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Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti

ATTI E CONVEGNI

Convegno sul tema

LA POLITICA DEI RIFIUTI IN ITALIA

(Lo stato di attuazione Dlg. 22/97)

Martedì 10 marzo 1998

 

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Ringrazio il Presidente della Camera dei deputati. Gli do subito la parola per il saluto ai convegnisti.

LUCIANO VIOLANTE, Presidente della Camera dei deputati. Negli ultimi venti anni è stata definitivamente superata la visione dell’ecologia come pura e semplice esigenza di conservazione o di ripristino degli ambienti di vita.

Si è affermata la consapevolezza dello stretto legame esistente fra le questioni ambientali e quelle attinenti alla crescita economica, alla politica industriale, al diritto alla salute e anche alla lotta contro la mafia. Abbiamo tuttavia assistito alla contestuale proliferazione di una legislazione complessa, stratificata, talvolta contraddittoria, che ha prodotto un duplice effetto negativo: ha gravato con costi considerevoli sulla pubblica amministrazione e sulle imprese e non sempre ha avuto gli effetti sperati sul piano della protezione delle risorse ambientali.

La difficoltà di costruire un sistema armonico tra i tre livelli di legislazione esistenti (comunitario, statale, regionale) e la mancanza di leggi organiche ha favorito inoltre un abnorme ricorso al decreto-legge come strumento di emergenza.

In questo quadro, l’approvazione del decreto legislativo n.22/97 sulla gestione dei rifiuti rappresenta una significativa inversione di tendenza e costituisce un modello positivo di intervento normativo.

Accanto ad importanti elementi di riforma della disciplina in materia di gestione dei rifiuti, il provvedimento ha operato infatti il recepimento della disciplina comunitaria ed ha provveduto a riordinare la normativa interna, prima dispersa in innumerevoli provvedimenti. Sono state ampliate le competenze e le possibilità di intervento delle regioni e degli enti locali e si è avviata una seria opera di delegificazione, dando risposta positiva alla necessità di non irrigidire una normativa che deve essere tempestivamente adattabile al mutare, sempre più rapido, delle conoscenze scientifiche e tecnologiche.

La riforma, realizzata grazie all’impegno comune e costruttivo del Governo e del Parlamento, necessita oggi di una completa e puntuale attuazione, sia da parte del Governo che da parte delle regioni.

Il Parlamento pone grande attenzione a questo tema.

Lo scorso 11 febbraio, in occasione della audizione del Ministro Ronchi, la Commissione ambiente della Camera ha svolto una approfondita discussione sullo stato di attuazione del decreto legislativo ed ha approvato una risoluzione che, tra l’altro, richiama la necessità di una sollecita azione legislativa delle regioni in materia di adozione dei nuovi piani di gestione dei rifiuti.

Il convegno odierno prosegue questa "scelta di attenzione" del Parlamento al versante attuativo della nuova disciplina e sono certo che dal vostro lavoro scaturiranno importanti indicazioni e proposte per un efficace e rapido completamento del progetto riformatore.

Voglio, infine, sottolineare un ulteriore aspetto positivo della riforma.

Coniugando le esigenze di modernizzazione del settore dei rifiuti e di maggiore tutela dell’ambiente con la necessità di chiarezza e completezza normativa, con il bisogno di legalità, la nuova disciplina della gestione dei rifiuti rappresenta una svolta moralizzatrice, che offre uno strumento importante alla lotta contro l’infiltrazione delle associazioni criminali in un settore economico di rilevante ricaduta ambientale come il ciclo dei rifiuti.

Il Parlamento ha svolto e sta svolgendo su questo terreno un’ampia attività di indagine, attraverso la Commissione antimafia e, a partire dalla passata legislatura, attraverso la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse.

Sono state affrontate le questioni relative alla carenza nel nostro ordinamento di norme incriminatrici ed alla eccessiva mitezza di alcune delle sanzioni penali in materia di tutela dell’ambiente.

La Commissione sul ciclo dei rifiuti ha recentemente costituito al suo interno un apposito gruppo di lavoro per valutare le tematiche relative al "delitto ambientale".

È stata evidenziata inoltre la gravità del problema costituito dalla mancata armonizzazione a livello internazionale delle sanzioni penali previste per i crimini contro l’ambiente. Essa affievolisce infatti l’incisività dell’azione di contrasto delle "ecomafie", perché consente lo spostamento delle sostanze inquinanti e delle conseguenti attività criminali verso i paesi privi di disciplina sanzionatoria o muniti di una disciplina più permissiva rispetto a quella di altri paesi. Mi permetto, a questo proposito, di suggerire una riflessione sulla possibilità che nel nostro codice penale sia introdotta una norma che consenta la punizione dei più gravi delitti ambientali anche se commessi all’estero da cittadini italiani.

Dall’attività d’inchiesta fin qui svolta, oltre che dall’attività della magistratura e delle forze di polizia, emerge inoltre con chiarezza che il controllo del territorio e delle sue risorse ambientali costituisce oggi uno dei punti di maggiore forza delle organizzazioni criminali. Aggiungo che molto spesso abbiamo dei comuni che, dotati di ristrettissime risorse finanziarie, hanno un territorio molto vasto, che non riescono a controllare. È lì che si inserisce con maggiore forza l’organizzazione criminale.

La mafia, la ‘ndrangheta e in modo particolare la camorra — sappiamo che in Campania viene usata la tecnica di svuotamento del terreno, riempimento con rifiuti e costruzione sopra quei rifiuti — mirano ad occupare tutti gli spazi dai quali è possibile ottenere una utilità, ponendosi come forze mediatrici tra autorità comunali e società, tra mercato e Stato.

Per questa ragione è indispensabile puntare sul concetto di recupero del controllo del territorio da parte degli enti territoriali, non solo sotto il profilo dell’ordine pubblico, ma anche e soprattutto sotto il profilo della presenza di strutture, di uffici e di servizi adeguati, per quantità e qualità, all’ampiezza del territorio e alla popolazione.

In questo modo le regioni e gli enti locali potranno diventare forze attive nella costruzione di un nuovo e più avanzato sistema di gestione dei rifiuti e, più in generale, nella lotta contro la criminalità economica ed ambientale, affiancando all’azione di repressione compiuta dal nuovo Stato un’opera di costruzione di un tessuto produttivo e sociale sano, fondato sui diritti e sulle opportunità, che possa togliere forza, convenienza, capacità di mediazione alle associazioni criminali.

Lo stesso sistema delle imprese è chiamato a dare il proprio contributo in questa direzione. Ad una riforma che offre nuove opportunità di sviluppo delle capacità imprenditoriali (attraverso l’incentivazione dello sviluppo tecnologico e della produzione di beni riciclati), deve a mio avviso corrispondere una rinnovata consapevolezza del mondo produttivo circa la necessità di assumere un ruolo attivo, di cooperazione con gli enti locali e delle istituzioni rappresentative, abbandonando il modello "passivo", in base al quale la problematica ambientale è concepita solamente in termini di costo o di rispetto solo formale della normativa di settore.

La nostra generazione, molto più di quelle che ci hanno preceduto, tiene nelle sue mani la chiavi della qualità della vita delle generazioni future.

Quello che noi faremo in materia di debito pubblico, di pensioni, di sanità, di bioetica, di ambiente condizionerà profondamente la vita di quelli che verranno dopo di noi. Potrebbe condizionarla anche in modo irreversibile.

In tale senso l’ambiente rientra tra le risorse non disponibili dell’umanità. Questo deve essere, credo, il valore guida dei nostri interventi legislativi, amministrativi, economici e politici.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Ringrazio a nome di tutti il Presidente della Camera dei deputati anche per gli utili suggerimenti che ci ha dato. Nell’aprire la seconda giornata dei nostri lavori, debbo riprendere, in questa tavola rotonda che vuole affrontare il ruolo delle imprese nel nuovo quadro legislativo definito dal decreto legislativo cosiddetto Ronchi, alcuni dei motivi che stanno alla base di quella diagnosi di grave arretratezza, con cui avevo sintetizzato ieri il panorama offerto dal ciclo dei rifiuti. Questa grave arretratezza — tengo a sottolinearlo — può essere superata certamente con un forte e determinato impegno, se tutti fanno la loro parte, se in particolare amministrazioni ed imprese ce la mettono tutta per superare quei ritardi che oggi — è opinione largamente condivisa — non possono più avere come scusante una serie di norme farraginose, confuse, talvolta contraddittorie, proprio perché il decreto legislativo n. 22/97 fornisce un riferimento di livello europeo a tutti gli operatori del settore e pone le condizioni per l’esistenza di un mercato privo di gravi storture, delle quali senza dubbio la più grave è la penetrazione della criminalità organizzata, che pregiudica la possibilità stessa di un mercato.

Tale arretratezza è configurabile in alcuni elementi essenziali, che riguardano proprio il sistema delle imprese. Li cito di nuovo rapidamente: scarsezza di impianti, da quelli per il compostaggio, a quelli per il riciclaggio, a quelli per la preparazione del CDR, centri di stoccaggio provvisori e centri di recupero come anelli deboli del ciclo rifiuti, dei veri buchi neri talvolta dove i rifiuti di natura diversa vengono illegalmente, quando non criminalmente, miscelati o con passaggi del tutto formali cambiano miracolosamente tipologia, in modo da potere essere smaltiti a minor costo.

In generale, c’è stato un ritardo, parallelo e aggravante quello delle amministrazioni, da parte del mondo imprenditoriale nel concepire la questione rifiuti soltanto in termini di un servizio di cui essere utenti, e non tenendo conto delle gigantesche masse coinvolte e delle tecnologie necessarie per recuperare e smaltire, come un vero e proprio settore di impresa, con caratteri decisamente industriali per alcuni importanti segmenti del ciclo: un business insomma che può essere gestito in modo trasparente e, mi si perdoni il bisticcio parlando di rifiuti, pulito e non lasciato alla spregiudicatezza di pochi, quando non alla camorra.

Sembra che oggi vi siano interesse e volontà per superare tale ritardo, ma ancora è troppo ampio lo spazio di chi preferisce un più elevato margine di guadagno alla più onerosa ma corretta gestione del problema. Questo spazio va fortemente ristretto attraverso il ricorso ad un sistema sanzionatorio assai più rigoroso.

Come dicevamo ieri, oggi pomeriggio ci sarà una sessione di lavoro dedicata a questo aspetto del problema. Gli atteggiamenti illegali sono favoriti da una irrisorietà delle sanzioni, che da tempo è denunciata e che trova già delle risposte nel disegno di legge del Ministero dell’ambiente e nel documento e nell’articolato predisposti dalla Commissione d’inchiesta. Sia detto per inciso, non ci orientiamo per quelle pene draconiane che ci ricordava ieri Richard Martin, parlando dell’esperienza della municipalità di New York, ma per pene giustamente severe, quali quelle già adottate dal codice penale tedesco e, vale la pena sottolinearlo, da quello spagnolo.

In assenza di pene adeguate sono prosperati traffici illeciti, anche dopo l’emanazione del decreto n. 22/97. Voglio ricordare al dottor Di Pietro, della direzione nazionale antimafia, che il ministro non aveva una delega tale da normare a livello adeguato l’irrogazione delle pene. Vi sono state comunicazioni di inizio attività di "imprese" — si fa per dire — che hanno riempito illegalmente capannoni industriali dismessi di rifiuti solidi urbani o hanno gabellato per compostaggio lo stoccare rifiuti pericolosi in vasconi o, in assenza di attrezzature o dispositivi dedicati, hanno dichiarato di essere in grado di smaltire rifiuti tossico-nocivi abbandonati in realtà in cisterne, quella parte che non poteva essere sversata direttamente nel fiumicello conterminale.

La Commissione d’inchiesta chiede a tutti, perciò anche alle imprese, uno slancio nuovo, una dimensione europea avanzata anche tecnologicamente, per marginalizzare definitivamente gli "ecofurbi", responsabili spesso di danni incalcolabili al territorio e all’ambiente e di inaccettabili rischi sanitari; un nuovo impegno, insomma, nella consapevolezza, come dicevo già ieri, che non esiste una sola via per il complesso ciclo dei rifiuti e che sarebbe partire con il piede sbagliato pensare di sostituire al modello che di fatto si è realizzato nel nostro paese — tutto in discarica, con i dati che ieri ricordavo — un modello ugualmente sbagliato sia dal punto di vista ambientale sia dal punto di vista economico, cioè tutto all’incenerimento.

Vi sono poi alcuni aspetti tecnici di dettaglio, ma che ritengo fondamentale chiarire perché siano più definite le prospettive, le scelte e le strategie tecnologiche, sui quali mi permetterete di intervenire dopo il dibattito.

Iniziamo allora questa sessione e buon lavoro a tutti!

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Il coordinatore della sessione è il Vicepresidente della Commissione, Franco Gerardini. Possiamo aprire direttamente i nostri lavori con la relazione del Ministro Bersani, che ringrazio.

PIERLUIGI BERSANI, Ministro dell’industria. Mi pare che tutti siamo d’accordo che con l’approvazione del decreto legislativo n. 22/97 si ha un quadro normativo, uno strumento che ci pone nelle condizioni di avviare nel nostro paese quello che non abbiamo mai avuto, cioè un moderno sistema di gestione dei rifiuti e, aggiungo anche, a proposito di quello che diceva poco fa il Presidente Scalia, l’occasione storica per incoraggiare, non dico determinare, uno svolta nella percezione del problema da parte del sistema industriale delle imprese. Naturalmente qualcuno lamenta difficoltà applicative, ad un anno dall’approvazione del decreto, ma tali difficoltà non debbono stupirci, vista — è bene ricordarlo sempre — l’ampiezza enorme delle tematiche sulle quali si sta intervenendo.

La situazione da cui partiamo è quella che ancora una volta il Presidente Scalia ricordava, della quale immagino abbiate discusso ieri: un’arretratezza impressionante, caratterizzata sostanzialmente dalla quasi totale assenza di impianti e di tecnologie di trattamento complesso — per cui la quasi totalità dei rifiuti finisce in discarica — e forme di organizzazione non adeguate (per il 45 per cento il mercato dei rifiuti è caratterizzato ancora dalla gestione in economia), il ricorso continuo alla legislazione d’emergenza (anche in questo momento abbiamo tre regioni che vivono in emergenza rifiuti). Per quanto riguarda i rifiuti industriali, oltre che dalla scarsità di impianti di trattamento complessi, la situazione è aggravata dal fatto che spesso non sono note le quantità dei rifiuti che vengono prodotti e che prendono spesso, come si sa, la strada dello smaltimento illegale.

Quindi, scegliendo una chiave di lettura un po’ generale di questa situazione, si può dire che il nostro paese nel suo complesso, dalla metà degli anni Settanta in poi, è stato incapace di adeguarsi alle regolazioni sempre più complesse che arrivavano dall’Unione europea in materia di rifiuti. Si potrebbero fare parecchi esempi a questo proposito, ma do per scontata la condivisione di questo giudizio.

Per quanto riguarda le tendenze, ritengo che la regolamentazione che è stata introdotta dal decreto legislativo n.22/97 abbia fornito lo spunto per una serie di analisi sulle prospettive del nostro sistema di gestione dei rifiuti, facendoci registrare — è un punto che vorrei sottolineare — che forse mai come oggi ci siamo trovati nelle condizioni di condividere giudizi, volontà di intervento, analisi comuni sulle prospettive. Queste ultime sono ritenute, in modo condiviso, quelle dello sviluppo della raccolta differenziata e del recupero dei materiali che ne provengono da parte delle filiere industriali dell’imballaggio; lo sviluppo delle raccolte selettive del verde e dei marcatali per la trasformazione in compost di qualità; il trattamento di tutta la restante frazione di RSU per l’ottenimento di CDR e di compost; il recupero energetico del CDR e di altre frazioni di rifiuti combustibili; lo smaltimento in discarica delle sole frazioni residuali dei trattamenti precedenti. Su questa sequenza bisogna cogliere e affrontare quali sono i punti di maggiore problematicità dal punto di vista attuativo.

Da parte mia ritengo che tutta la trasformazione del settore vada orientata con una bussola, che non può essere che quella di un mercato regolato e della concorrenza. Dovremmo fare eccezione solo per quelle zone di emergenza rifiuti dove l’esigenza di lotta alla malavita rende necessari poteri di intervento e di pianificazione del settore pubblico particolarmente cogenti, che vadano oltre anche agli elementi ordinatori essenziali di pianificazione.

Per ciò che concerne le opportunità per il sistema produttivo proviamo ad esaminarle punto per punto. Intanto il problema del recupero dei rifiuti. Abbiamo in registrazione alla Corte dei conti il decreto sul recupero dei rifiuti non pericolosi. È un decreto molto importante e molto atteso dagli operatori per l’ampiezza rilevante di utilizzo che l’industria fa di questi rifiuti e dei materiali che discendono da essi, che sono 30 milioni di tonnellate l’anno. Su questa vicenda c’è stata, ed è ancora in corso, una dialettica vivace con la Commissione europea, sulla quale mi vorrei intrattenere ancora un attimo.

Come è noto, la Commissione ci ha contestato una bozza di decreto nella quale si stabiliva che da alcune operazioni sui rifiuti, come la separazione, la cernita e la frantumazione, si originavano materie prime seconde con precise caratteristiche merceologiche. L’attuale versione del decreto introduce così il concetto di materie prime equivalenti, con una definizione di "materiale con caratteristiche equivalenti alle materie prime utilizzate in cicli di produzione e, pertanto, in quanto impiegate nello stesso settore di produzione, sottoposte al regime normativo delle prime". Ciò rappresenta palesemente una soluzione di compromesso rispetto alle osservazioni che ci sono pervenute dalla Commissione e credo sia un compromesso utile che abbiamo assunto responsabilmente e che dal punto di vista industriale fa salve la maggior parte delle materie seconde utilizzate dalla nostra industria. Tuttavia credo sia utile ancora una volta obiettare, rispetto a quanto afferma la Commissione, che da determinate operazioni di recupero non possono scaturire materie prime seconde. Diciamo che dalle operazioni di recupero come la cernita e la separazione possono originarsi materie prime seconde. L’importante è che il materiale ottenuto dall’operazione di recupero sia direttamete riutilizzabile in un ciclo produttivo ed abbia caratteristiche merceologiche precisamente codificate da standards merceologici internazionalmente riconosciuti quali la CECA, l’UNI e così via.Non so quanto della nostra posizione sia stata accolta, ma credo che vada portata avanti una discussione. Mi pare che nelle sue stesse tesi la Commissione abbia avuto un qualche ripensamento: alla fine ha dichiarato che da quelle operazioni di recupero potrebbe discendere ancora un rifiuto. Sappiamo tutti che sulla definizione di rifiuto non c’è uniformità fra i vari paesi europei. A volte materie prime e seconde sono trattate in modo diverso persino all’interno di uno stesso paese come in Germania. In ogni caso su questo punto vorrei chiudere dicendo due cose di carattere generale.

La normativa sui rifiuti, più in generale la normativa ambientale, ormai trova in sede comunitaria la sua sede di elaborazione primaria.Credo che dobbiamo essere consapevoli che la regolamentazione in oggetto impone dei modelli, alla fine avviene in nome di qualcuno, e viene usata anche come politica di concorrenza. Dobbiamo attrezzarci assolutamente.Dobbiamo trovare una sintesi dinamica e utile fra i diversi punti di vista ed esigenze produttive e ambientali e, una volta trovata, farla valere nel contesto comunitario. Secondo punto: non c’è nessun preconcetto verso una migliore salvaguardia ambientale, al contrario. Credo che correre il rischio di includere fra i rifiuti cose che rifiuti non sono e che hanno per giunta una pericolosità ambientale trascurabile, sia controproducente anche ambientalmente perché svia le autorità di controllo dall’assolvimento di compiti più sostanziali. Condivido in questo quanto affermato dalle regioni sulla necessità di assoggettare alla normativa dei rifiuti i materiali che ne hanno tutte le caratteristiche.

Seconda questione rilevante: la trasformazione della tassa in tariffa.Ritengo che ciò sia una delle due molle fondamentali —l’altra è quella delle filiere sugli imballaggi — per l’avvio di un nuovo sistema di gestione dei rifiuti. Finora il finanziamento dell’igiene urbana è stato affidato a due meccanismi complementari: la tassa sui rifiuti, che copriva tendenzialmente i costi di gestione corrente, e il contributo pubblico, che invece si rivolgeva alla realizzazione degli impianti. Questo meccanismo, adatto ad una situazione statica e ad un accentramento delle decisioni sulla pianificazione, si rivela poco adatto alla situazione attuale che deve essere molto più flessibile ed orientata ad una gestione di tipo più industriale e imprenditoriale dell’intero ciclo dei rifiuti. Il problema è che i servizi di igiene pubblico sono servizi a rete, monopoli naturali, rispetto ai quali non è pensabile di realizzare condizioni di concorrenza od interruzioni. L’introduzione della tariffa richiede mutamenti anche concettuali sui vari piani. C’è un problema di riorientamento del ruolo programmatorio delle regioni. Bisogna concentrare, credo, gli strumenti regionali sugli obiettivi, sulle linee d’azione, sull’impegno dell’amministrazione, sul coordinamento e il raccordo dei diversi attori interessati. La scelta della tecnologia e la localizzazione degli impianti dovrebbero essere largamente affidati all’iniziativa degli operatori interessati, primi fra questi gli enti locali e i consorzi di bacino.Secondo punto: il rapporto fra enti locali e gestore del servizio dovrà essere regolato in maniera molto più puntuale di adesso con un rapporto di tipo contrattuale in cui siano definiti precisi impegni in termini di qualità del servizio, obiettivi ambientali e programmi di investimento. È inutile nasconderlo: dobbiamo far crescere una soggettività anche tecnica nel sistema delle autonomie locali, in modo da gestire credibilmente, non solo verbalmente o formalmente, il rapporto contrattuale. C’è poi il tema di una rivisitazione a proposito della normativa e delle limitazioni sulle società miste pubblico-private che gli enti locali possono costituire concedendo anche una maggiore libertà gestionale al sistema delle autonomie.

Altro titolo sul quale spingere l’azione: gli accordi di programma. In sette articoli del decreto legislativo n.22/97 viene citata la possibilità di concludere accordi di programma fra i più diversi interlocutori: pubblica amministrazione, filiere, consorzi, industrie e singoli insediamenti produttivi. I contenuti di questi accordi, come sapete, possono spaziare sui più diversi campi: dalla prevenzione e riduzione della quantità e della pericolosità dei rifiuti, al recupero all’interno di insediamenti industriali al di fuori del piano regionale, piani di settore per il recupero dei rifiuti, impiego dei materiali riciclati, gestione di tipologie particolari di rifiuti e via dicendo.

Credo che dobbiamo — il Governo intende fare così — seguire e promuovere quanto più possibile questo tipo di accordi, nella convinzione che una serie di accordi di programma sono, se non una politica industriale, un pezzo importante di quest’ultima.Sono in corso, a diverso grado di maturazione, molte iniziative: sulla filiera della carta c’è da tempo una bozza di documento che prevede un accordo di programma; per i rifiuti inerti vi sono state riunioni preparatorie presso il nostro Ministero con le principali associazioni di settore; per i pneumatici fuori uso è stata approvata, in sede parlamentare, una risoluzione dell’onorevole Gerardini, che ci impegna a definire un accordo di programma; per il settore conciario, che è concentrato in tre comprensori nazionali, si è chiesto di generalizzare, al territorio nazionale, un’iniziativa sviluppata a Pisa e denominata "Agenda 21 a livello locale", dove c’è un tavolo di collaborazione fra i soggetti istituzionali per gestire il rapporto ambiente-impresa. Qui troviamo il problema della produzione dei rifiuti di fango, in notevoli quantità, che rappresenta un’esperienza esportabile in altri settori che presentano le stesse caratteristiche di una produzione fortemente concentrata per poli (pensiamo alle ceramiche nel modenese o al pomodoro nel casertano), coinvolgendo una fetta importante della nostra industria in particolari luoghi, dove l’industria medio-piccola ha difficoltà a gestire le problematiche ambientali. Stanno iniziando i contatti con l’Unione industriali della Campania per la realizzazione di una piattaforma polifunzionale di smaltimento. Ci sono ipotesi di accordi di programma in discussione con l’ENEL per la combustione del CDR nelle centrali a carbone e la trasformazione di impianti dedicati al recupero energetico.

Sul fronte del recupero energetico dobbiamo perseguire — credo — un accordo di programma con i cementieri. I cementifici sono grandi divoratori di energia e hanno un ciclo tecnologico che potrebbe ben prestarsi all’utilizzo del CDR. Cè una grande diffidenza nei confronti di questa categoria e di queste strutture ma, se noi troviamo i giusti tempi per le riconversioni tecnologiche e le sperimentazioni, credo che questa possa essere superata. Alcuni dei rifiuti sui quali si è vista la possibilità di arrivare all’accordo di programma sono gli stessi sui quali la Comunità europea ha effettuato studi sui "flussi prioritari" e ha individuato particolari tipi di rifiuto, importanti per la loro quantità o pericolosità o difficoltà di gestione. C’è un approfondito studio per ciascuno di questi tradotti in raccomandazioni e in proposte di direttive. Abbiamo quindi del materiale che può essere utilizzato per questi accordi di programma. Naturalmente non sottolineerei l’importanza e la possibilità di gestire gli accordi di programma se pensassi al lavoro dei soli ministri, perché sarebbe fuori dalla nostra portata operativa.

Ad esempio penso che la prossima conferenza sull’energia e l’ambiente, della quale abbiamo affidato il coordinamento all’ENEA, possa essere una sede in cui si possa iniziare a realizzare operativamente molte delle cose che ho detto, perché il carattere che le vogliamo dare non è quello di un evento, ma è quello di un percorso di lavoro nuovo, una strategia di accordo, che abbia un aspetto di forte coordinamento e responsabilizzazione dei soggetti in campo su tutte le tematiche energetiche e ambientali. Questo è un capitolo certamente rilevante che può essere svolto.

Altra questione è rappresentata dalle politiche di filiera per gli imballaggi. Il CONAI ha cominciato a muovere i primi passi e a dirimere il nodo di Replastic. I consorzi di filiera sono tutti costituiti e attendono, per la piena operatività, l’approvazione degli statuti da parte dei Ministeri dell’industria e dell’ambiente. Abbiamo il problema se questi consorzi di filiera siano rappresentativi effettivamente di tutta la filiera e in questo senso abbiamo dato indicazione ai promotori, che sono tutte federazioni aderenti alla Confindustria, di stabilire un confronto con le associazioni di categoria dell’artigianato e della piccola impresa per far partecipare da subito i loro aderenti alla vita dei consorzi.

Credo che, compiuto questo processo, non ci saranno ulteriori problemi perché insieme a Ronchi potremo procedere rapidamente all’approvazione. Il sistema di imballaggi, seppur con qualche ritardo forse fisiologico, comincia a delinearsi ed è un fatto molto importante. Credo che ci sia un problema di comunicazione agli operatori, far conoscere il sistema, stimolare l’adesione. Potremmo forse pensare di coinvolgere su questo tema anche il sistema delle Camere di commercio. C’è qui una molla potente che può dare un impulso enorme allo sviluppo della raccolta differenziata e del riciclaggio e recupero energetico.

Da quest’ultimo punto di vista, credo che il Governo debba avere una grande attenzione allo sviluppo del mercato dei prodotti ricilati anche con il varo di normative specifiche che obblighino all’utilizzo di tali prodotti quando sia possibile tecnologicamente ed economicamente, con un monitoraggio ravvicinato del mercato dei materiali riciclati, cercando di intervenire più attivamente in sede europea per evitare alcune turbative che spesso contraddistinguono questo mercato.

Infine c’è la questione del recupero energetico e questo aspetto riguarda i rifiuti di imballggio, ma non solo. Sono anche qui arcinote le arretratezze del nostro Paese al riguardo. Il problema del recupero energetico dei rifiuti si pone in maniera articolata nel senso che le soluzioni ottimali devono tenere conto del contesto urbano, territoriale e produttivo in cui si applicano. L’opzione energetica è stata comunque fino ad oggi penalizzata anche da bassi rendimenti elettrici, 15-20 per cento.

Oggi sono in fase avanzata di sviluppo e dimostrazione delle tecnologie che consentono rendimenti ben più alti, anche per taglie non elevate, e credo che il salto tecnologico debba in qualche modo incidere sulle priorità e sulla valorizzazione del recupero energetico rispetto ad altre modalità. Del resto l’industria nazionale non può essere esclusa dallo sviluppo del mercato impiantistico nel quale, data la delicatezza dei risvolti sociali ed ambientali, conteranno molto l’affidabilità e la credibilità dell’operatore industriale, quindi delle referenze in termini di realizzazioni funzionanti a dimostrazione dell’efficacia energetica ed ambientale della tecnologia. La complessità degli impianti determina un costo troppo elevato per permettere — oggi — un ritorno dell’investimento accettabile. Ecco allora l’esigenza di un’incentivazione per colmare le diseconomie. Sappiamo che il CIP 6 con tutti i suoi difetti ha avuto il pregio — almeno in parte — di stimolare la crescita dell’industria e delle fonti rinnovabili, e in particolare del recupero energetico dei rifiuti. Di 8000 megawatt di impianti ammessi alla cessione di energia alla rete ENEL, 670 sono relativi ad impianti di produzione di energia derivata dai rifiuti. Anche se naturalmente è illusorio che, specie per i piccoli impianti, ci sia un tasso di realizzazione del 100 per cento, tuttavia le cifre in gioco — almeno sul piano teorico — sono di tutto rispetto.

L’esperienza passata quindi ha dimostrato che l’incentivazione sull’energia è una strada che funziona rispetto ai contributi sulla realizzazione, anche se, per assicurare quegli obiettivi di sviluppo reale che tutti vogliamo, occorrerà lavorare anche su altri fattori che determinano il blocco di queste iniziative. C’è il tema della localizzazione, del rilascio delle autorizzazioni, del consenso delle popolazioni, della bancabilità degli investimenti e la possibilità di cessione alla rete nazionale dell’energia elettrica. Sui primi tre problemi bisogna che rispondano — grazie alla legge n. 59/97 — le autorità centrali e locali. Sottolineando che, al di là della predisposizione di iter autorizzativi più semplici e di campagne informative, bisogna che siano tenuti fermi dei meccanismi procedurali che permettano in premessa l’esplicita autoresponsabilizzazione degli enti locali di riferimento, senza la quale le cose non succedono, su questo bisogna essere molto chiari. Il tema della "bancabilità" è affrontabile con tecniche di finanziamento particolari, che peraltro non è che siano molto complesse, ma diciamo meno usuali per il nostro sistema del credito, che non è molto abituato a operazioni di questo genere, anche se peraltro c’è in corso un cambiamento di mentalità.

L’ultimo problema è quello della collocazione dell’energia. Abbiamo necessariamente sospeso il CIP6 perché questo provvedimento risultava assolutamente inadeguato rispetto ad un sistema in profonda evoluzione come quello del settore elettrico e le novità che stanno davanti a questo settore. Dovremmo attivare, al posto del CIP6, nuovi strumenti normativi che consentano una politica di valorizzazione e sviluppo delle fonti rinnovabili, quindi anche dei rifiuti, tramite un meccanismo incentivante, assicurando trasparenza e coerenza sia dei criteri sia della leggibilità delle risorse che vengono destinate a questo scopo. Abbiamo fatto un passo avanti con il provvedimento dell’Autorità che riconosce l’integrazione del carbone anche al CDR e alle biomasse, e tuttavia il passo decisivo dovremo farlo all’interno del recepimento della direttiva sul mercato unico dell’energia elettrica. Attendiamo dal Parlamento la delega al Governo per procedere e credo che in quella sede, piuttosto che in applicazione dell’articolo 33 del decreto legislativo n. 22/97, sia possibile risolvere il problema, anche perché con altri meccanismi avevamo bisogno di copertura finanziaria a bilancio, che in questo momento non abbiamo.Credo che nel contesto del riassetto del settore elettrico occorrerà prevedere le successive regole che consentano l’intervento del Governo e dell’Autorità con i rispettivi ruoli per un’incentivazione delle fonti rinnovabili, che massimizzi i benefici ambientali e minimizzi oneri per utenti e contribuenti.

Ho cercato di dare dati concreti, mi paiono questi i capitoli sui quali si esercitano concretamente le sfide delle imprese. Credo che dobbiamo stare sostanzialmente intorno a questi punti dandoci una buona organizzazione e un buon metodo di lavoro, ma soprattutto uno stile di collaborazione fra istituzioni, persone e strutture che sanno di dover raccordare punti di vista e interessi non collimanti, ma che sono chiamati a trovare soluzioni dinamiche per il nostro sistema. Mi pare che in quest’ultimo anno abbiamo lavorato esattamente così. Passi avanti ce ne sono stati, con questo metodo ne possiamo fare ulteriori.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Grazie, ministro.

