattura dei suoi rapitori infligge all’organizzazione brigatista un altro durissimo colpo.

(2) Molti dei protagonisti dell’esperienza delle BR-PCC sono toscani, alcuni già inseriti nell’organizzazione negli ultimi anni ’70; e quindi, forse, non tempestivamente individuati. Ciò consente di ipotizzare un limite nell’attività indagativa anche con riferimento al ruolo che il brigatismo toscano ebbe nella vicenda Moro. Sconosciuto, ad esempio, è rimasto il luogo fiorentino (cfr. nota 3) in cui si è riunito il comitato delle BR durante la fase iniziale del sequestro Moro. Così come scarsamente investigata è stata la figura dell’armiere del gruppo, Giuseppe Ippoliti, detto "Beppe molotov", che risulta essere stato il fornitore di parte delle armi del gruppo brigatista che operò il sequestro Moro. Oggetto di attenzione attuale da parte della Commissione è poi la fuga di notizie che impedì un pieno sviluppo della collaborazione con i magistrati romani di un altro brigatista toscano, Elfino MORTATI, volta alla individuazione di covi brigatisti nel ghetto e quindi nella prossimità di via Caetani; mentre, per nulla utilizzata, in epoca immediatamente successiva (dicembre ’78), fu la possibilità di risalire a possibili fonti finanziarie delle BR attraverso l’utilizzazione di un elenco di società finanziarie e banche svizzere con relativi numeri di telefono rinvenuti in possesso di altri brigatisti toscani (BASCHIERI, CIANCI, BARBI e BOMBACI).

(3) Due esempi per tutti. Come ormai è noto anche all’opinione pubblica, Valerio Morucci (audizione del 18 giugno 1997) ha segnalato alla Commissione l’opportunità di chiedere a Moretti (da Morucci definito la sfinge) il nominativo del proprietario della casa in cui il comitato esecutivo delle BR si riuniva in Firenze nei 55 giorni del sequestro Moro. Moretti ha rifiutato di essere audito dalla Commissione e ha continuato a tacere. Altrettanto hanno fatto Azzolini e Bonisoli, che facevano parte dell’esecutivo. Gli stessi, peraltro, in dichiarazioni raccolte da agenzie hanno affermato che Morucci mentiva, perché il comitato esecutivo durante i 55 giorni si riuniva a Rapallo e non a Firenze. Hanno dimenticato Azzolini e Bonisoli che anche Moretti, nel libro-intervista a Mosca e Rossanda, ha riconosciuto che nella fase iniziale dei 55 giorni il comitato esecutivo si riunì in una casa alla periferia di Firenze messa a disposizione dalla direzione toscana delle BR. E ne ha spiegate le ragioni con la facile raggiungibilità di Firenze da Nord e da Sud, chiarendo che solo successivamente, nei 55 giorni, il comitato esecutivo si riunì a Rapallo. Quindi non Morucci, ma Azzolini e Bonisoli mentono. E c’è da chiedersi perché. Ancora, Franceschini ha riferito alla Commissione che le BR svolsero una inchiesta sulla strage di piazza Fontana, dalla quale sarebbe emerso che Pinelli si era suicidato. In una intervista rilasciata al giornalista Scialoja, ed apparsa sul numero 26 di quest’anno del settimanale "L’Espresso", il brigatista Antonio Bellavita, che dell’inchiesta fu l’autore, ha duramente smentito sul punto Franceschini. Ignorava Bellavita (come anche Scialoja) che gli atti di quella inchiesta sono stati acquisiti dalla Commissione dall’avvocato Guiso che li conservava nel suo archivio. Negli stessi l’affermazione del probabile suicidio di Pinelli puntualmente risulta. Ovviamente ciò che rileva non è la verità della conclusione cui pervenne l’inchiesta brigatista, ma il fatto che Franceschini ha detto (alla Commissione) la verità e che Bellavita (a Scialoja) ha mentito.

 

 

ALLEGATO

QUADRO SINOTTICO SULLE PRINCIPALI FORMAZIONI

E SUI FATTI EVERSIVI DI QUESTI ULTIMI ANNI

 

Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente (B.R.-P.C.C.).