Do ora la parola al senatore Leonardo Caponi, Presidente della Commissione industria del Senato.

LEONARDO CAPONI, Presidente della Commissione industria del Senato della Repubblica. Ringrazio il Presidente Scalia e tutti gli intervenuti. Intendo svolgere un breve intervento alla fine del quale — chiedo scusa — impegni parlamentari mi costringeranno ad assentarmi da questa sede. Ricordo che lo scorso anno venne alla Commissione che presiedo, per il "canonico" parere, il decreto legislativo n. 22/97. Fu espresso un parere favorevole sulla parte di competenza, che riguardava fondamentalmente la questione degli imballaggi. A me pare in questa sede di poter ribadire un giudizio positivo sul decreto in oggetto sia per la parte che ho già ricordato, imballaggi di più stretta attinenza dell’industria, sia per il provvedimento nel suo complesso. Mi pare che siano già state illustrate — dal ministro — le caratteristiche positive, il contesto anche dettagliato di specifiche tecniche, il modo di proporsi rispetto a questo problema fondamentale dei tempi moderni. Esiste però a mio giudizio un interrogativo che vi vorrei proporre: pur essendo un provvedimento largamente positivo anche il decreto n. 22/97, a mio giudizio, si propone fondamentalmente come un intervento a valle del problema, interviene non sulle cause ma sulle conseguenze e gli effetti, ponendosi il problema dello smaltimento dei rifiuti.

Credo che una società moderna — vorrei usare un termine atemporale — e seria dovrebbe con maggiore forza e determinazione proporsi la questione di un intervento a monte e quindi sulle cause dell’inquinamento ambientale, sulle cause di una eccessiva produzione dei rifiuti altamente inquinanti. È a tutti noto — è una questione largamente conosciuta — che se l’attuale livello dei consumi e di produzione dei rifiuti che si ha nei paesi — non molti — più industrializzati fosse esteso al resto del pianeta, si creerebbe immediatamente un contesto mondiale planetario assolutamente insostenibile. Penso che la nostra lungimiranza dovrebbe prefigurare un futuro nel quale le nostre condizioni di benessere e anche i nostri livelli di consumo non possano e non debbano rimanere privilegio di una minoranza dell’umanità — 1 miliardo di persone circa su 5 miliardi — ma siano possibilmente estese a tutta l’umanità. Se questo non accadrà la fine dell’umanità avverrà per altra strada, per via di una guerra a carattere mondiale, dal momento che ritengo assolutamente impensabile che la dittatura di qualche centinaio di milioni di uomini possa reggere a lungo su una platea molto più estesa di persone, che prima o poi rivendicherà il diritto di entrare e di godere della mensa del palazzo dei pochi.

Sono costretto — mio malgrado — ad avere un approccio anche ideologico a questo tema. Penso che la questione dei rifiuti chiami innanzitutto in causa il modello di sviluppo economico e sociale delle nostre società più avanzate e per primo chiama in discussione le finalità delle produzioni, che oggi caratterizzano la gran parte dell’economia mondiale. Credo che realisticamente — non so se è ideologia — la finalità del produrre oggi non è né la qualità dei prodotti, né il soddisfacimento dei bisogni dell’utenza, ma fondamentalmente il profitto. Rispetto a quest’ultimo, tutte le altre cose sono sostanzialmente degli accessori. Tutto quello che contrasta con il raggiungimento della logica del massimo profitto, dai depuratori, alle innovazioni nei processi produttivi, allo smaltimento dei rifiuti, diventa un costo aggiuntivo sulle produzioni che si tende — questa è la filosofia — sostanzialmente ad eliminare.

Ritengo sinceramente che se non affrontiamo questa radice del problema non basteranno numerosissimi decreti legislativi come il n. 22/97 o anche le misure, assolutamente interessanti e condivisibili, esposte dal ministro Bersani. Saremmo sempre costretti a rincorrere un problema del quale non verremmo mai a capo. Mi rendo conto naturalmente che cambiare le finalità della produzione, assumere una filosofia diversa, mettere in discussione il modello produttivo, economico e sociale, comporta una prospettiva di lunga lena, non risolvibile nell’immediato, ma io credo che anche nei provvedimenti immediati contingenti occorrerebbe avere come cultura questa prospettiva di fondo.

Per venire più al concreto e per avviarmi alla conclusione del ragionamento penso che in questo ambito, con questa cultura, alcune cose si possano fare nell’immediato. Sarebbe importante e possibile nell’immediato assumere da parte del nostro Governo e da parte degli altri governi europei, in funzione dell’unificazione europea, una politica industriale che, anche in contrasto quando necessario con le pure logiche del mercato, si proponesse di incentivare produzioni di qualità, contenendo i rifiuti altamente inquinanti. Leggevo recentemente dei dati che dovrebbero mettere sull’avviso particolarmente noi italiani, riguardanti la recente decisione introdotta con legge poi prorogata della rottamazione delle automobili. Se non sbaglio la rottamazione ha in parte rilanciato lo sviluppo del nostro paese, incidendo positivamente sul PIL, però ha prodotto la rottamazione di un milione e 400 mila veicoli. Il 40 per cento di questi veicoli — 560 mila — sono stati rottamati "illegalmente" poiché i rottamatari sono 1300 e una cifra pari al 40 per cento sono rottamatori illegali. Vengo successivamente a sapere che nelle auto italiane il materiale riciclabile, al contrario delle auto tedesche — in Germania c’è una legislazione che costringe ad usare parti riciclabili per il 90 per cento —, è del 50 per cento. Sicuramente c’è stato un beneficio al PIL, ma quanto è il costo in termini ambientali e finanziari di questa pratica largamente diffusa dell’illegalità nella rottamazione? Che fine ha fatto il 40 per cento di tutte le batterie, gli oli e i pneumatici? Credo che a conti fatti il bilancio tra contributo alla produzione del benessere, e costi per la nostra società, probabilmente è rosso: è più quello che è costato che probabilmente quello che ha dato. Accostarsi ad una politica di incentivi alla qualità delle produzioni non deve costituire un costo aggiuntivo, ma un contributo importante al risparmio oltreché ad avere un ambiente più vivibile, una migliore qualità della vita e un modello sociale di sviluppo che renda compatibile una logica di mercato e concorrenza, però con una logica sociale di mantenimento di equilibrio dell’ambiente e di giustizia sociale.

Concludo con un ultimo punto. Il Ministro mi scuserà, ma siamo abbastanza abituati ad avere disaccordi oltre che fare parte della stessa maggioranza di Governo. Approfitto anche dell’amico Testa, presidente dell’ENEL. La forza politica che rappresento — lo voglio dire senza fraintendimenti — è decisamente contraria al recupero energetico dei rifiuti. Mi pare di avere notizie dalla vicina Germania — potrebbe essere un esempio — nella quale ci si è lanciati, come mi pare si voglia fare oggi nel nostro paese, su questo business. Anche qui la molla è sempre la stessa: nessuno per spirito amorevole o caritatevole brucerebbe i rifiuti per liberasene, ma li brucia solamente se ci guadagna. È un calcolo miope, perché mi risulta che in Germania, dove questo business è stato imboccato, è durato poco, nel senso che poi è intervenuta per fortuna una legislazione molto rigida contro l’immissione dei rifiuti, è venuta a mancare la materia prima e adesso ci sono centrali che rimangono inutilizzate perché non hanno più i rifiuti da bruciare. Direi che in Italia, forti anche di questa esperienza, dovremmo evitare di metterci su questa strada e, tornando al discorso iniziale, piuttosto che intervenire sempre sulle conseguenze, proporci con lungimiranza di intervenire sulle cause per evitare che le conseguenze si generino.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Ringrazio il Presidente Caponi e do la parola ad Enrico Testa, presidente dell’Enel.

ENRICO TESTA, Presidente dell’ENEL. Sono sicuro che il senatore Caponi, nel momento in cui pronunciava queste ultime parole relative alla contrarietà della sua forza politica per la termocombustione dei rifiuti, si riferisse sicuramente alla contrarietà alla termocombustione tal quale, sicuramente non all’uso per fini energetici del combustibile estraibile dai rifiuti, che rappresenta la linea all’interno della quale si muove il decreto Ronchi e che costituisce una delle colonne portanti del decreto stesso. Su questo voglio tornare nella parte finale del mio intervento.

Anche io concordo sul fatto che il decreto Ronchi ci abbia fatto fare dei passi in avanti e abbia dato ordine alla nostra disciplina armonizzandola con la disciplina europea. Si tratta adesso di sostenerlo con la forza delle decisioni tecniche e soprattutto politiche, altrimenti si corre il rischio di frammentare il decreto a seconda della comodità, non vedendo che tutti i pezzi stanno insieme tra di loro, non avendo un puzzle ben composto, ma una figura illeggibile. Questa strada non ci porterà ad alcun risultato. Non si può fare una cosa se non si fa prima l’altra, esattamente come in una costruzione organica dove si fanno i pilastri, le pareti e il tetto. Intanto il decreto in questione ha conseguenze sull’attività propria dell’ENEL. Vorrei parlarvi in primo luogo appunto dell’ENEL come grande produttore di rifiuti. Ho già consegnato al Presidente Scalia i dati in un’audizione che mi è stata gentilmente concessa. Ve ne riassumerò qualcuno, perché credo sia importante vedere come l’impresa ENEL si muove in relazione ai propri rifiuti. Nel 1992 ha prodotto qualcosa come 1,426 milioni di tonnellate che si sono ridotte nel 1996 a un milione di tonnellate — con una riduzione del 22 per cento — ma la cosa importantissima è che il recupero di questa quantità ingente di rifiuti — del 23 per cento nel 1992 — è diventata del 79 per cento nel 1996. Quindi l’80 per cento di tutti i rifiuti prodotti all’ENEL sono già recuperati. Dove sta il trucco? Sta nel fatto che gran parte di questi rifiuti sono ceneri — la quantità maggiore — e il trattare queste ultime come materia prima secondaria ci ha consentito di fare accordi con l’industria edilizia in senso lato e riutilizzare le ceneri utilmente in questi processi produttivi, liberando il paese di un grosso problema di discariche.

Per quanto riguarda le altre categorie di rifiuti, per esempio gli speciali non pericolosi, siamo passati da 234 mila tonnellate che sono diventate 152 mila nel giro di pochi anni con un aumento del recupero passato dal 15 per cento del 1992 al 30 per cento del 1996 e nuovi dati verranno presentati nel bilancio ambientale che presenteremo a giugno-luglio.

Sono in corso una serie di iniziative ENEL molto importanti. Una di queste riguarda i processi di decontaminazione degli oli PCB, cui stiamo collaborando con varie organizzazioni industriali.

Un problema molto importante — lo segnalo al Presidente Scalia — è quello del trattamento termico di vetrificazione ad alta temperatura dell’amianto. Oggi facciamo questa operazione in Francia : portiamo i nostri rifiuti di amianto, che come voi sapete sono dei banalissimi inerti che hanno solo bisogno di essere maneggiati in un determinato modo, ma non sono né tossici, né sprigionano gas. Avremmo la possibilità, come ENEL o insieme ad altri imprenditori, di realizzare un impianto molto semplice di dimensione molto ridotta, un capannone industriale in cui fare in Italia la vetrificazione dei rifiuti di amianto prodotti da noi, dalle Ferrovie dello Stato e da altri produttori di questi rifiuti, che sono costretti anche per un processo così semplice a rivolgersi al mercato estero.

Stiamo rivedendo i contratti di appalto con particolari clausole che richiedono l’impegno delle ditte che lavorano per noi per una corretta gestione dei rifiuti. Abbiamo in corso una serie di studi tesi alla ricerca di materiali riciclabili a fine vita, soprattutto per le componenti della distribuzione elettrica che sono largamente sparse sul territorio e abbiamo già dato vita ad un programma di formazione ambientale per il personale.

Vorrei, adesso, affrontare la seconda categoria di rifiuti prodotta da ENEL: quelli accessori che derivano dalle attività di servizio. Queste ultime sono attività che si svolgono prevalentemente in strutture destinate ad uffici, laboratori e magazzini, ma stiamo parlando di qualcosa di 3 milioni di metri quadrati occupati sul territorio italiano, circa 50 mila dipendenti e stimiamo la produzione totale di rifiuti nostri in questo settore nel 1996 in circa 15-20 mila tonnellate, che sarebbero circa il 20 per cento del totale dei rifiuti ENEL togliendo le ceneri, che sono una categoria a parte. Naturalmente la maggior parte anche per noi sono rifiuti da imballaggio, 46 per cento circa, carta 26 per cento circa, rifiuti da mense 26 per cento circa, 1 per cento di oli di frittura, che trattiamo separatamente. Rifiuti pericolosi come lampade fluorescenti, cartucce di toner per fotocopiatrici e stampanti, acidi da sviluppo, eccetera. Abbiamo constatato che lo smaltimento di questi rifiuti avveniva in maniera differente un po’ in varie parti. Abbiamo costituito una task force, che ha come obiettivo ricondurre tutta questa massa di rifiuti alle famose 4 R: riduzione, raccolta differenziata, riciclo e risparmio. È partita una sperimentazione in ENEL che stiamo studiando con i consorzi vari, CONAI, CONIEGO e COBAT, con le aziende municipalizzate, e alcune decisioni sono già state prese. Per esempio stiamo inserendo in tutti i futuri contratti di fornitura l’abolizione del polistirolo, che rappresenta un problema molto grosso dal punto di vista dello smaltimento.

Insomma l’idea — non è un’idea, è un progetto che sta camminando — è di arrivare alla gestione integrata di tutti i rifiuti prodotti in ENEL, relativi alle attività sia industriali, sia di servizio, indirizzata ai principi contenuti nel decreto Ronchi. Abbiamo l’obiettivo di fare tutto questo a costo zero e in qualche caso forse guadagnando qualche lira dalla possibilità di recuperare materiali che oggi vanno ai rifiuti. Qualche liretta la vorremmo guadagnare anche dal fatto che l’introduzione della tariffa ci consente un meccanismo in cui, a fronte di una costante riduzione dei rifiuti, possiamo abbassare il nostro contributo dalle casse dei comuni, dello Stato e via dicendo.

Devo infine affrontare la questione della termoutilizzazione dei rifiuti molto rapidamente e con un po’ di pena nell’animo, perché sembra che questo discorso ogni volta debba ricominciare daccapo. Intanto vorrei esprimere due concetti. Innanzitutto è chiarissimo ad ENEL ed a qualsiasi persona che in Italia si occupi di queste questioni che le cose da fare con i rifiuti solidi urbani sono tre. In primo luogo occorre ridurre la quantità, in secondo luogo recuperare una certa quantità di rifiuti attraverso le raccolte differenziate, in terzo luogo recuperare energia dalla quota residua dei rifiuti, trasformata in combustibile. Non c’è dubbio. La seconda questione è che, se non si attuano le tre operazioni enunciate insieme, il ciclo non si chiude, perché uno raccoglie e poi non sa dove mettere, separa e poi non sa cosa fare, per cui corriamo il rischio di dar luogo ad un paradosso come quello dell’impianto di Milano, in cui si fa la separazione e poi ci si ritrova che i rifiuti di Milano, separati alla Maserati, sono nelle discariche abusive del Lazio. Non sono fatti casuali o criminali. La criminalità nasce e prospera dove le condizioni di mercato ed economiche non consentono altre soluzioni. Se lo Stato vende a me le sigarette a seimila lire, io le vado a comprare al contrabbando, per fare un esempio (Si ride). È chiaro che io personalmente le compro dal tabaccaio, signori giornalisti!!

Dico questo per fare capire che non è che dietro questi meccanismi ci siano fatti paradossali o elementi particolari; c’è il fatto che i meccanismi non sono oliati, c’è il fatto che la domanda e l’offerta non si incontrano sul mercato, per cui si creano spazi di ricchezza clandestina, di cui approfittano persone che a modo loro sono degli imprenditori, illegali ma imprenditori.

Dunque, le tre cose debbono stare perfettamente insieme. È chiaro che l’ENEL è un produttore di energia elettrica, per cui possiamo dedicarci a quella parte di questa filiera che è l’utilizzo delle frazioni combustibili di rifiuti per produrre energia elettrica. Non è nostro mestiere né fare la raccolta differenziata, né fare altre forme di recupero o di riciclaggio. Sarebbe sciocco che avendo una altissima specializzazione su un lato, noi cercassimo di andare ad occupare spazi su cui ci sono le municipalizzate ed altri in ugual misura altamente specializzati.

Inoltre, lo sviluppo delle tecnologie è andato moltissimo avanti oggi in tutto il mondo, tanto è vero che i problemi ambientali che sicuramente c’erano negli anni settanta oggi vengono considerati superati. Non è vero che la Germania non investe più in termocombustori, che sono presenti in tutte le grandi città. Ce ne è uno al centro di Montecarlo e la città di Ventimiglia porta i suoi rifiuti a bruciare a Montecarlo. C’è in un luogo ad altissimo pregio ambientale, che vive tutto ed esclusivamente sul turismo, è chiaro che si tratta proprio del Principato di Monaco e della città di Montecarlo. I termocombustori sono a Vienna, Amsterdam, Parigi, Chicago. Li abbiamo visitati. Qui c’è un pubblico di amici, di persone che conoscono tutte queste situazioni. Lo sviluppo tecnologico è stato molto positivo, oggi si apre anche la possibilità della co-combustione in impianti che bruciano ad esempio carbone. Abbiamo stimato che si possono bruciare circa 200 mila tonnellate in un gruppo da 320, quindi stiamo parlando, mettendo insieme tutti i vari gruppi che abbiamo, di un milione circa di tonnellate. Se capisco bene, dovremmo porci l’obiettivo di 8-10 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani. Se la produzione nazionale è ancora a 26 milioni di tonnellate, il 50 per cento è l’obiettivo di CDR, siamo a 13 milioni. Facciamo 8 o 10 milioni di tonnellate: c’è un sacco di lavoro da fare.

Vorrei precisare che per l’ENEL – lo dico al Presidente della Commissione, che mi ascolta sicuramente con attenzione – il business dei rifiuti è completamente marginale. Per Montalto di Castro, per parlare di un caso che è stato sulle cronache dei giornali in questi giorni, che ha 3200 megawatt installati, aggiungerne 50 per fare la termocombustione non cambia assolutamente nulla, aggiunge uno "spilletto". Se a Fusina ho mille megawatt installati, un impianto da 25 megawatt per la termocombustione non modificherebbe sostanzialmente la situazione dal punto di vista della capacità di produzione energetica dell’ENEL: al massimo faremmo qualche centinaio di megawatt a fronte, se dovesse andare tutto bene, di 55 mila megawatt installati in Italia. Quindi la motivazione è un’altra, risponde al concetto che, se un comune, una regione, una provincia hanno un problema, l’ENEL può offrire una buona soluzione, perché offre un sito industriale, già interconnesso con la rete elettrica, dotato di logistica, di collegamenti ferroviari. Se uno degli enti in questione non lo vuole, non fa niente, amici come prima! Non me ne importa niente, trovate un’altra soluzione, perché questi venti megawatt non cambiano la vita dell’ENEL!

Certamente in situazioni drammatiche come quelle della Campania, se non si va su siti industriali esistenti, vorrei capire dove sia possibile trovare i siti per fare questo. Di fatti, siccome abbiamo un business-plan, che conoscete perché lo abbiamo presentato, abbiamo censito e qualificato una quindicina di siti in Italia, praticamente in tutte le regioni, dove si può realizzare un termocombustore e probabilmente, dandoci da fare, possiamo trovare altri siti (infatti la "sitologia" ENEL è molto diffusa) senza occupazione di nuovo territorio.

Gli strumenti per fare le cose sono due: gli accordi di programma citati dal Ministro Bersani oppure procedure di gara di evidenza pubblica. Vi debbo dire sinceramente che dopo aver tentato per un anno, un anno e mezzo di fare degli accordi di programma, i quali però hanno un problema, cioè che si è in due: da una parte c’è l’ENEL, dall’altra gli enti pubblici, che non sono due, ma sono sei. Due persone che debbono per forza raggiungere un accordo, non riescono mai a trovarlo, perché una cerca sempre di strappare a quell’altra qualche cosina, sperando che l’altra, cioè l’ENEL, "molli" continuamente qualche cosa, mentre noi gli impianti li dobbiamo realizzare anche tenendo conto della giusta redditività economica, che non arriva al trenta per cento di ritorno, ma a percentuali più basse, su cui lavoriamo tutti oggi. Per quanto riguarda Montalto di Castro, caro Presidente Scalia, se qualcuno avesse voluto seriamente affrontarne i problemi ambientali, ai cinquemila o 5500 megawatt fra Montalto e Civitavecchia, aggiungerne settanta per risolvere i problemi del Lazio e chiedere ad ENEL una gestione dei 5500 tale da compensare gli effetti aggiuntivi negativi dei 70 era veramente una sciocchezza. Sarebbe bastata un’ora in meno di funzionamento in un anno! Sono stati fatti invece dei proclami, come il "metano per tutta la vita": dipenderà da quanto costerà il metano. Non vorremmo "impiccarci" un’altra volta, come è successo in passato: potremmo trovarci di fronte ad un balzo del prezzo del metano, che ci farebbe riconsiderare la situazione. In definitiva, se ci fosse stata voglia di pragmatismo, il problema sarebbe stata risolto.

La mia proposta è che dobbiamo andare avanti con gli accordi di programma, ma contemporaneamente dobbiamo prendere una decisione, che rappresenta la via maestra: le regioni, i proprietari dei rifiuti facciano le gare su scala di bacino, su scala regionale. Noi ci presenteremo con i nostri siti, con le nostre qualità, con le nostre tecnologie: se ci sarà qualcuno più bravo di noi, saremo felicissimi che lo faccia qualcuno di noi. Voglio vedere nel Lazio, dopo che si è detto di no a Montalto, dopo che si dirà di no a Civitavecchia e a Fiumicino, dove si troverà qualcuno disposto ad ospitare un impianto di termodistruzione dell’RDS, ricordando che dall’anno prossimo Roma produrrà duemila tonnellate all’anno di CDR e che chi lo produce ha già promesso che lo scaricherà di fronte all’ENEL, al comune di Roma e alla sede della Commissione parlamentare di inchiesta, al Ministero dell’ambiente e al Ministero dell’industria!

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Ringrazio il presidente dell’ENEL. Penso che il fatto di scaricare ricordi antichi fasti: eravamo noi – eravamo più giovani — che scaricavamo carbone davanti all’ENEL!

ENRICO TESTA, Presidente dell’ENEL. Il presidente Scalia sta ricordando che, avendo io e lui scaricato del carbone davanti all’ENEL un po’ di anni fa, adesso è giusto che mi becchi un po’ di CDR!

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Per il prosieguo della nostra tavola rotonda, do la parola al dottor Luigi Patron, della Snamprogetti.

LUIGI PATRON, Presidente della Snamprogetti (gruppo ENI). Ringrazio il Presidente. Saluto gli intervenuti, in particolare le signore, per non dimenticarle due giorni dopo aver offerto loro la mimosa!

Vorrei dire due parole sull’attività della Snamprogetti, per capire quale contributo possa dare alla tavola rotonda. È la società del gruppo ENI che si occupa della progettazione e della costruzione di impianti energetici, infrastrutture, impianti chimici e impianti per la protezione ambientale. Nel proprio ambito la Snamprogetti ha due società che si occupano in particolare di tecnologie ambientali, vale a dire la società Aquater, che si occupa di ingegneria del territorio, e la società danese Topsoe, che è leader nel trattamento degli affluenti gassosi.

La Snamprogetti realizza l’ottanta per cento del proprio fatturato al di fuori del gruppo ENI, e dell’Italia, quindi gode di una finestra tecnologica a 360 gradi sul mercato internazionale.

Per collegarsi al tema di oggi ho pensato di ricordare due progetti significativi, che sono in corso nel nostro paese e che la mia società sta gestendo e che riguardano la valorizzazione dei residui di raffinazione, nella raffineria ISAB di Augusta e nella raffineria SARAS a Cagliari. In questi processi si prevede la gasificazione dei residui della lavorazione di raffinazione e, dopo la purificazione del gas ottenuto, la cogenerazione di energia elettrica. Sono due progetti rilevantissimi per le tecnologie che vengono assemblate e per la dimensione dell’investimento. Essi sono stati avviati con il concorso di Project financing internazionale. Ultimati i lavori, il nostro paese potrà contare sul fatto che le più grandi raffinerie del Mediterraneo non avranno più residui, ma potranno proporre al mercato prodotti energetici puliti completati dalla disponibilità di mille megawatt-ora di energia elettrica.

Mi sembra che in tema di valorizzazione dei rifiuti questo sia uno dei settori più promettenti. Sviluppato in Italia, trova ora interesse anche in altri paesi, come la Spagna, la Turchia e l’India.

Un secondo settore nel quale stiamo lavorando — mi dispiace che Chicco Testa sia andato via — riguarda il trattamento dei fumi che vengono emessi dalle centrali termoelettriche. In alternativa al trattamento con calce e la produzione di gessi, con la necesità quindi di mettere a discarica altri nuovi prodotti, a Gela è in corso la costruzione di un impianto industriale del valore di quasi duecento miliardi, che trasformerà l’SO2, lo zolfo contenuto nei combustibili, che finora ha costituito un problema, in acido solforico, quindi una materia prima che verrà utilizzata e venduta sul mercato con standard commerciali accettati dall’utenza, come auspicava precedentelmente il ministro Bersani.

Per venire al tema del ciclo dei rifiuti il decreto legislativo n. 22/97 indica da un punto di vista politico e degli indirizzi due aspetti interessanti. Il primo riguarda comunque la riduzione della quantità dei rifiuti. Occorre lavorare a monte. Lo diceva anche il Presidente Caponi, magari con posizioni che egli definiva "ideologiche" e che forse non possiamo condividere completamente, ma che hanno una loro validità. Certo lavorare a monte, cercare di ridurre e di limitare, attraverso tecnologie innovative, la produzione di rifiuti è una politica perseguibile che funziona, come testimoniano i risultati del gruppo ENI. Infatti il gruppo, essendosi dato delle politiche molto restrittive in termini di produzione di rifiuti tossico-nocivi, attraverso delle politiche ambientali che fissavano delle precise priorità, nel quadriennio 1993-1996 è riuscito a ridurre del 24 per cento i rifiuti tossico-nocivi prodotti a seguito delle proprie lavorazioni. Se poi in termini di rifiuti consideriamo in senso lato anche quelli che non sono solidi, ma sono comunque delle sostanze o dei sistemi che interagiscono con l’ambiente, come i fumi, piuttosto che l’inquinamento degli scarici idrici, anche in questo caso l’innovazione tecnologica — è dimostrato — è in grado di abbattere sensibilmente i sottoprodotti delle lavorazioni. Quindi la prima indicazione che dà il nuovo quadro legislativo del decreto n. 22/97 va perseguita e con convinzione, perché i risultati parlano a favore di questa politica.

Il secondo punto che viene indicato è l’impiego di tecnologie avanzate. Credo che da questo punto di vista si debba ricordare che la tecnologia, come d’altra parte ha detto anche il presidente dell’ENEL, Testa, non è più quella degli anni Settanta. Oggi sono disponibili tecnologie avanzate, ad altissimo potenziale, che potranno essere ulteriormente migliorate in futuro. Un esempio di queste tecnologie, che trattano in maniera sicura i fumi emessi dalle centrali oppure dagli impianti di termodistruzione di rifiuti con contemporanea produzione di energia elettrica, è l’impianto di termodistruzione dei rifiuti di Bolzano. In questo impianto sono state applicate le tecnologie per il trattamento dei fumi più avanzate. I dati che abbiamo rilevato sono a livello così basso, che ci siamo convinti assieme alla società che gestisce l’impianto, che sia possibilie nel medio periodo puntare ad un impatto ambientale nullo. Per questo assieme alle autorità locali stiamo cercando di concordare un protocollo, che consenta di accedere all’impianto, per sperimentare i miglioramenti tecnologici che verranno via via disponibili. Riteniamo di accompagnare questo avanzamento, questo progresso tecnologico con specifici bilanci ambientali che omologhino i risultati ottenuti, anche al fine di facilitare il rapporto con il territorio. Se un inceneritore emette diossina si deve dire che questo avviene, però si deve dire anche che quando facciamo la doccia si possono rilevare concentrazioni comparabili a quelle di un inceneritore tecnologicamente avanzato. Questa è la verità. La diossina è ubiquitaria, si trova ovunque. Non dobbiamo demonizzarla, dobbiamo affrontare il problema con molta trasparenza, con molta dovizia di informazioni.

Voglio fare un esempio. La legge olandese consente nel latte un massimo di sei picogrammi per litro di diossina. È l’unico paese in Europa che ha affrontato questo problema e si è dato una legge. Il petrolchimico di Porto Marghera rispetta una specifica di 0,5, dodici volte più bassa. Credo che questo vada detto per cercare di aprire un confronto sui numeri e sulle cose da fare, cercando di resistere all’emozione, all’impatto che produce la parola diossina in particolare quando i fatti si riferiscono a compromissioni ambientali avvenute decenni or sono e che soltanto adesso vengono scoperte.

Vediamo ora la problematica delle bonifiche dei siti inquinati. Questo è un tema più complesso del trattamento dei rifiuti, perché i rifiuti sono qualcosa che produciamo oggi, che possiamo limitare agendo come è stato detto sui comportamenti e cercando di utilizzare tecnologie che ne riducano la produzione. I siti inquinati sono il risultato, la stratificazione di compromissioni ambientali che si sono prodotte negli anni, nei decenni passati. Quindi c’è anche un problema di complessità e di "intrigo" di responsabilità. È difficile, quando si tratta di questi problemi, individuare chi sia il soggetto responsabile, chi debba procedere alla bonifica di un terreno inquinato che magari ha cento anni di storia industriale.

La scelta che il decreto legislativo n. 22/97 fa in termini di individuazione della responsabilità, può non essere completamente condivisibile, ma certamente se ne capisce la valenza politica e ambientale. Il fatto di attribuire all’attuale proprietà del sito il compito di verificare il sito stesso e di effettuare gli eventuali interventi di bonifica è una scelta senz’altro forte, che porterà ad accelerare gli interventi per il ripristino del territorio. Su questo non c’è dubbio. Sarà un po’ più difficile per chi è proprietario di un sito che è stato inquinatio da un altro soggetto giuridico recuperare i costi che dovrà sostenere. Dovendo tuttavia essere questa una legge atta a favorire il ripristino, non si può non approvare la filosofia e gli indirizzi.

Un altro punto del decreto che mi sembra interessante è l’attenzione che viene posta ai criteri e alle procedure per valutare la necessità di bonifica o di ripristino in funzione dell’uso del sito. È un giudizio che si anticipa in termini generali, mancando gli strumenti tecnici applicativi della legge, ma se questi saranno costruiti con buonsenso, sicuramente avremo una buona legge.

Da ultimo vorrei augurami che il decreto legislativo n. 22/97, proprio perché propone un quadro giuridico chiaro e proprio perché ha definito le responsabilità della pubblica amministrazione, possa favorire il rapporto con l’utenza, che è poi l’azienda, la società industriale. Dobbiamo riconoscere che in passato i rapporti fra gli amministratori locali, il Ministero dell’ambiente e l’azienda non sono stati impostati in modo tale da favorire la risoluzione dei problemi. Tanto è vero che problemi come quello di Cengio rimangono tuttora aperti. Nonostante siano stati spesi molti quattrini, siano stati fatti investimenti considerevoli, quel territorio non è stato risanato.

L’augurio è che la chiarezza che porta il nuovo quadro legislativo consenta effettivamente di lavorare assieme, il che non vuol dire confondere le responsabilità, ma condividere i termini del problema.

GIANNI SQUITIERI, Presidente dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti. Ringrazio nuovamente anche per l’invito. Farò alcune brevi riflessioni, dando per acquisito tanto quanto questa mattina ha già detto il ministro Bersani, quanto l’atteggiamento e l’approccio, che condivido completamente, con il quale il presidente dell’Enel, Testa, ha affrontato il problema. Del ministro Bersani sottolineo il realismo, l’equilibrio con cui ha affrontato questa materia, partendo dallo scenario che egli ha delineato. Si partiva da una situazione assolutamente deficitaria non soltanto dal punto di vista normativo, ma soprattutto della realtà di fatto. È da lì che si parte.

Invece per quanto riguarda l’intervento del presidente dell’ENEL, Testa, condivido la sottolineatura che egli più volte ha effettuato, nel senso che, parlando brutalmente, si tratta di un decreto legislativo che è da prendere o da lasciare, che non può essere tagliato a pezzi, dissezionandolo e cercando di cogliere nell’ambito di un provvedimento organico alcuni segmenti che vanno bene. Questo è un elemento fondamentale, altrimenti si rischia, come ha sottolineato il presidente dell’Enel, Testa, di dare un giudizio positivo formale, ma destrutturare nella sostanza il provvedimento stesso.

Non riprendo quello che egli ha detto anche sul recupero energetico e che peraltro condivido, ma che mi sembra importante, senza demonizzare il problema. Infatti non si può far finta che la legge si fermi ad un certo punto. C’è una connessione fra tutti i segmenti, dovuta ad un ragionamento abbastanza banale, che più volte ci siamo detti negli incontri che abbiamo avuto. Una buona gestione dei rifiuti, che si ponesse all’avanguardia non solo in Europa, ma anche nel mondo, non potrebbe fare a meno, volente o nolente, di un segmento, che per l’appunto è quello del recupero energetico. Questa legge ha cercato di qualificare quell’intervento. Ha posto alcune condizioni, ponendo quella fase laddove la colloca la normativa europea, dopo il riciclaggio e il recupero di materia. Ha cercato di qualificarla, introducendo questo concetto del CDR, sulla qualità del quale nessuno – mi risulta — abbia fatto analisi per arrivare alla conclusione che dal punto di vista ambientale, così come la legge definisce il CDR, è un qualcosa di negativo. Addirittura ha posto ulteriori condizioni. Non si privilegia l’uso del CDR, ma gli impianti industriali esistenti che utilizzino questo devono portare a una riduzione complessiva dell’inquinamento oggi esistente. È stata posta una serie di garanzie. Quanto è stato detto mi è più che sufficiente, non mi dilungo.

Ritengo che ad un anno dall’approvazione del decreto legislativo una riflessione serena vada effettuata, senza rigettare ad altri responsabilità, perché è evidente che questa è una sfida per tutti: per le istituzioni, per il sistema imprenditoriale e, mi permetto di dirlo, anche per il mondo ambientalista. Infatti, se il provvedimento recepisce molto di quanto il mondo ambientalista in questi anni ha espresso, lo pone ad un livello più avanti. Adesso si tratta di realizzare cose che per una parte importante il mondo ambientalista ha fatto maturare.

La riflessione va indirizzata su due piani. Uno è strettamente attinente all’elaborazione della normativa, l’altra alle dinamiche che all’interno del mondo produttivo questa ha concretamente attivato, sempre, a questo punto, con riferimento all’impresa.

Permettetemi una piccola parentesi. Quando si parla di ritardi, bisogna stare attenti a non generalizzare. Ogni ritardo ha la sua storia. Vi sono ritardi determinati da limiti delle strutture preposte a farlo, ritardi dovuti alla necessaria elaborazione, discussione e ricerca di un punto di equilibrio in sintonia con la legge, ma che abbia anche efficacia. Ci sono ritardi dovuti ad un legittimo ma estremamente farraginoso sistema istituzionale.

Faccio un esempio per tutti. Basta limitarsi al calendario. Il famoso decreto per il recupero dei rifiuti pericolosi, elaborato e discusso da febbraio fino a giugno, concertato fra i ministri a luglio, è stato inviato all’Unione europea nell’agosto 1997. A quel punto vi è stato l’annuncio che il giudizio dell’Unione europea non verrà prima del maggio 1998. Quando tornerà questo parere, che si preannuncia articolato (il provvedimento dovrà essere scritto ex novo con tutti i ministeri concertanti), sarà inviato alla Corte dei conti. Addirittura in questo periodo si è aperta una discussione se debba essere mandato al Consiglio di Stato. Noi riteniamo di no. Per tutti i famosi decreti prorogati diciotto volte questo non si è fatto, e sarebbe una contraddizione palese, perché tratta la stessa materia.

Se tutto va bene, intorno all’estate questo decreto, sì importante, ma non tanto complesso da giustificare sedici mesi per una approvazione definitiva, diventerà efficace. Non lo dico in termini polemici, non ci sono responsabilità, mi pare che tutti abbiano fatto la loro parte. I singoli segmenti sono necessari. Erano necessari quattro mesi, perché si tratta di una materia complessa su cui l’Italia aveva marcato un deficit e se non c’è l’accordo è inutile approvare leggi che poi non vengono rispettate. Il passaggio presso l’Unione europea era estremamente delicato. Peraltro il grandissimo lasso di tempo che questa ha richiesto ha in sé un elemento molto negativo, ma anche positivo: negativo perché vogliono fare le pulci a tutto ciò che arriva dall’Italia per il passato; uno positivo, che sottolineiamo noi pure, perché ce la prendiamo sempre e soltanto con l’Unione europea, che in questa circostanza ha detto che questa è la prima elaborazione organica di un paese europeo sulle procedure agevolate. È un lavoro estremamente complesso e consistente, che vogliono vagliare attentamente, perché rappresenta un decreto apripista anche per gli altri paesi, quindi abbiamo svolto una volta tanto non un lavoro di retroguardia o di inseguimento di un qualcosa che già altri hanno fatto, ma abbiamo anticipato la tendenza che la stessa Unione europea ritiene assolutamente necessaria e strategica.

Quindi c’è un ritardo di questo tipo, ineliminabile nell’attuale sistema esistente. Ci sono ritardi dietro cui c’è un lavoro per una migliore razionalità ed efficacia. Faccio un esempio. In questi giorni si parla di ritardi nell’approvazione degli statuti. Sono ritardi che stanno già producendo dei fatti positivi. Ne elenco semplicemente due, ma se ne potrebbero fare altri. Noi ci siamo trovati con alcune filiere che hanno presentato degli statuti o una singola filiera in cui si candidavano più consorzi ad essere il consorzio di filiera ufficiale, riconosciuto dalla legge. Avevamo due strade: prendere il più rappresentativo, approvarlo tagliando fuori il resto, lasciando una situazione che inevitabilmente avrebbe avuto dei riflessi negativi nello stesso settore, oppure cercare di far comunicare le filiere, invitandole a trovare un punto di sintesi. Questo è riuscito e sta portando ad alcuni risultati. Già le due filiere dell’acciaio hanno annunciato che si unificano, grazie al lavoro che i ministeri e l’osservatorio hanno fatto per arrivare a questo. Sul legno sta avvenendo qualcosa di simile, quindi il ritardo in realtà ha consentito di chiarire e di rendere più razionale e più efficiente il sistema produttivo stesso. La filiera più grande in questo caso definiva la più piccola come una filiera di disturbo: immaginate il clima che c’era all’inizio e i problemi che si sarebbero creati. Il fatto che abbiano deciso di unificarsi significa che magari lo statuto è stato approvato due mesi dopo, però il consorzio sicuramente rappresenta il suo settore in pieno. Così sta avvenendo pure per il legno, come ho detto. Ci sono altre tematiche che la maturazione dell’analisi sta portando in questi giorni a rivedere. Faccio un esempio, anche se lo taglio con l’accetta perché è un tema delicato: ci siamo resi conto delle dinamiche che già si stanno creando all’interno di alcuni consorzi, cioè che la presenza assoluta di un’unica categoria – in questo caso dei produttori di plastica – stava impedendo una dinamica più articolata del settore stesso. Allora porci il problema, nel rispetto della legge, di permettere l’ingresso ad altri ambiti dello stesso settore – parlo, tanto per fare un esempio, delle aziende che riciclano, che utilizzano e che producono imballaggi – richiede tempo e innanzitutto una presa di coscienza chiara. Noi all’inizio escludevamo di fatto la presenza dentro una singola filiera: stiamo rielaborando gli statuti che ci sono stati presentati cercando di trovare la maniera corretta, che immetta dentro il consorzio soggetti che rendano più vitale lo stesso. Potrei fare altri esempi, per dire che dobbiamo stare attenti a generalizzare alcune volte questi giudizi sui ritardi. Ci sono ritardi sui quali non ci sono scusanti, ma in alcuni casi per fortuna questi ritardi ci sono.

Per quanto riguarda il primo punto, vale a dire l’elaborazione della norma e le imprese, mi limito, senza nessuna critica e polemica, a riferire quanto proprio recentemente il presidente della Confindustria, Fossa, ha detto al Ministro dell’ambiente in un incontro in cui si è fatto un po’ il punto della situazione. La stessa Confindustria sente l’esigenza di riuscire ad impostare un rapporto, in queste fasi di elaborazione della normativa, che sia non soltanto unitario, ma che rappresenti la possibilità di operare delle scelte. Il peso che hanno le associazioni di categoria in questo paese è assolutamente legittimo, necessario ed utile, spesso schiaccia tutto su un rapporto di carattere di sindacato tradizionale: si deve – ed è giusto – difendere tutti gli associati in quanto tali, ma questo impedisce nell’ambito delle scelte produttive che si fanno, di operare delle scelte che possano in qualche maniera produrre un avanzamento del sistema produttivo. Il fatto che la stessa Confindustria si ponga questo problema è un elemento positivo: inevitabilmente anche la fase di elaborazione della norma ha risentito di trovarsi davanti, non interlocutori unitari del mondo produttivo, ma parcellizzati in tanti sub-segmenti, che a volte erano tra loro evidentemente contraddittori. Senza anche qui fare espliciti riferimenti, è evidente che anche le associazioni di categoria della Confindustria hanno rappresentato posizioni certo legittime, ma tra loro contraddittorie, che rendono certo più difficile produrre una legge che sia realmente uno strumento di avanzamento del sistema produttivo.

Occorre andare a verificare invece gli effetti che questo decreto legislativo sta inducendo nel sistema produttivo, al di là della partita sicuramente molto consistente degli imballaggi, che salto per lasciare la parola al presidente del CONAI, con cui stiamo avendo una collaborazione estremamente positiva. Mi permetto anche una battuta: quando minacciammo il commissariamento, qualora il CONAI non fosse nato, eravamo ben coscienti che quello avrebbe rappresentato un fallimento del sistema ed anche una difficoltà di operatività, perché il commissario di per sé non risolve i problemi. Ora che vedo, come il buon Capodieci, il problema nella sua complessità, sono ancora più convinto che un commissariamento del CONAI probabilmente avrebbe reso impossibile quell’operazione di chiarimento all’interno del mondo produttivo, che mi pare che invece, seppur con difficoltà, stia avvenendo. Poi sentiremo lui. Mi pare che lo abbia affermato anche il ministro Bersani. Il sistema industriale degli imballaggi si sta adeguando alla nuova normativa, con le difficoltà e le contraddizioni inevitabili, dovute anche, a volte, a dei limiti della legge stessa, ma questo lo reputo un elemento positivo.

Più in generale, come dicevo anche prima, c’è un’accelerazione complessiva del sistema e c’è anche quello che probabilmente accade sempre e comunque: c’è una parte più avanzata, che utilizza questa legge come occasione di ulteriore avanzamento, c’è una parte più arretrata, che già stava quasi ai limiti del mercato, che naturalmente cerca di resistere il più possibile, ma trova qualche difficoltà, anche all’interno, ripeto, degli stessi settori omogenei nel settore industriale. Un elemento che sottolineo con estremo interesse è anche l’entrata in campo di alcune grandi aziende nazionali, che non avevano nella loro strategia questa dei rifiuti e che invece stanno scegliendo in queste settimane e in questi mesi di entrare in questo settore con un impegno adeguato al nome e al peso che queste grandi aziende nazionali hanno.

Lo stesso ragionamento fatto questa mattina da Chicco Testa è interessante. Mi riferisco però anche all’opportunità che la produzione di CDR ha costituito e sta costituendo in questo paese. Noi abbiamo sempre operato per evitare che un settore così decisivo anche per l’applicazione del provvedimento legislativo, come quello dei cementifici, fosse ricondotto in un angolino, con un marchio infamante di settore inquinante e arretrato. Era ed è evidente che è un settore estremamente complesso, che ha al proprio interno livelli differenti: c’è una parte che è avanzata, una parte che non solo può accettare la sfida che questo decreto legislativo pone, ma che può trarre un beneficio da tale sfida; c’è invece un’altra parte che era già in sofferenza prima e che stava già cercando in qualche maniera di riciclarsi da cementificio ad impianto di produzione di energia, ma che in qualche maniera non trova in questo provvedimento una soluzione ai problemi che sono precedenti allo stesso.

Mi pare che anche da questo tipo di analisi si possa dire che, pur con tutte le contraddizioni, questo decreto legislativo sta provocando un’accelerazione e un avanzamento, riflettendo quelle che sono le complessità e l’arretratezza del sistema Italia nel suo insieme, compresi i punti avanzati. Ripeto quanto ho detto prima: il fatto che l’Unione europea riconosca che il decreto attuativo sul recupero dei rifiuti non pericolosi, che interessa direttamente il mondo produttivo, rappresenti un apripista all’interno dell’Unione europea, per questo tipo di approccio, lo reputo un fatto che va rivendicato al nostro paese.

Sottolineo in questa sede istituzionale un problema che avremo nei prossimi mesi e che sarà estremamente delicato. Il ministro Bersani ha affermato che uno dei due pilastri di questa riforma è la trasformazione della tassa rifiuti in tariffa. Qui c’è un nodo che ci siamo trovati davanti e che non potrà essere risolto in maniera efficiente, efficace e coerente fino in fondo con la legge, se in qualche maniera innanzitutto il Governo, ma anche il Parlamento nel suo complesso, non lo affronteranno insieme a noi. Il ragionamento è abbastanza semplice. Oggi in Italia la stima dei costi per il sistema di smaltimento e di gestione dei rifiuti è di circa cinquemila miliardi. L’attuale TARSU ne copre circa tremila. Non badiamo alla raffinatezza dei numeri. Sostanzialmente risultano questi, ma non è questo il problema.

Ciò significa che esiste quella che l’ENEA ha definito "illusione fiscale". Oggi io cittadino pago la TARSU e penso di aver pagato il sistema dei rifiuti. In realtà come cittadino non pago mille lire, ma oltre 1800 lire: ci sono altre 700 lire che pago sotto forma di altre tasse. Ora c’è una tariffa che dovrebbe invece coprire tutti i costi. Ma se faccio una tariffa che fa riferimento all’intero costo del sistema, devo andare più verso quanto io cittadino pago nel complesso e non verso quanto pago specificatamente come tassa? Questo oggi è difficile stabilirlo, perché o sono in grado di istituire una tariffa unica per i rifiuti, di abolire non solo la TARSU, ma anche quella fiscalità che oggi mi permette di coprire l’altra parte, oppure genero una grande confusione. Infatti se applicassi una tariffa tale da coprire tutti i costi, ma lasciassi tutte le altre tasse esistenti e quindi pagassi più di quanto devo, genererei peraltro inflazione e il cittadino non capirebbe più niente, perché poi direbbe: "Come tassa pagavo mille lire, adesso come tariffa pago 2500: c’è qualcosa che non torna!".

Questo è un nodo estremamente complesso e delicato, pertanto rivolgo un invito ai rappresentanti istituzionali di oggi a riflettere su di esso e aiutare nello scioglimento dello stesso. Sicuramente stiamo ipotizzando una progressione. Questo è un problema che certamente non può essere risolto dal 1° gennaio 1999. Questo porterà forse a far sì che all’inizio la tariffa sarà più simile alla tassa, che alla copertura di tutto il costo del sistema prevista dalla legge.

È un problema delicato che mi permetto di segnalare. Siamo in fase di elaborazione, ma su questo penso che sia estremamente necessario un approfondimento anche istituzionale nei tempi più brevi possibili.

PIETRO CAPODIECI, Presidente del CONAI. Ringrazio anch’io per l’occasione che mi è stata offerta d’intervenire in questa sede e ringrazio il dottor Squitieri per quanto ha affermato e anche perché è stato breve, dandomi la possibilità di svolgere un lungo intervento. La scommessa è parlare di rifiuti senza finire con il farne parte, cioè senza correre il rischio di essere rifiutato da voi!

Vorrei impostare il problema in termini ampi, cercando di fissare la cornice nella quale siamo e vedere poi nel dettaglio come si può funzionare, quali sono le situazioni che il CONAI deve affrontare e risolvere. Intanto sfrutto l’occasione per parlare bene dell’imballaggio, che ha una disgrazia strutturale: se ne parla soltanto quando è un rifiuto, soprattutto perché nella nostra esperienza di cittadini e di massaie — anch’io cucino e faccio la spesa, quindi ne parlo a ragion veduta — quando si prende un imballaggio lo si fa per buttarlo nella pattumiera. La realtà è alquanto più complessa. C’è una bellissima definizione di imballaggio, che credo abbia dato Gian Maria Gros Pietro in una introduzione ad un libro bianco. Egli dice che l’imballaggio e ciò che permette "lo spostamento nel tempo e nello spazio" del consumo dei beni. Vi do ventitre secondi perché riflettiate sulla definizione, ne prendiate coscienza complessivamente e possiate vedere come lo spostamento nello spazio del consumo dei beni sia la base del sistema industriale moderno. Se si dovesse produrre vicino al luogo di consumo, non ci sarebbero le industrie con economie di scala con massa critica adatta a produrre in modo efficiente.

Evidentemente è una definizione di parte...per mia fortuna è anche vera.

Qualcuno però potrebbe dire che così si salva solo la parte strettamente funzionale e che su questa possiamo essere tutti d’accordo. È chiaro che dobbiamo trasportare, conservare, manipolare; sembra tra l’altro che il trenta per cento delle derrate alimentari mondiati vada sprecato per difetti della catena logistica e di confezionamento. È un dato da prendere con le pinze, lo sento girare ma personalmente non ho mai verificato la fonte. Ciò contro cui si dice di combattere è "l’imballaggio superfluo". In altre occasioni ho fatto l’esempio delle cravatte, che apparentemente c’entra poco. A me capita sempre, in questo tipo di convegni, di guardare i partecipanti per vedere se ci sono due cravatte uguali e non trovarne. La cravatta a me sembra uno degli elementi con cui noi ci "imballiamo" e sostanzialmente ci presentiamo. È uno degli elementi più inutili, perché non serve nemmeno a ripararsi dal freddo, però, nonostante questo, continuiamo ad usarla perché svolge una delle funzioni dell’imballaggio, cioè l’apparenza, il presentarsi, la spinta all’acquisto, il modo di vendersi meglio; ed il fatto che non ce ne siano due uguali, nonostante qui vi siano cento persone, è un fatto interessante. Ciò vuol dire che le cravatte sono probabilmente prodotte a cinquanta o cento pezzi per volta. C’è un notevole spreco in termini funzionalistici: inventare un disegno, produrre la stoffa, tagliare, commercializzare cinquanta cravatte, una pezza di otto metri.

Per questo ritengo che l’ampliamento delle funzioni da considerare quando si parla di imballaggio sia un obbligo e che non bisogna ragionare in termini pauperistici e/o strettamente funzionali. Se avessimo evitato questa trappola nel progettare le periferie delle città oggi probabilmente vivremmo meglio.

Sfruttata la platea per fare un po’ di propaganda, che però credo sia utile per evitare di ideologgizzare la gestione di problemi pratici, sottolineo un altro elemento che è parte della cornice all’interno della quale oggi siamo.

Stiamo assistendo nel mondo del business ad un cambiamento di paradigma nella gestione dei processi industriali e di relazione. Molte aziende di successo utilizzano questo paradigma da almeno cinquant’anni, ma nell’ultimo decennio si è di fatto generalizzato. Mi riferisco al fatto che fino a pochi anni fa nel business alcuni elementi di gestione venivano posti in termini esclusivi: si faceva qualità o quantità, si centralizzava o si decentralizzava, si faceva standardizzazione o differenziazione; ma ormai anche i meno avvertiti sanno che per stare sul mercato bisogna passare al paradigma dell’"e": bisogna essere inclusivi, essere capaci di fare qualità e quantità, di standardizzare e differenziare, ecc.

Nel nostro caso bisogna essere capaci di cooperare e competere allo stesso tempo. Non si può soltanto competere, non ci si può considerare soltanto controparti, non si può cooperare solamente, come se non avessimo nessun interesse diverso. Condizione sostanziale per la soluzione di problemi complessi come quello dei rifiuti da imballaggi è la capacità di cooperare e competere, cioè la capacità di individuare i rispettivi interessi, dove questi sono diversi, e quindi bisogna discutere, negoziare, ma allo stesso tempo individuare gli interessi comuni, che ci permettano di cooperare e di procedere più velocemente.

Quali sono gli errori da evitare lo vedremo tra poco in dettaglio, ma a me interessa anche sottolineare, non per piaggeria rispetto al sistema politico, la novità istituzionale del decreto legislativo n. 22/97.

Per la prima volta in Italia la politica dà le regole, cioè definisce gli obiettivi e gli organismi di controllo e lascia al sistema economico, industriale e commerciale la responsabilità e la gestione. Questo fatto può sembrare normale, ma a me non sembra affatto tale e comunque segna una forte novità istituzionale e definisce un altro lato della cornice nella quale ci troviamo. È un lato molto importante, soprattutto per comportamenti che debbono essere conseguenti a questa nuova situazione.

Per quanto riguarda gli errori da evitare, visto il luogo in cui ci troviamo ed il tipo di uditorio, vorrei soffermarmi sul primo errore possibile, che è dovuto (lo dico da cittadino e potrei aggiungere senza polemica, ma in realtà con molta polemica) al fatto che in Italia sembra, a me cittadino e non al presidente del CONAI, che le leggi non siano scritte per essere rispettate. Mi sembra che le leggi siano scritte in maniera molto rigida, con il patto sociale che: "Tanto ci aggiustiamo. È vero che qui scrivo così, ma non vi preoccupate, tanto poi facciamo un’altra cosa! Vedrete che ci aggiusteremo". Le leggi, un po’ come le grida manzoniane, non sono fatte con l’obiettivo di fare qualcosa che funzioni e che sia applicabile. Sono fatte in modo estremamente rigido, partendo dall’idea che tanto non si applicheranno, ma anche con il patto sociale che non si applicheranno.

Se questo fosse vero — lo è per me, non so per altri — quali sarebbero gli effetti? Ce ne sono almeno cinque. Li enuncio brevemente. Il primo è la discrezionalità del pubblico ufficiale, che di fatto sapendo che poi ci aggiustiamo, decide come ci si aggiusta. Sappiamo a cosa può portare questa discrezionalità, cioè a rapidità in alcuni casi, a fenomeni che non sono certamente scomparsi in altri.

Il secondo effetto è la trasformazione del cittadino in suddito. Posso raccontare una storia diretta. Ho acquistato una casa nel 1981, l’ho pagata 30 milioni e 800 mila lire: siccome dovevo contrarre un mutuo, ho dichiarato esattamente il valore. È uscito successivamente il condono, per cui pagando il 20 per cento in più non c’erano accertamenti: mi sono affrettato a fare il condono, dichiarando di averla pagata 37 milioni, perché di fatto non c’è certezza del diritto.

Si vanno a chiedere le cose non da cittadini, ma da sudditi, sperando di non far "arrabbiare" quello che sta dall’altra parte.

Un terzo effetto di questo modo di far le leggi è l’irrigidimento. Infatti arriva sempre qualcuno che dice: "Insomma, perché questa legge non viene rispettata? Non si può mica andare avanti così!". E questo avviene dimenticando che la legge è stata formulata anche per altri scopi, non per essere rispettata. Quindi si innesta un circolo vizioso, in cui la legge viene irrigidita, provocando altri due effetti gravissimi.

Il primo riguarda una labilità morale diffusa, nel senso che in Italia quando qualcuno non rispetta la legge non si sente in colpa, si sente quasi come uno che fa l’autodifesa, uno che rispetta il patto sociale! Quindi c’è una labilità morale diffusa.

Altro effetto ulteriormente perverso è un gap, una differenza, che aumenta fra chi rispetta la legge e chi non la rispetta e che continua ad essere incentivante verso il non rispetto delle leggi.

Se tutto questo fosse vero (ma lascio a voi il giudizio se sia vero o no, visto che siete gli esperti in materia) sarebbe comunque un errore da evitare nelle questioni ambientali e quindi nella nostra specifica area. C’è necessità di leggi e regolamenti chiari. Non parlo di leggi e regolamenti duri o non duri, ma efficaci, adatti ai tempi ed ai problemi, e con il patto sociale che si rispetti la legge.

Questi regolamenti e queste leggi debbono essere emanati con il patto sociale per cui tutti sappiano — l’industria, il commercio, la pubblica amministrazione, i vari enti, il consumatore — che questa volta saranno rispettati.

Quando il patto sociale è chiaro, i comportamenti degli italiani cambiano. Se volete un esempio, oggi noi abbiamo un limite di velocità di 130 km/h sulle autostrade, che non viene rispettato... neanche da me. Io non compro le sigarette di contrabbando perché ho ridotto drasticamente il fumo, quindi non faccio mio l’esempio di Chicco Testa, ma neanch’io rispetto il limite di velocità. Però ricordo un viaggio di 1000 km da Lecce, dalla mia provincia d’origine, a Milano, a 110 km/h, perché il ministro Ferri aveva detto che il limite era quello e che contestualmente sarebbero stati installati gli autovelox. Aveva detto in sostanza: "Signori, questa volta questa legge è stata approvata per essere rispettata". E io sono andato, imprecando peraltro, da Lecce a Milano a centodieci all’ora. Ciò vuol dire che non è vero che gli italiani non rispettano le leggi, il problema è chiarire quale sia il patto sociale. Non è vero che gli italiani siano disordinati. Quando passiamo la frontiera a Chiasso smettiamo di buttare per terra le cartacce, gli svizzeri arrivano in Italia e cominciano a buttare le cartacce per terra. È un problema di contesti più che di comportamenti individuali.

Un altro errore da evitare è che il CONAI diventi un "carrozzone". Ho davanti due scenari negativi possibili: il primo è che il consorzio non funzioni, l’altro che diventi un "carrozzone". Anche i "carrozzoni" hanno degli aspetti di funzionamento, altrimenti si incagliano. Vanno molto lentamente, non sono carrozze rapide, però qualcosa fanno, altrimenti verrebbero eliminati.

Ebbene, fra i due possibili scenari sceglierei quello del non funzionamento, perché se qualcosa non funziona, prima o poi bisogna metterci mano, se diventa un "carrozzone" non ci se ne libera più.

Questo è legato anche al discorso dei ritardi, dirò fra poco come. Prima voglio affrontare una polemica che in questi giorni è anche sui giornali, sul fatto che il presidente del CONAI prenda 250 milioni, che si danno tre milioni ai consiglieri, per ogni riunione del Consiglio di amministrazione come rimborso spese forfettario, ecc.

L’Italia è un paese molto buffo. Ricordo che qualche tempo fa c’era qualcuno sui giornali che si sentiva autorizzato a prendere uno stipendio da un’altra parte perché il suo stipendio come presidente di un ente molto importante era di soli 200 e rotti milioni. Siccome non era adeguato, si sentiva autorizzato a prenderne un altro netto — stavo per dire nero — da un’altra parte. Come dicevo, l’Italia è un paese molto buffo perché ci si vergogna di quanto si guadagna. Penso di valere molto di più di 250 milioni l’anno, ma questa è una mia presunzione. In ogni caso, se si vogliono gestire organismi e problemi complessi bisogna pagare, perché non è che la politica o questi enti siano destinati ai ricchi di famiglia, ai ladri o agli imbecilli. Le uniche categorie che possono non farsi pagare sono queste tre: i ricchi di famiglia, i ladri che si fanno pagare poco perché prendono da altre parti e gli imbecilli che tanto non troverebbero un posto da nessun’altra parte.

Dobbiamo uscire da questa trappola populista. Non credo di appartenere a nessuna di queste tre categorie. Il fatto di avere all’interno del CONAI il direttore e il presidente che prendono degli emolumenti e che pubblicamente li difendono è anche un modo di stimolare il controllo. Allo stesso tempo obbliga a dar conto dei risultati. Se prendendo "tanti soldi" una persona non fa il suo mestiere è giusto che venga cacciata via. Non si può continuare a fare i populisti, non si capisce perché un Ministro dell’industria deve prendere quello che prende e l’amministratore delegato di un’azienda privata da 50 mila miliardi debba prendere 2 miliardi di stipendio. Non si capisce perché. Bisogna uscire da questo modo di pensare. Poi, se uno fa il politico, il ministro, e non fa bene il suo mestiere o ruba, allora gli si tagliano le mani e lo si caccia via, ma è inutile e dannoso affidarsi alle tre categorie che ho citato.

Dimenticavo la quarta categoria, quella degli idealisti — ho molta stima di loro —, ma sono in via di estinzione e comunque ai margini in termini percentuali.

Un altro errore che si può commettere è di gestire il sistema in modo miope. L’industria è chiamata, per le cose che dicevo prima, a dimostrarsi all’altezza del compito. Ciò vuol dire: fare quello che dice di essere capace di fare, cioè risolvere efficientemente i problemi. Si mette molto spesso in risalto il fatto che il privato sia più efficiente del pubblico. Corrisponde statisticamente ad una realtà, ma come sempre la statistica può essere bugiarda, quindi l’industria deve far vedere che non utilizza in modo distorsivo il potere che ad essa è stato dato dalla legge. Questo non deve essere utilizzato per ritardare le soluzioni, per fare i furbi o modificare le possibili gerarchie e le soluzioni dei problemi piegandole agli interessi di breve dell’impresa. Abbiamo davanti a noi un obiettivo difficile. Anche l’industria italiana è arretrata quanto tutte le altre strutture italiane. A volte il privato è solo privato di buon senso! Scusate il gioco di parole, ma succede: ci sono manager privati che hanno una visione del mondo nella quale il lungo termine è di otto mesi. Il problema è complesso, ma l’industria ha scelto, all’interno dei suoi rappresentanti più importanti, di accettare la sfida e quindi di trovare soluzioni di lungo termine a questo problema, dimostrando nei fatti di aver interiorizzato l’idea che il mondo lo abbiamo in prestito dai figli e non lo abbiamo ereditato dai genitori.

Questa è la grande vittoria dei movimenti ambientalisti degli ultimi anni, perché oggi il concetto di sviluppo sostenibile è diventato elemento fondante la strategia di molte industrie di beni di consumo.

Il quarto errore è quello della diffidenza e dell’ideologia. Ho ascoltato con molto interesse l’intervento del presidente della Commissione industria del Senato. Secondo me, questo intervento è un ulteriore esempio di quanto sia strano questo paese. Il senatore Caponi — presidente della Commissione industria e non di altre commissioni — ogni volta che parla di profitto sembra che pronunci una bestemmia. È effettivamente un fatto interessante, lo dico un po’ ridendo, ma sono una persona che sostiene che i vincoli aiutino a migliorare. Credo che veramente sia interessante che il presidente della Commissione industria — mi dispiace che sia andato via — abbia questo approccio. La visione del capitalismo come mosso dal profitto è una visione che, vera o non vera, è semplicemente parziale e a volte poco utile. A me piacerebbe fare qualche riflessione su alcuni aspetti, anche se mi sembra buffo trovarmi a difendere il sistema economico di mercato o capitalismo che dir si voglia.

Piuttosto che dire qual è la causa o che ci si muove per massimizzare il profitto, proviamo a vedere qual è l’effetto. Secondo me ci accorgeremmo che l’effetto dei sistemi di mercato non è la massimizzazione del profitto, ma è la minimizzazione del costo, al di là delle ragioni che portano a questo, altrimenti non si riuscirebbe a produrre più ricchezza e a distribuirla a molti. Di fatto uno degli elementi di questo sistema è la minimizzazione del costo. C’è un altro aspetto sul quale riflettere. È cambiata, nell’impresa, la concezione del tempo. Ed è un fatto utile anche nel nostro contesto. Fino a non molto tempo fa, le imprese ragionavano nel breve periodo, occupandosi di produrre nel breve, mentre il pubblico, il potere politico e la società si occupavano del lungo termine. Ebbene si stanno accorciando i tempi del pubblico, che comincia a dire: "Sì, mi devo occupare del lungo termine, ma in qualche maniera i conti devono tornare anche nel breve". Si stanno allungando i tempi dell’impresa, che comincia a dire: "Io mi preoccupo del business di oggi, ma devo preoccuparmi di farlo anche domani". Questa riduzione della distanza fra le concezioni del tempo non è un fatto banale. Sui giornali, qualche tempo fa è stata riportata una dichiarazione del presidente della Goldman-Sachs, che è un istituto finanziario dei più grossi, e sicuramente il più redditizio. Egli diceva che la loro regola era l’avidità a lungo termine. Anche nella logica di un’stituzione finanziaria presente ventiquattr’ore su ventiquattro sul breve, l’introduzione del lungo termine era addirittura assunta a livello di missione o di sintesi di quest’ultima.

La diffidenza e l’ideologia sono rischi da non correre, ma non da cancellare. Discutiamone, semplicemente arricchiamo gli strumenti di lettura del mondo che abbiamo.