L’organizzazione Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente si è resa responsabile della seguente azione:

02/09/1993 – AVIANO (PORDENONE) Attentato contro base aerea USAF, con esplosione di colpi di pistola contro il muro di cinta della caserma e lancio di una bomba a mano contro la facciata esterna di edificio ivi destinato agli alloggi dei militari. A seguito di telefonata al quotidiano "La Repubblica", veniva rinvenuto un documento di rivendicazione nel quale venivano affrontate questioni di politica interna ed internazionale. Le indagini condotte dalla Polizia di Stato, consentirono di giungere ben presto alla identificazione ed all’arresto di 14 persone, implicate a vario titolo nell’azione. I massimi responsabili del gruppo (4 irriducibili noti per la pregressa militanza nelle BR/PCC) sono tuttora detenuti e si sono associati dal carcere alla rivendicazione dell’omicidio D’Antona.

Nuclei Comunisti Combattenti (N.C.C.)

L’organizzazione dei Nuclei Comunisti Combattenti si è resa responsabile delle seguenti azioni (in ordine cronologico):

18/10/1992 – ROMA Attentato (fallito, ordigno non esploso) presso sede della Confindustria in via dell’Astronomia. Il giorno seguente rivendicazione da parte dei "N.C.C." con un volantino di tre pagine, definito dagli inquirenti "di elevata caratura".

27/10/1992 – ROMA Lancio di volantini a firma "N.C.C." presso fermata "Anagnina" della metropolitana di Roma, rivendicanti il fallito attentato del 18/10/1992. Successivamente, a seguito di telefonata anonima, veniva rinvenuto lungo l’autostrada Roma-Fiumicino uno striscione, di nuovo a firma "N.C.C.".

27/10/1992 – ROMA Su autobus Atac, linea 64, veniva rinvenuto un ulteriore volantino di rivendicazione del fallito attentato del 18/10/1992, sempre da parte dei "N.C.C.".

27/10/1992 - PADOVA A seguito di telefonata dei Nuclei Comunisti Combattenti ad un quotidiano locale, veniva rinvenuto uno striscione appeso ad un cavalcavia ferroviario tra Treviso e Conegliano, sul quale apparivano un simbolo (stella a cinque punte inscritta in un cerchio) ed uno slogan a firma "N.C.C.".

25/11/1992 – TREVISO Telefonata dei Nuclei Comunisti Combattenti per la costruzione del P.C.C, recante minacce di morte contro dirigenti delle ditte Zanussi, Castro e Rossignolo.

25/12/1992 – TIVOLI (ROMA) Consegna ai carabinieri da parte del segretario della locale sezione del PSI di due volantini, con intestazione "Nuclei Comunisti Combattenti", rinvenuti circa 10 giorni prima.

10/01/1994 – ROMA Attentato in via Civiltà del lavoro n. 39 contro "Nato Defence College", - con danni alle cose ma non a persone - e successive rivendicazioni telefoniche ed anonime, una delle quali consentiva il rinvenimento di un volantino siglato "N.C.C. per la costruzione del P.C.C.", che rivendicava sia l’attentato contro il "Nato Defence College", sia "l’azione di Aviano". Il testo (di otto pagine) appariva di natura ideologico-programmatica.

05/04/1994 – ROMA Un arresto da parte della Polizia di Stato nell’ambito delle indagini sul fallito attentato del 18/10/1992 contro la sede della Confindustria.

28/05/1994 – ROMA Sequestro di un foglietto passato dalla brigatista irriducibile detenuta Lupo Rossella a brigatista irriducibile, pure detenuto, Galloni Franco, nel corso di un colloquio nel carcere di Rebibbia. Il messaggio conteneva considerazioni su posizioni da assumere rispetto ai "Nuclei Comunisti Combattenti " e all’attentato di Aviano del 2 settembre 1993.

13/08/1994 – ROMA Telefonate dei "Nuclei Comunisti Combattenti" ad organi di informazione e successivo rinvenimento di comunicato di smentita di loro responsabilità riguardo ad ordigno collocato il 14 agosto 1994 in via Panzani, angolo via del Giglio, a Firenze.

13/02/1995 – ROMA Arresto (a seguito di controllo stradale operato in via F. Eredia) di Fuccini Luigi e Matteini Fabio. Entrambi, pregiudicati, si dichiaravano prigionieri politici e militanti dei "Nuclei Comunisti Combattenti". Nel corso di successive perquisizioni domiciliari veniva rinvenuta nell’abitazione del Fuccini copia del volantino dei "N.C.C." già diffuso a Roma il 13 agosto 1994. Il mese successivo (24 marzo) veniva rinvenuta in una strada adiacente a quella dell’arresto del Fuccini e del Matteini un’automobile rubata, che si accertava essere stata a disposizione dei predetti, nella quale venivano ritrovate 4 pistole, tra cui una Beretta 92.

23/05/1997 – VENEZIA Telefonata di sedicente appartenente ai "Nuclei Comunisti Combattenti Armati" presso quotidiano locale, e registrazione di relativo comunicato indicante lineamenti di strategia politica e terroristica del predetto Nucleo. Nello stesso giorno altra telefonata presso stesso quotidiano locale, sempre a nome di citata organizzazione.

Nuclei Territoriali Antimperialisti (N.T.A.).

L’organizzazione dei Nuclei Territoriali Antimperialisti si è resa responsabile delle seguenti azioni (in ordine cronologico):

09/12/1995 – SACILE (PORDENONE) Pubblicazione di un volantino recante il simbolo della stella a cinque punte inscritta in un cerchio, intitolato "Nuovo Ordine Mondiale, Bosnia, Nucleare e Aviano" ed espressamente definito "Primo documento". Il testo (lasciato presso cabina telefonica) costituiva una sintesi di orientamento marxista con tematiche antimperialiste, anti USA e NATO, e lasciava presumere l’esistenza di un gruppo contiguo al Nucleo friulano delle B.R.-P.C.C., responsabile dell’attentato compiuto il 2 settembre 1993 ad Aviano.

12/12/1995 – MANIAGO (PORDENONE) Consegna a carabinieri di un volantino identico a quello rinvenuto a Sacile, ed asseritamente trovato in Vivaro (PN) presso un cestino per i rifiuti.

13/01/1996 – SPILIMBERGO (PORDENONE) Attentato contro l’automobile di un militare USA in servizio presso la base di Aviano (distruzione della vettura, nessun danno a persone). L’attentato precedeva di poche ore una programmata visita del Presidente USA Clinton alla base aerea. In seguito veniva rinvenuto un volantino di rivendicazione intitolato "Welcome Clinton" redatto a mano e recante l’intestazione "Nuclei Territoriali Antimperialisti". Il documento ricalcava gli orientamenti e le tematiche esposte nel volantino rinvenuto nel 1995 a Sacile e denotava una matrice comune anche in base ad elementi di carattere linguistico.

09/03/1996 – TRIESTE Rinvenimento ad opera della DIGOS di un volantino dattiloscritto di 4 pagine (segnalato da telefonata anonima) intestato "N.T.A.". Lo scritto era indicato come "Documento n. 3, estratto della prossima r.s. n. 1", e presentava lineamenti programmatici politico-terroristici; in particolare da segnalare l’esplicito riconoscimento della esperienza maturata dalle B.R.-P.C.C. e la "Costruzione di un Fronte Combattente Antimperialista", e l’appoggio all’attività terroristica delle B.R.-P.C.C. e dei N.C.C. .

07/09/1996 – PORDENONE Volantino recapitato ad un quotidiano locale, dal titolo "Antimperialismo fra recessione e strategia della tensione nell’Italia dei primi cento giorni", che riproponeva obiettivi politici e terroristici, e nel quale veniva indirizzata ai servizi segreti l’accusa di avere organizzato i piccoli attentati dinamitardi verificatisi nell’agosto 1996 in località balneari del Triveneto.

23/05/1997 – UDINE Incendio di un’automobile presso locale concessionaria della "Toyota" (con danni ad altre due vetture e ad altri apparecchi). Sul luogo veniva rinvenuto un volantino di rivendicazione con l’intestazione "N.T.A." seguita dalla scritta "Militanti Rivoluzionari per la costruzione del P.C.C.", nel quale venivano esposte le tesi della "lotta antimperialista", con ampi riferimenti anche alla situazione nel Perù.

12/09/1997 – ROMA A seguito di telefonata anonima, la DIGOS rinveniva un documento di 17 pagine a firma "N.T.A." intitolato: "Risoluzione strategica n. 01/B. Direzione strategica, settembre 1997". L’elaborato comprendeva una premessa di strategia politico-terroristica, nonché un elenco di obiettivi da attaccare, tra i quali numerosi nominativi della politica, del giornalismo e dell’imprenditoria (ma non D’Antona, né gli ambienti del Ministero del lavoro). Il testo appariva corrispondere alle anticipazioni preannunciate con il testo rinvenuto a Trieste il 9 marzo 1996. Per quanto riguarda l’analisi della situazione politica italiana, assumeva rilievo un forte interesse per la c.d. questione secessionista.

08/07/1998 – TRIESTE Un documento di 5 pagine a firma "N.T.A." veniva recapitato alla redazione di un quotidiano locale. Il testo presentava, secondo gli inquirenti, "analogie concettuali e assonanze linguistiche" con i precedenti documenti diffusi dalla stessa organizzazione.