Ci sono degli aspetti specifici del CONAI che sono quelli relativi ad una fatica a funzionare o ai ritardi Abbiamo dei problemi dovuti al subentro nei vecchi consorzi obbligatori. Mi sembra che ieri l’assessore Di Palma si sia lamentato, dicendo che prima qualcosa funzionava, adesso non si capisce più niente, anche se ha detto che mi ha visto due volte, quindi in qualche maniera, anche se operativamente sono da solo, c’è almeno una certa velocità negli spostamenti. Abbiamo dei ritardi dovuti a come è scritta la legge. Di quest’ultima condivido — ripeto — l’impianto complessivo e non vorrei utilizzarla per scusare ritardi che sono nostri. Di fatto però, finché non si subentra nei consorzi obbligatori e quindi in Replastic, mi trovo nella condizione di avere teoricamente 52 dipendenti, gli attuali di Replastic, però di non poter assumere una segretaria; perché nel momento in cui i 52 dipendenti dovessero essere troppi — il CONAI a pieno regime avrà 18-20 persone in totale — e dovesse essere necessaria una riduzione di personale, i primi che dovrei licenziare sarebbero quelli assunti per il CONAI, perché sarebbero gli ultimi arrivati. Mi trovo, quindi, nella condizione di avere 52 dipendenti che non posso usare, perché non sono subentrato a Replastic, e allo stesso tempo continuare a scrivermi le lettere a mano e rispondere come posso, per cercare di avviare a soluzione i problemi del CONAI. Comunque devo dire che nonostante questo delle cose si sono fatte, compreso un accordo ponte con l’ANCI e alcune analisi e soluzioni di problemi che stiamo portando avanti. Vorrei chiudere con un messaggio di ottimismo, ma non credo che l’intervento sia stato pessimista. Il CONAI ha un consiglio di amministrazione composto di 29 persone, che rappresentano 29 interessi diversi, perché provenienti da 29 settori diversi, che per deliberare ha bisogno di una maggioranza di due terzi, ma non dei presenti, dei componenti. Quindi la gestione non è facilissima. Quando ci penso mi viene in mente la storia di un giapponese — non mi ricordo se era Matsushita o qualcun altro, ma non ha importanza — che parlava della differenza tra il management giapponese e quello occidentale. Il tizio in questione affermava che c’era la stessa differenza esistente tra la cucina occidentale e quella giapponese: la prima si prepara in fretta ma si digerisce lentamente, mentre la seconda si prepara molto lentamente ma si digerisce in fretta.

Credo che questa fase del CONAI, per il fatto di dover tener conto di tutti gli interessi in gioco, porterà ad una lunga preparazione, ma poi ad una rapida digestione.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Ringrazio Capodieci e do la parola a Giuliana Ferrofino, presidente dell’Assoambiente.

GIULIANA FERROFINO, Presidente dell’Assoambiente. Vorrei ringraziare innanzitutto la Commissione per questo invito. FISE-Assoambiente, aderente a Confindustria, raccoglie le imprese private di servizi ambientali che si occupano sia di rifiuti solidi urbani, sia di rifiuti industriali, sia del recupero dei materiali: i recuperatori a noi associati sono circa 90 imprese. Tutte insieme raggiungono un numero di circa 300 imprese, con 17.500 addetti diretti, regolati da un contratto di lavoro piuttosto stringente. I maggiori danneggiati, ovviamente dopo l’ambiente, sono proprio le imprese che operano correttamente in questo settore. La diffusa, e del resto anche giustificata criminalizzazione degli operatori, fa sì che si determini una circostanza che sia ieri dalle parole di Martin, della municipalità di New York, sia del ministro Bersani, oggi, potrebbe portare ad un effetto del tutto indesiderato, e cioè la totale uscita dal mercato da parte degli operatori privati. Infatti, vengono considerati come attività inquinanti soltanto quelle relative allo smaltimento e adesso — questa è una cosa assurda — anche quelle di recupero.

Cito una chicca. In questi giorni si sta discutendo nella Commissione agricoltura della Camera un decreto legislativo per la tutela dei territori con produzioni DOC. Se consideriamo che in Italia, dal miele, al vino, alle fragole, è tutto DOC, direi che il territorio non DOC si sta riducendo drasticamente. L’articolo 3 afferma che per tutti gli impianti di smaltimento deve essere imposta la valutazione di impatto ambientale. Su questo non c’è alcun problema, visto che è già prevista dalla legislazione ambientale. Mi sembra assurdo che venga richiesta per gli impianti di recupero, quando non viene richiesta per impianti industriali che hanno un impatto ambientale ben più grave. Questo è estremamente pericoloso, perché si tende a demonizzare — oltre allo smaltimento — anche il recupero e il riciclaggio, con effetti assolutamente negativi per gli obiettivi che il decreto Ronchi si propone e cioè quelli di raggiungere, giustamente, più elevate quote di recupero e di riciclaggio.

Mi preme sottolinearlo, perché dimostra come talvolta ci sia una discrasia in sede parlamentare, per cui mentre una legge spinge verso una soluzione, contemporaneamente se ne fa un’altra che annulla gli effetti benefici della prima. Questo succede alla Commissione agricoltura della Camera dei deputati. Penso che sia opportuno segnalare questo caso. Dato questo quadro non certamente gratificante, premetto che condividiamo la scelta di una maggiore efficacia della normativa penale per i reati ambientali, però riteniamo anche che le linee da seguire non possano essere solo quelle repressive, ma debbano essere soprattutto orientate in una diversa direzione che l’associazione sta attivamente cercando di perseguire. E che è quella informativa. Stiamo lavorando attivamente per divulgare il maggior numero di informazioni possibili in questo settore. Abbiamo, per esempio, presentato un quadro degli impianti esistenti, sia dei rifiuti solidi urbani, sia dei rifiuti assimilabili. Dico questo perché se c’è un settore in cui manca un’informazione corretta, è proprio il settore dello smaltimento dei rifiuti. Abbiamo anche effettuato un’analisi della dimensione del mercato e dei costi nel settore dei rifiuti industriali per conto terzi, in cui, tra l’altro, mi preme sottolineare che le nostre aziende rappresentano i due terzi delle quantità complessivamente smaltite in impianti autorizzati.

Da quest’analisi emerge che vengono trattati 6 milioni di tonnellate di rifiuti negli impianti dei nostri associati contro i supposti 22 milioni di tonnellate prodotti nell’industria. Posso credere — l’ha detto anche Chicco Testa prima — che vi siano un certo numero di tonnellate che vengono autosmaltite o recuperate, ma è evidente che c’è una grandissima fetta di rifiuti industriali che non prende le strade del predetto e corretto smaltimento. Direi anche, che oltre e prima di colpevolizzare gli smaltitori, forse varrebbe la pena di approfondire quali siano i comportamenti dei produttori di rifiuti. Non vorrei che si andasse verso un complessivo alleggerimento delle responsabilità dei produttori, che evidentemente sono quelli che generano i rifiuti.

Penso che questo sia un aspetto che vada fortemente analizzato. Stiamo presentando un’analisi dei costi delle raccolte differenziate. Non è un quadro propositivo, perché penso che dovremmo misurarci anche con il CONAI sui costi delle raccolte differenziate e dei rifiuti di imballaggio, però è un quadro complessivo della situazione ad oggi di questo settore. Per quanto concerne invece gli aspetti propositivi, cui teniamo particolarmente, vorrei sottolineare alcuni elementi su cui abbiamo lavorato: la predisposizione di un capitolato-tipo, e cioè di un contratto di servizio che regoli in maniera rigida e trasparente i rapporti contrattuali eventuali tra i gestori dei servizi e gli enti locali per tutti i vari segmenti di servizio, e che recepisca tutta la normativa, ivi compresa la più recente normativa europea. Prossimamente, appena il testo verrà stampato, speriamo di poterlo diffondere attraverso anche Ecosportello, che si è già dichiarato disponibile. Abbiamo sempre segnalato situazioni illegali di cui siamo venuti a conoscenza, non ultima quella di qualche giorno fa, che abbiamo mandato, per conoscenza, al presidente della Commissione, di una impresa produttrice — non sono smaltitori e non hanno autorizzazione — che offre a varie altre imprese l’acquisto di stock di vernici obsolete, proponendo la vendita delle stesse a paesi terzi.

Credo che questi siano aspetti che debbano essere sicuramente approfonditi. Con Legambiente abbiamo iniziato un’analisi proprio di questi aspetti della criminalità e soprattutto dell’illegalità in questo settore, e mi auguro che possa dare presto frutti interessanti. Abbiamo sempre effettuato esposti contro i bandi non trasparenti fatti dalle pubbliche amministrazioni e debbo dire che ritengo giusto l’aver chiesto un chiarimento all’assessore del Comune di Napoli — che non mi ha completamente soddisfatto — perché non è pensabile che una città come Napoli faccia un bando di gara per l’affidamento del servizio per la raccolta e smaltimento dei rifiuti, indicando come importo complessivo una cifra che è inferiore al solo costo del personale. È evidente che queste situazioni fanno fuggire le imprese che vogliono operare correttamente, a meno che non vogliano proprio avviarsi verso il fallimento.

Cerchiamo anche di segnalare, secondo del resto quello che stabilisce la normativa europea, la necessità che negli affidamenti dei pubblici servizi non si vada all’uso indiscriminato, come è stato fatto in questi ultimi anni, delle gare esclusivamente al massimo ribasso; non per un discorso economico ma perché, laddove non venga richiesta l’offerta più vantaggiosa, che del resto è quella che la comunità indica come preferibile, è evidente che si dà spazio a chi non ha né le caratteristiche tecniche, né le capacità imprenditoriali per poter svolgere tale attività. Sono aspetti che non vanno assolutamente sottovalutati, perché costituiscono la necessaria premessa per eliminare l’inserimento di attività criminose in questo settore.

Da ultimo abbiamo richiesto in più sedi, soprattutto in quelle regionali, un maggior controllo dell’attività — sembrerebbe un assurdo, ma è quello che vorremmo — non tanto a posteriori, ma preventivamente. Mi sembra assolutamente indispensabile che i controlli siano preventivi, ovvero laddove una regione autorizza allo smaltimento di rifiuti un impianto e nessuno va ad accertare se questo impianto ha la capacità e la potenzialità per poterlo fare, mi sembra evidente che andiamo a creare delle smagliature che consentono poi comportamenti scorretti. A questo si collega un discorso assolutamente ineludibile, che è quello dell’eliminazione e della polverizzazione dei controlli. Si deve andare verso la unificazione. Non vorrei entrare nella polemica esistente tra ARPA, ANPA, NOE e quant’altro, però è certo che i controlli sono più puntuali se vengono concentrati in alcuni organismi ben individuati, altrimenti si creano delle confusioni — lo viviamo tutti i giorni negli impianti — che anziché aiutare finiscono per complicare la vita a tutti. Questi sono i punti che io volevo particolarmente mettere in luce.

In questo quadro certamente possono avere una loro utilità gli accordi di programma, di cui si è parlato prima. Non vorrei che in certi casi — come mi è sembrato si è verificato — questi accordi di programma prendano un taglio meramente assistenzialistico o vengano fatti per generare solamente posti di lavoro, che sono legittimi: se però queste strutture poi non hanno le gambe per stare in piedi economicamente, si rischia di creare ulteriore confusione in un mercato già estremamente difficile. È indispensabile — l’onorevole Gerardini lo sa bene, perché mi ero battuta a suo tempo perché venisse inserito nella legge — spingere verso la certificazione. L’applicazione dell’EMAS e delle norme di certificazione portano le imprese ad obiettivi di elevata qualità operativa ed ambientale. L’attuale situazione di mercato non spinge sufficientemente in tal senso. Non ho mai visto, negli ultimi due anni, un bando di gara, sia per servizi di smaltimento di rifiuti industriali, sia per quello di rifiuti urbani, in cui venga richiesta la certificazione o qualcosa di analogo. Anzi, l’obiettivo è quello di dire che il prezzo più basso è quello vincente. Credo che invece il ricorso alla certificazione di qualità debba essere incentivato sia tramite, per quanto riguarda gli appalti pubblici, l’inserimento nei bandi di gara, sia anche tramite, eventualmente, strumenti fiscali di alleggerimento per chi porta la propria azienda all’ottenimento della certificazione che è enormemente più costosa e complessa di quanto non possa esserlo per le attività produttive.

Da ultimo veniamo anche agli aspetti di agevolazione e incentivi. Chiediamo agevolazioni e incentivi, non per le nostre imprese che smaltiscono i rifiuti, ma per l’industria, al fine di poter finalmente creare un mercato di recupero che sostenga gli obiettivi del decreto Ronchi, dal momento che allo stato attuale il mercato di recupero viene anche bastonato. Mi scuso con Capodieci, ma cito il caso dei nostri operatori del riciclo della plastica: questi sono allo sbando perché entro aprile dovrebbero cessare la propria attività, e potete immaginare lo "stato della tranquillità economica sia dei dipendenti, sia di chi ha investito miliardi per fare impianti di recupero della plastica". L’ultimo punto riguarda la tassa per lo smaltimento in discarica. Quest’ultima rientra nell’importante discorso degli incentivi. Allo stato attuale, così come è congegnata, mi sembra che non funzioni nel modo più assoluto. Anzi, per i concessionari privati dei servizi, rischia di essere, in taluni casi, una beffa, perché avvalendosi del principio della concessione, quindi della traslazione di tutti i rapporti, molti comuni intendono la tassa discariche come un onere aggiuntivo del concessionario, mentre dovrebbe pagarla il produttore di rifiuti.

Concludo dicendo che comunque mi sembra che uno dei punti nodali per la soluzione dei problemi sia quello dell’allargamento del mercato. È già stato detto da altri e lo ribadisco. Abbiamo avuto, negli ultimi anni, aziende che dal punto di vista industriale hanno strutture e capacità per poter operare in questi settori. Cito alcuni nomi di alcuni nostri associati: Eni ambiente, il gruppo Camuzzi, Falk, Ecodeco, Waste Management. Quest’ultima che, accusata di collegamenti mafiosi, ha dovuto difendersi in maniera pesantissima per non trovarsi in difficoltà di mercato. Abbiamo avuto altre aziende americane come la BFI che sono dovute uscire da questo settore proprio a causa del restringimento del mercato. Non mi sembra che questo debba essere l’obiettivo finale perché — rappresentando gli imprenditori privati, mi sento in dovere di dirlo — è indispensabile che insieme ad una corretta regolamentazione dello smaltimento dei rifiuti si vada anche verso una corretta definizione della gestione dei servizi pubblici locali. Non è un discorso tanto diverso, altrimenti il rischio è quello che si passi, da un comparto in cui c’erano effettivamente delle influenze malavitose, ad uno scenario finale in cui si vada ad ambiti territoriali ottimali con un unico gestore — normalmente pubblico — e quindi ad un disegno complessivo di monopolio che francamente credo potrà portare ad altri rischi; potrebbe comportare costi difficilmente controllabili e segmentazioni di attività che evidentemente l’unico gestore non potrà operativamente gestire e che darà in subappalto, dando luogo agli stessi problemi oggi presenti contro i quali vogliamo combattere.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Do ora la parola a Franco Gerardini, che concluderà le relazioni della mattinata; seguirà poi lo spazio degli interventi.

FRANCO GERARDINI, Vicepresidente della Commissione. I vari interventi che si sono succeduti hanno rappresentato le problematiche attuative del decreto legislativo Ronchi. Il gruppo di lavoro da me presieduto, istituito nell’ambito della Commissione, si sta occupando dell’impatto che la nuova normativa sta producendo sul sistema delle imprese, argomento all’ordine del giorno di questo incontro.

Il gruppo di lavoro sta svolgendo delle audizioni per approfondire gli aspetti applicativi del decreto legislativo, ed in particolare intende sviluppare una riflessione sul "come" si sta attrezzando il sistema delle imprese, a partire dalle politiche e dagli strumenti da approntare prioritariamente per ridurre la produzione e la pericolosità dei rifiuti.

La bozza di documento che è stata redatta contiene alcune riflessioni sulla necessità di realizare una gestione integrata del sistema rifiuti per uscire dall’attuale emergenza.

Ritengo che per le imprese questo provvedimento è una straordinaria opportunità per realizzare una nuova e più corretta strategia in materia di rifiuti, costruire un sistema industriale più avanzato che rappresenta uno dei punti cruciali di una seria politica ambientale.

Condivido alcune affermazioni del ministro Bersani.

Il nostro lavoro si sta concentrando anche sul complesso problema della bonifica dei siti inquinati, un aspetto della disastrosa politica ambientale in questo settore, che si è perpetrata nel nostro Paese nei decenni passati. Il Parlamento sta esaminando una specifica proposta di legge, e si è in attesa dell’emanazione del decreto attuativo previsto dall’articolo 17 del decreto legislativo n.22/97.

Ritengo che uscire dall’emergenza, risolvere gli attuali problemi in questo settore, significa innanzitutto evitare soluzioni di carattere dirigistico.Come mi sembra possa definirsi la proposta di moratoria per la costruzione di nuovi impianti di smaltimento, in particolare di inceneritori, avanzata da alcune associazioni ambientalistiche. Così come non è assolutamente appropriato proporre soluzioni tecnologiche monoculturali. Bisogna invece realizzare un sistema integrato di soluzioni impiantistiche che privilegi la riduzione alla fonte dei rifiuti (waste minimization), il riuso, il riciclaggio, ma anche che realizzi un recupero energetico dai rifiuti in una percentuale più alta rispetto a quella attuale.

A seguito della "responsabilità del produttore", la gestione futura dei rifiuti registrerà molto probabilmente un decremento dei quantitativi di RSU da trattare rispetto ai quantitativi attuali.

La qualità di RSU inceneriti in impianti per il recupero energetico diminuirà, ma al tempo stesso si apriranno nuove possibilità di un aumento di rifiuti industriali da incenerire per il recupero energetico, in relazione alle forti restrizioni decise in sede UE per l’avvio a discarica di RSU organici e combustibili. Tutto ciò causerà in molti paesi europei una richiesta di maggiore capacità di incenerimento.

È necessario innalzare la percentuale dei rifiuti utilizzati per produrre energia. Questo non significa "incenerimento selvaggio", come è stato con toni drammatici sollevato da associazioni ambientalistiche che hanno denunciato una cosa sfrenata all’incenerimento, peraltro smentita dallo stesso Ministro dell’ambiente.

Infatti, in Italia si producono circa 26 milioni di RSU l’anno. Prevedendo il raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata, come previsto dal decreto legislativo 22/97 (35-50 per cento), rimane una quantità di circa 13 milioni di tonnellate di RSU che, almeno per una parte, possono essere utilizzati come combustibile derivato dai rifiuti (CDR) per produrre energia elettrica.

Si avrebbero alcune conseguenze positive perché è possibile in questo modo sostituire altro combustibile (carbone e petrolio) risparmiando risorse e riducendo l’inquinamento, nonché la quantità di rifiuti da smaltire in discariche.

Il meccanismo del CIP/6 di incentivazione delle fonti rinnovabili è superato perché inadeguato.La sospensione del provvedimento CIP/6 avvenuta come noto con il decreto ministeriale del 24 gennaio 1997 si è resa necessaria in quanto tale provvedimento, pur avendo contribuito positivamente allo sviluppo delle fonti rinnovabili, risultava inadeguato per un sistema in profonda evoluzione come quello del settore elettrico. In sostituzione ci vogliono nuovi strumenti per lo sviluppo delle energie rinnovabili e quindi anche delle energie da rifiuti, tramite il meccanismo degli incentivi pubblici.

È necessario realizzare una rete di accordi di programma, nell’ambito prioritario dei flussi prioritari dei rifiuti individuati dalla strategia comunitaria per la gestione dei rifiuti (1991).

Accordi volontari con il sistema delle imprese e della distribuzione sono diffusi in vari paesi europei ed hanno spesso la finalità di stimolare politiche di riduzione o recupero dei rifiuti.

In ben sette articoli del decreto legislativo n. 22/97 è prevista la possibilità di concludere accordi di programma fra i più diversi interlocutori: pubblica amministrazione, filiere produttive, consorzi, singole industrie o singoli insediamenti produttivi. I contenuti degli accordi di programma possono essere vari:

– prevenzione e riduzione della quantità e pericolosità dei rifiuti;

– recupero dei rifiuti all’interno di insediamenti industriali esistenti, al di fuori del piano regionale;

– piani di settore per il recupero dei rifiuti, l’impiego dei materiali riciclati;

– la diffusione dell’eco-audit e dell’ecolabel;

– la gestione di particolari tipologie di rifiuti.

È necessaria un’ampia diffusione di accordi di programma promuovendoli ai vari livelli. Si sono ormai affermati come uno dei principali strumenti di gestione delle politiche ambientali, perché favoriscono un atteggiamento proattivo da parte delle imprese e sono più flessibili rispetto agli strumenti tradizionali.

Per i PFU è stata approvata l’11 dicembre 1997, dalla Commissione ambiente della Camera dei deputati, una specifica risoluzione n. 7-00315 per incentivare in modo particolare l’attività di ricostruzione dei PFU.

Gli accordi di programma dovrebbero anche contenere misure, strumenti economici in grado di incentivare comportamenti virtuosi da parte del sistema industriale, semplificazioni amministrative giustificate dagli obiettivi concertati.

Uno studio (IEFE-Ecodeco 1997) conferma uno scenario che si sta realizzando, una nuova organizzazione nel settore dei rifiuti basata su nuovi poli. Una competizione che non è più fra modelli organizzativi (pubblico-privato) ma tra filiere tecnologiche.

Gli accordi di programma aiuteranno un’evoluzione positiva del sistema.

Così come mi sembra importante affermare i sistemi di ecogestione e di audit ambientale, cioè strumenti volontari, con l’obiettivo di indurre nuovi comportamenti del sistema industriale nel suo complesso e presso i consumatori. L’EMAS, emanato dall’UE nel 1993 con il regolamento n. 1836, è forse l’espressione più evidente di nuovi indirizzi da attuare per favorire una riorganizzazione e razionalizzazione della gestione ambientale dell’azienda tramite la semplificazione burocratica, lo snellimento delle procedure, la responsabilizzazione dei produttori, l’efficacia dei controlli.

Su questa problematica il documento avrà uno specifico capitolo.

Si sta pensando ad una proposta di legge che individui un sistema di ecoincentivi, richiamati dalla dottoressa Ferrofino, una fiscalità ambientale organica e razionale compatibile con gli indirizzi comunitari, che aiuti in modo particolare le PMI ad adempiere più facilmente agli obblighi ambientali, per esempio allo scopo di permettere un approccio più efficace rispetto alla gestione dei rifiuti ma anche per modificare il comportamento dei singoli, dei consumatori.

Infine vorrei affrontare un tema complesso e spinoso, che è quello della "definizione di rifiuto", del significato del termine "disfarsi".

La Commissione UE registra: Bruxelles 27 febbraio 1997, COM (97) 23 def. "... una notevole divergenza terminologica fra gli Stati membri".

È una situazione non più tollerabile, bisogna che si chiuda definitivamente una querelle che mina alla base un corretto funzionamento del mercato europeo oltre a costituire un presupposto indispensabile per una efficace protezione ambientale.

Pervenire ad una univoca interpretazione del concetto di rifiuto deve essere un impegno politico primario del nostro Governo. Su questa questione penso che il ministro Ronchi abbia fatto bene a porre il problema di un riconoscimento e di una definizione delle materie prime secondarie, che hanno una rilevanza eccezionale nel nostro paese (circa 30 milioni di tonnellate). Anche su questa problematica il gruppo di lavoro fornirà alcune indicazioni, spero utili, per affrontare in modo adeguato le sfide future che abbiamo di fronte.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Passiamo agli interventi. Ha chiesto di parlare il dottor Cirelli, direttore di Federambiente. Ne ha facoltà.

ANDREA CIRELLI, Direttore di Federambiente. Ringrazio dell’opportunità che viene offerta (anche se è a margine di questo importante dibattito). Il ruolo di Federambiente riguardo al decreto legislativo n.22: di grande impegno e collaborazione. Non siamo più imprese municipalizzate, siamo società per azioni, siamo consorzi, siamo società miste, aziende speciali, gestiamo qualche migliaio di miliardi nel settore e ci sentiamo parte integrante del processo di difesa dell’ambiente. Siamo in una grande fase di trasformazione; stiamo svolgendo ad esempio un ruolo importante per quanto riguarda gli ambiti territoriali ottimali. È uno dei temi su cui forse oggi si è parlato poco e bisogna parlarne di più.

In passato i piani erano spesso scritti sulla carta, talvolta imposti e in alcuni casi sono state le aziende municipalizzate (allora lo erano) a contribuire molto per realizzare questo tipo di strategia territoriale, nel rispetto del decreto Ronchi. Oggi importantissimi sono gli accordi di programma e la politica delle alleanze, sulle quali Federambiente è molto impegnata e aperta a soluzioni.

Un altro punto da mettere in evidenza è quello riguardante la termovalorizzazione: i 36 impianti sono quasi tutti gestiti da imprese pubbliche e alcuni di questi sono anche all’avanguardia con un controllo forte sulle emissioni e con impianti di abbattimento fumi di alta tecnologia (magari tutte le emissioni inquinanti dell’industria fossero allo stesso livello della gestione degli impianti illeciti!). Si ricordano i limiti alle immissioni della recentissima legge n. 503/97, che, fissati per gli impianti urbani, sono gli stessi limiti a livello europeo per i rifiuti pericolosi, dunque molto più restrittivi rispetto agli altri paesi. Quindi parlare di impianti obsoleti e di tecnologie vecchie vuol dire contraddire un po’ questo mondo.

Giustamente il presidente Scalia ha detto che solamente l’8-9 per cento oggi è termovalorizzato o peggio termodistrutto; questa è la media nazionale. In realtà, se entriamo meglio nel dettaglio, scopriamo la presenza di città o regioni in cui siamo a percentuali molto più vicine all’Europa. Dunque, meno male che alcuni impianti ben gestiti ci sono, meno male che si sta sviluppando questa tecnologia, altrimenti andrebbe tutto in discarica. Produciamo energia elettrica e termica, perché la maggior parte delle nostre aziende sono aziende energetico-ambientali e pluriservizi, che hanno già affrontato il problema dell’integrazione del settore gas e dell’illuminazione pubblica con l’ambiente.

Si deve allora citare il recente incentivo delle 56 lire a kW/h che non tocca alle nostre aziende, ma solo alle aziende produttrici-distributrici, dunque agli impianti termoelettrici. È un po’ contraddittorio parlare di incentivi se poi non vengono dati a chi sta cercando di portare avanti le strategie ambientali.

Il terzo punto riguarda la qualità delle carte dei servizi, la certificazione, le ISO 14000, EMAS, l’ecobilancio, eccetera. Federambiente è impegnata in una concreta politica ambientale e si sta cercando di certificare tutti gli impianti di smaltimento.

Il quarto punto riguarda la tariffa. Federambiente è fortemente impegnata sulla ricerca di un metodo normatizzato per la tariffa e sull’esigenza di trasparenza contabile perché crede in un mercato competitivo; la sfida della concorrenzialità vede pronte la maggior parte delle aziende pubbliche, perché impegnate a difendere la qualità della vita e non per profitto. Dunque la tariffa deve avere criteri di incentivazione e di valutazione della qualità offerta.

Il quinto punto riguarda la raccolta differenziata, l’articolo 24. È una scommessa importante, l’impegno è forte e non deve spaventare la quota del 35-40 per cento (che in alcune regioni è già legge). Oggi alcune aziende pubbliche, quelle più avanzate, sono già su queste percentuali. Ci si sta anche impegnando sui lavori di pubblica utilità, come strumento importante per sviluppare il Sud.

Qualche preoccupazione l’abbiamo però sul fatto che vi è una differenza rispetto agli articoli 38 e 41 del decreto Ronchi sul ragionamento del differenziale dei costi: come è scritto sullo statuto del CONAI. Per noi significa trasferire dei costi sui cittadini, riguardo all’attività che stiamo svolgendo sulla raccolta differenziata; bisogna che tutti ne siano consapevoli.

Ultimo punto, forse il più importante. Siamo molto impegnati sull’educazione ambientale; come federazione spendiamo oltre 10 miliardi l’anno. L’educazione ambientale non è insegnare a scuola al bambino a raccogliere i tre chili di carta. L’importante è educare i grandi, i cittadini nella loro complessità, al rispetto dell’articolo 3 del decreto.

In conclusione va sottolineata la necessaria interconnessione di tutti gli articoli del decreto Ronchi. Come Federambiente, ci proponiamo di mettere imprenditorialità, capacità impiantistica, ambiti ottimali, raccolta differenziata e qualità. Tutte queste cose devono essere viste insieme, perché solo così si può combattere l’illegalità e si riesce a rendere concreto il rispetto dell’ambiente e questa iniziativa.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Se non ci sono altri interventi, consegno agli atti della Commissione alcune riflessioni che faccio sul CDR, sui decreti attuativi del decreto legislativo, perché francamente non vorrei che fosse vero quello che diceva il dottor Squitieri. L’insieme del decreto legislativo e dei decreti attuativi va, tutto sommato, nella direzione giusta, credo però che ci siano alcuni rilievi da fare. Si parla di recupero energetico, attraverso la termodistruzione, ma la differenza tra CDR e rifiuto secco separato raccolto, mi sembra pressoché inesistente. Per quanto riguarda poi i rendimenti energetici, la percentuale di cloro fissata a 0,9 è troppo alta se si vogliono ottenere rendimenti elettrici più elevati. Non vedo poi il perché non si possano bruciare i pneumatici in modo separato. Idem per quanto riguarda la plastica; anzi, mi sembrerebbe il contrario, ci sarebbero modi anche sperimentati.

GIANNI SQUITIERI, Presidente dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti. Si può, si può, è tutto possibile.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Accennavo solo dei punti che consegno alla memoria del convegno, che potranno servire a tutti coloro che sono già intervenuti o che interverranno oggi pomeriggio.

FRANCO GERARDINI, Vicepresidente della Commissione. Per una puntualizzazione, ha chiesto di parlare il dottor Capodieci.

PIETRO CAPODIECI, Presidente del CONAI. Siccome sono stato tirato in ballo sia dalla dottoressa Ferrofino, sia dal dottor Cirelli, vorrei chiarire alcuni punti specifici. La questione importante sollevata dalla dottoressa Ferrofino riguarda la possibilità di blocco dell’attività dei selezionatori.

Pubblicamente posso dire che il CONAI sta cercando — non dico disperatamente, perché non ho la faccia del disperato — con tutte le proprie forze di subentrare a Replastic. Ciò vuol dire farsi consegnare il consorzio in modo da continuarne l’attività. Già due consigli di amministrazione fa il CONAI ha deliberato questa volontà di subentrare, delegandomi tutti i poteri per farlo. Domani ho una riunione con i liquidatori proprio per fare in modo che si possa continuare l’attività in una situazione di certezza, evitando innanzitutto difficoltà alle imprese. Ma pur difendendo il loro sistema, siamo sempre nell’ambito del rischio di impresa.Fare impresa non è una sinecura. Vi sono momenti di incertezza; ma per quanto mi riguarda mi sto muovendo per risolverli positivamente. Non c’è nessuna intenzione del CONAI di far saltare il sistema o distruggere qualcosa di utile che è stato creato.

Il secondo aspetto riguarda il "delta-costo". È un po’ che discutiamo di questo tema. Al di là delle interpretazioni, visto che il decreto è complesso e può avere elementi di ambiguità o addirittura di contraddizione, faccio un discorso di puro buonsenso che ha due aspetti: abbiamo detto — nello statuto — che il sistema economico, le imprese, pagheranno la differenza di costo fra la raccolta indifferenziata e quella differenziata. Non l’abbiamo detto di nascosto, c’è un articolo chiaro, non ambiguo. Al di là di questo aspetto ce n’è un altro, di fondo.Qualcuno mi deve spiegare perché chi produce un bene che poi diventa rifiuto non è responsabile dei costi ambientali di questo bene, a meno che quest’ultimo non sia imballaggio. Perché il panettiere che decide di non alzarsi presto al mattino e usa i lieviti preparati, per cui in una giornata il pane è secco, aumentando così la quantità dei rifiuti di pane, non è obbligato a farsi carico della raccolta indifferenziata per l’aumento del rifiuto prodotto? Credo sia perché pensiamo debba farsene carico il cittadino che, con le sue scelte di tutti i giorni, produce rifiuti. Qualcuno dovrebbe spiegarmi perché i produttori di imballaggi debbono essere tenuti a non far pesare sul cittadino il costo della raccolta indifferenziata dei rifiuti da imballaggio. Quello che noi diciamo ai cittadini è: "Signori, non vi costa nulla introdurre la raccolta differenziata, tutto quello che costa di più ce lo assumiamo noi, e in ogni caso risparmierete i costi di smaltimento". Non può essere imputato ai produttori di imballaggi di preoccuparsi di tutto il costo, compresa la raccolta indifferenziata.Non si capisce perché questi produttori di beni debbono essere trattati peggio di altri. Va bene che l’imballaggio sembra la peste...

Il secondo aspetto è quello sollevato dal dottor Cirelli, che conosco e stimo moltissimo. Ha tentato di fare come quello che deve avere mille lire da qualcuno, ma non ha niente di scritto; gli scrive una lettera e gli dice "Per le duemila lire che mi devi...", l’altro gli risponde: "Guarda che te ne devo solo mille", e finalmente c’è qualcosa di scritto. Cirelli sostiene che gli imballaggi siano il 50 per cento dei rifiuti. Se ha detto ciò per farmi dire che sono il 35-40 per cento, gli è riuscito, ma devo dire che dal mio punto di vista sarebbe un argomento ancora più a favore se fossero il 50 per cento. Se è un fenomeno così rilevante, pensate davvero che sia uno sfizio?

Franco Garardini, Vicepresidente della Commissione. Ha chiesto di parlare il dottor Pompilio Del Prato, presidente dell’Ecotras.

POMPILIO DEL PRATO, Presidente nazionale dell’Associazione italiana trasportatori conto terzi di rifiuti (Ecotras). Vorrei soffermarmi su un passaggio dell’intervento della dottoressa Ferrofino sulla qualifica e la specializzazione, oltreché la professionalità, degli operatori nel settore, impiantisti oppure soggetti che passano attraverso la filiera dal produttore al trasformatore e quindi ovviamente al trasportatore. In questo convegno siamo stati invitati, e il tema è in buona sostanza la sicurezza sul rifiuto, quindi dove va a finire e come può essere riutilizzato. Mi ha fatto molto piacere ovviamente sentire il passaggio della dottoressa Ferrofino, perché andava specificatamente a puntualizzare una professionalità, che secondo noi oggi piano piano sta andando un po’ alla deriva. Nel nostro settore ci sono 4 mila imprese iscritte all’Albo nazionale dei trasportatori di rifiuti e mediamente le imprese che sono iscritte hanno una capacità di assorbire professionalità, cioè assorbire impiegati e dipendenti, pari a circa 5 dipendenti. Se facciamo il conto sono circa 20 mila persone addette, che hanno un’alta professionalità e che oggi operano nel settore del trasporto dei rifiuti e si sentono penalizzati. La ragione è semplicissima. Ovviamente siamo delle imprese che hanno dei costi altissimi, dati anche dalle varie fideiussioni che abbiamo in corso per garantire la professionalità e la sicurezza dell’ambiente, e ci troviamo oggi a lavorare con delle semplificazioni — che mi vanno bene — che portano a considerare il rifiuto non più rifiuto, perché spostando la denominazione da rifiuto a riutilizzabile si possono utilizzare delle professionalità che non sono più quelle per cui è necessario iscriversi all’Albo nazionale degli smaltitori e trasportatori di rifiuti. Oggi ci troviamo su un mercato dove la professionalità viene a mancare, con una perdita secca del nostro fatturato, che al 31 gennaio 1998 si attesta intorno al 35 per cento.

Torno brevemente alla problematica relativa a dove va il rifiuto, come viene trasportato e dove viene messo. È ovvio che la nostra associazione è preoccupata di questa situazione e ha difficoltà a comunicare con il legislatore, in particolar modo con tutti coloro che sono i primi attori del legiferare sull’ambiente. Più volte abbiamo tentato di comunicare con loro e non siamo mai riusciti ad avere un colloquio serio, professionale, in modo che scaturisse una capacità di dare risposte al settore. Ringrazio l’onorevole Gerardini per la possibilità di intervento che mi ha dato, lo ringrazio a nome dell’associazione, e mi auguro che oggi più di ieri venga considerata la professionalità come fondamento portante per dar seguito a questa problematica del rifiuto.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Do senz’altro la parola al ministro Flick, affinché effettui l’introduzione ai lavori di oggi pomeriggio, che saranno successivamente coordinati da Enrico Fontana e Federica Cingolani.

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Prendo la parola, più che per una introduzione, per una puntualizzazione degli obiettivi, del metodo e del tipo di impegno del Ministero di grazia e giustizia, tenendo conto del valore fondamentale del bene "ambiente" e del suo rilievo costituzionale.

Pensate a tutto il cammino che si è fatto da quando ci si domandava se e dove la Costituzione riconoscesse il valore dell’ambiente, passando per la riscoperta di quella norma della Costituzione che ha costituito la chiave per affermare la tutela costituzionale del bene "ambiente". Ciò, dal punto di vista giuridico, ha rappresentato il primo grosso salto culturale.

Il secondo passaggio si è avuto quando si è compreso che il problema dell’ambiente — nel caso specifico il problema dei rifiuti — è divenuto anche un problema di criminalità organizzata; si è colto cioè lo stretto collegamento con una serie di tematiche di sfruttamento dei settori dell’economia, che hanno un maggior significato di guadagno e di valore aggiunto, facendo purtroppo dell’ambiente uno dei campi elettivi di intervento della criminalità organizzata.

Ciò conduce ad una terza valutazione. Si propone per l’ambiente lo stesso discorso che — vorrei dire per fortuna — abbiamo iniziato a fare in materia di criminalità organizzata e di riciclaggio, questa volta del denaro sporco, quando si è percepita la dimensione non soltanto nazionale del problema. I tre momenti, le tre tappe su cui vorrei centrare il discorso della mia esperienza, consistono nella ormai acquisita e definitiva riscoperta del bene "ambiente" come valore fondamentale anche dal punto di vista giuridico e costituzionale.

L’importanza del tema si coglie, ad esempio, ove si pensi ad una delle indicazioni della Commissione bicamerale che, nell’intento di ricondurre il diritto penale all’extrema ratio, lo impegna alla tutela dei valori costituzionalmente significativi. E non vi è dubbio che il bene ambiente, costituzionalmente, costituisce un valore significativo.

La seconda tappa è importante perché consente di cogliere le difficoltà che — dal punto di vista penale — ci troviamo ad affrontare una volta ammesso che, in tema rifiuti, l’ottica di approccio non può più essere solo quella inerente a comportamenti individuali lesivi dell’ambiente, ma deve essere di approccio ad un fenomeno di tipo organizzativo-criminale.

Il terzo problema consiste nel fatto che, come il riciclaggio del denaro sporco e l’attività della criminalità organizzata, anche l’ambiente non ha frontiere. Anzi, come l’esperienza ci insegna, una delle dimensioni più tipiche di tali organizzazioni è internazionale, multinazionale e transnazionale. Da ciò, il suggerimento (ed ho molto apprezzato il riferimento fatto dal Presidente Violante stamani sul tema) di punire anche i reati commessi all’estero.

Detto ciò, e ribadito che il valore ambiente è di importanza tale da richiedere un intervento di tutela al massimo grado, nasce la domanda successiva, anche alla luce dell’esperienza che abbiamo avuto in passato e, fino ad ora, in Italia: quali le forme di tutela, quale lo spazio da dedicare alla prevenzione, quale lo spazio da dedicare alla repressione e — se mi è consentito — quale il rischio che dare troppa enfasi alla funzione della repressione (la pena è assolutamente necessaria) finisca per ridurla ad una dimensione emblematica, ponendo in ombra il valore della prevenzione?

Non vi è dubbio che, non appena si pensa ad un valore come quello dell’ambiente, nonchè all’insensibilità finora mostrata per la sua importanza, o alla sua scoperta da parte della criminalità organizzata, il pensiero corre immediatamente all’utilizzo della sanzione penale.

Ciò nonostante, non è possibile sottovalutare la difficoltà di elaborare e descrivere le fattispecie penali in materia di ambiente, in quanto tale costruzione si scontra con il carattere cosiddetto seriale delle condotte incriminabili: con la difficoltà — non dico l’impossibilità — di immaginare, in termini di condotta incriminabile, un comportamento che di per sé solo risulti offensivo dell’interesse tutelato.

Nell’ambito dell’ambiente, la lesione dell’interesse scaturisce da una reiterazione, da un cumulo di comportamenti. L’esperienza ci insegna, insomma, che la lesione avviene attraverso una serie di reiterazioni e di comportamenti dello stesso tipo. Ciò vuol dire che, nel costruire una fattispecie di reato in materia ambientale, ci si trova nell’alternativa di ricorrere a clausole, a formulazioni molto ampie, che corrono il rischio di divenire mere affermazioni di principio, oppure di violare il principio costituzionale di tassatività e di determinatezza della fattispecie penale.

Da qui la difficoltà di conciliare il concetto di danno ambientale e le molteplici condotte che possono provocarlo. Ciò spiega perchè, fino ad ora, si sia fatto ricorso prevalentemente a reati privi di danno e cioè a reati di carattere formale. La logica è stata quella di costruire una serie di fattispecie incentrate sulla violazione di precetti, in ottemperanza a indicazioni della pubblica amministrazione, mancata cooperazione con quest’ultima, violazione di obblighi di comunicazione. Per definizione, la tecnica è riduttiva e limitata, perché da un lato pone un problema della conoscibilità delle prescrizioni, dall’altro è capitato un po’ ciò che è avvenuto per la materia fiscale, dove la difficoltà di costruire un reato serio di frode o evasione fiscale, ha portato ad anticipare la soglia di tutela ad una serie di comportamenti preparatori (l’obbligo di denuncia, l’obbligo di annotazione sui registri contabili): una tecnica abbastanza vicina a quella con cui è stata affrontata la tematica dell’ambiente, ma che non ha dato risultati poi così soddisfacenti se, relativamente alla materia fiscale, ci stiamo accingendo, su indicazione anche dei magistrati che lavorano in tale campo, a depenalizzare tali tipi di illeciti, per cercare di costruire un reato di frode fiscale che abbia realmente efficacia.

Anche nel campo dell’ambiente, la prevenzione passa attraverso tale tipo di repressione, ma non ha funzionato sufficientemente, se le organizzazioni criminali hanno deciso di buttarsi a capofitto nel settore, evidentemente perché presentava un basso tasso di pericolo nell’attività.

In effetti, noi stessi siamo orientati, nel disegno di legge sulla depenalizzazione, a sfoltire il numero dei reati contravvenzionali, anche per due ragioni di carattere molto concreto: una generale, l’altra specifica.

In via generale, dobbiamo prendere atto che il ricorso alla sanzione penale deve essere veramente utilizzato come extrema ratio. Finora, nel nostro paese si è sempre ricorsi alla sanzione penale come messaggio, senza valutare se, in concreto, la sanzione penale potesse essere applicata e, rimanendo in tale campo, senza valutare in concreto il fenomeno delle prescrizioni. La maggior parte delle contravvenzioni è destinata inevitabilmente, a causa della lunghezza dei tempi del processo, alla prescrizione. Si è fatto spesso ricorso alla sanzione penale per la sua efficacia emblematica, senza avere la sicurezza della sua deterrenza e senza tenere conto del fatto che l’utilizzo della sanzione penale comporta costi notevoli sul piano delle garanzie e del processo.

In questi giorni è in atto una polemica sui riti alternativi e sulla possibilità di arrivare a definizioni più rapide dei processi. Non vi è dubbio che reati come quelli formali, di disobbedienza a prescrizioni dell’autorità o di inosservanza di obblighi di comunicazione, non avendo un contenuto sostanziale di lesività, ma soltanto un contenuto formale di disvalore, non possono avere sanzioni elevate. Nel momento in cui non hanno sanzioni elevate o sono addirittura reati contravvenzionali, si corre il rischio di utilizzare un’arma già "spuntata".

Voglio segnalare tale discorso perchè sono convinto che, ferma restando la possibilità di rafforzare l’intervento penale (possibilità che verificheremo anche in sede di esercizio della delega), la sanzione penale dovrebbe riguardare in via esclusiva condotte effettivamente meritevoli e non condotte formali come quelle che ho descritto prima. Tra l’altro, nel nostro codice penale, dovremmo riordinare alcuni strumenti già presenti (lo dirò subito dopo, con riferimento alla criminalità organizzata), in grado di combattere il fenomeno. Ad esempio, si tratta di considerare se introdurre delle aggravanti quali quelle collegate alla finalità di speculazione o di danno ambientale per fattispecie comuni che già esistono nel codice penale.

Verificheremo, inoltre, se sia possibile arrivare alla creazione, nonostante le difficoltà, di un reato di danno ambientale che tipicizzi ragionevolmente le condotte (ma si tratta di tema che merita ulteriore approfondimento).

Infine, si pone il problema di definire il concetto di "ambiente" e la sua tutela penale nel contesto di un ripensamento generale di tutto il sistema penale. Abbiamo, da un lato, un codice penale del 1931, la cui parte speciale (cioè l’individuazione degli interessi tutelati e del tipo di sanzione) risponde ad una logica oramai superata, dall’altro lato, una serie di reati disseminata in varie leggi speciali.

Non è che la collocazione di una norma nel codice penale o in una legge speciale sia, di per sè, ostativa al suo significato, ma non v’è dubbio che il codice penale è la sede elettiva dove devono essere previste le lesioni degli interessi più significati.

Finora si è considerato il settore attraverso quelle forme di tutela formale di cui parlavo prima, cioè soprattutto nella logica delle contravvenzioni. La contravvenzione rappresenta un reato meno grave del delitto, e per essa è previsto un meccanismo di definizione più rapido ed una maggiore possibilità di sfoltimento. Tra l’altro, proprio per la sua minor gravità — se così possiamo chiamarla — il legislatore prevede che la contravvenzione possa essere punita sia quando è compiuta nella forma dolosa, sia quando è compiuta nella forma colposa.

Probabilmente, lo strumento contravvenzionale non è il più adatto di fronte a lesioni ambientali nelle quali stiamo ormai riscontrando, soprattutto per il collegamento con la criminalità organizzata, veri e propri comportamenti dolosi, e di un dolo pregnante.

Quindi, non intendo scoraggiare l’uso dello strumento penale, a volte assolutamente necessario. Voglio solo ricordare che la strada percorsa sino ad ora privilegiava uno strumento che di fatto si è rivelato inefficace. Vedo invece positivamente il decreto legislativo n. 22 del 1997, anche come ipotesi di lavoro futuro che, contemporaneamente, percorre la strada della prevenzione. È inutile che mi fermi a ricordarne i punti salienti. Ciò che mi interessa sottolineare è la originalità della risposta che ha dato ai comportamenti pregiudizievoli verso l’ambiente: nei limiti consentiti ad un provvedimento normativo delegato, ha creato un sistema rafforzato attraverso il mix delle sanzioni penali e delle sanzioni amministrative.

Apro a questo proposito un altro punto di riflessione generale, che però l’ambiente sollecita in particolare: la tematica delle pene accessorie o interdittive, quali quelle che tendono a favorire la politica dei siti contaminati, il ripristino coattivo della situazione preesistente, il potenziamento del ricorso alla confisca, sono elementi che emergono dal decreto legislativo e che mi sembrano interessanti. Penso alla possibilità, ancora più chiaramente, di agganciare meccanismi come la sospensione condizionale della pena o il patteggiamento al previo ripristino della situazione. Mi pare cioè che la tematica dell’ambiente sia una delle tematiche nelle quali con più evidenza salta agli occhi la necessità di lavorare prima di tutto e soprattutto sul piano della prevenzione e, quindi, di elaborare strumenti di repressione penale che però abbiano carattere di agilità non solo quanto a prescrizioni, ma anche quanto a tipi di sanzione.

Ripeto, non voglio con ciò dire che chi inquina non debba andare in galera; credo però possa essere utile introdurre meccanismi diversi di sanzioni: di tipo interdittivo o di tipo ripristinatorio.

Come Ministro della giustizia, credo che la depenalizzazione ed il ricorso alla sanzione penale solo come ipotesi di extrema ratio debbano essere veramente coltivate, per non continuare a considerare il ricorso alla sanzione penale come un’etichetta che ci tranquillizza, ma non risolve i problemi.

Non vi è dubbio che, tra l’altro, si stia ponendo un ulteriore problema, perché le criminalità ambientali, come la criminalità economica, rappresentano uno dei tests più emblematici sulla capacità di utilizzare strumenti penali tradizionali in un contesto nuovo.

Pensate ai reati che costituiscono espressione della politica di impresa. Su di essi è possibile agire in due direzioni: una è la sanzione ripristinatoria, l’altra è la sanzione che colpisce la persona giuridica. Abbiamo una vecchia tradizione di responsabilità penale personale modellata su un discorso, vorrei dire, antropologico: solo l’uomo può essere in dolo o in colpa e dunque commettere un reato; la società no.

Uno dei temi che stiamo affrontando, anche in adempimento degli obblighi comunitari, quali la convenzione OCSE ed il protocollo sulla protezione degli interessi finanziari, per il quale possiamo avvalerci di alcune esperienze straniere abbastanza utili, è quello della possibile responsabilità delle persone giuridiche.

Si tratta di un tema maturo forse anche per l’Italia. Non vi è dubbio che il discorso della creazione di forme di responsabilità e di sanzioni penali che si colleghino immediatamente e direttamente al reato ambientale come espressione della politica di impresa, sia uno dei modi per rispondere al problema oggi. Un altro modo è quello del quale parlavo prima: l’approccio sotto il duplice profilo della dimensione globale del tema ambiente e sotto lo specifico profilo dell’esperienza italiana del rischio di contaminazioni criminali da parte di associazioni mafiose nell’ambito ambientale.

A livello normativo, vi è un espresso riconoscimento di tale esperienza nella legge n. 97 del 1997, istitutiva della Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite: mi pare significativo che, tra le funzioni attribuite alla Commissione, compare appunto lo svolgimento di indagini sul ruolo svolto dalla criminalità organizzata, con specifico riferimento alle associazioni a delinquere e alle associazioni di stampo mafioso.

A questo punto si pone un problema, da studiare e da approfondire: è il caso di arrichire, ad esempio, la casistica dell’articolo 416-bis con il riferimento alle finalità ambientali? Lo pongo come interrogativo, in quanto non ne sono del tutto sicuro. Mi domando, cioè, se non sia sufficiente il richiamo alle finalità dei profitti ingiusti o del controllo dell’economia per l’applicazione dell’articolo 416-bis anche quando le associazioni operino in materia di ambiente.

GIOVANNI LUBRANO DI RICCO, Coordinatore del gruppo di lavoro della Commissione sulle modifiche al codice penale. Anche il 416!

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Un ripensamento dei reati associativi rientra fra gli obiettivi del programma dell’Ulivo, ma non abbiamo ancora avuto il tempo di realizzarlo. Uno dei problemi da affrontare riguarda il rapporto tra la norma che prevede il concorso di persone nel reato e la norma che incrimina autonomamente l’organizzazione, l’associazione a delinquere. Come tecnico, vedo qualche difficoltà, ad esempio, ad ipotizzare un’associazione a delinquere per commettere contravvenzioni, tra le altre ragioni, perché esse possono essere compiute (e solitamente lo sono) anche soltanto per colpa. Se riuscissimo a elaborare fattispecie di reato ambientale di danno, potremmo porci il problema di utilizzare l’articolo 416 del codice penale: però credo che, prima di tutto, si potrà utilizzare — ricorrendone i presupposti — il 416-bis, il cui significato "di tipo economico" è stato sempre abbastanza sottovalutato.

Come sapete, la norma sulla associazione a delinquere di stampo mafioso prevede un’organizzazione criminale, che è punita in quanto tale perchè agisce secondo modalità particolari: sfruttando il vincolo associativo e le condizioni di omertà e di assoggettamento che ne derivano, per perseguire finalità tra loro diversissime; la finalità di commettere altri delitti; la finalità di assicurarsi dei profitti ingiusti, ma non necessariamente illeciti; la finalità di assicurarsi situazioni di monopolio e di controllo del mercato... Il reato scaturisce dal mix tra quei tipi di condotta e le suddette finalità. Credo che possiamo studiare — ne ho parlato qualche giorno fa con il ministro Ronchi, perché i miei uffici stanno considerando i progetti scaturiti dal discorso di Legambiente — se sia il caso di introdurre un articolo 416-quater, che riguardi l’attività criminale a scopo di lesione ambientale.

Ma torno al problema dal quale sono partito: non basta la norma dell’articolo 416-bis, magari ipotizzando un’aggravante qualora essa si svolga nell’ambito ambientale? Se ci mettessimo ad ipotizzare come finalità tipica quella ambientale, non apriremmo la via ad una serie di ulteriori modifiche normative? Ripeto, mi colpisce molto la similitudine tra la tematica fiscale e quella ambientale. Nel 1982 è stata emanata la legge cosiddetta sulle manette agli evasori. Ho l’impressione che di evasori i quali abbiano avuto le manette non ve ne siano stati molti. Gli stessi magistrati ci segnalano oggi la necessità di un drastico sfoltimento di tutta la rete di contravvenzioni perché si limita ad intasare il carico degli uffici giudiziari.

Avverto cioè il rischio, da un lato, di mantenere in piedi un bagaglio contravvenzionale che non si è dimostrato efficace e che può essere sostituito da interventi e da sanzioni di tipo amministrativo o, se vogliamo, da sanzioni penali, anche ripristinatorie, più efficaci. Dall’altro lato, sono convinto che dobbiamo prestare la massima attenzione al discorso del collegamento tra associazioni criminali, economia sommersa e sfruttamento della situazione ambientale.

Svolgo queste riflessioni più in qualità di penalista che non di Ministro della giustizia; in quest’ultima veste la mia preoccupazione, di fronte a un fenomeno di estrema gravità come questo, è di compiere ogni sforzo per dare alla lotta una dimensione globale. Ad esempio, abbiamo già cercato di affrontare un discorso per alcuni versi simile, come sapete, in sede di Unione europea, nell’ambito del piano globale di lotta alla criminalità. Siamo cioè partiti dal contrasto alla criminalità organizzata, per poi allargare le strategie e gli spazi di cooperazione e di realizzazione di un’intesa (non solo giudiziaria ma giuridica) comune in tutta l’Europa, alle tematiche della corruzione e quelle di carattere fiscale. Penso alle iniziative, fino a qualche anno impensabili, assunte in materia di "paradisi" fiscali o tendenti a sterilizzare, nei limiti del possibile, i rapporti con essi.

Dobbiamo affrontare lo stesso discorso - e mi pare che siamo ampiamente maturi per farlo - nel campo ambientale. Il problema c’è. Quanto alle soluzioni, in tutta onestà, esse mi paiono ancora da ben definire, ma sono qui proprio per ascoltare. Siamo pronti non solo a studiare il problema ambiente in sé, ma anche il modo per risolverlo.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Mi scuso del fatto che questo tavolo non riesca a contenere tutti i relatori, che però sono tutti presenti. Faccio presente che in sala vi sono il comandante del NOE dell’Arma dei carabinieri, Raggetti, il dottor Alessandro Pansa della direzione del servizio centrale operativo della Polizia di Stato; il dottor Tardini della procura della Repubblica di Asti; l’onorevole Sospiri, presidente dell’Associazione ambiente e/è vita; Gian Maria Fara dell’Eurispes.

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. La presenza del ministro non può che indurci a rivolgere a lui la prima domanda, per poi lasciarlo libero nei suoi impegni.

Tra i tanti pericoli che lei ha evidenziato, non si corre il rischio che, vista la diversa velocità dei processi di depenalizzazione già all’esame del Senato e, invece, di valutazione ed introduzione di fattispecie penali specifiche nel nostro codice, alla fine tale attenzione si traduca in una depenalizzazione di quel poco di penale che vi è, senza introdurre una sanzione più efficace, e che la tutela dell’ambiente crolli?

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. La domanda è molto concreta e la risposta deve essere altrettanto concreta. Ci rendiamo conto del fatto che nel nostro Paese, se non depenalizziamo di diritto ovvero non introduciamo sanzioni alternative, di fatto l’estinzione dei reati è attuata attraverso le prescrizioni? Se siamo d’accordo su ciò, mi chiedo se non sia meglio affrontare il discorso introducendo sanzioni amministrative, anche di tipo ripristinatorio. Non è che mi diverta a depenalizzare. Devo sostenere la depenalizzazione perché in Italia abbiamo "penalizzato" troppo, ma non abbiamo strutture sufficienti per smaltire il carico penale. Allora giro a lei la domanda. Che cosa è meglio: avere delle sanzioni che non potranno mai essere applicate perché destinate a prescriversi, oppure prevedere delle sanzioni la cui applicazione è più rapida e snella e, soprattutto, non legata soltanto ad una pena pecuniaria, ma anche ad adempimenti ripristinatori?

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. Potrei rispondere "alla Catalano" che la cosa ideale sarebbe avere il sistema sanzionatorio …

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Eh, lo so!

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. …che lei ha descritto, per riuscire a colpire anche i comportamenti criminali di cui stiamo parlando.

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Si tratta dello stesso problema che mi è stato posto in materia fiscale. Mi è stato detto: tu depenalizzi le contravvenzioni che non servono ma, contemporaneamente, non introduci una nuova frode fiscale?

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. La frode fiscale vera e propria. Esatto. È un po’ lo stesso problema.

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Porre mano alla depenalizzazione è urgentissimo per far funzionare il giudice unico e porre rimedio al blocco della giustizia del nostro paese. Allora, fermo restando l’impegno a studiare e ad introdurre reati nuovi (con tute le difficoltà delle quali ho parlato), credo che, sul piano metodologico, in questo momento sto facendo altro: sto depenalizzando delle norme che non si sono rilevate producenti, perché, se avessero funzionato, forse non dovremmo ora fare i conti con i problemi che abbiamo in materia ambientale.

Si badi: norme come l’omissione di atti di ufficio non sono interessate dal provvedimento; egualmente rimangono alcuni delitti che possiamo ben utilizzare in questa materia.

È un po’ come l’obiezione sollevata da qualcun altro: "Ma come, depenalizzate il gioco d’azzardo mentre la contravvenzione del gioco d’azzardo ci può servire per scoprire la criminalità organizzata?". Sono d’accordo, ma possiamo scoprire, combattere e prevenire la criminalità organizzata anche senza un procedimento penale per il gioco d’azzardo. Non mi illudo di averle dato una risposta soddisfacente, ma è senza dubbio onesta.

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. Si trattava di una domanda onesta, come onesta è stata la risposta.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Scusate solo un attimo. Il ministro ha fatto riferimento ai reati fiscali in analogia con quelli ambientali. Il generale Palmerini, della Guardia di finanza, si trova giustappunto tra i relatori della nostra tavola rotonda.

Federica Cingolani, Giornalista dell’Agenzia ANSA. Posso aggiungere una cosa? Da parte dei procuratori Vigna e Maritati ho sentito un grido di allarme, proprio per il fatto che vi sono le indagini in corso sulla criminalità ambientale ed hanno le armi spuntate, perché non possono far fronte a tali grandi inchieste, che poi si riducono a nulla.

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Il discorso del procuratore Vigna lo abbiamo più volte affrontato con lui, con la Guardia di finanza, con la Polizia e i Carabinieri. Posto che è difficile lavorare ad un’ipotesi di associazione a delinquere di stampo mafioso per commettere delle contravvenzioni, si aprono due vie. Studiamo insieme se sia il caso — credo di aver suggerito forse per primo tale discorso — di introdurre un’associazione a delinquere di stampo mafioso con finalità ambientali; ma ricordate che essa colpisce, reprime, non solo le finalità, prima di tutto il modus operandi fondato sullo sfruttamento della condizione di omertà e di assoggettamento che deriva dal vincolo associativo. Convengo sulla opportunità di potenziare gli strumenti investigativi e le strutture, ma l’obiezione: "Non posso combattere contro la criminalità organizzata ambientale perché mancano fattispecie di danno ambientale" la capisco fino ad un certo punto. Se si tratta di criminalità organizzata, infatti, gli strumenti di diritto sostanziale già esistono. Mi piacerebbe dibatterne ora, ne abbiamo discusso questa estate con il procuratore Vigna a Grosseto, presso la casa editrice Einaudi, e spero che ne parleremo ancora. In questa sede voglio ancora soffermarmi sulla necessità di non distinguere — in quanto non vi è soluzione di continuità — il momento della prevenzione dal momento della repressione. Non vorrei che si finisse per fare la prevenzione solo attraverso la repressione. Anche su ciò credo di aver dato una risposta lacunosa ma onesta.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. In sala è presente anche Francesco Ferrante, direttore generale di Legambiente. Prego i coordinatori Fontana e Cingolani di ricordare che non vi è solo il 416-bis, ma che, ad esempio, stando all’esperienza della Commissione quando ascolta dei magistrati, ci si deve arrampicare sugli specchi per riuscire a perseguire un reato che sia un delitto perché non vi è il delitto, ma solo il reato contravvenzionato.

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Questo avviene perché vi sono solo le contravvenzioni!

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Esatto.

ENRICO FONTANA, Direttore de La nuova Ecologia. Comunque, il tema di riflessione posto dal ministro può trovare immediatamente due momenti di confronto. Penso appunto al senatore Lubrano di Ricco, che si sta occupando della vicenda, qui presente, al quale rivolgeremo una prima domanda, ed al dottor Luciano Tarditi, un magistrato particolarmente impegnato sul fronte delle indagini proprio su tali attività criminali, dal quale ci si attende un contributo.

Federica Cingolani, Giornalista dell’agenzia ANSA. Mi rivolgo al senatore Lubrano di Ricco; infatti, anche nell’ottica di quanto il ministro Flick ha detto, la sua Commissione ha messo a punto un testo legislativo di modifica del codice penale sui reati ambientali. Volevamo sapere la validità di tale testo, se ce lo può illustrare e come si connette con quanto ha detto il ministro, perché lei parla di un nuovo capitolo nel codice penale.

GIOVANNI LUBRANO DI RICCO, Coordinatore del gruppo di lavoro della Commissione sulle modifiche al codice penale. Penso che si possa condividere tutto o quasi tutto ciò che ha detto…

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Tutto, non quasi!

GIOVANNI LUBRANO DI RICCO, Coordinatore del gruppo di lavoro della Commissione sulle modifiche al codice penale. …tutto, meglio che quasi. Non sono d’accordo sulla depenalizzazione approvata dalla Camera con l’articolo 11 in materia di ambiente e di territorio, però si tratta di un argomento che, eventualmente, affronteremo di qui a poco (Commenti del ministro Flick) specie per quanto riguarda i cosiddetti obblighi formali. Il presidente Scalia ha voluto istituire questo gruppo di lavoro per l’introduzione di fattispecie delittuose in materia ambientale. Come ha detto il ministro e come è stato ricordato qualche secondo fa, purtroppo in materia ambientale abbiamo tutta una congerie di reati contravvenzionali, che impediscono la contestazione dell’associazione criminosa, sia quella semplice, che quella di stampo mafioso, sia il 416 che il 416-bis. Tutte le audizioni che sono state fatte dai magistrati e dai procuratori della Repubblica hanno evidenziato tale impossibilità. La competenza per le contravvenzioni in materia di ambiente era fino ad oggi del pretore e, quindi, della procura circondariale presso la pretura, mentre l’associazione di stampo mafioso ed anche quella semplice sono di esclusiva competenza della procura presso il tribunale.

L’istituzione del giudice unico eliminerà tale duplicità, ma non l’impossibilità di contestare l’associazione, il reato associativo, in materia, ad esempio, di rifiuti. Tutti hanno evidenziato anche ieri che la forma più frequente che si incontra in tale tipo di reati è appunto quella associativa; anche lei, signor ministro, ha evidenziato tale esigenza. Ha però anche evidenziato l’opportunità d introdurla nel codice penale, che ha indicato come la sede più opportuna, anche perché occorre dare al giudice uno strumento agile, rapido. Il giudice non può ricorrere alle svariatissime specie di ipotesi contravvenzionali che esistono disseminate nella nostra legislazione. Quindi, da una parte, come è stato detto, vi è stata una iperproduzione che occorre giustamente sfrondare, ma dall’altra non si è avuta una legislazione veramente efficace per i reati contro l’ambiente; perciò ci troviamo in una situazione della quale tutti siamo consapevoli.

Si è parlato di testi unici per il passato, lo hanno annunciato i vari Presidenti del Consiglio dei ministri che si sono succeduti, ma il testo unico in materia ambientale in Italia non lo abbiamo mai visto. Né, d’altra parte, è possibile la custodia cautelare in materia di reati ambientali, proprio perché si tratta di contravvenzioni e, come tutti sanno, non è possibile la custodia cautelare in materia contravvenzionale. Vi è stata una sola ipotesi in tal senso, in caso di inquinamento delle acque e di recidiva, ma nella scorsa legislatura il Parlamento ha eliminato anche l’unica forma presente in Italia di custodia cautelare per un reato contravvenzionale. Allora è questo il momento di introdurre nel codice penale figure chiare. Apro una parentesi: sabato scorso si è svolto un importante convegno a Napoli in materia di giustizia, ed un oratore, un illustre senatore, ha rimproverato ai magistrati una eccessiva funzione interpretativa, che non è propria del giudice, in quanto ha detto che il giudice deve essere la bocca della legge. Ma, se il giudice deve essere la bocca della legge, e quindi non fare supplenza o espletare una funzione interpretativa eccessiva che vada al di là della lettera della legge, occorre che nel nostro ordinamento siano introdotte delle figure chiare e precise in materia ambientale. Cominciamo col dire — voglio essere sintetico — che si parla tanto di ambiente, ma nella nostra legislazione non abbiamo una definizione di ambiente. Allora, signor ministro, se non offriamo la nozione di ambiente, ogni giudice riempirà tale nozione come vorrà e non ci potremo lamentare di questa "pericolosa" — come in quel convegno è stata definita — "funzione interpretativa del giudice".