12/09/1998 – PORDENONE A seguito di telefonata anonima veniva rinvenuta a Casarsa della Delizia (PN) una busta recante il simbolo della stella cerchiata e la sigla "N.T.A.", e contenente copia del testo diffuso l’8 luglio 1998, nonché un volantino ed una pallottola. Il volantino riportava, sotto al consueto frontespizio dei "nuclei" la sigla "Brigata Sergio Spazzali-Pino" (facente riferimento ad un componente delle Brigate Rosse, rifugiatosi nel 1982 in Francia, ed ivi morto nel 1994). Il presente documento si caratterizzava secondo gli inquirenti per "i toni intimidatori diretti ed immediati e le espressioni insolitamente pesanti".

06/03/1999 – PORDENONE Telefonata anonima presso quotidiano locale, preannunciante nuove azioni degli "N.T.A.", e contenente riferimenti al rinvenimento di materiale avvenuto il 12 settembre 1998.

07/03/1999 – TRIESTE Telefonata anonima, asseritamente da parte "N.T.A.", analoga a quella del 6 marzo precedente a Pordenone.

25/03/1999 – ROMA Messaggio telematico (e.mail) e breve documento intitolato "Comunicato di B.R.-P.C.C. e N.T.A. di ripresa della lotta armata", indirizzati a quotidiano "La Repubblica". La preannunciata "offensiva rivoluzionaria", secondo gli inquirenti, "sembra scaturire dall’inizio del conflitto nella ex Jugoslavia".

03/04/1999 – AVIANO (PORDENONE) Incendio di un’automobile di proprietà di una cittadina USA e successiva rivendicazione per mezzo di un volantino, contenente tematiche antimperialiste ed in linea con i documenti precedenti. Secondo gli inquirenti l’organizzazione pareva "che non disponesse" di capacità e di risorse "tali da poter realizzare vere e proprie azioni di lotta armata, e si circoscrive all’area geografica del Nord-Est (…) e alle province di Pordenone ed Udine".

12/04/1999 – CORDENONS (PORDENONE) Incendio di un’automobile di proprietà di un militare USA in servizio presso la base di Aviano. Nelle vicinanze veniva rinvenuta la copia della rivendicazione dell’altro attentato compiuto il 3 aprile 1999 ad Aviano.

17/04/1999 – VERONA Attentati dinamitardi ed incendiari notturni, rispettivamente contro una sezione dei Democratici di Sinistra e contro la sede del loro comitato cittadino, entrambi provocanti danni alle cose. Tutti e due gli attentati venivano rivendicati telefonicamente, con richiami a rivendicazioni di attentati precedenti ad Aviano e Cordenons, e si preannunciava "un documento politico complessivo di rivendicazione delle azioni di Vicenza, Cordenons e Verona in coincidenza del prossimo attacco della guerriglia urbana rivoluzionaria".

06/05/1999 – FIUME VENETO (PORDENONE) Attentato incendiario contro automobile di proprietà di una militare USA in servizio presso la base aerea di Aviano. La rivendicazione da parte dei "N.T.A." veniva fatta ritrovare con un volantino a Pordenone il giorno dopo.

07/05/1999 – PORDENONE Rinvenimenti presso la stazione ferroviaria di Pordenone di 15 volantini a firma "N.T.A-P.C.C.", nonché di un altro analogo volantino nei pressi di un negozio nei dintorni. L’elaborato, di due pagine, rivendicava due azioni compiute il 17 aprile 1999 a Verona, rispettivamente contro la "Casa del Popolo" (frequentata da aderenti del PDS) e contro una sezione del PDS (incendio di una porta). Gli estensori dichiaravano peraltro cessata la fase di attacchi in corso, preannunciando adeguamenti strategici "nella prospettiva di guerra di lunga durata".

11/05/1999 – ROMA Attentato incendiario notturno contro il portone di ingresso presso la sede DS di via Sprovieri (nessun danno ai locali, né a persone) e relativa rivendicazione telefonica.

12/05/1999 – PORDENONE-TREVISO I "N.T.A." "Cellula Carlo Pulcini" facevano rinvenire il "Comunicato n. 3" con il quale – oltre a riproporre concetti generali già espressi in precedenza – riconoscevano la paternità di diversi attentati e ne smentivano altri a loro attribuiti, ascrivendo questi ultimi "all’azione controrivoluzionaria dei Servizi".

 

 

INTERVENTI SVOLTI NEL CORSO DELLA SEDUTA DEL 27 LUGLIO 1999

 

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