Abbiamo pensato, in sede di gruppo di lavoro, che la prima cosa da fare fosse introdurre il concetto di ambiente nella nostra legislazione penale. Cosa si intende per ambiente? Abbiamo ritenuto di qualificarlo così: "Agli effetti della legge penale, l’ambiente è nozione unitaria e generale". Abbiamo ricavato tale nozione da una vasta produzione giurisprudenziale sia della Corte di Cassazione, sia della Corte costituzionale e, quindi, dobbiamo evidenziare e porre in risalto il fatto che si tratta di una "nozione unitaria e generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali ed intesa come il complesso delle risorse sia come singoli elementi, sia come siti naturali e delle opere dell’uomo protette dall’ordinamento".

Ovviamente non è che pongo un marchio di esclusività a tale definizione, però si tratta dell’avvio per introdurla finalmente nel nostro sistema (Commenti del ministro Flick).

Signor Ministro, le voglio ricordare che, quando fu approvata la legge Galasso, si parlò di bosco. Ricordo i miei colleghi di allora alle prese con la concezione di "bosco" e di cosa si intendesse con tale nozione. Quando la legge Galasso stabiliva che non era possibile costruire ad una certa distanza dal bosco, ogni pretore interpretava il bosco a suo modo. Ecco perché poi abbiamo differenze anche di trattamento giuridico rispetto ad ipotesi più o meno simili, con grandi differenze. La Cassazione si pronunciò su come si potesse dimostrare l’esistenza del bosco da parte del giudice, il quale doveva svolgere un sopralluogo oppure esaminare anche fotografie, per verificare se si trattasse di un bosco o meno. È evidente che occorre quindi puntualizzare tale nozione. Se poi la nozione che il gruppo di lavoro avrà elaborato piacerà o non piacerà, avrà bisogno di ritocchi, saranno questioni che vedremo in un secondo momento. È importante, però, dire ciò.

Poi, abbiamo introdotto altre due figure di reati, perché i reati che stiamo ipotizzando nell’attuale proposta vogliamo inserirli nel codice penale sotto il titolo VI-bis del libro II. Anche tale collocazione può subire mutamenti: non ce ne dorremo se essa non sarà ritenuta opportuna, però la abbiamo vista così. Abbiamo pensato di inserire dopo l’articolo 452 quello che vi ho detto essere il concetto di ambiente, che va sotto il 452-bis, e poi abbiamo previsto due nuove figure di reato: l’alterazione dello stato dell’ambiente ed i traffici contro l’ambiente. Tutto ciò perché occorre stabilire che chi causi il pericolo di una grave alterazione allo stato dell’ambiente, che è stata precisata ("contaminandolo illegittimamente con sostanze, o energie o in qualsiasi altro modo"), sia punito con la reclusione da uno a sei anni. La sanzione fino a sei anni non sembra eccessiva, perché abbiamo ritenuto che in questo campo occorre fare ricorso alle intercettazioni telefoniche, altrimenti l’accertamento di tali figure criminose diventa difficilissimo. La sanzione dunque non deve essere inferiore a sei anni, altrimenti le intercettazioni non si possono disporre. Ho poi precisato che: "Agli effetti del presente articolo si intende per alterazione grave anche il superamento dei limiti di accettabilità di contaminazione dei suoli e delle acque stabiliti con decreto del Ministro dell’ambiente". Ho previsto, inoltre, un raddoppio di pena in alcuni casi, con la sentenza di condanna. Dal momento che in tale materia oggi è possibile anche il patteggiamento, che esclude automaticamente l’irrogazione di pene accessorie, dobbiamo invece prevedere di irrogare pene accessorie in questa materia. Abbiamo pertanto previsto che, con la decisione emessa ai sensi dell’articolo 444, il giudice possa ordinare la confisca, per sottrarre il bene ai — chiamiamoli così — "delinquenti dell’ambiente". Uso il termine "delinquenti" in senso giuridico, altrimenti qualcuno potrebbe dolersene, in quanto si tratta di un termine prettamente giuridico che spesso incontriamo nei nostri trattati di diritto penale. In caso di condanne "con la decisione emessa ai sensi dell’articolo 444 il giudice può ordinare la confisca delle aree di proprietà dell’autore o del compartecipe al reato, ove l’ordine di remissione in pristino non sia possibile o non venga eseguita o condonata nei termini indicati nella sentenza di condanna".

Occorre che al responsabile di tali reati venga fatto obbligo di ripristinare lo stato dei luoghi, ma spesso non è possibile, perché alcune volte il danno è irreversibile, nel qual caso bisogna confiscare l’area sulla quale è stato commesso il reato. È molto importante effettuare tale azione soprattutto in materia di rifiuti. Ho rivolto molte domande in commissione, ad esempio ai vari procuratori della Repubblica, chiedendo loro quale sia la fine della discarica dissequestrata al termine del processo, senza ottenere alcuna risposta. Occorre sapere — e chi lo sa? — in quali mani vada a finire la discarica abusiva dissequestrata alla fine del processo e chi curi la bonifica della stessa. Nel comune di Napoli è presente la più grande discarica di rifiuti d’Europa, fortunatamente chiusa da qualche anno, la cui bonifica viene attuata dal proprietario della stessa discarica. Ma chi controlla la bonifica? Alla fine della bonifica chi controllerà che essa sia avvenuta? Questi sono tutti punti interrogativi che rimangono tali.

Ho previsto poi un’altra ipotesi: i traffici contro l’ambiente. "Chiunque acquista, scambia, cede o riceve illegittimamente sostanze o energie dannose o pericolose per l’ambiente è punito con la detenzione da due a sei anni." Si tratta dell’articolo 452-quater che, appunto, prevede tale nuova figura di reato di traffici contro l’ambiente.

Abbiamo inoltre previsto delle pene accessorie. All’articolo 28 è prevista l’interdizione dai pubblici uffici. Vi è ad esempio una pena accessoria che in questo campo è molto efficace, ovvero l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. Qualora togliessimo a chi compie atti contro l’ambiente la possibilità di contrattare ulteriormente con la pubblica amministrazione, secondo me li priveremmo della possibilità di continuare a fare ciò che fanno.

Abbiamo previsto poi un’associazione per delinquere contro l’ambiente. Abbiamo infatti introdotto una forma di associazione per delinquere, sulla base dell’articolo 416 del codice penale, però contro l’ambiente. "…Chiunque fa parte di un’associazione formata da tre o più persone allo scopo di commettere delitti previsti dal presente titolo …". Si tratta di reati che ho elencato che possono dare origine ad un’associazione per delinquere.

Concludo dicendo che il delitto più originale che abbiamo previsto è il delitto di ecomafia. Si parla tanto di ecomafia, ma nel nostro ordinamento non sappiamo ancora cosa sia esattamente. Abbiamo pertanto ipotizzato un delitto di ecomafia, che consiste nell’associazione di tipo mafioso di cui all’articolo 416-bis, da punire con le pene ivi previste aumentate di un terzo se le attività economiche delle quali gli associati intendano assumere o mantenere il controllo siano finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, il profitto di reati contro l’ambiente, l’assetto del territorio e le bellezze naturali protette ovvero se le attività economiche, le concessioni, le autorizzazione di appalti e servizi pubblici che l’associazione acquisì, in modo diretto o indiretto, siano destinate alla protezione ed al recupero dell’ambiente.

Ritengo che tale reato sia molto importante, anche se potrà suscitare delle perplessità. Con la rapida lettura che ho dato, coloro che ascoltano non possono farsene un’idea precisa, però ritengo che introdurre finalmente nel nostro ordinamento tale delitto sia veramente importante. Inoltre abbiamo previsto sia il sequestro che la confisca. Occorre togliere agli autori dei reati il profitto; se non lo facciamo, dal momento che l’accumulo di ricchezza in tale settore è enorme da parte degli autori tali reati, essi continueranno a comprare pezzetti dell’ambiente. Togliamo la possibilità a questa gente di comprarsi un po’ di ambiente pagandolo davanti al giudice!

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Non mancano spunti in comune. Tuttavia, vorrei cominciare dai punti sui quali nutro qualche perplessità. Vi confesso che creare un reato — parlo in generale — in cui si deve alzare la soglia della pena per poter utilizzare le intercettazioni, non mi piace (da molti, lo stesso problema è stato posto in materia fiscale). Temo che modulare la sanzione sulle esigenze processuali, nel caso concreto, potrebbe anche essere condivisibile, ma si rivelerebbe, in termini generali, un metodo pericoloso. Inoltre, vi è proprio bisogno di creare un delitto di ecomafia? Non potrebbe essere sufficiente un’ipotesi di aggravante nei delitti che possono interessare tale settore? Siamo sicuri sia necessario costruire un’associazione mafiosa di stampo ambientale?

Il traffico contro l’ambiente rappresenta invece un’ipotesi stimolante e di un certo interesse, anche perché il traffico di materie tossiche, a differenza della condotta di alterazione ambientale grave, è facilmente individuabile. Infatti, per quanto riguarda il delitto di alterazione ambientale ed alterazione irreversibie o grave dell’ambiente, quante condotte occorrono per arrivare a creare l’evento del reato? Lei dà per risolto — e mi auguro possa essere così — il problema che mi ponevo.

MASSIMO SCALIA, Presidente della Commissione. Vorrei dire che molti commissari hanno presente la situazione di Dresano e Lacchiarella, con il famoso Andrea Rossi, il mago che trasformava i rifiuti liquidi tossici in petrolio. Francamente, egli con un solo atto ha creato degli sfasci da decine, anzi centinaia di miliardi, ma ha pagato solamente settecentomila lire di multa.

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. L’ho detto prima: possiamo avere casi in cui una fattispecie così costruita è in grado di colpire i comportamenti dannosi, e su questo siamo pienamente d’accordo.

Mi chiedo invece se sia possibile far conseguire al "patteggiamento", che non porta alcuna conseguenza penale e non comporta nemmeno l’ammissione di responsabilità, l’applicazione delle pene accessorie ed il risarcimento dei danni.

Lo proposi in un disegno di legge, per questi versi assai attuale: affianchiamo al patteggiamento l’ipotesi della sentenza a pena concordata, con questa ammissione di responsabilità, la quale ci consenta maggiori spazi a livello di sanzioni.

Da collega studioso, vorrei da ultimo intervenire sulla definizione di "ambiente". Mi sono cimentato sull’argomento quando studiavo l’articolo 9 della Costituzione. Ricordo il problema che ponevo ai miei studenti all’università quando spiegavo loro che l’articolo 9 non va interpretato solo con riguardo a ciò che è bello nell’ambiente. Se così fosse, i tre quarti del territorio nazionale italiano non sarebbero tutelabili. Pongo invece come spunto di meditazione l’idea dell’ambiente come impatto tra individuo e realtà: una definizione di ambiente di tale tipo non corre il rischio di divenire una conservazione dell’esistente?

Mi parrebbe cioè più facile, ad esempio, costruire una fattispecie come quella sul traffico di sostanze nocive. La definizione di alterazione irreversibile dell’ambiente, che presupponga a sua volta un concetto preciso di ambiente, mi pare abbastanza difficile. Che cos’è l’ambiente? E’ la situazione attuale di interazione tra l’uomo e la realtà circostante o sono i parametri di vivibilità o di tossicità che ci vengono forniti a livello nazionale ed europeo? Quale è l’alterazione dell’ambiente? Incidere ulteriormente, ad esempio, su una situazione già compromessa? (Commenti del senatore Lubrano di Ricco). Ecco perchè ho preso la parola: soltanto per difendermi, perchè so di essere imputato...

GIOVANNI LUBRANO DI RICCO, Coordinatore del gruppo di lavoro della Commissione sulle modifiche al codice penale. No, per carità!

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. No, stavo scherzando. So bene che possiamo lavorare e confrontarci sul tema, riconoscendo però che si tratta di un grosso problema.

GRAZIA FRANCESCATO, Presidente del WWF. Un flash brevissimo prima che il ministro vada via. Cogliamo la palla al balzo e siamo ben felici della sua proposta di lavorare insieme e quindi di incontrarci nuovamente per ridisegnare la normativa; non soltanto, me lo permetta, non la voglio vedere in veste di imputato (è solo una punta di polemica credo legittima), per arginare il fenomeno dell’ecomafia e degli illeciti, ma anche l’ancor più preoccupante fatto che il Governo italiano fa leggi che poi trasgredisce. Mi riferisco, ad esempio, al procedimento aperto dalla Corte di giustizia europea ed alla condanna dell’Italia nel giugno scorso, data perché ancora vengono quotati in borsa i rifiuti in base ad un decreto del 1993, reiterato ben 18 volte. È solo un esempio ma potrei qui fare una casistica infinita. Dobbiamo dunque fare in modo che l’apparato di applicazione normativa e di controllo pubblico sia efficace ed efficiente: questo è il nodo, altrimenti potremmo indugiare sulla definizione di ambiente e di degrado ambientale per altri ciquanta anni, ma poi, nei fatti, le cose andranno come tutti sappiamo.

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Sono pienamente d’accordo!

Vi ringrazio e vi chiedo scusa e mi auguro…

GRAZIA FRANCESCATO, Presidente del WWF. La talloneremo.

GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. …che potremo proseguire questo discorso. A tutti, buon lavoro.

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. Invito gli altri relatori a recarsi al banco della presidenza; vedo che si stanno avvicinando l’onorevole Nino Sospiri, il dottor Luciano Tarditi ed il colonnello Nicola Raggetti, comandante del Nucleo operativo ecologico, poi ancora il dottor Alessandro Pansa e Francesco Ferrante.

Direi che per comodità, se tutti i relatori che devono intervenire oggi, per lo meno come previsto dal programma iniziale, si avvicinassero, senza evocarli, ci risolverebbero la vita. Poi potremo effettuare gli altri interventi.

Ora mi trovo davanti ad una splendida scena di cortesia tra l’Arma dei carabinieri e la Guardia di finanza, così viene fatta giustizia ai tanti luoghi comuni.

Credo che il Ministro di grazia e giustizia abbia messo talmente tanta carne al fuoco per le nostre riflessioni, che le domande che avevamo preparato con Federica Cingolani rischiano di diventare pleonastiche. Comunque, se Federica è d’accordo, proviamo a sviluppare un ragionamento che avevamo compreso nella nostra scaletta.

È ora previsto l’intervento del dottor Luciano Tarditi, del quale faccio una breve presentazione. È sostituto procuratore presso il tribunale di Asti. Ha condotto e conduce diverse indagini giudiziarie su tale versante e non solo, in particolare sulla proiezione nazionale ed internazionale dei traffici illeciti sui rifiuti.

Fatta salva la facoltà per ognuno di voi di commentare quanto avete sentito finora, tenendo conto che il ministro non c’è più e quindi non può godere del diritto di replica, vi invito — ma sono sicuro che sarà così — ad un ragionamento da fare insieme. La domanda è la seguente: l’attenzione si è concentrata molto sull’illegalità del ciclo dei rifiuti nel nostro paese, ma esiste anche un versante, quello dei traffici internazionali, che dopo l’estate delle navi dell’ENI, che sulla stampa italiana fece tanto clamore, sembra finito nel dimenticatoio. Ho detto che lei ha già condotto indagini in tale settore e ne ha tuttora in corso. Può, in linea generale, dirci qual è la situazione e con quali strumenti la combatte?

LUCIANO TARDITI, Sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Asti. Dopo le parole del ministro, senza strumenti (Si ride). O meglio: continuando a fare le capriole per cercare di reprimere gravissimi delitti puniti da tutte le legislazioni europee con le stesse sanzioni indicate nei vari disegni di legge; continuando a contrastarli con un regime contravvenzionale, che, com’è noto, prevede una prescrizione — notare bene — in tre anni di fatti di una notevole complessità che possono arrivare fino a quattro anni e mezzo (da intendersi non da quando il fatto viene scoperto, perché spesso viene scoperto parecchio tempo dopo il suo accadere, ma da quando è accaduto e interponendosi nel frattempo tre gradi di giudizio e magari qualche annullamento ove, per caso, si fosse presentata qualche speranza di chiudere il processo). In questo quadro la prescrizione è certa, non solo probabile; inoltre il regime contravvenzionale può consentire anche l’oblazione. Quindi, pagando, si permette a gente che guadagna miliardi di chiudere il processo, essendo impedito inoltre di configurare il tentativo, perché con le contravvenzioni non è possibile configurare il tentativo (ovvero la commissione di atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere appunto un delitto e non una contravvenzione), ed essendo infine impossibile contestare il regime di associazione a delinquere. Abbiamo infatti ascoltato e sappiamo che una associazione a delinquere può essere configurata solo in relazione a delitti e non a contravvenzioni. Allora, francamente trovo un po’ stupefacente l’argomentazione in forza della quale dovremmo inventarci un’associazione a delinquere per le contravvenzioni! Dobbiamo invece tranquillamente trasformare le contravvenzioni in delitti. Guardate che si tratta di un fatto puramente nominalistico, ma con gravissime conseguenze pratiche perché tutti sanno, non solo gli studiosi (ed anzi è sufficiente essere studenti in giurisprudenza), che nessuno ha mai individuato con precisione la distinzione tra i delitti e le contravvenzioni. Solitamente si finisce per dire alla buona che le contravvenzioni sono delitti "nani", cioè un po’ meno gravi, tant’è vero che vengono anch’essi puniti con una pena anch’essa detentiva, l’arresto, ed una pecuniaria, l’ammenda, mentre i delitti sono puniti per mezzo di una pena detentiva, la reclusione, ed una pecuniaria, che consiste nella multa. L’altro giorno stavo preparando gli appunti per il convegno di oggi e, tramite il telegiornale, ho appreso che su un’autostrada del Nord si era rovesciato un camion, che aveva perso un po’ di fusti, intossicando automobilisti e poliziotti intervenuti. In tal caso si tratta di sostanze assolutamente di altissima pericolosità, contenute in fusti anonimi. L’autista si è dato alla fuga. Se fosse stato individuato, non si sarebbe potuto fare nulla se non denunciarlo a piede libero per una contravvenzione. Naturalmente si sarebbe potuto invece arrestare, ove fosse stato sorpreso, per la cessione di uno spinello, con arresto facoltativo in flagranza, ma vi assicuro che ciò non rappresenta delle costanti. Sicuramente, al contrario, gli arresti in flagranza per la cessione di quantità infinitesime di sostanze stupefacenti avvengono sistematicamente. Si sarebbe anche potuto arrestare, volendo, anche per il furto di una mela, ma l’arresto non può essere effettuato per la situazione della quale abbiamo parlato e cioè per i più gravi delitti in materia ecologica e ambientale.

A questo punto, a mio avviso, dobbiamo parlarci chiaro. È inutile che si facciano convegni, che si scrivano parole o che si dibatta o ci si chieda come i traffici internazionali avvengono quando, poi, la situazione a livello nazionale è questa!

Cosa si deve fare? Si deve continuare a lavorare in modo, secondo me, non serio e, tecnicamente, sempre più in salita, perché occorre fare ciò che si è cercato di fare in quelle poche occasioni in cui un po’ la fantasia ed un po’ la fortuna ci hanno aiutato, cioè come già si faceva con Al Capone, cercando sempre di passare attraverso i reati fiscali. A proposito di ecomafie, occorre dire che, come ho detto mille volte, sul discorso delle ecomafie va benissimo richiamare l’attenzione sul fatto che certe regioni d’Italia sono militarmente occupate dalle mafie classicamente intese, però guardate che al Centro e al Nord esistono strutture criminose che non sono affatto collegabili alle ecomafie. Sono strutture di imprenditori criminali che guadagnano miliardi, che non si sognano di avere la coppola storta o la lupara o Totò Riina tra le proprie fila, ma stanno effettuando traffici di navi che dal nostro paese in questo momento stanno partendo per paesi africani con destinazione in discariche da un milione di tonnellate di tossico-nocivi. Ve lo dico con cognizione di causa, per aver sentito conversazioni indirette di personaggi che stanno organizzando traffici in paesi africani. Gli interramenti di tossico-nocivi, ci mancherebbe altro, sono quelli che costano di più per lo smaltimento e quindi rendono di più; infine i nucleari, ove occorra. In queste conversazioni risulta che vi è già l’intesa col capoclan locale. Si tratta di paesi formalmente indipendenti, in realtà sottoposti alla dipendenza ed alla miseria più nera ed a clan famelici locali, i quali non trovano di meglio che accordarsi con gli imprenditori rampanti dell’Occidente che lì scaricano i loro veleni.

Questa è la situazione. Quando abbiamo una situazione del genere, la possibilità di operare deve essere attuata attraverso forme strane, arzigogolate e contorte utilizzando al meglio i reati fiscali. Uno dei meccanicismi dei quali questi signori, all’interno del territorio nazionale – mi riferisco principalmente ai movimenti intraterritoriali —, si servono, di solito consiste nel collaudatissimo sistema dell’utilizzo e dell’abuso dei centri di stoccaggio, all’interno dei quali viene effettuata la declassificazione – e lo diciamo per l’ennesima volta – dei documenti di accompagnamento dei rifiuti. Il fatto determina appunto la declassificazione e quindi, stando alle carte, la legittima introduzione in discarica abilitata eventualmente a ricevere un certo tipo di rifiuto e non un altro, fatta in forza di pretese lavorazioni e trattamenti che non sono avvenuti ma che, tra l’altro, sono stati pagati, e ciò determina l’ipotesi di truffa. Quando avvengono tali situazioni, come si fa ad operare?

Il ministro ha detto che i reati fiscali sono stati in parte un fallimento. È vero, però l’articolo 4 che stabilisce la reclusione da uno a cinque anni per un delitto (mentre in tutte le altre ipotesi, della legge n. 516/82, sono contravvenzioni), e in particolare le ipotesi dell’articolo 4, lettere A, B, C e, soprattutto, D e per fatture false, hanno fatto "sfracelli". Hanno consentito di configurare le associazioni a delinquere finalizzate all’emissione di fatture per operazioni inesistenti e sono esattamente quelle in forza delle quali riusciamo a fare un po’ di contrasto in materia ambientale! In che modo? Se io effettuassi la declassificazione attraverso il cosiddetto "giro di bolla" e, quindi, sostanzialmente attraverso altri documenti di accompagnamento, attestassi che sono avvenute lavorazioni su un rifiuto che in realtà non è stato neanche visto, ma mi limitassi a falsificare i documenti di accompagnamento, a copertura ed a quadratura delle operazioni dovrei anche fare fatture false per giustificare operazioni e passaggi. Ed ecco che, grazie a Dio, scatta la possibilità di configurare l’ipotesi di emissione di fatture per operazioni inesistenti e, ove il fatto non sia episodico, ma reiterato e posto in essere da almeno tre persone, la possibilità di configurare l’associazione a delinquere finalizzata all’emissione di fatture per operazioni inesistenti. In tal modo, si dà inizio all’ascolto ed all’intercettazione telefonica. Non è poi vero ciò che è stato detto circa il fatto che occorra necessariamente raggiungere determinati limiti edittali di pena per poter attivare delle intercettazioni telefoniche. È vero entro certi limiti; cioè, se si prende l’articolo 266 del codice di procedura penale si vedrà che, in sostanza, è possibile attivare l’intercettazione telefonica per ipotesi di delitti non colposi, cioè dolosi, per i quali è prevista la pena dell’ergastolo, della reclusione superiore al massimo a cinque anni, quindi almeno cinque anni ed un giorno. Ecco il motivo per cui tutte queste proposte vanno da uno a sei anni. Possiamo fare però anche qualcosa di meno, perché la lettera B afferma: "delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore a cinque anni", tipo la corruzione. Allora, vedete che stiamo scendendo; non vogliamo a tutti i costi infierire con le pene, anche se, in relazione a reati così gravi, come quelli ambientali, non mi pare affatto di infierire. Comunque si può scendere ancora: viene prevista l’intercettazione telefonica anche per le molestie telefoniche. Voi potreste ora dire che è intuitivo. D’accordo, ma considerate che si tratta di un’ipotesi di reato di pretura punito con qualche mese di reclusione. Quindi basta intendersi: si fa una piccola modifica e, se tutto il problema è nel fatto che non ci piace punire fino a sei anni, puniamo fino a cinque o quattro, inseriamo una lettera F o G in forza della quale possiamo benissimo parlare di reati in materia di traffico di rifiuti. Non voglio mica riferirmi a tutte le possibili violazioni formali che si possono verificare oppure un fatto episodico di sversamento! Ci mancherebbe altro, però, per colpire almeno quelli che inviano un milione di tonnellate di tossico-nocivi in Africa, forse potrebbe anche venirci in mente.

Questo è uno dei profili.

Certo, sono un modestissimo operatore, poco avvezzo ad avventurarmi sui sentieri della teoria pura e, quindi, ho imparato un sistema pragmatico che consiste nel vedere cosa fanno gli altri, specie quando hanno dimostrato di essere più bravi. Quindi, insieme con le persone che, con me, hanno collaborato alla stesura di una bozza di progetto come base di partenza e di discussione in materia di definizione di nuovi reati ambientali ci siamo detti: vediamo cosa fanno gli altri, i tedeschi, mitici perché efficienti e sensibili, i francesi ed anche gli spagnoli, dai quali faremmo bene a imparare ed a guardare molto perché cominciano a darci dei punti anche sotto tale profilo. Nel codice penale tedesco ci si è posti problemi sottili su cosa sia il concetto di ambiente e quant’altro, ma alla fine hanno scritto: "Inquinamento idrico: chiunque inquina abusivamente un’acqua o altrimenti ne altera le caratteristiche in maniera pregiudizievole è punito con la pena detentiva sino a cinque anni" e basta; "…il tentativo è punibile", "…l’inquinamento atmosferico ed acustico…" spiega tutto quanto "fino a cinque anni". Ve ne è tutta una serie: "Eliminazione dei rifiuti pericolosi per l’ambiente: chiunque al di fuori di un impianto autorizzato, derogando in maniera essenziale abusivamente tratta, immagazzina depositi a scarico o altrimenti elimina rifiuti…fino a tre anni". Poi: "Impiego non autorizzato di combustibili nucleari..." non vi dico. Poi: "Grave esposizione a pericolo dell’ambiente con la pena detentiva da tre mesi a cinque anni". Quindi, non vorremmo nulla di più, nulla di meno di ciò che i tedeschi fanno. Inoltre essi dicono che "nei casi particolarmente gravi, la pena della detenzione va da sei mesi a dieci anni". Un caso particolarmente grave sussiste, di regola, quando l’autore mediante il fatto pone in pericolo la vita o l’integrità fisica di un gran numero di persone, cagiona per colpa grave la morte di una persona o una lesione personale grave, "…Grave esposizione a pericolo mediante emissione di sostanze tossiche: chiunque diffonde e libera veleni nell’aria, nell’acqua, nel suolo ed in altra maniera e, con ciò, espone altri a pericolo di morte o lesione personale grave, è punito con la pena detentiva da sei mesi a dieci anni". Beh, insomma…

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. Posso farle una domanda? Lei sarebbe soddisfatto dell’inserimento di tali norme tradotte dal tedesco all’italiano?

LUCIANO TARDITI, Sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Asti. Vedete, prima ho parlato anche del codice penale spagnolo, anch’esso molto pragmatico. Sono d’accordo che ci facciamo carico di tutte le problematiche, va bene che siamo in un momento storico nel quale occorre forse fare i conti con un eccesso di sanzioni penali erogate e che magari non hanno dato tutti i risultati desiderati. Intanto vorrei dire che, quando si è voluto indagare seriamente, trovare le prove ed applicare severamente le norme, esempi e soluzioni a certi problemi sono stati dati. In ogni caso, mi riferisco proprio alle situazioni gravi, quindi ai traffici; le situazioni gravi sono quelle relative alle esportazioni verso paesi terzi e, all’interno del territorio nazionale, a truffe gigantesche ai danni degli enti pubblici quando, in sostanza, viene dato in appalto un servizio e si fa figurare nel prezzo che l’oggetto del servizio verrà portato a mille chilometri di distanza e, quindi, viene stabilito un determinato prezzo per il corretto smaltimento e poi lo si sversa a pochi chilometri, come nel caso individuato dalla procura di Rimini, oppure il contrario, ovvero si fa vedere che si va in una struttura vicina e legale, autorizzata, quando, invece, la sostanza viene sversata a mille chilometri di distanza! Questi sono i fatti!

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. Dottor Tarditi, voglio rivolgerle una domanda maliziosa che, tra l’altro, lo confesso, mi è stata suggerita dal presidente della Commissione. Gliela faccio, se lei vuole rispondere. Per indagare sulla discarica di Pitelli, a La Spezia, come ve la siete cavata? È stata la procura di Asti che ha aperto…

LUCIANO TARDITI, Sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Asti. Non ho difficoltà a spiegarlo ed anche a dare una certa chiarezza espositiva nel rappresentarlo. In Asti era stata individuata una struttura che si prestava a fare il giro di bolla per rifiuti che da La Spezia, senza averne titolo perché non potevano essere extraregionalizzati, venivano ad intasare le discariche della zona a sud di Torino, commettendo, tra l’altro, una truffa ai danni di coloro i quali gestiscono tali impianti, che vengono riempiti prima del tempo con rifiuti che non avevano titolo ad entrarvi. Abbiamo visto che provenivano dal consorzio della raccolta di La Spezia, il CONIR, e venivano regionalizzati col sistema che ho spiegato prima: si assumeva che avvenissero determinati trattamenti di modo che i rifiuti potessero essere trasformati nella loro natura e, a questo punto, venivano legittimamente — diciamo così — scaricati in Piemonte, perché provenienti da una struttura astigiana, sulla quale indagavamo. A questo punto, per chiudere il sistema, la società astigiana, in base a una serie di accordi che aveva con gli spezzini, faceva figurare operazioni di trattamento, riducendo di poche decine di chili i quantitativi di tali materiali che arrivavano dall’autostrada ed uscivano dallo svincolo di Asti ovest, sul cui piazzale li aspettava l’omino che faceva il giro di bolla. Il TIR girava e rientrava dall’altra porta dello sbocco autostradale per andare a Torino, dove veniva effettuato lo scarico. Fittiziamente veniva così dimostrato che ad Asti era avvenuta la lavorazione ed il trattamento; infatti, ogni carico veniva abbattuto di qualche decina di chili, motivando tale operazione con pulizia, selezione ed altro. A questo punto, i rifiuti risultavano prodotti in Piemonte e, legittimamente, potevano essere rovesciati a Torino. Per, ripeto, quadrare il sistema in modo che, ad un controllo successivo, l’operazione non potesse essere scoperta, avveniva tutto un sistema di fatturazioni per operazioni parzialmente inesistenti. Partendo dal fatto che le stesse erano sistematiche e coinvolgevano più persone, iniziammo a fare un’intercettazione telefonica su determinate utenze, ascoltando le quali si sentiva continuamente dire:

"Non lo posso introitare perché non è sulla lista..." per la quale sono legittimate ad introitare. Allora un interlocutore ha detto: "Che cosa puoi prendere?" "Posso prendere questo tipo" e la risposta poteva essere "Va bene, allora compiliamo il documento di accompagnamento in questo modo e basta". Poi vi era la raccomandazione, una volta arrivato il carico, che diceva: "Siamo a posto, purché la carta sia a posto; non vi è problema". A mio avviso, sentire e vedere cose del genere esplicita più di tantissime altre conferenze la problematica che vi è sotto. Mentre ascoltavamo tali discorsi, abbiamo anche individuato altri tipi di attività che in quella discarica avvenivano da decenni, come l’interramento e lo sversamento di materiale di qualsiasi genere di discarica, che partì vent’anni fa come discarica per inerti ed avrebbe dovuto essere riempita in pochissimi anni con il ripristino della situazione, quindi si sarebbero dovute piantare sopra delle piante, e infatti poi si è visto cosa hanno fatto. A questo punto, con l’ausilio anche delle prove trovate, si è riusciti a configurare finalmente un delitto: l’ipotesi di disastro ambientale o eventualmente avvelenamento di acque, che mi consta sia stato ora contestato anche dalla procura di La Spezia. Infatti all’interno di quell’incavo naturale correva un rio che è stato ricoperto di rifiuti, così oggi, tramite gli accertamenti che in sede di incidente probatorio la procura della Repubblica ed il GIP di La Spezia hanno potuto fare, hanno configurato rispetto o, credo, ulteriormente alla nostra configurazione di disastro ambientale, l’avvelenamento di acque. L’ipotesi di disastro ambientale si è potuta configurare in quanto vi erano gli edifici intorno, ma dico questo: non sempre si ha la "fortuna" — anche perché fortune tali è meglio non augurarsele — di avere discariche di tale genere, perché se si trovano in aperta campagna o, comunque, si limitano ad avvelenare il terreno e l’aria, non si può però dire che in quel momento stanno avvelenando la gente.

Federica Cingolani, Giornalista dell’agenzia ANSA. Grazie. Vorrei invitare al tavolo anche Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes, ultimo relatore, se riusciamo a stringerci ulteriormente. Intanto proseguiamo.

Sentiamo il punto di vista delle forze dell’ordine. Comandante Raggetti, il Nucleo operativo ecologico dei carabinieri è, ormai, una realtà consolidata nel paese. Nel corso di circa dieci anni di attività è riuscito a vedere con occhi verdi la realtà italiana.

NICOLA RAGGETTI, Comandante del NOE dell’Arma dei carabinieri. Sono grigi!

Federica Cingolani, Giornalista dell’agenzia ANSA. Sì, infatti sono grigi, comunque hanno svolto milioni di controlli sul territorio italiano. Vorrei sapere quali fotogrammi può trasmetterci, in particolare per quanto riguarda il circuito illegale dei rifiuti. Cosa ha visto, cosa è cambiato in tutti questi anni?

NICOLA RAGGETTI, Comandante del NOE dell’Arma dei carabinieri. Innanzitutto grazie, lo ripeto, per gli occhi verdi. Non è facile dare una risposta alla sua domanda, perché in effetti, se è pur vero che il comando di un reparto come il NOE ci pone in una posizione di privilegio, ci dà modo di vedere la realtà in questo particolare settore della vita del nostro paese, non è facile dare una risposta perché purtroppo i segnali sono quanto mai contrastanti. In dieci anni sono cambiate tante cose, alcune sono rimaste immutate. Uno dei segnali positivi che posso intravedere nell’esperienza decennale può, ad esempio, essere rappresentato dall’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica, dal privato cittadino agli organi di Governo e parlamentari. Sicuramente anche lo strumento normativo posto a nostra disposizione come forze dell’ordine per contrastare tali fenomeni, negli anni ha avuto dei miglioramenti; sicuramente, per mezzo del decreto Ronchi sono stati fatti dei grossi passi in avanti, almeno per quanto ci riguarda. In maniera specifica, ad esempio, dico una cosa: ci è stata attribuita la qualifica di ispettori ambientali e, quindi, ci è stata data la possibilità di accesso nelle aziende e tutto il resto. Purtroppo, dall’altra parte vi sono dei gravissimi segnali negativi, uno dei quali è sicuramente l’immutato interesse della criminalità organizzata per tale tipo di attività illegale. È quindi difficile non concordare con le parole del dottor Tarditi o con le stesse parole del senatore Lubrano di Ricco: purtroppo, fin quando continueremo a contrastare tale tipo di criminalità organizzata con delle semplici contravvenzioni, soprattutto finché non togliamo a questi signori l’utile, il provento della loro attività delittuosa, ci troveremo sempre a combattere con delle armi spuntate. Questa è la triste realtà. Ripeto, in qualità di operatore di polizia, non posso che augurarmi che con le norme delle quali si sono fatti portavoce la commissione nominata dal ministro Ronchi sull’ecomafia e lo stesso gruppo di lavoro coordinato dal senatore Lubrano di Ricco, avvenga la rapida introduzione delle nuove figure di reato nel nostro ordinamento giuridico.

Per quanto più da vicino ci riguarda come nucleo, certamente in dieci anni è cresciuto: siamo passati da poche unità, quaranta unità iniziali quando siamo nati, anche se non siamo cresciuti di molto, e, grazie a Dio, siamo arrivati a circa centosessanta unità, con una presenza sul territorio abbastanza capillare. Proprio per dare un segnale concreto, in questi giorni in un’area particolarmente sensibile del territorio nazionale come la provincia di Caserta o la regione Campania, non svelo alcun segreto se dico che tra qualche settimana verrà aperta una nuova sezione del nucleo proprio a Caserta. Quindi, questo vuole essere un segnale forte della presenza dello Stato in un’area particolarmente sensibile. Di certo con otto, nove o dieci uomini nel nucleo non risolviamo i problemi della provincia di Caserta e nessuno si illude di farlo: l’importante è, come dicevo e ripeto, che le norme che tutti auspichiamo vengano quanto prima introdotte nel nostro ordinamento giuridico.

ENRICO FONTANA, Direttore de La nuova Ecologia. Ringrazio il comandante Raggetti per l’estrema sintesi. Ora al dottor Alessandro Pansa non chiediamo di pronunciarsi sui reati contro l’ambiente; se vuole, ovviamente, ne ha ampia facoltà. Invece, la riflessione è un’altra e riguarda le questioni connesse alle attività economiche illegali, che pure sono state suscitate dall’intervento del ministro Flick e dai successivi interventi.

Prendiamo un caso concreto: la Guardia di finanza, nel maggio scorso, ha presentato in un convegno dell’Associazione nazionale magistrati, svolto a Torre Annunziata, i risultati di un monitoraggio degli appalti per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti in Campania negli anni 1991-1992. Sono emersi due dati: il primo riguarda l’infiltrazione della camorra in tale attività (verrebbe quasi da dire che è un fatto scontato, aggiungo purtroppo); il secondo, che, invece, credo sia il più interessante e sul quale vorrei ascoltare una sua opinione, è proprio questo: tutte le volte in cui l’aggiudicazione degli appalti avviene da parte di imprese controllate dai clan criminali, i prezzi sono di due o tre volte superiori ai prezzi di mercato e, ovviamente, non vi è spazio per la concorrenza. Quindi, non vi è soltanto un problema di penetrazione di soggetti criminali, ma il cittadino che vive nei comuni dove il servizio è garantito da tali presunte imprese paga due, tre volte in più rispetto al prezzo di mercato.

Lei è un esperto di criminalità economica. Come si possono fronteggiare e, se possibile, sconfiggere fenomeni di tale tipo?

ALESSANDRO PANSA, Direttore del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato. Prima di tutto, direi il motivo per il quale i prodotti o i servizi dell’impresa criminale sono più cari di quelli dell’impresa legale. Abbiamo ormai da tempo assimilato tale binomio: mafia e impresa. Però, nello stesso tempo, dobbiamo dire che i mafiosi sono dei cattivi imprenditori, e, quindi, che le imprese dei mafiosi sono delle cattive imprese. I mafiosi non sanno fare gli imprenditori, ma lo fanno in quanto utilizzano una serie di strumenti per poter entrare nel mercato, dispongono di danaro che non costa nulla, hanno capacità intimidatoria e usano la violenza; quindi possono entrare facilmente nel mercato e controllarlo. Ciò li agevola, ma non li fa diventare dei bravi imprenditori. Tutte le volte che le aziende o le società, individuate nel corso delle indagini, sono risultate gestite da imprenditori criminali, il dato saliente che è emerso è stato l’incapacità assoluta di gestire, secondo i principi della produttività e dell’economicità, l’azienda. L’altro dato, ovvero il motivo per cui i costi sono sempre maggiori, rispetto alle aziende sane, consiste nel fatto che di per sé il crimine è predatorio, prende tutto ciò che può, quanto più può e fino a quando può. Quindi occorre dire che il fatto che i costi siano maggiori per il cittadino è connaturato. Ancora di più: l’impresa criminale scoraggia la concorrenza in quanto non deve lottare contro di essa, sulla base dei canoni della competitività, potendosi avvalere di strumenti quali l’intimidazione, la violenza e la paura. Tutto questo non rende necessario che si faccia una giusta valutazione tra costi e ricavi e, ancor più, perché la rendita criminale è una rendita che va distribuita non sulla base del contributo alla produzione, o di chi ha messo a disposizione i mezzi produttivi, ma sulla base delle gerarchie dell’organizzazione criminale, che prescinde completamente dalla redistribuzione del redditto nell’impresa produttiva. Tale meccanismo chiaramente comporta, ad esempio, che la raccolta dei rifiuti viene gestita da un’azienda che ha dovuto competere, nella gara dei ribassi e dei costi, con un’altra che doveva, allo stesso modo, togliere loro la possibilità di appannaggio. Abbiamo quindi un meccanismo che identifica quasi sempre l’impresa criminale con un’impresa non competitiva.

Per completare tale ragionamento e per toccare alcuni dei temi sollevati precedentemente dagli altri relatori sui quali volevo in qualche modo esprimere la mia opinione, occorre dire che nel settore ambientale le imprese che compaiono non sono solo quelle mafiose. Con ciò intendo, oltre le imprese connotate dai caratteri del 416-bis — non volendo fare un ragionamento prettamente giuridico ma forse più sociologo —, anche quelle della criminalità organizzata tradizionale del Meridione d’Italia, che tutti conosciamo, che non opera solo nel Mezzogiorno, ma in tutta Italia ed anche all’estero. Non si tratta solo di esse. Vi è anche una realtà d’imprese, organizzazioni ed associazioni che non hanno il carattere di tale genere di mafiosità, ma che, a mio avviso, integrano perfettamente i caratteri della criminalità organizzata. Se analizziamo i reticoli di impresa cui faceva riferimento il dottor Tarditi, da un punto di vista della fenomenologia criminale, come si comportano? Quali sono le loro caratteristiche? Hanno strumenti organizzativi complessi: mezzi di trasporto e capacità di operare in varie parti del territorio nazionale ed all’estero. Hanno uomini e mezzi, quindi hanno un’organizzazione complessa. Cosa fanno? Commettono reati; corrompono, alterano le fatture, quindi violano le leggi, alterano i bilanci, quindi violano le leggi, addirittura, esercitano forza intimidatoria, hanno bisogno di una risorsa professionale anche criminale.Gli autotrasportatori, ad esempio, che trasportano determinate sostanze, debbono saper scappare quando è il momento opportuno, debbono saper percorrere le strade non controllate, debbono saper occultare i beni che trasportano. Tutta questa professionalità è del tutto simile a quelle che evidenziano i trafficanti di droga, di esseri umani e di armi. Si può, quindi, dire che ci troviamo di fronte a delle imprese nelle quali non si parla siciliano, forse non si parla napoletano o calabrese o pugliese ma, sicuramente, si tratta di imprese criminali che operano allo stesso modo di quelle prettamente mafiose, alle quali siamo più abituati. A questo punto, le possibilità d’intervento in qualche modo aumentano, anche se vi sono dei limiti oggettivi che la norma pone e che sono stati ben evidenziati. Sono d’accordo che occorre penalizzare alcuni comportamenti in ambito penale, come nello stesso tempo sono d’accordo su quanto dice il ministro Flick, ovvero che non bisogna esagerare con la criminalizzazione. Tuttavia, a mio parere, in entrambi i casi occorre tenere presente un criterio, ossia la necessità che le norme siano applicabili, che siano norme che poi veramente possano essere traducibili in termini pratici.

Ad esempio, nella proposta precedentemente illustrata, giustamente si parla di sequestro e confisca nello stesso modo in cui si parla di sequestro e confisca quali misure patrimoniali contro le organizzazioni criminali e contro la mafia. Poniamoci però il problema: sequestro e confisca, nella lotta alla criminalità organizzata di tipo mafioso, non è che funzionino tanto bene, e non se ne capisce neanche poi tanto il perché, in quanto norme e strumenti ve ne sono, e, forse, addirittura troppi. Sono stati messi in campo fior fiore di investigatori, i quali si sono cimentati con grande successo nella lotta alla criminalità organizzata, alla droga, al traffico delle armi e nella cattura ai latitanti, ma non riescono a trovare questi "benedetti beni" della criminalità. Il dato è o che non ne siamo capaci, quindi è meglio che ci mandino a casa un po’ tutti quanti, oppure probabilmente i meccanismi di ricerca non sono validi, non perché manchino gli strumenti legislativi, ma perché non esiste il catasto e non esistono gli strumenti di raccolta delle informazioni. Vi è il problema di dove reperire le informazioni. Quindi, la ricerca di tali beni è onerosissima. Più di me, può dirvelo il collega della Guardia di finanza: si lavora mesi e mesi per trovare un patrimonio e per addebitarlo o, meglio, per individuare la titolarità del patrimonio e dimostrare che essa è vera per poter poi addivenire al sequestro e, successivamente, alla confisca.

Anche nel settore ambientale questi provvedimenti possono essere sicuramente strumenti validissimi, ma debbono essere applicabili, cioè debbono essere strumenti dei quali sia possibile fare un uso reale per non sentirsi dire che, in sedici anni di applicazione della normativa antimafia, in tema di sequestri abbiamo forse sequestrato un centesimo — secondo alcuni, secondo altri un millesimo — del patrimonio criminale.

ENRICO FONTANA Direttore de La Nuova Ecologia. Il dottor Pansa ha tirato la palla direttamente al generale Castore Palmerini il quale, oltre ad essere generale della Guardia di finanza, è vicecapo di gabinetto al Ministero delle finanze. È stato qui più volte evocato il ciclo di evasione fiscale connesso a tali attività e la difficoltà, come ha ricordato il dottor Pansa, di colpire il sequestro e la confisca dei beni, le truffe, la strumentazione della criminalità economica applicata in campo ambientale. Dal suo osservatorio e per la sua esperienza, cosa si può fare concretamente già oggi e di quali novità vi è bisogno per essere più efficaci?

CASTORE PALMERINI, Generale della Guardia di finanza. Inizierei proprio dall’amara constatazione formulata dal dottor Pansa circa le difficoltà ed i tempi necessari per individuare i patrimoni appartenenti ad organizzazioni criminali di stampo mafioso, al fine di poter applicare le misure di prevenzione di carattere patrimoniale del sequestro e relativa confisca.

In diverse occasioni, infatti, nel momento in cui vi è possibilità di sequestrare e successivamente confiscare beni o proventi di attività illecite, sorgono difficoltà derivanti dal fatto che tali beni risultano difficilmente individuabili. Ciò dipende anche dal fatto che il provvedimento di sequestro viene emanato successivamente ad una sentenza quanto meno di primo grado, con tutte le conseguenze possibili.

Per risolvere tale problema suggerirei un’idea che trae origine da un provvedimento molto interessante della procura della Repubblica di Caltanissetta nei confronti del noto Totò Riina ed altri, che si sostanzia in un’anticipazione dei tempi con l’emanazione di un provvedimento di sequestro conservativo. Mi spiego meglio. L’articolo 316 del codice di procedura penale, per salvaguardare le garanzie di pagamento delle pene pecuniarie, delle somme dovute all’erario dello Stato, delle spese di procedimento, ecc., attribuisce al pubblico ministero la facoltà di chiedere in ogni stato e grado del processo il sequestro conservativo dei beni mobili o immobili dell’imputato. A tal fine sarebbe necessario introdurre, per le violazioni alle disposizioni dettate dal decreto Ronchi, sanzioni pecuniarie di una tale entità che giustifichino l’adozione del provvedimento di sequestro conservativo sui beni in possesso dell’imputato.

Un ulteriore intervento potrebbe essere l’applicazione della legge che sottopone a tassazione i proventi di natura illecita. In questi ultimi anni, infatti, sono state effettuate delle verifiche fiscali, dalle quali sono emersi notevoli risultati ai fini dell’evasione di IVA ed imposte dirette. Ad esempio, una verifica da me diretta nel 1993, nei confronti di una discarica di rifiuti, poco prima che lasciassi la legione di Napoli, ha fornito dei risultati interessanti. Tale attività ispettiva ha avuto origine da una serie di rilevamenti dai quali risultò che l’impresa oggetto del controllo aveva movimentato circa un milione e mezzo di metri cubi di rifiuti. Una volta sottoposta a verifica generale, risultò che la discarica aveva evaso un imponibile di diciassette miliardi annui. Se questi risultati si rapportano a livello nazionale, considerando tutti i rifiuti che vengono smaltiti illegalmente, possiamo avere una iniziale dimensione economica del fenomeno.

Le indagini svolte negli ultimi anni dimostrano inequivocabilmente che in questo, come in altri settori, tranne i casi più semplici, le frodi fiscali sono intimamente connesse con le violazioni ambientali. Tale situazione deve essere necessariamente collegata al noto problema delle fatture per operazioni inesistenti — cui hanno fatto cenno sia il ministro Flick che il dottor Tarditi — emesse dalle cosiddette società "cartiere". Trattasi di società che senza alcuna struttura, ma limitandosi ad avere un solo telefono o una sola stanza, emettono fatture dalle quali risulta che carichi di rifiuti vengono smaltiti presso discariche o inceneritori autorizzati, quando in realtà sono dirottati verso discariche abusive. È evidente che in tali situazioni, attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, si perpetra un delitto contro l’ambiente ed una parallela violazione ai fini dell’IVA ed anche delle imposte dirette.

L’entità economica del fenomeno, difficilmente quantificabile, è stata oggetto di analisi al fine di individuare l’utile che perviene ad un intermediario o ad un broker che praticamente si inserisce nel circuito emettendo soltanto fatture per operazioni inesistenti o a colui che, ad esempio, tramite una regolare discarica, rilascia delle fatture per dimostrare che il carico è stato smaltito. Vi è poi anche la società che svolge un traffico regolare ma che, ad esempio, per costituire dei fondi, alcuni carichi di rifiuti non li invia in discariche regolari, ma addirittura li abbandona nel primo fosso disponibile.

In questo settore, l’azione che dobbiamo svolgere si orienta su più direttrici.

La prima riguarda un discorso di accertamenti specifici nel corso delle verifiche fiscali. Controllando l’utilizzo delle materie prime e i registri di carico e scarico dei rifiuti con scritturazione giornaliera e non settimanale (con l’applicazione delle relative sanzioni che debbono essere previste per chi altera o falsifica i registri), si potrebbe calcolare all’incirca la quantità di rifiuti che l’azienda sottoposta a controllo ha prodotto nel corso della attività di trasformazione/produzione. Inoltre, per mezzo di controlli incrociati, si potrà individuare una connessione tra le fatture per operazioni inesistenti e l’operazione reale.

È necessario, in secondo luogo, che il rifiuto, dal momento dell’uscita dai luoghi di produzione, venga seguito costantemente con un documento che, indipendentemente dalla sua denominazione, ricalchi in un certo modo il vecchio H-ter 16 introdotto nel 1957 per i prodotti soggetti ad imposta di fabbricazione (che riuscì a sconfiggere il fenomeno del contrabbando per alcuni soggetti a tale tipo di tributo), con pesanti sanzioni anche in caso di alterazione dello stesso. La disciplina di tale documento aveva caratteri talmente rigorosi che prevedeva addirittura l’arresto per il conducente del mezzo di trasporto sorpreso in un itinerario diverso da quello indicato sul documento, senza che tale variazione risultasse da un’apposita annotazione effettuata dalla Guardia di finanza o dai carabinieri. Deve esservi, in sostanza, una sorta di "autostrada" nell’ambito della quale risulti possibile controllare i rifiuti dal luogo di origine fino al luogo della effettiva destinazione.

Ora ritorniamo al discorso delle "famose" società che operano nel campo dell’intermediazione dello smaltimento dei rifiuti. Oggi, con un capitale iniziale irrisorio, si possono costituire società a responsabilità limitata che nascono e svolgono la loro "attività" addirittura in una sola giornata. In altri settori, non ancora in questo, abbiamo accertato che decine di società nascevano soltanto con lo scopo di emettere fatture per operazioni inesistenti e poi scomparivano. Pertanto, anche in questo settore è necessario che chi opera nello smaltimento dei rifiuti deve dimostrare di avere una struttura idonea (economica e professionale) per poterlo fare, e non può limitarsi ad affittare capannoni di piccole dimensioni e poi introitare centinaia e centinaia di quintali di rifiuti.

Federica Cingolani, Giornalista dell’agenzia ANSA. Passiamo ora agli interventi delle associazioni ambientaliste. Cominciamo con Legambiente, cui si deve il merito di aver reso noto presso il grande pubblico il termine "ecomafia" tre anni fa, quando presentò la prima ricerca insieme all’Arma dei carabinieri ed all’Eurispes. Da allora sono passati tre anni e, se non sbaglio, dopodomani presenterete il vostro terzo rapporto sull’ecomafia. Vorrei che riuscisse a dire ciò che, nel corso di questi tre anni, è accaduto e se può dare qualche anticipazione e dire cosa è cambiato sulla nuova ricerca che presenterete.

FRANCESCO FERRANTE, Direttore generale di Legambiente. No, di anticipazioni non se ne parla nemmeno… (Si ride). Poi, francamente, chiesto da te!…

FEDERICA CINGOLANI, Giornalista dell’agenzia ANSA. Almeno, di tendenza.

FRANCESCO FERRANTE, Direttore generale di Legambiente. Presenteremo il nostro, ormai tradizionale, rapporto annuale sulle ecomafie il prossimo 18 marzo presso la sede di Legambiente e colgo quest’occasione per invitarvi alla presentazione. Sono contento delle attestazioni di merito che ci faceva Federica Cingolani, in quanto, pur discutendo di fenomeni drammatici che richiedono un impegno straordinario solo per essere avviati a soluzione, oggi come Legambiente abbiamo qualche motivo di soddisfazione.

Non solo la primogenitura del termine "ecomafie", ma anche la capacità e la forza di aver destato forte attenzione sul fenomeno da parte dell’opinione pubblica sono meriti da non sottovalutare, ampiamente riconosciuti, prima, anche dallo stesso ministro Flick, e che la mia associazione è orgogliosa di poter rivendicare. Ciò si è reso possibile grazie, anche e soprattutto, all’importante rapporto di collaborazione che si è andato instaurando fra Legambiente e, sin dall’inizio, l’Arma dei carabinieri, e poi con tutte le altre forze di polizia oggi qui rappresentate.

Vorrei segnalare quest’aspetto anche per la sua originalità a livello internazionale. Non conosco altri esempi di collaborazione così stretta fra un’associazione ambientalista e le forze di polizia attraverso la quale l’associazione porti un contributo così rilevante, credo, alla scoperta di fenomeni criminali così gravi e diffusi, e alla loro denuncia all’opinione pubblica.

Questi i fatti positivi, ma la questione nel suo complesso è invece molto difficile e grave. Innanzitutto vorrei segnalare, fra il serio e il faceto (seppure è difficile scherzare su questo genere di cose), che molte parti del movimento ambientalista, e Legambiente in particolare, lavorano da anni per spiegare che l’ambiente non è solo un vincolo, ma una grande occasione di sviluppo, di rilancio dell’economia, di business. Orbene, ho l’impressione che ci abbiano ascoltato e "capito" i soggetti sbagliati e che a fronte di un panorama imprenditoriale e politico, in genere abbastanza sordo a questa istanza, la criminalità organizzata si è attrezzata e i soldi con l’ambiente li fa in misura rilevante. In maniera distorta, certo, e aggravando i problemi. Ma tant’è.

Quindi, accanto alla necessaria e sempre più urgente opera di repressione, bisogna lavorare sulla prevenzione. E il modo migliore per fare prevenzione è cambiare il sistema industriale, quello legale, che deve gestire il ciclo dei rifiuti secondo lo schema stabilito dal recente decreto Ronchi. Un decreto che ha il grandissimo merito di aver sistematizzato la questione dal punto di vista legislativo e che offre gli strumenti per modernizzare il sistema di gestione dei rifiuti e, attraverso questo, contribuire al rinnovamento più complessivo del sistema industriale italiano.

E invece in questo anno trascorso dall’approvazione del decreto Ronchi, questo sistema industriale non ha ancora fatto passi significativi in questa direzione. Ci si riduce alla questione su quanto alta deve essere la quota di rifiuti destinata all’incenerimento con recupero di energia, tralasciando il resto. Così non si costruisce un sistema avanzato di gestione dei rifiuti. Si arriva solo al paradosso che quasi in ogni regione d’Italia esistono proposte di costruzione di inceneritori che, facendo i calcoli, dovrebbero bruciare più tonnellate di rifiuti di quelle effettivamente prodotte. Assurdo. Su questo dobbiamo continuare a impegnarci, per rovesciare questo approccio.

Sul fronte della repressione, io non sono affatto d’accordo con ciò che ha detto in questa sede il ministro Flick. Il ministro non condivide l’ipotesi di aumentare le pene previste per un reato solo per poter utilizzare determinate procedure d’indagine che nel codice di procedura penale sono ammesse solo per reati per cui sono previste pene superiori a 6 anni. Io condivido questa impostazione. Ma la risposta non può essere quella del ministro. Una risposta che porta all’inanità. Più semplicemente ritengo che dobbiamo in questo caso operare sul codice di procedura penale come molto più approfonditamente e con più competenza di me, ovviamente, ha proposto il dottor Tarditi.

Più in generale, se è condivisibile l’approccio generale del ministro che vuole depenalizzare alcuni reati, quelli meno gravi, per evitare il blocco totale della magistratura, ciò è accettabile solo se contemporaneamente alla depenalizzazione si procede all’introduzione dei reati ambientali nel nostro codice.

Altrimenti, arriveremo al paradosso di togliere alla magistratura anche quei sia pur pochi strumenti di indagine che sono oggi a disposizione. Queste mie brevi riflessioni credo siano dettate anche dal semplice buon senso. Ecco, concluderei proprio con un richiamo al buon senso, un invito rivolto soprattutto ai parlamentari: meno "leguleismo" e più pratico buon senso, messo al servizio della risoluzione concreta dei problemi.

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. Bene, restiamo appunto nell’area ambientalista, con Grazia Francescato, presidente del WWF.

Grazia Francescato: due riflessioni, in parte già anticipate da Ferrante. La prima ovviamente riguarda il fatto che proviamo a spostare il raggio d’azione parlando di prevenzione. Poi, ovviamente, le chiederò un giudizio su ciò che ha ascoltato finora. Prevenzione significa anche, ad esempio, riuscire a centrare per lo meno gli obiettivi previsti dal decreto Ronchi. A quasi un anno di distanza da esso, qual è il giudizio del WWF sull’anno trascorso, quali sono le condizioni, a suo avviso, per raggiungere gli obiettivi, cioè per fare finalmente prevenzione non solo con attività investigative ed il codice penale, ma con risposte chiare?

GRAZIA FRANCESCATO, Presidente del WWF. Se permettete, io mi "sposterei" di vocale. Nel corso del convegno odierno, tutti siamo partiti dalla vocale "e" di ecomafia, giustamente. Invece, vorrei spostarmi alla vocale "i" — istituzione — e parlare (tra molte virgolette, visto che qui siamo tra legulei e non potrei fare altrimenti) di criminalità "istituzionale" che favorisce e fa crescere la criminalità organizzata. Infatti, se guardiamo alla causa prima del fallimento della normativa ambientale in genere (in questo caso guardiamo al decreto n. 915 del 1982, perché stiamo parlando di rifiuti, ma questo concetto potrebbe essere valido per tutta la normativa ambientale), vediamo che è in gran parte, se non tutta, istituzionale: come altrimenti definire l’inadeguatezza e l’inefficienza dell’apparato pubblico nell’applicazione e nel controllo normativo? Questa inefficienza provoca e promuove la crescita dell’ecomafia, dell’ecobusiness, degli ecofurbi, e così via. Paradossalmente (l’Italia è il paese del paradosso e delle anomalie) questa grave inefficienza produce anche il fatto che è lo stesso Stato a non osservare le proprie leggi, per non parlare delle direttive comunitarie. Mi sono riferita non a caso ai decreti-legge più volte reiterati: i rifiuti sono stati promossi sul campo e sono diventati materie prime, seconde, e quindi quotati in borsa. Chi per evitare le norme di controllo sui rifiuti li quota in borsa sarà magari un criminale "in doppio petto", ma non so quanto sia meno criminale di quello con la coppola, la lupara, e così via. Tant’è vero che la Corte di giustizia europea lo scorso 25 giugno ha condannato l’Italia proprio perché continua bellamente in questa pratica, in barba alle direttive comunitarie ed alle sue stesse leggi. Non finisce qui. Sempre in materia di violazioni istituzionali, prendiamo ad esempio anche le attività di recupero dei rifiuti in regime semplificato, che sono da gennaio fuori legge perché è finito il periodo che viene chiamato distance till. Praticamente i vecchi decreti che utilizzavano tale tipo di recupero sono decaduti, ma, ad oggi, mancano quelli nuovi. In una situazione del genere ciò rappresenta "grasso che cola" per le ecomafie e gli ecobusiness, che si trovano il lavoro supersemplificato.

Veniamo anche al discorso incenerimento, sul quale non voglio oggi entrare nel dettaglio. Come sapete, il WWF ha chiesto una moratoria, perché intendiamo essere fedeli alle priorità stabilite dal decreto Ronchi. Dal momento che nel decreto l’incenerimento viene al penultimo posto, dopo la riduzione dei rifiuti, il riciclo, il riutilizzo, questa scala di priorità deve essere rispettata.

Il fatto invece che non venga rispettata, dà una grossa mano alle ecomafie ed all’escalation del potere di tale business, come ben sanno anche gli amici di Legambiente. Infatti le richieste di incenerimento di CDR, cioè di combustibile derivato dai rifiuti, stanno aumentando a dismisura soprattutto per i cementifici. Abbiamo fatto una capillare indagine regione per regione (sulla base di dati che non sono soltanto nostri, ma evidenziati anche dall’accordo di programma siglato dai ministeri e dai cementifici), esistono già gli impianti in grado di bruciare almeno tre milioni di tonnellate di combustibili derivati dai rifiuti. Secondo i dati di "Ambiente spa", 33 impianti sono già operativi, 84 sono inattivi, 9 sono in ristrutturazione e 9 in costruzione. Quindi, quando parliamo di escalation non si tratta di cifre buttate a caso.

Chiudo con un altro brevissimo flash. Mi ha fatto ovviamente piacere ascoltare le parole del ministro Flick, quando ha affermato che è in corso un salto culturale, anche a livello di Governo, per cui il problema ambientale non viene più visto come aggiuntivo, come una sorta di optional, un lusso da coltivare in tempi di "vacche grasse" per poi buttarlo alle ortiche in tempi di "vacche magre". Ci fa piacere che dica che l’ambiente deve essere il perno, l’asse traversale attorno al quale dovranno poi imperniarsi tutte le strategie governative.

Però vorremo vedere questa bella affermazione tradotta in fatti. Su ciò mi associo alla richiesta di Fontana: ci piacerebbe avere tutte e due le cose, forse si può. Dalla lettura che facevamo prima si evince che è stato fatto anche in Spagna, quindi perché da noi no?

Vorrei dire comunque che, proprio per il fatto che poniamo l’ambiente al centro, sarebbe il caso di domandarsi come il discorso sui rifiuti si colleghi al discorso sugli stili di vita. Infatti l’opzione incenerimento è perfetta in quanto ad un buco fisico, che è la discarica, sostituisce un buco tecnologico, l’incenerimento, inserendosi perfettamente nel modello di sviluppo attuale, senza spostare una virgola in termini di produzione di rifiuti, quindi di produzione-consumo delle merci. Chiudo qui, poi magari potremo riaprire questo tema.

Federica Cingolani, Giornalista dell’agenzia ANSA. Chiudiamo con gli ambientalisti con l’intervento di Nino Sospiri, che si trova oggi qui in veste di presidente di Ambiente e/è Vita. Nella scorsa legislatura è stato anche, se non sbaglio, membro della Commissione d’inchiesta su ciclo dei rifiuti (Una voce: "Lo è ancora"). Lo è tuttora? Quindi ha un osservatorio privilegiato, sia dal punto di vista ambientalista che di membro di questa Commissione.

Vorrei sapere: ascoltando ciò che oggi si è detto, con le conclusioni del ministro Flick ed anche con tutte le audizioni che avete avuto in Commissione, quanto pensa sia efficace l’attuale sistema di controllo e repressione dei fenomeni illegali?

NINO SOSPIRI, Presidente dell’associazione Ambiente e/è Vita. Parlo da ambientalista, anche se la parola è brutta, ma ne faccio uso per dire subito che non sono un giurista. Immediatamente dopo, aggiungo che non è necessario essere un giurista per comprendere che secondo il ministro Flick quel tipo di delitto non dovrebbe essere introdotto nel codice penale. Mi pare che ciò sia chiaro per tutti. Inoltre, sì, nella scorsa legislatura e tuttora faccio parte della Commissione parlamentare d’inchiesta e voglio subito dire che rispetto alla scorsa legislatura ho tratto diverse conclusioni, due delle quali importanti. Prima di esplicitarle voglio però anche riconoscere al presidente Scalia, il quale non è certo vicino alla mia associazione, come a tutti è noto, una grande capacità di conduzione dei lavori di quella Commissione.

Espongo ora i due elementi che più mi hanno colpito. Uno consiste nel fatto che si ricicla in ogni occasione, è accaduto anche ieri, si è ripetuto oggi: le forze dell’ordine e la magistratura si sentono impotenti. È un tema ricorrente in decine e decine di audizioni. Questo è stato l’elemento che più ha colpito me personalmente e gli altri membri della Commissione, cioè uomini e donne al servizio dello Stato che si sentono impediti di fare ciò che vorrebbero fare a difesa dello Stato, della legalità e del popolo italiano.

L’altro elemento che mi ha molto colpito è relativo alla mancanza di risorse per compiere certe attività anche investigative. Durante l’ultima legislatura è emerso che nelle vicinanze delle coste meridionali della nostra penisola ci sarebbero almeno trenta navi, trenta carghi, perché non si può parlare di navi, affondati, all’interno dei quali probabilmente vi sono rifiuti radioattivi, certamente vi sono rifiuti tossico-nocivi. Il magistrato non aveva la possibilità di disporre le verifiche per mancanza di fondi. Ecco, allora: sono scarse, scarsissime, le risorse destinate a queste attività, agli accertamenti, ai controlli ed alle investigazioni e, dall’altro lato, vi è un codice penale che non consente all’autorità giudiziaria ed alle forze di polizia di compiere il proprio dovere o, per lo meno, questo viene compiuto nei limiti di ciò che è previsto dal codice penale.

Tutto ciò premesso, vorrei molto rapidamente fare un discorso che parte da lontano, ma sarà proprio "bersaglieresco". Riconosciamo che vi è un’emergenza ambientale da fronteggiare — in tutti i paesi, ma ora parliamo del nostro —, sì o no? Se non vi è, allora vuol dire che ci siamo presi in giro, che sino ad oggi abbiamo preso in giro. Se vi è, allora dobbiamo predisporre gli strumenti adatti per fronteggiare tale emergenza. Inoltre, è vero o no che tale emergenza è determinata in larghissima misura proprio dalla cattiva gestione del ciclo dei rifiuti, in modo particolare, com’è ovvio, dallo smaltimento dei rifiuti per ogni tipologia, almeno per quanto riguarda il suolo ed il sottosuolo, le falde acquifere, i corpi idrici, ma anche l’atmosfera? Il terzo passaggio: se ciò è vero, è vero anche che l’attuale situazione d’emergenza è determinata dagli smaltimenti illeciti, non solo da quelli, intendiamoci bene, abusivi, ma anche da quelli formalmente leciti.

Ieri il presidente Scalia faceva riferimento all’ex articolo 12 del decreto n. 915, che riguarda l’ordinanza contingibile ed urgente, per venti o trenta giorni, che poi diventano tremila anni, perché quelle diventano discariche definitive. Ma poi, quante autorizzazioni — il collega di Legambiente ci invitava ad essere un po’ rozzi: ebbene, siamolo! — formalmente indiscutibili, in realtà sono state oliate in passato e continuano ad essere oliate oggi, così come avveniva in passato, con la corruzione! Questo lo ha detto chiaro e tondo il dottor Di Pietro della procura antimafia! Vi è una triangolazione formata da imprenditori senza scrupoli, malavita organizzata e politici, e, quindi, certi livelli istituzionali! Anche quando sappiamo di essere in presenza di una discarica che, ad esempio, ha tutte le documentazioni in regola, dobbiamo stare attenti perché molto spesso sappiamo, e la Commissione d’inchiesta ha potuto verificarlo, che alcuni siti assolutamente inidonei, per quei motivi divengono idonei, e ciò accade sull’intero territorio nazionale. Occorre anche vedere in che modo vengono gestite le discariche, perché vorrei vedere quante di esse raccolgono correttamente il percolato! Vorrei vedere quante discariche depurano e smaltiscono correttamente il percolato! Vorrei vedere quante di esse sono dotate di sistemi antincendio seri, quante ricoprono con materiale adatto tutti i giorni i rifiuti smaltiti, quante recuperano il biogas. Allora, veniamo ai controlli: infatti, anche questo discorso è a monte e a valle, ci mancherebbe altro, anzi questa era una parte della domanda che la collega mi ha rivolto.

Relativamente allo scenario che ho descritto, sappiamo inoltre che — ed anche qui siamo in presenza di una conferma che si è avuta ieri così come oggi, ma di notizie ne avevamo già da tempo — la malavita organizzata in questo settore agisce, parole testuali, "in regime di quasi monopolio". Questo è il quadro di fronte al quale ci troviamo. Ora, sempre per essere rozzi, diciamo anche la verità: la politica della scelta della discarica non è che abbia ostacolato gli ecoaffaristi e le ecomafie. Essa ha favorito, senz’altro involontariamente, ma ha favorito l’ecomafia, e ciò rappresenta un dato di fatto indiscutibile. Ecco perché non capisco i motivi per i quali ancora oggi vi sono delle grosse resistenze ideologiche di fronte alla termovalorizzaizone. Anche stasera la collega Francescato ha detto che il decreto…

GRAZIA FRANCESCATO, Presidente del WWF. Non sono ideologiche!

NINO SOSPIRI, Presidente dell’associazione Ambiente e/è Vita. D’accordo, spiego perché sono ideologiche. La messa all’ultimo posto, nel decreto Ronchi …ma qui non si tratta di mettere all’ultimo o al primo posto! Non possiamo pensare alla gestione di un ciclo di rifiuti fatto per segmenti, tra i quali uno sia più importante da privilegiare, un altro viene in seconda fila ed un altro in terza! Si tratta di un tutt’uno! Allora, se come tutti diciamo, occorre ridurre la produzione di rifiuti, poi non dobbiamo pensare a segmenti concatenati, ma ad una specie di cerchio all’interno del quale vi sono tre spicchi complementari: l’uno ha bisogno degli altri due, e così via! Allora, premiamo sulla raccolta differenziata, anche se sappiamo che poi i risultati sono quelli che sono, aggiungo purtroppo! Quando si parla di raccolta differenziata si fa riferimento a Milano, ai grandi risultati conseguiti dal comune di Milano. Poi in Abruzzo, nel Lazio e in Campania troviamo, invece, i rifiuti di Milano che qui sono illecitamente scaricati! Allora stiamo attenti: raccolta differenziata senz’altro, ci crediamo, la riteniamo anzi indispensabile. Il riuso, il riciclaggio vanno benissimo, però dobbiamo trovare anche i mercati, altrimenti non si ricicla proprio nulla, oppure si produce compost che viene poi scaricato nelle campagne, anche perché di pessima qualità. Quando abbiamo messo tutto ciò insieme, abbiamo risolto il cinquanta per cento di un problema che, invece, deve esserlo al cento per cento, se si vuole davvero entrare in Europa anche rispetto a tali problematiche. Come diceva il presidente Scalia, se si vuole entrare nel mondo civile e industrializzato, come si fa a non dire che almeno un trenta, trentacinque per cento dei rifiuti va termovalorizzato? Ma non perché sia l’ultima fase o l’ultima ratio, bensì perché si tratta di un processo unitario: raccolta differenziata, riciclaggio e termovalorizzazione. Rispetto a tale scenario — e mi avvio rapidamente a concludere, anche se le cose da dire sarebbero tante — rispetto ad un cancro — perché di ciò si tratta, che ha allungato le metastasi al Nord Italia — non si può più parlare, come classicamente abbiamo fatto, di Sicilia, di Calabria, di Puglia o Campania, perché i tentacoli, cioè le metastasi, sono arrivate là. I punti di riferimento sono lì, le radici le hanno piantate anche lì! Come dicevo, di fronte a tale scenario possiamo curare il cancro con l’aspirina, cioè con questo codice penale e con questo codice di procedura penale, oppure possiamo curare il cancro con aspirina e con vitamina C, perché questo è il decreto legislativo n. 22/97; non è nient’altro, anzi, in molti casi ha allargato le maglie attraverso le quali la criminalità organizzata può infiltrarsi. Occorre verificare i centri di stoccaggio provvisori, le autocertificazioni, e così via. Non vado avanti, però due o tre esempi a tale riguardo li debbo fare, per poi non dire di Flick che mi ha letteralmente stupito. I controlli, dite voi. Qui vi è Gabbianelli, Viterbo: 2 marzo, non del 1998 avanti Cristo, ma di questo secolo. Arrivano dei camion da Viareggio, dove molto presumibilmente – si ritiene – vi è un centro di stoccaggio provvisorio. In realtà i rifiuti provengono da Milano. Si cambiano le carte in tavola e questi camion da Viareggio scaricano i rifiuti, anche con siringhe, probabilmente vi saranno anche rifiuti speciali tossico-nocivi, a Viterbo. Nessuno se ne accorge, finalmente qualcuno se ne accorge, vede i camion che sono lì e chiama i Carabinieri del NOE che arrivano, fanno il loro verbale, naturalmente lo trasmettono alla magistratura, ma non so se non siano stati in grado, non dico di fermare gli autisti, ma quantomeno sequestrare i camion, cosa che si sarebbe dovuta fare. Probabilmente, non avete avuto la possibilità di farlo. La mia stima per il NOE è indiscussa e nota, così come per tutte le altre forze di polizia.

Scurcola Marsicana: qualche giorno fa, il 23 febbraio. La Regione aveva rilasciato un’autorizzazione per un impianto di compostaggio. Ma quale impianto di compostaggio? Numerosissimi siti e vasche con metalli tossici e nocivi: cadmio, zinco, nichel, cromo e quant’altro. Nessuno se ne era accorto. Poi finalmente qualcuno se ne è accorto, la magistratura ha effettuato il sequestro, naturalmente sono iniziate le indagini.

L’ultimo esempio che voglio fare riguarda i rifiuti ospedalieri. I decreti attuativi dovrebbero essere molto veloci, ma non ne parliamo, altrimenti andremmo troppo lontano. Risulta che il San Camillo ed il Forlanini, parlo di questi perché siamo a Roma, conferiscano ad un inceneritore di Forlì rifiuti ospedalieri a prezzo anche molto competitivo. Qual è il punto? Il punto è che i rifiuti partono dal San Camillo e dal Forlanini – e questi costano molto, non so se 1500 o 1600 lire al chilogrammo …(Una voce: 1834 lire) –, partono da qui senza controllo, arrivano lì senza controllo, a prezzi competitivi, perché? Perché magari ne mettono mezzo etto dentro un contenitore che pesa due chilogrammi o due chilogrammi e settecento! Allora, quando vogliamo parlare di controlli dobbiamo davvero metterci le mani nei capelli, così come dobbiamo metterci le mani nei capelli quando sentiamo il Ministro di grazia e giustizia esprimersi in quei termini. Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo inventare un reato, far crescere le pene, per poi procedere alle intercettazioni oppure all’arresto in flagrante? Noi non dobbiamo inventare nulla! Sempre per essere rozzi, dite al ministro che non dobbiamo inventare proprio nulla! I reati ci sono, sono quelli! Dobbiamo soltanto rilevarli, registrarli e ficcarli nel codice penale, altrimenti la lotta alla mafia ed il contrasto nei confronti della malavita non verranno mai effettuati seriamente e la battaglia l’avremo perduta!

Un’ultimissima considerazione: il Ministro di grazia e giustizia sappia che, quando si parla di delitto contro l’ambiente, in certi casi si parla di un vero e proprio crimine, perché un delitto contro l’ambiente di quel tipo, di quella natura, è un attentato non solo all’ambiente, ma alla salute pubblica e, quindi, è un attentato alla vita.

Spero, da non giurista, di aver detto cose non troppo campate in aria. Vi ringrazio.

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. L’onorevole Sospiri, approfittando della sua doppia carica, si è preso un po’ più di tempo. Va bene, è tollerabile.

Vorrei rivolgerle un’ultima domanda, che credo richiederà una risposta molto rapida, prima di passare la parola a Gian Maria Fara che, in qualità di presidente dell’Eurispes e sociologo, ha avuto modo di raccogliere tante informazioni qui, altre le ha ascoltate a New York, e magari si è fatto qualche idea.

L’onorevole Sospiri è pronto a sostenere o a promuovere un’iniziativa di legge autonoma in Parlamento, visto che la conclusione da lui raggiunta è la stessa che ho raggiunto io ascoltando il ministro Flick, ovvero che si va alle calende greche, affinché vengano introdotti nel codice penale i crimini contro l’ambiente?

NINO SOSPIRI, Presidente dell’associazione Ambiente e/è Vita. Autonoma senz’altro. Se la proposta di legge sarà firmata da più deputati forse sarà anche meglio, perché insieme potremo spingere verso quella direzione, al fine di cogliere quell’obiettivo.

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. Glielo dico perché non ho ancora confrontato l’idea con Francesco Ferrante, il mio direttore generale, come associazione, ma è molto probabile che si tratta di ciò che Legambiente farà.

NINO SOSPIRI, Presidente dell’associazione Ambiente e/è Vita. Benissimo!

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. Venendo a Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, ne abbiamo sentite, verrebbe da ribadire, di cotte e di crude. Lei, rappresentando l’istituto di ricerca, oltre ad aver collaborato insieme a Legambiente ed all’Arma dei carabinieri alla presentazione del primo rapporto sull’ecomafia, lo scorso anno ha organizzato un seminario internazionale a New York. Tra l’altro, in sala è presente l’avvocato Dick Martin, che invito a prepararsi perché, alla fine, vorrei chiedergli di fare una breve riflessione sulla legislazione degli Stati Uniti. Quali suggerimenti, quali suggestioni, quali idee utili per il nostro paese sono emerse dal confronto tra la realtà degli Stati Uniti e quella italiana, e quali altre riflessioni il dibattito odierno le ha suscitato?

GIAN MARIA FARA, Presidente dell’Eurispes. Cercherò di essere rapidissimo e comincio col ringraziare il presidente Scalia e gli amici di Legambiente per averci voluto invitare a questo incontro. D’altra parte, con Legambiente vi è una lunga tradizione di collaborazione. Come ha ricordato prima il dottor Fontana, la prima indagine sull’ecomafia fu realizzata da Legambiente, dal NOE e dall’Eurispes. Lo scorso anno, come si ricordava poco fa, l’istituto che presiedo, in collaborazione con la Facoltà di legge della New York University, ha organizzato un convegno internazionale sul tema. È stato un momento di grandissimo interesse, anche sul piano formativo. Le suggestioni sono state tante. Cercherò di essere rapidissimo, telegrafico.

Primo: l’affermazione della complessità del fenomeno. Non si tratta di un fenomeno semplice, ma assolutamente complesso, che va gestito dunque con strategie di approccio complesse. Qualche volta le semplificazioni aiutano, ma non sempre. Abbiamo capito durante quei lavori, anche per il taglio e la qualità delle persone che vi parteciparono, uomini delle istituzioni, studiosi, esperti delle tematiche ambientali, che questo è un problema che si affronta con un approccio interdisciplinare. Si tratta di un problema che va affrontato attraverso chiavi di lettura diverse, ma complementari: quelle dell’esperto di finanza, del fisco, dell’economista, dell’antropologo, del sociologo, dell’ambientalista, dell’operatore di polizia, del magistrato. D’altra parte la collaborazione di allora, Legambiente, Eurispes ed Arma dei carabinieri, in qualche maniera ha risposto alla domanda di interdisciplinarietà: un istituto di ricerca, un’associazione ambientalista e, diciamo così, il braccio operativo della legge.

L’altra cosa che abbiamo capito durante quei lavori è che occorre una grandissima capacità di adeguare le leggi, per far sì che possano rispondere alle contingenze che via via si presentano; immaginare un corpo legislativo immobile, fermo, fisso e pretendere di rispondere, attraverso questo "corpo morto" alla complessità del fenomeno, è fuori di ogni discussione.

Un’altra cosa che abbiamo imparato — e sull’esperienza statunitense Dick Martin potrà essere più esaustivo di me — riguarda il fatto che si tratta di un tema sul quale bisognerebbe avere il coraggio di esercitare un serio, sano e forte pragmatismo. Gli americani in ciò sono bravissimi. Prima Ferrante ha parlato di semplicità, o addirittura di rozzezza, se necessario. Gli americani, con grande semplicità e, devo dire, senza rozzezza riescono ad incidere in maniera decisiva sul fenomeno, toccando gli ecomafiosi nella parte più dolorosa del corpo, cioè le tasche. Loro sono bravissimi: 50 mila dollari al giorno, 250 mila dollari al giorno, a seconda delle gravità dell’infrazione, diceva ieri Dick Martin. Per concludere vorrei fare due rapidissime considerazioni. Mi chiedo: se stasera non fosse venuto il ministro Flick, di chi avremmo potuto parlare? Ora mi sembra quasi di sparare sulla Croce rossa, per cui attenuo anche i giudizi... Io, che sono conosciuto come garantista, mi trovo invece oggi dalla parte del giustizialista o, se volete, del forcaiolo, perché concordo completamente con quanto ha detto ieri il dottor Lucio Di Pietro ed oggi il dottor Tarditi. Anche io mi sono costruito un quadro sinottico "dei delitti e delle pene" nel resto d’Europa e, per quanto ci riguarda, il quadro che emerge è assolutamente desolante. Proporrei, ma come preoccupazione, di introdurre nel nostro codice non solo sanzioni penali per i danni provocati all’ambiente ma, considerando la specifica del nostro paese, che tendenzialmente è un paese buonista, di aumentare le pene di almeno un terzo, sapendo che tanto la pena verrà scontata solamente per un terzo di quella prevista. Sempre rapidissimamente sul problema prevenzione-repressione: queste sono due facce della stessa medaglia e la prevenzione passa anche attraverso la repressione.

Insegno criminologia: la prima cosa che in criminologia viene evidenziata è che deve esistere il timore della pena e la certezza di doverla scontare. Quindi, un buon modo per prevenire consiste anche nell’esercitare in maniera seria una giusta repressione. D’altra parte sono troppo vicino agli amici dell’Arma dei carabinieri, della Guardia di finanza, della Polizia, per non cogliere il profondo disagio che attraversa, ormai da anni, tali istituzioni e gli uomini chiamati ad un grande impegno a difesa della legalità e dell’ambiente, costretti a combattere con armi inadeguate. Sempre che di armi si tratti, perché qualche volta si trovano nelle condizioni di non poter utilizzare nemmeno la fionda. Dobbiamo dar loro degli strumenti efficaci, altrimenti tanto varrebbe abolire il NOE, o dire alla Guardia di finanza di occuparsi d’altro, ed allo SCO di occuparsi d’altro ancora.

Un’altra piccola osservazione: l’intervento del ministro Flick dà l’idea che le nostre istituzioni pensino ancora all’ambiente come res nullius, cioè cosa di nessuno. Il ministro Flick ha detto che non possiamo aumentare le figure di reato. Un paese moderno, invece, cosa fa? Svolge una continua opera di adeguamento, dismette alcune figure di reato obsolete e ne crea altre, adeguando le leggi al cambiamento: i reati contro l’ambiente sono reati importanti a danno e a carico delle collettività. "Siamo pochi e non abbiamo mezzi: depenalizziamo": non possiamo accettare quest’idea. Suggerirei, invece, al ministro Flick di battersi per far aumentare le dotazioni del suo Ministero e per ampliare l’organico dei magistrati che sono non pochi, ma neppure troppi.

Non condivido questo atteggiamento rinunciatario che, ritornando evidentemente al discorso di New York da cui eravamo partiti, è l’esatto contrario dell’atteggiamento serio, chiaro, preciso e coerente dei nostri amici statunitensi.

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. Prima di chiudere, voglio chiedere all’avvocato Richard Martin di riassumerci brevemente, se fosse possibile perché si è parlato molto di giustizialismo, il modello repressivo messo in cantiere negli Stati Uniti, poi interverrà il senatore Lubrano di Ricco per alcune considerazioni conclusive. So che qualche richiesta di intervento è stata avanzata. Tenete conto che siamo stati, credo, discretamente bravi con Federica Cingolani a tenere una tavola rotonda in due ore e mezzo. Un po’ di pubblico è rimasto, ma non approfittate troppo di noi. Vorrei esprimere un piccolo sconforto del moderatore, perché il 20 e 21 febbraio a Torino ho partecipato ad un’altra tavola rotonda, onorevole Sospiri, alla quale sono intervenuti importanti rappresentanti come il vicepresidente della Confindustria, il Ministro dell’ambiente, Ronchi, il sottosegretario del Ministero di grazia e giustizia, Franco Corleone, dal quale ho sentito dire che era assolutamente favorevole all’introduzione nel codice penale dei reati contro l’ambiente e che, anzi, in quella sede assumeva l’impegno affinché l’introduzione di tali reati anticipasse la riforma del codice penale, poiché la situazione gli sembrava talmente grave da non poter attendere l’intera riforma del codice penale, e quindi fosse indispensabile e necessario anticiparla. Probabilmente dal 21 febbraio ad oggi non si saranno parlati con il ministro; ne prendo atto, non tanto in veste di direttore di La Nuova Ecologia, ma di esponente di Legambiente, perché vi sono ancora iniziative da promuovere.

L’avvocato Richard Martin è arrivato. Lo ringrazio tantissimo. Mi è capitato di ascoltarlo per la prima volta nel marzo del 1997 ad un convegno internazionale che organizzammo proprio a Roma presso la scuola dell’Arma dei carabinieri. Al di là delle riflessioni che l’avvocato Martin potrà liberamente svolgere in questa sede, vorrei che ci riassumesse in sintesi i modelli di attacco degli interessi di Cosa nostra; nel caso di New York stiamo parlando delle famiglie Gambino e Genovese, in una città che, nello smaltimento di rifiuti, ha un giro di affari di 1500 miliardi di lire annuo circa. Come è stato attaccato, come è stato inciso questo bubbone e con quali strumenti?

RICHARD MARTIN, Rappresentante della municipalità di New York. Cercherò di essere breve, perché so che è già tardi. Ieri ho cercato di illustrare il complesso di legislazione che viene utilizzata negli Stati Uniti per confrontare il problema dei reati ambientali ed anche i reati del crimine organizzato che opera nel settore ambientale. La prima cosa che voglio dire è che non sono qui per dire che l’esempio della legislazione americana deve essere adottato qui in Italia. I problemi sono diversi, naturalmente, l’esperienza è diversa, però credo che l’esempio che abbiamo negli Stati Uniti possa forse essere utile come punto di partenza per uno studio serio della problematica.

Ieri — ed ho lasciato il mio intervento scritto per essere seguito un po’ più attentamente dopo — ho cercato di spiegare che negli Stati Uniti nel settore dell’ambiente abbiamo diviso la legislazione in tre campi: uno per il suolo, uno per l’aria ed uno per l’acqua. Esiste per ognuno di essi una legislazione apposita, che prevede pene sia civili, sia penali. Con quasi vent’anni di esperienza abbiamo man mano modificato la legislazione quando si doveva, aumentando alcune sanzioni civili ed anche alcuni reati penali. Ora abbiamo vent’anni di esperienza, che ci porta a certe conclusioni. Una essenziale è la seguente: tutto il pacchetto della legislazione federale che è in vigore da quasi vent’anni funziona soltanto perché vi sono sanzioni penali. La nostra esperienza ci dice che, in mancanza di sanzioni penali, le altre sanzioni non funzionerebbero. Ciò crea il deterrente. In alcuni casi si tratta di pene che portano da zero a quindici anni di reclusione, ed alcuni sono stati condannati a dieci, quindici anni per aver commesso reati contro l’ambiente, il che in certi settori ha creato quasi un terrore, specialmente tra le società che non volevano violare le leggi. Queste hanno cercato di creare nell’ambito delle loro società sistemi per essere in corrispondenza con la legge, organismi, uffici per studiare le leggi, per parlare direttamente con agenzie locali e federali, per creare tra di loro un commercio pulito.

Invece, è stato identificato in tempo e si è creato un archivio disponibile a tutti, un elenco di persone condannate civilmente o penalmente. Così, con vent’anni di esperienza, è possibile, per chiunque vuole e per tutte le municipalità degli Stati Uniti che hanno quest’obbligo, sapere se una persona o una società abbiano avuto esperienze contrarie alla legge. In tal modo, se viene fuori che un soggetto è stato condannato nel passato per un reato abbastanza grave, è quasi sicuro che tale soggetto verrà eliminato dalla possibilità di avere appalti da una municipalità. Il settore dello smaltimento dei rifiuti è stato un po’ ripulito. Sicuramente non è un sistema ancora perfetto, ma funziona meglio: dopo venti anni possiamo dire che oggi in tutti questi contesti, nel suolo, nell’aria e nell’acqua vi sono stati miglioramenti che possono essere verificati ed evidenziati.

Devo dire una cosa: ho ascoltato tutti i discorsi di questa sessione con molta attenzione e, particolarmente, ho ascoltato il ministro Flick. Devo dire che, su alcuni aspetti, condivido ciò che ha detto, ovvero che è necessario creare una legislazione chiara e abbastanza semplice in modo che le autorità e le società sappiano cosa è contrario alla legge e cosa deve esser fatto. Allo stesso tempo, sono convinto che una legislazione chiara e abbastanza semplice, che protegga l’ambiente, possa essere scritta. Non abbiamo creato un grande e difficile sistema o delle leggi troppo complesse, anzi! Le leggi che ho descritto ieri sono abbastanza semplici, creano gli standards. La violazione dello standard costituisce un reato. Chi fornisce informazioni false commette un reato; chi fa trasporto di materiale illecito senza un permesso commette un reato; non si tratta di cose complesse, ma abbastanza semplici, come anche i processi penali che seguono sono simili a tutti gli altri processi penali che effettuiamo. Però non utilizziamo solo le legge penali per colpire il traffico illecito: abbiamo, naturalmente, come ha detto Alessandro Pansa, utilizzato tutti gli altri mezzi quali reati di truffa, di corruzione, di estorsione ed anche reati dell’associazione per delinquere, quello semplice, come il 416. È ugualmente presente nella nostra legislazione una norma simile al 416-bis, che è stata utilizzata in diverse occasioni non solo contro organizzazioni criminose come Cosa nostra, ma anche contro altre organizzazioni.

La legislazione che ormai esiste negli Stati Uniti da venti anni è molto simile al 416-bis, secondo me tale esempio potrebbe essere utilizzato per completare il discorso iniziato in questa sede dal ministro. Il 416-bis può essere adattato, secondo me, a tale complesso, perché, come è stato detto non solo da Alessandro Pansa, ma anche dal procuratore di Asti, non parliamo sempre di Cosa nostra, ma parliamo di organizzazioni che hanno modo di guadagnare e, fino a quando lasciamo loro la possibilità di guadagnare su tale traffico, lo faranno. Se non vi è un incentivo per coloro che vogliono seguire la legge ed un altro incentivo per un deterrente serio, saranno le organizzazioni criminose che continueranno a dettare — è semplice — la legge di mercato.

L’altro aspetto del mercato americano che abbiamo cercato di illustrare è la creazione di concorrenza quando in una zona non è presente. Quando non vi è concorrenza significa che tutti gli elementi della corruzione e della criminalità organizzata possono entrare. Ogni volta che in un settore, in una città o in una sezione del paese manca concorrenza, significa che vi è un potenziale problema.

La città di New York ha sofferto per quasi trenta anni la dominazione di società di tipo mafioso delle famiglie Gambino e Genovese; due anni fa il sindaco di New York ha cercato di utilizzare non solo la repressione, non solo le sanzioni, ma di invitare ad entrare nel mercato le società pulite per creare concorrenza. I prezzi sono diminuiti del 35-50 per cento ed ora vi è una concorrenza seria e vera.

Pertanto, secondo me, gli elementi essenziali di una legislazione sono le sanzioni penali e civili; una legislazione abbastanza chiara e semplice; un archivio mediante il quale si possano identificare le persone e le società che hanno già commesso reati, ed un metodo di scoraggiare le società a violare la legge consiste nell’incentivazione di altre società. Ad esempio, quando viene indetto un appalto ed i prezzi indicati da una società sono veramente troppo bassi, è evidente che non si può automaticamente affidare a quella società il contratto; se il prezzo non consente una sistemazione coerente con tutti gli elementi dell’ambiente, essa deve essere eliminata. In tal modo il Governo, e nel caso specifico la città, dispongono di un altro metro per dividere coloro che vogliono seguire le leggi e coloro che vogliono guadagnare dal reato.

Federica Cingolani, Giornalista dell’agenzia ANSA. Gli interventi della giornata finiscono qui.

Vorrei chiedere al senatore Lubrano di Ricco di trarre le conclusioni.

GIOVANNI LUBRANO DI RICCO, Coordinatore del gruppo di lavoro della Commissione sulle modifiche al codice penale. Voglio fare soltanto una breve annotazione: si sta parlando di introdurre nuovi reati nel codice penale. Vi è chi è a favore e chi contro, e chi, come il ministro, vorrebbe eliminare troppe infrazioni che infarciscono il nostro sistema, ma intanto la Camera ha approvato un provvedimento che è in discussione presso la Commissione giustizia del Senato sulla depenalizzazione, molto avanzata nel suo iter, nel quale è stato inopinatamente introdotto un articolo, l’articolo 11. Voglio che i presenti conoscano il contenuto di tale articolo, nel quale "il Governo viene delegato dal Parlamento ad adottare, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo diretto a riordinare ed a semplificare il sistema sanzionatorio penale ed amministrativo in materia di salvaguardia del territorio". Prima si dice "per salvaguardare il territorio" e poi, contraddicendo tale proposizione, si afferma: "trasformare in violazione amministrativa i reati per violazioni di obblighi formali che non ledono, né espongono a pericolo il bene tutelato dalla norma urbanistica ed ambientale". Mentre il titolo è "Ambiente e territorio", ma si parla solo di territorio, qui si arriva di nuovo alla normativa urbanistico-ambientale.

Ho svolto un intervento nella Commissione giustizia chiedendo ai colleghi senatori della Commissione cosa si intenda per "violazione degli obblighi formali in materia ambientale". Ovviamente, quasi tutte le infrazioni sono originariamente obblighi formali. Alla richiesta di concessione urbanistica corrisponde un obbligo formale. Ho domandato ai colleghi se allora anche la concessione urbanistica venga depenalizzata ed anche, ad esempio, i parametri della legge Merli vengano depenalizzati. Cosa depenalizziamo attraverso gli obblighi formali? Vedete, non è vero che gli obblighi formali siano soltanto tali, ma spesso servono a dare tante altre risposte. Nella Commissione è emerso, ad esempio, che nessuna Regione è a conoscenza del luogo di produzione e da quali industrie vengano prodotti i rifiuti tossici e nocivi. Come vogliamo reprimere il traffico dei rifiuti tossici e nocivi se non abbiamo un registro di chi produce tali rifiuti? Ad esempio, obbligare a tenere un registro dei rifiuti tossico-nocivi rappresenta un obbligo formale? Secondo il ministro sì, ed allora viene depenalizzato, ma il fatto di tenere i rifiuti non è fine a se stesso, bensì serve a tutto il resto, cioè a controllare il mercato dei rifiuti tossici e nocivi. È, ad esempio, emerso che dalla Sicilia e dalla Sardegna partono rifiuti tossici e nocivi, ma non se ne conosce la quantità effettiva e dove vadano a finire, perché in Italia non abbiamo una legge che istituisce dei controlli nei porti italiani. Allora, non è vero, come dice il ministro, che gli obblighi formali vanno depenalizzati perché rappresentano delle mere formalità che intralciano il lavoro dei giudici. In realtà sono obblighi sostanziali preordinati al controllo di fenomeni successivi, tra i quali appunto il controllo dei rifiuti tossici e nocivi. Se non teniamo presente tutto ciò, secondo me perderemo in partenza la battaglia sulla salvaguardia dell’ambiente. Vi è anche una lettera B, che recita: "limitare le sanzioni penali alle violazioni che ledono o espongono a pericoli il bene tutelato dalla normativa urbanistica ed ambientale". Cosa significa? Tutte le norme penali mettono in pericolo il bene tutelato. Non vi è una norma penale che non abbia un bene tutelato. Cosa significa "limitare le sanzioni penali alle violazioni che ledono o espongono a pericoli il bene tutelato dalla normativa urbanistica ed ambientale"? È quindi un nonsenso dire che il reato è depenalizzato perché l’infrazione non lede o non mette in pericolo i beni tutelati dalla norma; non so cosa significhi. L’ho chiesto in Commissione giustizia, ma ho turbato i componenti al punto tale che è stato sospeso l’esame della norma, che è stata accantonata, in quanto nessuno ha saputo darmi una risposta. È questa la politica che si sta effettuando in Italia in materia ambientale. Mentre vogliamo introdurre nuovi delitti (vorrei con ciò rispondere all’avvocato americano, non so se lei lo ha sentito), non possiamo applicare in Italia l’associazione per delinquere, in quanto si tratta di banali contravvenzioni. Ora se queste diverranno sanzioni amministrative e saranno devolute al giudice di pace, addio associazione per delinquere!

ENRICO FONTANA, Direttore de La Nuova Ecologia. Ringraziamo il senatore Lubrano di Ricco per il suo intervento. Garantiamo che, prima che ciò accada, dovranno passare su parecchi corpi. Concludiamo qui i nostri lavori.

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